martedì 31 luglio 2018



Cons. di Stato, Comm. spec, 31 luglio 2018, n. 1991/2018 (adunanza del 18 luglio 2018, n. 1298/2018), Ministero della salute . Richiesta di parere in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento

LA COMMISSIONE SPECIALE del 18 luglio 2018
Vista la relazione n. 7237 del 15 giugno 2018 con la quale il Ministero della salute ha formulato taluni quesiti al Consiglio di Stato in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento;
Esaminati gli atti e uditi i relatori Vincenzo Neri e Giulia Ferrari;

1. Il quesito.
Il Ministero della salute, con richiesta del 22 giugno 2018, formula taluni quesiti che hanno ad oggetto la prevista istituzione della banca dati nazionale, ex art. 1, comma 418, l. n. 205/2017, destinata alla registrazione delle disposizioni anticipate di trattamento (c.d. DAT).
Nella richiesta si evidenzia la necessità di interpretare la norma ora richiamata coordinandola con l’art. 4 l. n. 219/2017 che, recando la disciplina delle disposizioni anticipate di trattamento, al comma 7 prevede: “le regioni che adottano modalità telematiche di gestione della cartella clinica o il fascicolo sanitario elettronico o altre modalità informatiche di gestione dei dati del singolo iscritto al Servizio sanitario nazionale possono, con proprio atto, regolamentare la raccolta di copia delle DAT, compresa l’indicazione del fiduciario, e il loro inserimento nella banca dati, lasciando comunque al firmatario la libertà di scegliere se darne copia o indicare dove esse siano reperibili”.


2. Il diritto alla salute, il consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento (DAT).
Il concetto di salute, oggi, non è più inteso esclusivamente come antitesi del concetto di malattia, ma assume, come rilevato dalla Corte di Cassazione, il significato più ampio di stato di completo benessere psico-fisico, parametrato e calibrato anche, e soprattutto, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, alle proprie concezioni di identità e dignità, nonché con un’idea di persona non accolta apoditticamente in astratto, bensì valutata giuridicamente nelle sue reali e concrete sfumature.
Il diritto alla salute e all’integrità psico-fisica è rimesso, dunque, in linea di principio, all’autodeterminazione del suo titolare: i trattamenti sanitari sono liberi. In base al secondo comma dell’art. 32 Cost., infatti, nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, se non nei casi stabiliti dalla legge.
Lo strumento attraverso il quale il diritto alla salute si concilia con il diritto alla libertà di autodeterminazione è il consenso informato. Per prestare un consenso pienamente informato l’interessato, capace di intendere e di volere, deve essere messo a conoscenza della patologia da cui è affetto, dei possibili sviluppi della malattia stessa, delle diverse opportunità terapeutiche e anche delle conseguenze e dei rischi di eventuali interventi terapeutici.
Il cammino verso la piena affermazione del diritto del paziente di esprimere il proprio consenso o il proprio rifiuto alle cure mediche è stato segnato da due vicende giuridiche note come il “caso Welby” ed il “caso Englaro”.
Nella prima vicenda, tralasciando le implicazioni etiche e bioetiche (perché esulano evidentemente dalla presente sede), occorreva, sotto un profilo giuridico, comprendere se il paziente, capace di intendere e di volere, potesse rifiutare il trattamento salvavita, in un momento successivo al suo inizio, decidendo di interromperlo con l’aiuto di un sanitario. Nonostante il fatto che il medico fosse stato indagato per omicidio del consenziente, il g.u.p., partendo dalla considerazione che il consenso informato è condizione di liceità dell’atto medico, ha ritenuto esistente la scriminante dell’adempimento del dovere, ex art. 51 c.p., prosciogliendo l’anestesista dall’accusa.
In particolare, il giudice penale, una volta ribadita l’esistenza di un diritto di rango costituzionale (art. 32 Cost.) all’autodeterminazione consapevole del paziente capace di intendere e di volere, ha affermato che tale diritto non può essere frustrato dall’esistenza di ‘‘disposizioni normative di fonte gerarchica inferiore a contenuto contrario’’, quali l’art. 5 cod. civ. e gli artt. 579 e 580 cod. pen., dal momento che esso ‘‘è ascrivibile tra i valori supremi destinati a costituire la matrice di ogni altro diritto della persona, alla stregua del diritto alla vita’’.
