sabato 30 giugno 2018


Sentenza 2018

La dichiarazione di residenza rientra nella previsione di cui all'art. 483 c.p., essendo un atto destinato a provare la verità di un fatto a norma dell'art. 46, lett b), del d.P:R. 445/2000, collegandosi proprio tale efficacia probatoria al dovere del dichiarante di affermare il vero. Né rileva ai fini della consumazione del reato che tale dichiarazione sia trasfusa in un atto (pubblico) distinto dalla medesima, atteso che, a norma dell'art. 75 del d.P.R. citato – emanata per venire incontro all'esigenza di semplificazione della documentazioni amministrativa tra pubbliche amministrazioni e privati cittadini - le dichiarazioni sostitutive di certificazioni sono state pienamente equiparate agli effetti penali agli atti pubblici, essendo "considerate come fatte a pubblico ufficiale" (il quale ovviamente le raccoglie in un atto pubblico).

Ai fini della consumazione del falso ideologico è stato sufficiente il rilascio, da parte dell’interessato, della falsa dichiarazione di residenza, a prescindere dal rilievo che lo stesso non sia poi mai stata iscritto  nell'Anagrafe del Comune.



venerdì 29 giugno 2018




Conclusioni adottate dal Consiglio europeo nella riunione del 28 giugno 2018

I. MIGRAZIONE
1. Il Consiglio europeo ribadisce che il buon funzionamento della politica dell'UE presuppone un approccio globale alla migrazione che combini un controllo più efficace delle frontiere esterne dell'UE, il rafforzamento dell'azione esterna e la dimensione interna, in linea con i nostri principi e valori. È una sfida, non solo per il singolo Stato membro, ma per l'Europa tutta. Dal 2015 è stata posta in essere una serie di misure ai fini del controllo efficace delle frontiere esterne dell'UE. Si è ottenuto in tal modo un calo del 95% del numero di attraversamenti illegali delle frontiere verso l'UE rilevati rispetto al picco registrato nell'ottobre 2015, anche se i flussi hanno ripreso a crescere di recente sulle rotte del Mediterraneo orientale e occidentale.
2. Il Consiglio europeo è determinato a proseguire e rafforzare questa politica per evitare un ritorno ai flussi incontrollati del 2015 e contenere ulteriormente la migrazione illegale su tutte le rotte esistenti ed emergenti.
3. Per quanto riguarda la rotta del Mediterraneo centrale, dovrebbero essere maggiormente intensificati gli sforzi per porre fine alle attività dei trafficanti dalla Libia o da altri paesi. L'UE resterà al fianco dell'Italia e degli altri Stati membri in prima linea a tale riguardo. Accrescerà il suo sostegno a favore della regione del Sahel, della guardia costiera libica, delle comunità costiere e meridionali, di condizioni di accoglienza umane, di rimpatri umanitari volontari, della cooperazione con altri paesi di origine e di transito, nonché di reinsediamenti volontari. Tutte le navi operanti nel Mediterraneo devono rispettare le leggi applicabili e non interferire con le operazioni della guardia costiera libica.

4. Riguardo alla rotta del Mediterraneo orientale, sono necessari ulteriori sforzi per attuare pienamente la dichiarazione UE-Turchia, impedire nuovi attraversamenti dalla Turchia e fermare i flussi. L'accordo di riammissione UE-Turchia e gli accordi bilaterali di riammissione dovrebbero essere pienamente attuati in modo non discriminatorio nei confronti di tutti gli Stati membri. È necessario compiere con urgenza maggiori sforzi per assicurare rapidi rimpatri e prevenire lo sviluppo di nuove rotte marittime o terrestri. La cooperazione con i partner della regione dei Balcani occidentali e il sostegno agli stessi rimangono essenziali per scambiare informazioni sui flussi migratori, prevenire la migrazione illegale, aumentare le capacità di protezione delle frontiere e migliorare le procedure di rimpatrio e riammissione. In considerazione del recente aumento dei flussi nel Mediterraneo occidentale, l'UE sosterrà, finanziariamente e in altro modo, tutti gli sforzi compiuti dagli Stati membri, in special modo la Spagna, e dai paesi di origine e di transito, in particolare il Marocco, per prevenire la migrazione illegale.
5. Per smantellare definitivamente il modello di attività dei trafficanti e impedire in tal modo la tragica perdita di vite umane, è necessario eliminare ogni incentivo a intraprendere viaggi pericolosi. Occorre a tal fine un nuovo approccio allo sbarco di chi viene salvato in operazioni di ricerca e soccorso, basato su azioni condivise o complementari tra gli Stati membri. Al riguardo, il Consiglio europeo invita il Consiglio e la Commissione a esaminare rapidamente il concetto di piattaforme di sbarco regionali, in stretta cooperazione con i paesi terzi interessati e con l'UNHCR e l'OIM. Tali piattaforme dovrebbero agire operando distinzioni tra i singoli casi, nel pieno rispetto del diritto internazionale e senza che si venga a creare un fattore di attrazione.
6. Nel territorio dell'UE coloro che vengono salvati, a norma del diritto internazionale, dovrebbero essere presi in carico sulla base di uno sforzo condiviso e trasferiti in centri sorvegliati istituiti negli Stati membri, unicamente su base volontaria; qui un trattamento rapido e sicuro consentirebbe, con il pieno sostegno dell'UE, di distinguere i migranti irregolari, che saranno rimpatriati, dalle persone bisognose di protezione internazionale, cui si applicherebbe il principio di solidarietà. Tutte le misure nel contesto di questi centri sorvegliati, ricollocazione e reinsediamento compresi, saranno attuate su base volontaria, lasciando impregiudicata la riforma di Dublino.

7. Il Consiglio europeo conviene l'erogazione della seconda quota dello strumento per i rifugiati in Turchia e al tempo stesso il trasferimento al Fondo fiduciario dell'UE per l'Africa di 500 milioni di EUR a titolo della riserva dell'undicesimo FES. Gli Stati membri sono inoltre invitati a contribuire ulteriormente al Fondo fiduciario dell'UE per l'Africa al fine di rialimentarlo.
8. Per affrontare alla radice il problema della migrazione è necessario un partenariato con l'Africa volto a una trasformazione socioeconomica sostanziale del continente africano sulla base dei principi e degli obiettivi definiti dai paesi africani nella loro Agenda 2063. L'Unione europea e i suoi Stati membri devono essere all'altezza di questa sfida. Dobbiamo elevare a un nuovo livello la cooperazione con l'Africa in termini di portata e qualità. A tal fine non occorreranno solo maggiori finanziamenti allo sviluppo ma anche misure intese a creare un nuovo quadro che consenta di accrescere sostanzialmente gli investimenti privati degli africani e degli europei. Particolare attenzione dovrebbe essere prestata all'istruzione, alla salute, alle infrastrutture, all'innovazione, al buon governo e all'emancipazione femminile. L'Africa è un nostro vicino: lo dobbiamo affermare intensificando gli scambi e i contatti tra i popoli di entrambi i continenti a tutti i livelli della società civile. La cooperazione tra l'Unione europea e l'Unione africana è un elemento importante delle nostre relazioni. Il Consiglio europeo ne chiede lo sviluppo e la promozione ulteriori.
9. Nel contesto del prossimo quadro finanziario pluriennale, il Consiglio europeo sottolinea la necessità di disporre di strumenti flessibili, ad esborso rapido, per combattere la migrazione illegale. I fondi destinati a sicurezza interna, gestione integrata delle frontiere, asilo e migrazione dovrebbero pertanto includere specifiche componenti significative per la gestione della migrazione esterna.
10. Il Consiglio europeo ricorda la necessità che gli Stati membri assicurino il controllo efficace delle frontiere esterne dell'UE con il sostegno finanziario e materiale dell'UE. Sottolinea inoltre l'esigenza di intensificare notevolmente l'effettivo rimpatrio dei migranti irregolari. Riguardo a entrambi gli aspetti, il ruolo di sostegno svolto da Frontex, anche nella cooperazione con i paesi terzi, dovrebbe essere ulteriormente intensificato attraverso maggiori risorse e un mandato rafforzato. Accoglie con favore l'intenzione della Commissione di presentare proposte legislative per una politica europea di rimpatrio efficace e coerente.

11. Per quanto concerne la situazione all'interno dell'UE, i movimenti secondari di richiedenti asilo tra Stati membri rischiano di compromettere l'integrità del sistema europeo comune di asilo e l'acquis di Schengen. Gli Stati membri dovrebbero adottare tutte le misure legislative e amministrative interne necessarie per contrastare tali movimenti e cooperare strettamente tra di loro a tal fine.
12. Riguardo alla riforma tesa a creare un nuovo sistema europeo comune di asilo, notevoli progressi sono stati compiuti grazie all'instancabile impegno profuso dalla presidenza bulgara e dalle presidenze che l'hanno preceduta. Diversi fascicoli sono prossimi alla conclusione. È necessario trovare un consenso sul regolamento Dublino per riformarlo sulla base di un equilibrio tra responsabilità e solidarietà, tenendo conto delle persone sbarcate a seguito di operazioni di ricerca e soccorso. È altresì necessario un ulteriore esame della proposta sulle procedure di asilo. Il Consiglio europeo sottolinea la necessità di trovare una soluzione rapida all'intero pacchetto e invita il Consiglio a proseguire i lavori al fine di concluderli quanto prima. In occasione del Consiglio europeo di ottobre sarà presentata una relazione sui progressi compiuti.
II. SICUREZZA E DIFESA
13. L'Europa deve assumersi maggiori responsabilità per la sua stessa sicurezza e rafforzare il proprio ruolo di attore e partner credibile e affidabile nel settore della sicurezza e della difesa. L'Unione sta pertanto predisponendo misure per potenziare la difesa europea, incrementando gli investimenti nel settore, lo sviluppo delle capacità e la prontezza operativa. Queste iniziative accrescono la sua autonomia strategica integrando e rafforzando, nel contempo, le attività della NATO, in linea con le conclusioni precedenti. Il Consiglio europeo:
• chiede la realizzazione degli impegni della PESCO e l'ulteriore sviluppo dei progetti iniziali e del quadro istituzionale, in modo pienamente coerente con la revisione coordinata annuale sulla difesa e il piano riveduto di sviluppo delle capacità adottato nel quadro dell'Agenzia europea per la difesa. Una nuova serie di progetti sarà concordata nel novembre 2018. Invita il Consiglio a decidere in merito alle condizioni per la partecipazione degli Stati terzi ai progetti PESCO;

• si compiace dei progressi compiuti in relazione alla mobilità militare nel quadro della PESCO e della cooperazione UE-NATO, si aspetta che siano ora messi a punto i requisiti militari previsti nel piano d'azione dell'UE sulla mobilità militare e chiede agli Stati membri di semplificare e unificare le pertinenti norme e procedure entro il 2024. Tali sforzi, che dovrebbero rispettare pienamente la sovranità degli Stati membri, rafforzarsi reciprocamente e seguire un approccio esteso a tutta l'amministrazione, saranno riesaminati annualmente sulla base di una relazione della Commissione e dell'alto rappresentante, a partire dalla primavera 2019;
• chiede la rapida attuazione del programma europeo di sviluppo del settore industriale della difesa e ulteriori progressi in merito al Fondo europeo per la difesa, sia nella sezione "ricerca" che nella sezione "capacità";
• si compiace del lavoro intrapreso per rafforzare la dimensione civile della PSDC e chiede che sia raggiunto entro fine anno un accordo in merito a un patto sulla dimensione civile della PSDC, così da fornire un nuovo quadro dell'UE per la gestione civile delle crisi e le missioni PSDC, con impegni ambiziosi a livello dell'UE e nazionale. Ricorda che gli aspetti militari e civili devono essere affrontati in maniera complessiva, ponendo l'accento sui risultati concreti;
• accoglie con favore la comunicazione congiunta sulla resilienza dell'Europa alle minacce ibride e chimiche, biologiche, radiologiche e nucleari e chiede l'adozione quanto prima di un nuovo regime UE di misure restrittive per affrontare la questione dell'uso e della proliferazione delle armi chimiche. A seguito della conferenza straordinaria degli Stati parte della Convenzione sulle armi chimiche, l'UE si impegna a sostenere l'attuazione delle relative conclusioni;


martedì 26 giugno 2018





L’Adunanza plenaria si pronuncia sul conferimento degli incarichi dirigenziali relativi ai poli museali


Leggi e decreti  - Contrasto con diritto UE - Conseguenza.

Pubblico impiego privatizzato – Dirigenti – Cittadini di altri Stati membri dell’UE – Divieto assoluto ex artt. 1, comma 1, d.P.C.M. n. 174 del 1994 e 2, comma 1, d.P.R. n. 487 del 1994 – Violazione art. 45, par. 2, TFUE – Conseguente inapplicabilità.

          Il Giudice amministrativo provvede in ogni caso a non dare applicazione a un atto normativo nazionale in contrasto con il diritto dell’Unione europea (1).

          L’art. 1, comma 1,  d.P.C.M. n. 174 del 1994 e l’art. 2, comma 1, d.P.R. n. 487 del 1994, laddove impediscono in assoluto ai cittadini di altri Stati membri dell’UE di assumere i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato e laddove non consentono una verifica in concreto circa la sussistenza o meno del prevalente esercizio di funzioni autoritative in relazione alla singola posizione dirigenziale, risultano in contrasto con il par. 2 dell’art. 45 del TFUE e non possono trovare conseguentemente applicazione (2).

  
La questione era stata rimessa da Cons. St., sez. VI, 2 febbraio 2018, n. 677        

(1) Ha chiarito la Sezione che la piena applicazione del principio di primauté del diritto eurounitario comporta che, laddove una norma interna (anche di rango regolamentare) risulti in contrasto con tale diritto, e laddove non risulti possibile un’interpretazione di carattere conformativo, resta comunque preclusa al Giudice nazionale la possibilità di fare applicazione di tale norma interna.    

I princìpi appena richiamati risultano tanto più pregnanti nelle ipotesi in cui – come nel caso in esame - non solo il Giudice nazionale debba astenersi dal dare applicazione nell’ordinamento interno a una disposizione in contrasto con il diritto UE, ma per di più possa (e anzi, debba) riconoscere diretta applicazione a una disposizione chiara e di fatto autoapplicativa quale il par. 3 dell’art. 45 del TFUE (il quale, come si avrà modo di rilevare, limita la possibilità di derogare al generale principio della libertà di circolazione dei lavoratori ad ipotesi nel complesso residuali).
      
(2) Ha tra l’altro chiarito l’Alto Consesso, con una articolata motivazione, che non appare suffragata la tesi, affermata nell’ambito dell’ordinanza di rimessione, secondo cui la posizione di direttore del Palazzo Ducale di Mantova (la cui nomina è oggetto del contenzioso) presenterebbe un carattere di apicalità nell’ambito dell’amministrazione statale e comporterebbe l’esercizio di “funzioni di vertice amministrativo” con spendita di funzioni prevalentemente di stampo pubblicistico e autoritativo, in tal modo giustificando la ‘riserva di nazionalità’ di cui al paragrafo 4 dell’articolo 45 del TFUE.    

Ha al riguardo osservato che:    

- che, ai sensi del comma 2-bis dell’art. 14, d.l. n. 83 del 2014, il Palazzo Ducale di Mantova rientra fra “i poli museali gli istituti della cultura nazionali di rilevante interesse nazionale”;      

- che il d.P.C.M. 29 agosto 2014, n. 171 (‘Regolamento di organizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, degli uffici della diretta collaborazione del Ministro e dell'Organismo indipendente di valutazione della performance, a norma dell'art. 16, comma 4, d.l. 24 aprile 2014, n. 66’), all’art. 30, ha – sì - riconosciuto autonomia speciale all’istituzione in parola (riconoscendola come “di rilevante interesse nazionale”), ma non ne ha delineato le funzioni e le attribuzioni con peculiarità tali da giustificarne il riconoscimento quale “organo amministrativo di vertice del Ministero, con il quale si attua l’indirizzo politico del Governo”;         

- che il richiamato regolamento di organizzazione ha qualificato l’istituzione di cui trattasi quale ufficio di livello dirigenziale non generale (i.e.: quale ufficio dirigenziale ‘di terzo livello’ sottoposto in primo luogo al potere di coordinamento e organizzazione del pertinente livello dirigenziale generale – art. 16, d.lgs. n. 165 del 2001 - e, in secondo luogo, al più generale potere di indirizzo e coordinamento del Segretariato generale del Ministero – articolo 11 del d.P.C.M. 171, cit. -), non differenziandone in modo davvero significativo le attribuzioni rispetto a quanto previsto in via generale per il secondo livello dirigenziale dall’art. 17, d.lgs. n. 165 del 2001;          

- che, per quanto riguarda i compiti e le funzioni demandati ai direttori degli istituti e musei di rilevante interesse nazionale (fra cui quello che qui viene in rilievo), l’elencazione di cui al comma 4 dell’art.35 non giustifica né la qualificazione in termini di apicalità, né l’affermazione secondo cui si tratterebbe di plessi deputati in via prevalente o esclusiva ad esprimere “[il] potere esecutivo [costituendo] l’organo amministrativo di vertice del Ministero , con il quale si attua l’indirizzo politico del Governo” (sul punto si tornerà fra breve);          

- che la medesima qualificazione in termini di apicalità non risulta giustificata neppure se riferita in modo indistinto a tutte le posizioni dirigenziali dell’amministrazione statale (per come richiamate – e senza distinzioni di sorta – dall’art. 1, comma 1, lett. a), d.P.C.M. n. 174, cit.). Ed infatti una tale qualificazione sembra fondarsi sull’indimostrato riconoscimento del carattere di apicalità a tutti i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, a prescindere dall’esame dei compiti e delle funzioni in concreto esercitati;          

- che non si rinviene invero alcuna ragione per riconoscere in modo indistinto l’esercizio dell’autorità pubblica e la responsabilità di salvaguardare gli interessi generali dello Stato (e quindi la possibilità di attivare la ‘riserva di nazionalità’) a fronte di qualunque posto di livello dirigenziale dello Stato (quand’anche deputato – ad esempio – a mere attività di consulenza, studio e ricerca ai sensi del comma 10 dell’art. 19, d.lgs. n. 165 del 2001, cit.);          

- che non rinviene pertanto un puntuale conforto testuale o sistematico la tesi secondo cui tutti i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato (art. 1, comma 1, lett. a), d.P,C.M. n. 174, cit.) sarebbero qualificabili sempre e comunque come posti con funzioni di vertice amministrativo e implicherebbero l’esercizio prevalente di funzioni di stampo autoritativo.            

L’Alto Consesso ha ritenuto altresì non condivisibile la tesi, richiamata nell’ordinanza di rimessione, secondo cui, ai fini dell’applicazione dell’eccezione di cui al par. 4 dell’art. 45 del TFUE, non potrebbe richiamarsi il criterio della prevalenza fra funzioni di carattere pubblicistico e funzioni di gestione economica e tecnica, potendo tale eccezione essere invocata a fronte di qualunque posizione funzionale che implichi (e in qualunque misura) l’esercizio di funzioni di stampo autoritativo.          