Diritto all’autodeterminazione e diritto alla vita, quindi, ‘‘contribuiscono, entrambi e ognuno per la sua parte, a costituire il nucleo fondamentale dei diritti della persona che il nostro ordinamento riconosce e tutela’’.
Con sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748, la Corte di Cassazione ha affrontato – in relazione alla vicenda della giovane Eluana Englaro – il delicato problema della tutela del diritto all’autodeterminazione terapeutica del malato nei casi in cui questi, versando in uno stato vegetativo permanente, non sia più in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso sui trattamenti sanitari cui deve essere sottoposto.
La Corte, tracciando implicitamente i principi generali ai quali avrebbe dovuto attenersi la disciplina sulle disposizioni anticipate di trattamento, ha affermato: «il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: senza il consenso informato l'intervento del medico è, al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità, sicuramente illecito, anche quando è nell'interesse del paziente; la pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell'individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi. Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma - atteso il principio personalistico che anima la nostra Costituzione (la quale vede nella persona umana un valore etico in sé e guarda al limite del «rispetto della persona umana» in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell'integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive) e la nuova dimensione che ha assunto la salute (non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza) - altresì di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale».
Solo per completezza, occorre menzionare la sentenza della Terza sezione, 21 giugno 2017, n. 3058, con cui questo Consiglio ha, tra l’altro, precisato: «deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita. Benché sia stato talora prospettato un obbligo per l'individuo di attivarsi a vantaggio della propria salute o un divieto di rifiutare trattamenti o di omettere comportamenti ritenuti vantaggiosi o addirittura necessari per il mantenimento o il ristabilimento di essa, il Collegio ritiene che la salute dell'individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva. Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c'è spazio - nel quadro dell' "alleanza terapeutica" che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno - per una strategia della persuasione, perché il compito dell'ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c'è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c'è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico. Ciò posto, non v'è dubbio che l'idratazione e l'alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscono un trattamento sanitario. Esse, infatti, integrano un trattamento che sottende un sapere scientifico, che è posto in essere da medici, anche se poi proseguito da non medici, e consiste nella somministrazione di preparati come composto chimico implicanti procedure tecnologiche».
Dalle considerazioni che precedono emerge che il principio di autodeterminazione terapeutica – di cui sono proiezione sia la disciplina del consenso informato sia quella in materia di disposizioni anticipate di trattamento – trova conferma in una lettura di sistema dell’art. 32 Cost. con l’art. 13 Cost. e con le garanzie ivi previste (la doppia riserva, di legge e di giurisdizione, contro ogni forma di coazione sul corpo) per cui imporre un trattamento, pur vitale, contro la volontà del malato (e al di fuori delle ipotesi di trattamenti sanitari obbligatori imposti ex lege) determinerebbe la violazione della stessa libertà personale, risolvendosi tale coazione in un’indebita invasione dello spazio fisico del paziente; paziente che, sulla base proprio del tenore dell’art. 32, comma 2 Cost., è tutelato nel suo diritto individuale a non subire trattamenti medici indesiderati, in mancanza di una legge che sancisca l’obbligatorietà del trattamento.
La Convenzione Europea di Bioetica del 1997 (c.d. di Oviedo), dal canto suo, all’art. 5 stabilisce: “Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato.
Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso”.
L’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, d’altro canto, sancisce il diritto di ogni individuo alla propria integrità fisica e psichica precisando che nell’ambito della medicina e della biologia devono essere tra l’altro rispettati il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge, nonché il divieto delle pratiche eugenetiche. Tutto questo in un quadro in cui all’art. 1 si stabilisce che la dignità umana è inviolabile e deve essere rispettata e tutelata.
La legge 22 dicembre 2017, n. 219, contiene la prima ed organica disciplina sul consenso informato. All’art. 1 si afferma (conformemente ai principi espressi dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 448 del 2008) che la legge, nel rispetto dei principi di cui agli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione e degli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona.