L'Adunanza plenaria ha quindi concluso che l’art. 1, comma 1, lett. a), d.P.C.M. n. 174 del 1994 e l’art. 2, comma 1, d.P.R. n. 487 del 1994, laddove impediscono in modo assoluto la possibilità di attribuire posti di livello dirigenziale nelle amministrazioni dello Stato a cittadini di altri Stati membri dell’Unione europea, risultino insanabilmente in contrasto con il par. 4 dell’art. 45 del TFUE e che, in assenza di possibili interpretazioni di carattere adeguativo, debbano essere disapplicati.          

Spetterà quindi al Governo, per evidenti ragioni di certezza giuridica, adottare le determinazioni conseguenti alla rilevata illegittimità de iure communitario della richiamata disposizione regolamentare.        

https://www.giustizia-amministrativa.it/cdsintra/cdsintra/Approfondimenti/Pubblicoimpiegoprivatizzato/Dirigenti/ConsigliodiStato25giugno2018n.9/index.html

lunedì 25 giugno 2018


Sulla (im)possibilità di identificare la popolazione locale (nello specifico: veneta) quale minoranza nazionale, interviene la Consulta

Corte cost. 20 aprile 2018, n. 81

E’ costituzionalmente illegittima legge della Regione Veneto 13 dicembre 2016, n. 28, Applicazione della convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali

Secondo la Consulta:


1)“Deve essere condivisa l’osservazione della Regione resistente circa il fatto che la tutela delle minoranze richiede «l’apprestamento sia di norme ulteriori di svolgimento, sia di strutture o istituzioni finalizzate alla loro concreta operatività» (sentenze n. 159 del 2009, n. 15 del 1996, n. 62 del 1992 e n. 28 del 1982), in presenza delle quali soltanto i principi proclamati dall’art. 6 Cost. e dai rilevanti accordi internazionali possono acquisire concreta effettività”;


2)Rispetto “alla titolarità dei poteri esercitabili a tale scopo”, la Consulta ricorda come, in un primo momento, abbia “affermato che solo il legislatore statale fosse abilitato a dettare norme sulla tutela delle minoranze, in ragione di inderogabili esigenze di unità e di eguaglianza”, per , poi, ritenere “che anche i legislatori regionali e provinciali potessero adottare atti normativi in materia, specialmente al fine di garantire e valorizzare l’identità culturale e il patrimonio storico delle proprie comunità, ma sempre nel pieno rispetto di quanto determinato in materia dal legislatore statale”. Sotto questo profilo, “la giurisprudenza costituzionale più recente è chiara nell’affermare che la tutela delle minoranze è refrattaria a una rigida configurazione in termini di “materia” da collocare in una delle ripartizioni individuate nel Titolo V della seconda parte della Costituzione e che la sua attuazione in via di legislazione ordinaria richiede tanto l’intervento del legislatore statale, quanto l’apporto di quello regionale (sentenza n. 159 del 2009). Infatti, i principi contenuti negli artt. 2, 3, e 6 Cost. si rivolgono sempre alla “Repubblica” nel suo insieme e pertanto impegnano tutte le sue componenti – istituzionali e sociali, centrali e periferiche – nell’opera di promozione del pluralismo, dell’eguaglianza e, specificamente, della tutela delle minoranze; sicché, sul piano legislativo, l’attuazione di tali principi esige il necessario concorso della legislazione regionale con quella statale”;

3)Tuttavia, il compito di determinare gli elementi identificativi di una minoranza da tutelare non può che essere affidato alle cure del legislatore statale, in ragione della loro necessaria uniformità per l’intero territorio nazionale. Inoltre, il legislatore statale si trova nella posizione più favorevole a garantire le differenze proprio in quanto capace di garantire le comunanze e risulta, perciò, in grado di rendere compatibili pluralismo e uniformità …, anche in attuazione del principio di unità e indivisibilità della Repubblica di cui all’art. 5 Cost.”

4)“In questa cornice debbono intendersi le affermazioni contenute nella sentenza n. 170 del 2010 – relative alla tutela delle minoranze linguistiche, ma da estendersi, per le ragioni sopra esposte, alla più generale tutela dei gruppi minoritari – secondo le quali non è consentito al legislatore regionale configurare o rappresentare la “propria” comunità in quanto tale come “minoranza”, «essendo del tutto evidente che, in linea generale, all’articolazione politico-amministrativa dei diversi enti territoriali all’interno di una medesima più vasta, e composita, compagine istituzionale non possa reputarsi automaticamente corrispondente – né, in senso specifico, analogamente rilevante – una ripartizione del “popolo”, inteso nel senso di comunità “generale”, in improbabili sue “frazioni”» ... Riconoscere un tale potere al legislatore regionale significherebbe, infatti, introdurre un elemento di frammentazione nella comunità nazionale contrario agli artt. 2, 3, 5 e 6 Cost.

5)Ne deriva che, “in disparte ogni considerazione circa la compatibilità della legge regionale impugnata con lo specifico contenuto della Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, a cui essa si richiama – la quale peraltro contiene principalmente un elenco di diritti di natura individuale, ma non configura diritti collettivi dei gruppi minoritari – la legge regionale impugnata, nel qualificare il «popolo veneto» come “minoranza nazionale” ai sensi della citata convenzione-quadro, contrasta con i principi sviluppati nella giurisprudenza di questa Corte in materia”





Legge regionale (Veneto) 13 dicembre 2016, n. 28 (B.U.R 13 dicembre 2016, n. 120)
Art. 1
Minoranza Nazionale.
1.    Al popolo veneto, di cui agli articoli 1 e 2 dello Statuto regionale, legge regionale statutaria 17 aprile 2012, n. 1 (già articolo 2 della legge statale 22 maggio 1971, n. 340), spettano i diritti di cui alla “Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali” del Consiglio d’Europa ratificata con legge 28 agosto 1997, n. 302 “Ratifica ed esecuzione della convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, fatta a Strasburgo il 1° febbraio 1995.”.
2.    Nel rispetto delle competenze di ciascuna regione e degli obblighi internazionali, fanno parte della minoranza nazionale veneta anche quelle comunità legate storicamente e culturalmente o linguisticamente al popolo veneto anche al di fuori del territorio regionale.
3.    Il popolo veneto comprende altresì le comunità etnico-linguistiche cimbre e ladine, riconosciute ai sensi della legge regionale 23 dicembre 1994, n. 73 “Promozione delle minoranze etniche e linguistiche del Veneto”.

Art. 2
Ambito di applicazione.
1.    La presente legge si attua a tutti gli ambiti previsti dalla “Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali”.
2.    La Giunta regionale, sentita la competente Commissione consiliare, stabilisce i criteri e le modalità di applicazione della Convenzione di cui al comma 1 senza oneri a carico della Regione.

Art. 3
Esercizio dei diritti di minoranza nazionale.
1.    Al fine di garantire il diritto di dichiararsi appartenente alla minoranza nazionale veneta, viene incaricata della raccolta e valutazione delle dichiarazioni spontanee l’Aggregazione delle associazioni maggiormente rappresentative degli enti ed associazioni di tutela della identità, cultura e lingua venete, da costituirsi presso la Giunta regionale.
2.    La Giunta regionale provvede al monitoraggio delle attività svolte dal soggetto di cui al comma 1.

Art. 4
Finanziamento.
1.    Le spese relative all’attuazione della presente legge nel territorio regionale sono a carico e deliberate da ciascuna amministrazione centrale o periferica chiamata ad attuarla anche in conformità a quanto stabilito dall’articolo 9 dalla “Convenzione Europea relativa alla Carta europea dell’autonomia locale” ratificata dalla legge 30 dicembre 1989, n. 439 “Ratifica ed esecuzione della convenzione europea relativa alla Carta europea dell’autonomia locale, firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985.” eventualmente con perequazione dell’amministrazione centrale.

Art. 5
Entrata in vigore.
1.    La presente legge regionale entra in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione nel Bollettino Ufficiale della Regione del Veneto.





SENTENZA N. 81
ANNO 2018


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ,


ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Veneto 13 dicembre 2016, n. 28 (Applicazione della convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali), intero testo, e dell’art. 4 della medesima legge, promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, spedito per la notificazione il 13 febbraio 2017, depositato in cancelleria il 20 febbraio 2017, iscritto al n. 16 del registro ricorsi 2017 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visti l’atto di costituzione della Regione Veneto nonché l’atto di intervento dell’associazione “Aggregazione Veneta – Aggregazione delle associazioni maggiormente rappresentative degli enti ed associazioni di tutela della identità, cultura e lingua venete” e di L. P.;
udito nell’udienza pubblica del 20 marzo 2018 il Giudice relatore Marta Cartabia;
uditi l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri, gli avvocati Mario Bertolissi e Andrea Manzi per la Regione Veneto, e Marco Della Luna per l’associazione “Aggregazione Veneta – Aggregazione delle associazioni maggiormente rappresentative degli enti ed associazioni di tutela della identità, cultura e lingua venete” e L. P.


Ritenuto in fatto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato la legge della Regione Veneto 13 dicembre 2016, n. 28 (Applicazione della convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali), per intero e con riguardo all’art. 4.
Pur riconoscendo che le censure relative al vizio di competenza del legislatore regionale rivestono carattere preliminare e assorbente, il ricorrente illustra innanzitutto le violazioni di ordine sostanziale riferibili all’intero testo della legge regionale impugnata.
1.1.– Il primo motivo di impugnazione concerne la violazione degli artt. 5, 6 e 114 della Costituzione.
La legge regionale impugnata qualifica il «popolo veneto» – e cioè l’intera popolazione vivente nel territorio delle province e della città metropolitana elencate nell’art. 1, commi 2 e 3, della legge regionale statutaria 12 aprile 2012, n. 1 (Statuto del Veneto) – come “minoranza nazionale” ai sensi della Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, fatta a Strasburgo il 1° febbraio 1995, ratificata e resa esecutiva con la legge 28 agosto 1997, n. 302. Ciò contrasterebbe con l’art. 114, primo comma, della Costituzione perché tale norma costituzionale, nel prevedere che Comuni, Province, Regioni, Città metropolitane e Stato concorrono nelle loro componenti personale e territoriale a formare la Repubblica, andrebbe intesa nel senso che la popolazione riferibile a uno di tali enti esponenziali non possa essere anche identificata per ciò solo come “minoranza nazionale”, staccata e contrapposta rispetto alla maggioranza della popolazione della Repubblica e per questo meritevole di protezione ai sensi della convenzione-quadro. Una tale qualificazione della popolazione del Veneto lederebbe altresì il principio di unità e indivisibilità della Repubblica, di cui all’art. 5 Cost., principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale, sottratto persino al potere di revisione costituzionale, come questa Corte avrebbe affermato nella sentenza n. 118 del 2015, resa sempre nei confronti della Regione Veneto. Il ricorrente osserva che l’art. 5 Cost. rappresenta la Repubblica come una comunità nazionale dotata di una propria identità e generatrice di un ordinamento unitario e non come «una somma materiale di minoranze autopostesi come tali, l’una estranea all’altra e coesistenti tra loro su una base giuridicamente non definita ma comunque precaria». Che le minoranze siano realtà che la Repubblica considera come ulteriori rispetto alle proprie componenti costitutive di tipo personale, e proprio per questo meritevoli di una tutela specifica, sarebbe comprovato dall’art. 6 Cost., là dove afferma che «la Repubblica» in tutte le sue articolazioni, comprese quindi le Regioni, tutela le minoranze linguistiche, le quali dunque non possono coincidere con le articolazioni della Repubblica stessa, quali sono le Regioni o, più precisamente, le loro componenti personali. Ciò che la Corte costituzionale ha stabilito a proposito delle minoranze linguistiche, negando che all’articolazione politico-amministrativa degli enti territoriali di cui si compone la Repubblica possa corrispondere automaticamente una ripartizione del popolo in improbabili sue frazioni (si richiama la sentenza n. 170 del 2010), dovrebbe affermarsi a maggior ragione per le minoranze nazionali. D’altra parte, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri sarebbe lo stesso contenuto della Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali a confermare che la popolazione di una Regione non possa formare di per sé una “minoranza nazionale”: se è vero che la convenzione-quadro presuppone una situazione di pericolo di lesione di diritti fondamentali degli appartenenti alla “minoranza nazionale”, allora sarebbe contraddittorio dire che la popolazione di una Regione in quanto tale è esposta al rischio di violazione di diritti costituzionali fondamentali da parte della Repubblica, proprio perché anche la Regione è elemento costitutivo della Repubblica e dunque tenuta anch’essa a garantire quei diritti. Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, le censure rivolte all’art. 1 della legge regionale impugnata, che identifica l’aspetto soggettivo della “minoranza nazionale” con la popolazione del Veneto, andrebbero estese all’art. 2, che determina i contenuti oggettivi della tutela che si vorrebbe apprestare tramite un rinvio alla convenzione-quadro, quali ad esempio, la salvaguardia degli «elementi essenziali» dell’identità, come «la religione, la lingua, le tradizioni ed il patrimonio culturale» di cui all’art. 5 della convenzione-quadro. La “minoranza nazionale” a cui si riferisce la convenzione-quadro, tuttavia, è qualcosa di contrapposto alla maggioranza del popolo organizzato nell’ordinamento generale, di cui la minoranza stessa deve rispettare la leggi e i diritti ivi garantiti (art. 20). Anche l’art. 3 della legge regionale impugnata, che prefigura un ente incaricato del compito di raccogliere le dichiarazioni spontanee di appartenenza alla presunta minoranza veneta, incorrerebbe, conseguenzialmente, nella violazione delle medesime norme costituzionali, in quanto consente ai singoli appartenenti alla popolazione di una Regione di decidere individualmente se la loro appartenenza al popolo italiano sia piena oppure mediata dalla collocazione in una entità che si distingue e si contrappone al popolo italiano. Sarebbe poi affetto dai medesimi vizi di costituzionalità anche l’art. 4 della legge che, trattando gli aspetti finanziari, ha funzione secondaria e servente rispetto agli articoli precedenti.
1.2.– Il secondo motivo di censura, sempre relativo alla legge regionale nella sua interezza, riguarda la violazione degli artt. 2 e 3 Cost. Il ricorrente ricorda che secondo la giurisprudenza costituzionale si può riconoscere una minoranza, titolare di uno status particolare, solo quando lo impongano i principi fondamentali di cui agli artt. 2 e 3 Cost. (si richiama la sentenza n. 159 del 2009): quando, cioè il mancato riconoscimento della minoranza comporti la negazione della identità collettiva di un gruppo connotato da marcate particolarità culturali, in violazione dell’art. 2 Cost., nonché l’indebita parificazione giuridica dei suoi componenti alla condizione della generalità del popolo, in violazione dell’art. 3 Cost. Nel caso in esame non ricorrerebbe nessuna di queste condizioni, data l’assenza di ogni evidenza di tipo storico o sociologico che riveli nella popolazione del territorio veneto connotati identitari tali da giustificarne un trattamento giuridico quale minoranza nazionale. Del tutto inconferente, poi, sarebbe il riferimento, contenuto nei lavori preparatori della legge, al principio dell’autogoverno regionale di cui all’art. 2 dello Statuto del Veneto.
1.3.– Il terzo motivo di censura dell’intera legge regionale riguarda la violazione degli artt. 80 e 117, secondo comma, lettera a), Cost. Il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che la Regione non abbia la competenza ad adottare una normativa come quella in esame, perché l’attuazione della Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali rientrerebbe nella competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «politica estera e rapporti internazionali dello Stato» (si richiamano la sentenza n. 159 del 2009 e le sentenze n. 238 del 2004, n. 737 del 1988 e n. 179 del 1987). In primo luogo, il distacco di una porzione della popolazione nazionale dalla generalità e la sua qualificazione come “minoranza nazionale” avrebbe immediato riflesso sulla personalità di diritto internazionale dello Stato. In secondo luogo, il riconoscimento di una “minoranza nazionale” renderebbe operanti gli obblighi internazionali dello Stato discendenti dalla convenzione-quadro, sicché spetterebbe solo allo Stato la capacità di bilanciare gli interessi confliggenti e assicurare che il riconoscimento di una “minoranza nazionale” non si traduca in una ragione di privilegio o al contrario di discriminazione per la restante popolazione o per le altre minoranze.
Quanto alla violazione dell’art. 80 Cost., il ricorrente sostiene che con la legge impugnata la Regione Veneto solo formalmente si sarebbe basata sulla legge nazionale di ratifica della convenzione-quadro, ma in realtà avrebbe a tutti gli effetti emanato una propria particolare legge di ratifica, che si sovrappone a quella statale.
1.4.– Pur ritenendo che i tre motivi di censura sopra esposti siano tali da travolgere anche le previsioni serventi, relative al «Finanziamento» della legge stessa, il Presidente del Consiglio dei ministri presenta «per completezza» un quarto motivo di impugnazione, rivolto specificamente contro l’art. 4, per violazione degli artt. 81, terzo e quarto comma, 117, secondo comma, lettere g) ed e), e 118, primo comma, Cost.
La disposizione impugnata prevede che le spese relative all’attuazione della legge in esame «sono a carico e sono deliberate da ciascuna amministrazione centrale o periferica chiamata ad attuarla». Una tale previsione determinerebbe anzitutto una violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera g), che attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato la materia «organizzazione amministrativa dello Stato» e in proposito il ricorrente ricorda che per costante giurisprudenza costituzionale (si cita da ultima la sentenza n. 9 del 2016) è vietato alle Regioni porre a carico di organi e amministrazioni dello Stato compiti ulteriori rispetto a quelli individuati con legge statale. In secondo luogo, sussisterebbe una violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), che attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato la materia «perequazione delle risorse finanziarie». A tale riguardo, il ricorrente nota che l’impugnato art. 4 pone a carico del bilancio statale le spese necessarie all’attuazione della legge regionale e prevede che tali spese siano finalizzate alla perequazione finanziaria. Per le medesime ragioni sarebbe violato anche l’art. 81, terzo e quarto comma, Cost., dato che solo la legge statale di approvazione del bilancio può autorizzare spese a carico del bilancio statale, mentre la legge regionale impugnata non solo non indica i mezzi di copertura delle spese, ma neanche le quantifica, impedendo così in radice ogni ipotetica previsione di copertura.
2.– Si è costituita in giudizio la Regione Veneto chiedendo che la Corte costituzionale si pronunci nel senso dell’inammissibilità e comunque del rigetto di tutte le questioni sollevate.
La difesa regionale afferma innanzitutto che la Regione non contesta la circostanza che sia lo Stato l’ente chiamato ad attuare la Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, sui cui contenuti poi si sofferma. Secondo la difesa della Regione Veneto, la legge regionale impugnata in concreto esprimerebbe soltanto l’«aspirazione banalissima di non perdersi nel mare magnum dell’indistinto globalizzato». La Regione Veneto non avrebbe fatto altro «che ricordare allo Stato di aver ratificato, con la legge n. 302/1997, la Convenzione-quadro sulle minoranze nazionali, che essa ritiene dotata di contenuti rilevanti per la comunità insediata nel proprio territorio». E ciò, secondo la Regione, non determinerebbe «affatto né collisioni né rotture, ma semplicemente una attesa»: l’attesa che venga realizzata anche per le minoranze nazionali quella tutela di cui la stessa giurisprudenza costituzionale si è fatta carico quando ha affermato che la previsione della tutela delle minoranze linguistiche appare destinata, più che alla salvaguardia delle lingue minoritarie in quanto oggetto di memoria, alla consapevole custodia e valorizzazione di patrimoni di sensibilità vivi e vitali nell’esperienza dei parlanti (si richiama la sentenza n. 170 del 2010, oltre che la sentenza n. 42 del 2017, là dove si dà atto del valore pregnante sia della lingua italiana sia delle lingue minoritarie e si evoca l’erosione dei confini nazionali determinata dalla globalizzazione). Di conseguenza, la lettura offerta dal ricorso statale al contenuto complessivo della legge regionale impugnata, «pur letteralmente consentita», non sarebbe condivisibile. La stessa circostanza che il dettato della legge regionale impugnata sia, «per ora, concretamente inoffensivo», dato che la legge regionale non prevede oneri per la sua attuazione, testimonierebbe che la Regione Veneto ritiene che sia lo Stato l’ente competente ad attuare la convenzione-quadro e ad accollarsene gli oneri nella sua veste di soggetto di diritto internazionale. In ogni caso, poi, non ci sarebbe alcuna violazione degli artt. 5, 6 e 114 Cost., dato che la futura acquisizione da parte del «popolo veneto» dello status di “minoranza nazionale” non determinerebbe alcun contrasto con la Costituzione e con la legislazione che la attua, «poiché rimane saldo il principio che entrambe vanno rigorosamente rispettate». Non sarebbero violati neppure gli artt. 2 e 3 Cost., perché essere “minoranza nazionale” non equivarrebbe affatto a essere titolari di prerogative ingiustificate; né sarebbero violati gli artt. 81 e 117, secondo comma, lettera a), Cost., perché la Regione Veneto non avrebbe deliberato, legislativamente, di operare sostituendosi allo Stato, ma al contrario si sarebbe inibita questa facoltà proprio nel momento in cui ha stabilito che la legge regionale fosse «a costo zero». Inoltre, data la «non rilevanza giuridica dell’art. 4 della legge regionale», non sarebbero stati violati neppure gli artt. 81, terzo e quarto comma; 117, secondo comma, lettere a) ed e), e 118, primo comma, Cost., in quanto «disporre delle proprie risorse è prerogativa dello Stato, cui la Regione chiede l’attuazione, in proprio favore» della legge statale di ratifica ed esecuzione della convenzione-quadro sulle minoranze nazionali.
In definitiva, la difesa regionale conclude in primo luogo per l’inammissibilità delle censure prospettate dall’Avvocatura generale dello Stato, «atteso il carattere non lesivo dell’atto impugnato»; e, in secondo luogo, per la non fondatezza delle questioni sia «in sé e per sé, nel merito», sia «soprattutto e in ogni caso, se si accoglie l’opinione formulata dalla difesa della Regione Veneto, secondo cui la normatività della legge impugnata è condizionata da iniziative, che lo Stato deciderà di assumere ai sensi della legge n. 302/1997». In particolare, questa Corte costituzionale, secondo la difesa regionale «potrà, se del caso, pronunciare una sentenza interpretativa di rigetto di quanto sostenuto dalla Avvocatura generale dello Stato» e «lo Stato potrà, in ogni momento, sollevare conflitto di attribuzioni nei confronti di eventuali atti e provvedimenti che la Regione Veneto intendesse adottare in attuazione della legge regionale n. 28/2016; atti e provvedimenti da valutare nella loro lesività non ora in astratto, ma un domani in concreto, al momento della loro adozione».
3.– Hanno depositato un atto di intervento nel giudizio davanti a questa Corte l’associazione non riconosciuta “Aggregazione Veneta – Aggregazione delle associazioni maggiormente rappresentative degli enti ed associazioni di tutela della identità, cultura e lingua venete”, che si definisce «organizzazione esponenziale della nazione veneta», in persona del suo legale rappresentante L. P., unitamente allo stesso L. P. in proprio, eccependo la tardività del ricorso e chiedendo che, nel merito, ne venga dichiarata l’infondatezza.
4.– In vista dell’udienza pubblica, ha depositato memoria soltanto la difesa della Regione Veneto, insistendo sulle proprie conclusioni e svolgendo alcune considerazioni di sintesi. La difesa regionale ricorda, in particolare, che è attualmente in atto un “negoziato” tra la Regione Veneto e lo Stato per l’attribuzione di maggiori competenze ai sensi dell’art. 116, terzo comma, Cost., giunto ora, a fine legislatura, a «una positiva pre-intesa, destinata a completarsi, una volta insediate le nuove Camere». Questa circostanza assegnerebbe alla legge regionale impugnata «altri significati, di certo non eversivi». La legge regionale, ribadisce la Regione, non avrebbe inteso invadere le competenze spettanti allo Stato in tema di minoranze nazionali, né ledere i parametri costituzionali invocati, ma avrebbe piuttosto attuato «una sorta di ricognizione, che ha lo scopo evidente di ridare vigore alla memoria e, con essa, a un sistema di valori, la cui nobiltà è innegabile».
5.– All’udienza del 20 marzo 2018, previa discussione sul punto, è stato dichiarato inammissibile l’intervento per i motivi indicati nell’ordinanza dibattimentale allegata alla presente sentenza.


Considerato in diritto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni di legittimità costituzionale della legge della Regione Veneto 13 dicembre 2016, n. 28 (Applicazione della convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali), impugnandola nella sua interezza per contrasto con gli artt. 2, 3, 5, 6, 80, 114 e 117, secondo comma, lettera a), della Costituzione Ha inoltre censurato specificamente l’art. 4 della medesima legge regionale per violazione degli artt. 81, terzo e quarto comma, 117, secondo comma, lettere g) ed e), e 118, primo comma, Cost.
1.1.– In via preliminare va confermata l’ordinanza dibattimentale allegata alla presente sentenza che ha dichiarato inammissibile l’intervento.
1.2.– La legge regionale impugnata è composta da cinque articoli.
L’art. 1, rubricato «Minoranza Nazionale», prevede che al «popolo veneto» – individuato tramite il rinvio agli artt. 1 e 2 della legge regionale statutaria 12 aprile 2012, n. 1 (Statuto del Veneto) e comprensivo delle comunità etnico-linguistiche cimbre e ladine e delle «comunità legate storicamente e culturalmente o linguisticamente al popolo veneto anche al di fuori del territorio regionale» – «spettano i diritti» di cui alla Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, fatta a Strasburgo il 1° febbraio 1995, ratificata e resa esecutiva con la legge 28 agosto 1997, n. 302.
L’art. 2 stabilisce che la «legge si attua a tutti gli ambiti» previsti dalla medesima convenzione-quadro secondo i criteri e le modalità determinati dalla Giunta regionale e «senza oneri a carico della Regione».
L’art. 3 individua «l’Aggregazione delle associazioni maggiormente rappresentative degli enti ed associazioni di tutela della identità, cultura e lingua venete, da costituirsi presso la Giunta regionale» quale soggetto incaricato «della raccolta e valutazione delle dichiarazioni spontanee» di appartenenza alla minoranza nazionale veneta. Alla Giunta regionale spetta il compito di monitorare le attività svolte dal nuovo ente.
L’art. 4 si occupa degli aspetti finanziari, prevedendo che tutte le spese relative alla attuazione della legge impugnata nel territorio regionale «sono a carico e deliberate da ciascuna amministrazione centrale o periferica chiamata ad attuarla […] eventualmente con perequazione dell’amministrazione centrale».
L’art. 5, infine, ne stabilisce l’entrata in vigore, a partire dal giorno successivo alla sua pubblicazione.
1.3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri formula tre ordini di censure in relazione all’intero testo della legge regionale n. 28 del 2016.
In primo luogo, il ricorrente ritiene violati gli artt. 5, 6 e 114 Cost., in quanto la popolazione riferibile a uno degli enti esponenziali della Repubblica non potrebbe per ciò solo essere qualificata come “minoranza nazionale”, distinta e contrapposta rispetto alla maggioranza del popolo italiano. Il principio di unità e indivisibilità sancito dagli artt. 5 e 114 Cost. impedirebbe di rappresentare la Repubblica come «una somma materiale di minoranze» e, in ogni caso, le minoranze nazionali non potrebbero coincidere con le componenti personali delle articolazioni della Repubblica stessa, quali sono le Regioni.
In secondo luogo, il ricorrente denuncia il contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost. perché riconoscere una minoranza sarebbe possibile e necessario solo quando in mancanza di tale riconoscimento si negherebbe l’identità collettiva del gruppo, parificando giuridicamente una situazione collettiva connotata da marcate particolarità culturali alla condizione della generalità del popolo. Nel caso di specie, tuttavia, non ricorrerebbero le circostanze che sole giustificano e richiedono il riconoscimento di una minoranza veneta.
In terzo luogo, il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che il legislatore regionale non sia competente ad adottare la legge impugnata, in quanto l’attuazione della Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali rientrerebbe nella competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «politica estera e rapporti internazionali dello Stato» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost. Inoltre, la Regione Veneto solo formalmente si sarebbe basata sulla legge nazionale di ratifica della convenzione-quadro, ma in realtà avrebbe a tutti gli effetti emanato una propria particolare legge di ratifica, con conseguente violazione dell’art. 80 Cost.
1.4.– In caso di mancato accoglimento delle censure relative alla legge regionale n. 28 del 2016 nella sua interezza, il Presidente del Consiglio dei ministri denuncia distintamente anche il solo art. 4, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., relativo alla materia «organizzazione amministrativa dello Stato», in quanto le Regioni non potrebbero porre a carico di organi e amministrazioni dello Stato compiti ulteriori rispetto a quelli individuati con legge statale. La medesima disposizione violerebbe inoltre l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., relativo alla materia «perequazione delle risorse finanziarie», perché sarebbe vietato alla legge regionale prevedere «il riequilibrio tra le disponibilità finanziarie dei diversi livelli di governo dotati di differente capacità fiscale». Infine, la disposizione censurata non rispetterebbe i principi contenuti nell’art. 81, terzo e quarto comma, e nell’art. 118, primo comma, Cost., dato che la legge regionale impugnata non quantifica le spese né individua i mezzi con cui farvi fronte, e comunque addossa illegittimamente alle amministrazioni statali nuovi oneri amministrativi e finanziari.
2.– La difesa regionale eccepisce preliminarmente l’inammissibilità del ricorso per carenza di lesività della legge regionale impugnata.
L’eccezione non è fondata.
La legge della Regione Veneto n. 28 del 2016 qualifica il «popolo veneto» come “minoranza nazionale” degna di tutela ai sensi della convenzione-quadro e impegna le amministrazioni centrali e periferiche a rendere effettiva tale tutela; essa prevede, inoltre, l’istituzione di un nuovo ente regionale incaricato di raccogliere e valutare le dichiarazioni individuali di appartenenza a tale minoranza. Diversamente da quanto ritenuto dalla difesa regionale, non si tratta di semplici aspirazioni o di enunciati meramente ottativi, ma di precetti a contenuto normativo, sicché l’eccezione di inammissibilità basata sulla carenza di lesività dell’atto impugnato deve essere respinta (si veda analogamente, da ultima, la sentenza n. 245 del 2017).
Né, d’altra parte, i contenuti della legge regionale impugnata potrebbero mai essere interpretati, secondo quanto prospettato dalla resistente, come semplice espressione di una richiesta, rivolta allo Stato, di dare effettiva attuazione alla Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali nel territorio della Regione Veneto. In proposito, va ricordato anzitutto che lo Stato ha già ratificato e recepito la convenzione-quadro con la legge n. 302 del 1997. In ogni caso, lo strumento di cui ogni Regione dispone per stimolare l’intervento dello Stato negli ambiti di sua competenza non è certo l’approvazione di una legge regionale, ma è piuttosto l’iniziativa legislativa delle leggi statali attribuita a ciascun Consiglio regionale dall’art. 121 Cost. È a tale facoltà che la Regione avrebbe dovuto fare ricorso se l’intendimento effettivamente perseguito fosse stato quello di sollecitare il legislatore statale ad adottare ulteriori atti di sua competenza in materia di tutela delle minoranze, volti alla «custodia e alla valorizzazione di patrimoni di sensibilità collettiva vivi e vitali» nel territorio regionale, come affermato nelle memorie del Veneto, richiamandosi alle parole di questa Corte (sentenza n. 170 del 2010).
3.– Nel merito, le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto l’intera legge regionale n. 28 del 2016 sono fondate.
3.1.– Per inquadrare correttamente le questioni sottoposte all’esame della Corte, occorre premettere che la tutela delle minoranze – garantita dall’art. 6 Cost. con specifico riferimento alle minoranze linguistiche – è espressione dei fondamentali principi del pluralismo sociale (art. 2 Cost.) e dell’eguaglianza formale e sostanziale (art. 3 Cost.), che conformano l’intero ordinamento costituzionale e che per questo sono annoverati tra i suoi principi supremi (sentenze n. 88 del 2011, n. 159 del 2009, n. 15 del 1996 e n. 62 del 1992).
L’aspetto linguistico al quale si riferisce l’art. 6 Cost., e su cui questa Corte è stata più frequentemente chiamata a pronunciarsi, è «un elemento […] di importanza basilare» che, insieme a quello nazionale, etnico, religioso e culturale, contribuisce a definire la «identità individuale e collettiva» dei singoli e dei gruppi (sentenze n. 159 del 2009, n. 15 del 1996 e n. 261 del 1995). Tale identità è l’oggetto della tutela approntata, oltre che dai citati principi costituzionali, anche da sempre più numerosi documenti internazionali (si vedano ad esempio gli ampi riferimenti contenuti nelle sentenze n. 159 del 2009, n. 15 del 1996 e n. 62 del 1992). Pertanto, nella giurisprudenza di questa Corte, la tutela delle minoranze linguistiche di cui all’art. 6 Cost. è considerata espressione paradigmatica di una più ampia e articolata garanzia delle identità e del pluralismo culturale, i cui principi debbono ritenersi applicabili a tutte le minoranze, siano esse religiose, etniche o nazionali, oltre che linguistiche.
3.2.– Deve essere condivisa l’osservazione della Regione resistente circa il fatto che la tutela delle minoranze richiede «l’apprestamento sia di norme ulteriori di svolgimento, sia di strutture o istituzioni finalizzate alla loro concreta operatività» (sentenze n. 159 del 2009, n. 15 del 1996, n. 62 del 1992 e n. 28 del 1982), in presenza delle quali soltanto i principi proclamati dall’art. 6 Cost. e dai rilevanti accordi internazionali possono acquisire concreta effettività.
In ordine alla titolarità dei poteri esercitabili a tale scopo, questa Corte in un primo momento ha affermato che solo il legislatore statale fosse abilitato a dettare norme sulla tutela delle minoranze, in ragione di inderogabili esigenze di unità e di eguaglianza (sentenze n. 14 del 1965, n. 128 del 1963, n. 46 e n. 1 del 1961 e n. 32 del 1960). Successivamente, questa Corte ha ritenuto che anche i legislatori regionali e provinciali potessero adottare atti normativi in materia, specialmente al fine di garantire e valorizzare l’identità culturale e il patrimonio storico delle proprie comunità, ma sempre nel pieno rispetto di quanto determinato in materia dal legislatore statale (sentenze n. 261 del 1995, n. 289 del 1987 e n. 312 del 1983).
La giurisprudenza costituzionale più recente è chiara nell’affermare che la tutela delle minoranze è refrattaria a una rigida configurazione in termini di “materia” da collocare in una delle ripartizioni individuate nel Titolo V della seconda parte della Costituzione e che la sua attuazione in via di legislazione ordinaria richiede tanto l’intervento del legislatore statale, quanto l’apporto di quello regionale (sentenza n. 159 del 2009). Infatti, i principi contenuti negli artt. 2, 3, e 6 Cost. si rivolgono sempre alla “Repubblica” nel suo insieme e pertanto impegnano tutte le sue componenti – istituzionali e sociali, centrali e periferiche – nell’opera di promozione del pluralismo, dell’eguaglianza e, specificamente, della tutela delle minoranze; sicché, sul piano legislativo, l’attuazione di tali principi esige il necessario concorso della legislazione regionale con quella statale.
Nondimeno, il compito di determinare gli elementi identificativi di una minoranza da tutelare non può che essere affidato alle cure del legislatore statale, in ragione della loro necessaria uniformità per l’intero territorio nazionale. Inoltre, il legislatore statale si trova nella posizione più favorevole a garantire le differenze proprio in quanto capace di garantire le comunanze e risulta, perciò, in grado di rendere compatibili pluralismo e uniformità (sentenza n. 170 del 2010), anche in attuazione del principio di unità e indivisibilità della Repubblica di cui all’art. 5 Cost.
In questa cornice debbono intendersi le affermazioni contenute nella sentenza n. 170 del 2010 – relative alla tutela delle minoranze linguistiche, ma da estendersi, per le ragioni sopra esposte, alla più generale tutela dei gruppi minoritari – secondo le quali non è consentito al legislatore regionale configurare o rappresentare la “propria” comunità in quanto tale come “minoranza”, «essendo del tutto evidente che, in linea generale, all’articolazione politico-amministrativa dei diversi enti territoriali all’interno di una medesima più vasta, e composita, compagine istituzionale non possa reputarsi automaticamente corrispondente – né, in senso specifico, analogamente rilevante – una ripartizione del “popolo”, inteso nel senso di comunità “generale”, in improbabili sue “frazioni”» (sentenza n. 170 del 2010). Riconoscere un tale potere al legislatore regionale significherebbe, infatti, introdurre un elemento di frammentazione nella comunità nazionale contrario agli artt. 2, 3, 5 e 6 Cost.
Lasciata, dunque, in disparte ogni considerazione circa la compatibilità della legge regionale impugnata con lo specifico contenuto della Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, a cui essa si richiama – la quale peraltro contiene principalmente un elenco di diritti di natura individuale, ma non configura diritti collettivi dei gruppi minoritari – la legge regionale impugnata, nel qualificare il «popolo veneto» come “minoranza nazionale” ai sensi della citata convenzione-quadro, contrasta con i principi sviluppati nella giurisprudenza di questa Corte in materia.
Ne consegue la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’intero testo della legge regionale n. 28 del 2016, in riferimento agli artt. 2, 3, 5 e 6 Cost.
3.3.– Restano assorbiti gli altri profili di censura.


per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile l’intervento di «Aggregazione Veneta – Aggregazione delle associazioni maggiormente rappresentative degli enti ed associazioni di tutela della identità, cultura e lingue venete» e di L. P.;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Veneto 13 dicembre 2016, n. 28 (Applicazione della convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 marzo 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Marta CARTABIA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 20 aprile 2018.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
Allegato:
ordinanza letta all'udienza del 20 marzo 2018
ORDINANZA
Ritenuto che il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso un giudizio di legittimità costituzionale (r.r. n. 16 del 2017) avverso la legge della Regione Veneto 13 dicembre 2016, n. 28 (Applicazione della convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali), in relazione all'intero testo e all'art. 4;
che in questo giudizio hanno depositato, in data 6 aprile 2017, un atto di intervento l'associazione «Aggregazione Veneta - Aggregazione delle associazioni maggiormente rappresentative degli enti ed associazioni di tutela della identità, cultura e lingua venete», in persona del suo legale rappresentante L.P., unitamente allo stesso L.P. in proprio;
che le parti private intervenienti hanno eccepito la tardività e l'infondatezza del ricorso;
Considerato che il giudizio di legittimità costituzionale in via principale si svolge esclusivamente tra soggetti titolari di potestà legislativa e non ammette l'intervento di soggetti che ne siano privi, fermi restando per costoro, ove ne ricorrano i presupposti, gli altri mezzi di tutela giurisdizionale eventualmente esperibili (si veda, da ultima e per tutte, la sentenza n. 5 del 2018).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile l'intervento di «Aggregazione Veneta - Aggregazione delle associazioni maggiormente rappresentative degli enti ed associazioni di tutela della identità, cultura e lingua venete» e L. P. nel giudizio promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con l'indicato ricorso r.r. n. 16 del 2017.

sabato 23 giugno 2018

Comunicazione dell’ANPAL(Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro) 23 maggio 2018, n. 6202, Cittadini extracomunitari richiedenti lo status di rifugiato: iscrizione al CPI, status di disoccupazione e accesso alle politiche attive del lavoro


A seguito di diverse richieste di chiarimento in merito al requisito della “residenza” e alla possibilità per i cittadini extracomunitari richiedenti lo status di rifugiato di accedere ai servizi e alle misure di politica attiva del lavoro, acquisito il parere della Direzione Generale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, si rappresenta quanto segue. 

L’articolo 11, comma 1, lett. c) del D.Lgs. n. 150/2015 prevede la “disponibilità dei servizi e misure di politica attiva del lavoro a tutti i residenti sul territorio italiano, a prescindere dalla regione o provincia autonoma di riferimento”. 

L’articolo 5, comma 3, del D.Lgs. 142/2015, prevede che per il richiedente [protezione internazionale] accolto nei centri o strutture […] a cui è rilasciato il permesso di soggiorno ovvero la ricevuta di richiesta, il centro o la struttura rappresenta luogo di dimora abituale ai fini della iscrizione anagrafica. 

Poiché tale norma riveste il carattere di lex specialis con riferimento a questa specifica categoria di soggetti particolarmente vulnerabili, il requisito della residenza anagrafica per l’accesso ai servizi e alle misure di politica attiva del lavoro erogati dai Centri per l’impiego– previsto dall’articolo 11 del D.Lgs. 150/2015 – per i richiedenti/titolari protezione internazionale è soddisfatto dal luogo di dimora abituale. 

Sullo stesso argomento, inoltre, l’articolo 6, comma 7 del Testo Unico dell’immigrazione (D.Lgs. 286/1998) prevede che la dimora dello straniero si considera abituale anche in caso di documentata ospitalità da più di tre mesi presso un centro di accoglienza e, pertanto, legittima la richiesta di iscrizione anagrafica presso il Comune dove si trova il centro. 

In definitiva, il requisito della residenza, previsto dall’articolo 11 del D.Lgs. 150/2015, necessario al fine di accedere ai servizi e alle misure di politica attiva, può essere equiparato, per i titolari/richiedenti protezione internazionale, alla dimora abituale.

Questa interpretazione appare, peraltro, in linea con quanto previsto dall’art. 22, comma 1, del D.Lgs. 142/2015, laddove è previsto che il permesso di soggiorno per richiesta asilo […] consente di svolgere attività lavorativa, trascorsi sessanta giorni dalla presentazione della domanda. A fortiori, dovrà essere consentito l’accesso ai servizi e alle misure di politica attiva del lavoro erogati dai CPI.




Richiesta della cittadinanza avanzata dal rappresentante legale dell’interdetto

Parere 2018

Ritenere che i diritti personalissimi, quale il mutamento della cittadinanza, non possano essere rappresentati dal tutore e dal legale rappresentante ma richiedano la manifestazione di volontà da parte del diretto interessato comporta, inevitabilmente, la negazione di un diritto personalissimo, quale il diritto al mutamento della cittadinanza, ai soggetti disabili, incapaci di intendere e di volere, determinando in tal modo una forma di loro immodificabile emarginazione sociale.

            E’ illegittimo il diniego della cittadinanza sorretto dalla motivazione suddetta (=che i diritti personalissimi non possano essere rappresentati dal tutore e dal legale rappresentante ma richiedano la manifestazione di volontà da parte del diretto interessato), in quanto i principi espressi dalla Corte costituzionale e l’ orientamento del Consiglio di Stato, seppur esternati con riferimento alla prestazione del giuramento da parte del disabile, si devono ritenere applicabili, per le stesse ragioni, all’istanza di concessione della cittadinanza [“Invero” , aggiunge il Collegio, “se a causa della presenza di gravi patologie psichiche, venisse negata all’incapace la possibilità di richiedere tramite il proprio tutore, la cittadinanza italiana, parimenti si determinerebbe una forma di emarginazione, anche rispetto agli altri famigliari, che irragionevolmente escluderebbe il portatore di gravi disabilità dalla possibilità di accesso alla cittadinanza”]





Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dalla signora -OMISSIS-, nella qualità di tutrice e rappresentante legale del fratello signor -OMISSIS-, per l’annullamento del provvedimento del Ministero dell’interno con il quale è stata respinta la richiesta di concessione della cittadinanza italiana, presentata dalla ricorrente in nome e per conto del fratello signor -OMISSIS-.
LA SEZIONE
Vista la relazione 25 gennaio 2018 trasmessa con nota del 12 febbraio 2018 n. 1027, con la quale il Ministero dell’interno - Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione - ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sul ricorso;
visto il ricorso, datato 17 gennaio 2011;
esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Antimo Prosperi.

Premesso.
1. Ricorre in questa sede la signora -OMISSIS- nella qualità di tutrice e rappresentante legale del fratello signor -OMISSIS-, avverso il provvedimento del Ministero dell’Interno del 6 settembre 2010 n. K10.83443 con il quale è stata respinta la domanda di concessione della cittadinanza italiana presentata in data -OMISSIS-, ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett. f) della legge 5 febbraio 1992 n. 91, dalla stessa signora -OMISSIS- in nome e per conto del fratello signor -OMISSIS-, invalido al -OMISSIS- e -OMISSIS-
Il provvedimento di rigetto della domanda si fonda sul presupposto che l’interessato, in condizione di totale incapacità, “non può operare una scelta che modifica il suo status di cittadino”. In particolare, il provvedimento impugnato riporta che: “la condizione di incapacità di intendere e di volere di un soggetto comporta l’inidoneità dello stesso a formulare una consapevole manifestazione di volontà diretta all’acquisto della cittadinanza italiana, che non è suscettibile di essere surrogata dal rappresentante legale o dal tutore”.
La ricorrente, cittadina italiana, ha chiesto la concessione della cittadinanza per il fratello-OMISSIS-che, secondo quanto risulta dalla documentazione in atti, è da lungo tempo residente in Italia, è invalido civile al -OMISSIS-, è stato dichiarato interdetto con sentenza del Tribunale di Ravenna del 25 febbraio 2003 per totale incapacità di intendere e di volere, è a carico della madre -OMISSIS-, anch’essa divenuta cittadina italiana.
La ricorrente afferma che la posizione del Ministero dell’interno, secondo cui il soggetto incapace di intendere e di volere non può essere rappresentato dal rappresentante legale o dal curatore, nella richiesta di concessione della cittadinanza italiana, “sarebbe ... manifestamente contraria ai principi della Carta Costituzionale, in particolare all’art. 3”; infatti, sempre secondo la ricorrente, “tale divieto risulta gravemente discriminatorio nei confronti di una persona che, a causa di una grave invalidità psico-fisica, non può beneficiare di un diritto riconosciuto, al contrario, a chiunque altro che sia in possesso dei suoi stessi requisiti (residenza legale, da almeno 10 anni nel territorio della Repubblica Italiana) ma che non versi in condizioni di incapacità”.
2. Il Ministero riferente rappresenta che i mutamenti dello status civitatis possono intervenire solo a seguito di una dichiarazione del soggetto direttamente interessato, che sia in possesso della capacità di agire, rientrando la cittadinanza fra i diritti personalissimi, e che dall’istruttoria esperita è emerso che il Tribunale di Ravenna ha dichiarato l’interdizione del signor -OMISSIS- per totale incapacità di intendere e di volere.
Pertanto, l’Amministrazione esprime l’avviso che il ricorso sia infondato.

Considerato:

3. Prima di entrare nel merito della doglianze contenute nel ricorso, al fine del corretto inquadramento della materia che investe il tema sensibile e delicato dei diritti della persona, la Sezione ritiene di dover richiamare al riguardo una recente pronuncia della Corte Costituzionale (cfr. Corte Cost., sentenza n. 258/2017), nonché l’orientamento già espresso in materia dal Consiglio di Stato e dalla Corte di Cassazione.
4. La Corte Costituzionale ha affermato che: “L’art. 2 Cost. nell'imporre alla Repubblica il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili, ‘sia come singolo, sia nelle formazioni ove si svolge la sua personalità’, delinea un fondamentale principio che pone al vertice dell'ordinamento la dignità e il valore della persona.
In coerenza con tale prospettiva, l'art. 2 Cost. non può essere disgiunto dall'art. 3, secondo comma, Cost., il quale affida alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono la libertà e l'uguaglianza nonché il pieno sviluppo della persona.
Tale lettura si collega, anche se non espressamente evocato nell'ordinanza del rimettente, al primo comma del medesimo articolo che, a protezione della stessa inviolabilità dei diritti, garantisce il principio di eguaglianza a prescindere dalle ‘condizioni personali’. Come questa Corte ha già più volte statuito, sebbene l'art. 3 si riferisca espressamente ai soli cittadini, la norma in esso contenuta vale pure per lo straniero "quando trattisi di rispettare [...] diritti fondamentali" (sentenza n. 120 del 1967), ancor più quando, come nel caso di specie, trattasi di uno straniero cui sia stata concessa la cittadinanza e che deve solo adempiere una condizione per l'acquisizione della stessa.
Fra le condizioni personali che limitano l'eguaglianza si colloca indubbiamente la condizione di disabilità. Tale fenomeno è espressamente considerato dalla Costituzione: assume esplicito rilievo nell'art. 38 Cost. che, al primo comma, riconosce il diritto all'assistenza sociale per gli inabili al lavoro, mentre al terzo comma riconosce agli "inabili" e ai "minorati" il diritto all'educazione e alla formazione professionale.
I summenzionati principi sono stati attuati dalla L. 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), che disegna il fondamentale quadro normativo in materia di disabilità, volto non solo a prestare assistenza ma anche a favorire l'integrazione sociale del disabile. Tale disciplina, come ha avuto modo di sottolineare questa Corte, ha segnato un ‘radicale mutamento di prospettiva rispetto al modo stesso di affrontare i problemi delle persone affette da invalidità, considerati [...] quali problemi non solo individuali, ma tali da dover essere assunti dall'intera collettività’ (sentenza n. 167 del 1999). Le condizioni invalidanti, come dispone l'art. 1 della citata legge, sono ostacoli che la Repubblica ha il compito di rimuovere per consentire la "massima autonomia possibile" del disabile e il pieno esercizio dei diritti fondamentali.
Su tale compito promozionale, imposto dalla Costituzione ai pubblici poteri, è tornata questa Corte la quale, con riferimento al diritto all'istruzione del portatore di disabilità, ha rimarcato che sul tema della condizione giuridica dello stesso "confluiscono un complesso di valori che attingono ai fondamentali motivi ispiratori del disegno costituzionale" (sentenze n. 275 del 2016 e n. 215 del 1987), in vista del processo di inserimento nella società (sentenza n. 80 del 2010).
9.- Tale inserimento, ove siano soddisfatte le altre condizioni previste dalla legge che regola l'acquisizione della cittadinanza, è evidentemente impedito dall'imposizione normativa del giuramento alla persona che, in ragione di patologie psichiche di particolare gravità, sia incapace di prestarlo. La necessità di esso, e la mancata acquisizione della cittadinanza che, in sua assenza, ne consegue, può determinare una forma di emarginazione sociale che irragionevolmente esclude il portatore di gravi disabilità dal godimento della cittadinanza, intesa quale condizione generale di appartenenza alla comunità nazionale. Può inoltre determinare una ulteriore e possibile forma di emarginazione, anche rispetto ad altri familiari che abbiano conseguito la cittadinanza.
Va, pertanto, dichiarata l'illegittimità costituzionale della disposizione censurata, nella parte in cui non esonera dal giuramento il disabile incapace di soddisfare tale adempimento in ragione di una grave e accertata condizione di disabilità.
L'esonero dal giuramento deve operare a prescindere dal "tipo" di incapacità giuridicamente rilevante. Ciò che rileva è l'impossibilità materiale di compiere l'atto in ragione di una grave patologia, non rilevando la precipua condizione giuridica in cui versa il disabile…”.
In conclusione, la Corte Costituzionale ha dichiarato “l’illegittimità dell’art, 10 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza), nella parte in cui non prevede che sia esonerata dal giuramento la persona incapace da soddisfare tale adempimento in ragione di grave e accertata condizione di disabilità”.
5. Questa Sezione con un parere risalente reso nel 1987 – richiamato nella sopra citata sentenza della Corte Costituzionale – sempre con riguardo al caso di una persona interdetta per la quale era stata richiesta la concessione della cittadinanza italiana, ha sostenuto che non dovrebbe essere richiesto il giuramento all’interdetto quale condizione per l’acquisizione della cittadinanza in quanto atto personalissimo non delegabile al tutore (cfr. Cons. Stato, sez. I, parere del 13 marzo 1987, n. 261/85).
In linea con il predetto orientamento del Consiglio di Stato, il Tribunale di Bologna con sentenza del 9 gennaio 2009 e, successivamente, il Tribunale di Mantova con decreto del 2 dicembre 2010, hanno esonerato dal giuramento previsto dall’art. 10 della legge n. 91 del 1992 l’incapace richiedente la cittadinanza italiana non in grado di esprimere la propria volontà in tal senso.
6. La Corte di Cassazione, sia pure con riferimento ad una fattispecie diversa, considerato che a norma dell’art. 357 cod. civ. “il tutore ha la cura della persona”, ha affermato che il decreto di nomina del tutore contiene anche l’indicazione degli atti che quest’ultimo è legittimato a compiere a tutela degli interessi anche di natura non patrimoniale del beneficiario, ovvero in materie attinenti ad interessi prettamente personali (cfr. Cass. Civ., sez. I, ordinanza del 20 aprile 2005, n. 8291 e sentenza del 16 ottobre 2007 n. 21748/07).
7. Nel caso di specie, l’istanza di concessione della cittadinanza italiana, presentata in nome e per conto dell’interessato della sorella in qualità di tutrice e legale rappresentante, è stata respinta “perché l’interessato, continuando a versare nelle condizioni di totale incapacità non può operare una scelta che modifica il suo status di cittadino” (cfr. preambolo del decreto impugnato).
L’Amministrazione, nel denegare la concessione della cittadinanza italiana - nonostante la presenza degli altri requisiti di legge, come lo stesso Ministero dell’interno riconosce nella nota inviata al signor -OMISSIS- il 20 maggio 2010 – ha ritenuto che i diritti personalissimi, quale il mutamento della cittadinanza, non possono essere rappresentati dal tutore e dal legale rappresentante ma richiedono la manifestazione di volontà da parte del diretto interessato.
La conseguenza di una siffatta valutazione comporta tuttavia, inevitabilmente, la negazione di un diritto personalissimo, quale il diritto al mutamento della cittadinanza, ai soggetti disabili, incapaci di intendere e di volere, determinando in tal modo una forma di loro immodificabile emarginazione sociale.
Il provvedimento adottato dall’Amministrazione si pone quindi in contrasto con la citata sentenza della Corte Costituzionale e con il richiamato orientamento di questa Sezione i cui principi, sia pure espressi con riguardo alla prestazione del giuramento da parte del disabile, si devono ritenere applicabili, per le stesse ragioni, all’istanza di concessione della cittadinanza.
Invero, se a causa della presenza di gravi patologie psichiche, venisse negata all’incapace la possibilità di richiedere tramite il proprio tutore, la cittadinanza italiana, parimenti si determinerebbe una forma di emarginazione, anche rispetto agli altri famigliari, che irragionevolmente escluderebbe il portatore di gravi disabilità dalla possibilità di accesso alla cittadinanza.
8. D’altra parte, il provvedimento impugnato difetta di adeguata motivazione nella parte in cui non considera, in relazione alla richiesta formulata dal tutore dell’-OMISSIS-le specifiche circostanze di fatto, pur evidenti in atti, che fanno propendere per la potenziale coincidenza della valutazione del tutore con quella dell’-OMISSIS-
In particolare, gli elementi di fatto per cui il signor -OMISSIS- è residente in Italia da lungo tempo, è invalido civile al -OMISSIS- e -OMISSIS-ha sempre seguito la famiglia, essendo a carico della madre -OMISSIS-, divenuta anch’essa cittadina italiana, riceve in Italia tutte le cure e l'assistenza di cui ha bisogno, anche da parte della famiglia, avrebbero dovuto essere adeguatamente valutati dall’Amministrazione.
Di tale valutazione, invece, non vi è traccia nel provvedimento gravato.
9. Né, per le ragioni suddette, può risultare di ostacolo alla concessione della cittadinanza la circostanza che l’interdetto non sarebbe comunque in grado di prestare il giuramento previsto dall’art. 10 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, dal momento che tale norma è stata dichiarata costituzionalmente illegittima “nella parte in cui non prevede che sia esonerata dal giuramento la persona incapace di soddisfare tale adempimento in ragione di grave e accertata condizione di disabilità” (cfr. Corte Cost., sentenza n. 258/2017).
10. In conclusione, alla stregua delle considerazioni sopra esposte, il ricorso va accolto, con il conseguente annullamento del provvedimento impugnato, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione.
P.Q.M.
esprime il parere che il ricorso straordinario in oggetto debba essere accolto, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione.







L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE F/F

Antimo Prosperi
Dante D'Alessio