Si stabilisce chiaramente che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito - tranne che nei casi espressamente previsti - se privo del consenso libero e informato, nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico.
Il comma 3 dell’articolo ora citato pone l’accento sul fatto che l’informazione deve essere esaustiva e comprensibile, con l’obiettivo che la relazione terapeutica, pur essendo asimmetrica, si mantenga umana, personale ed empatica, nonostante l’eccessivo tecnicismo della medicina e la “spersonalizzazione” dei rapporti che questo può comportare. La relazione terapeutica, per essere definita di cura, si deve dunque basare su una comunicazione chiara e completa tra i due soggetti. È, infatti, previsto espressamente che ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi.
Oltre al diritto di essere informati, è consacrato il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario e il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento.
La legge precisa poi quanto già affermato dalla Cassazione nel 2007, ovvero che sono trattamenti sanitari anche la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici. Il paziente può dare incarico ai familiari, ovvero a una persona di sua fiducia, di ricevere le informazioni ed anche di esprimere il consenso in sua vece, facendo così potenzialmente acquisire al terzo una sorta di “potere di rappresentanza” non trascurabile.
La novella del 2017 impone al medico di rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo, con la conseguenza che ciò lo esime da ogni eventuale responsabilità civile o penale (precisazione non superflua dopo il caso Welby). Nel caso di rifiuto di cure, il medico, avvertito il paziente delle conseguenze, deve comunque promuovere ogni azione di sostegno, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica; la norma ha il chiaro scopo di evitare che il rifiuto delle cure si traduca in un potenziale abbandono terapeutico.
Anche nelle situazioni di urgenza il medico è tenuto a rispettare la volontà del paziente se questi è in grado di manifestarla, altrimenti deve agire assicurando le cure necessarie.
Il sanitario inoltre, ai sensi dell’art. 2, deve adoperarsi per alleviare le sofferenze del paziente, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario, garantendo un’appropriata terapia del dolore.
Con le disposizioni anticipate di trattamento (DAT), invece, ciascun individuo, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, può decidere “ora per allora” su eventuali trattamenti sanitari che potrebbero riguardarlo e sui quali in futuro non sarà in condizione di prestare il consenso; ciò avviene manifestando la propria volontà mediante la redazione di un atto all’uopo previsto e nel rispetto delle previsioni di legge.
Le DAT hanno fatto ingresso nel nostro ordinamento con l’art. 4 della legge n. 219/2017, anche se da tempo conosciute dalla Convenzione di Oviedo (art. 9: i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione) e dai giuristi attraverso un’interpretazione estensiva, ad opera di una parte della giurisprudenza, dell’istituto giuridico dell’amministrazione di sostegno.
L’istituto delle DAT consiste, in altri termini, nell’espressione della volontà della persona fisica maggiorenne che enuncia, in un momento in cui è capace di intendere e di volere, i propri orientamenti sul "fine vita", in merito ai trattamenti sanitari, agli accertamenti diagnostici o alle scelte terapeutiche che intende o non intende accettare, volontà queste di cui il medico “è tenuto al rispetto” – secondo quanto previsto dal comma 5 dell’art. 4 - nell'ipotesi in cui sopravvenga una perdita della capacità di intendere e di volere e l’interessato non dovesse essere più in grado di esprimere le proprie determinazioni acconsentendo o non acconsentendo alle cure proposte.
L’art. 4 prima citato si occupa delle DAT prevedendo tre requisiti.
Il primo è relativo alla capacità del disponente: egli deve essere un soggetto maggiorenne e capace di intendere e di volere.
Il secondo requisito riguarda il presupposto in presenza del quale il soggetto può esprimere le proprie disposizioni: “in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi”.
Il terzo requisito riguarda il momento che precede le DAT: “dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte”.
Il disponente può indicare una persona di sua fiducia, denominata “fiduciario”, maggiorenne e capace di intendere e di volere, che ne faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie.
L’accettazione della nomina da parte del fiduciario avviene attraverso la sottoscrizione delle DAT o con atto successivo ad esse allegato.
Il fiduciario è, dunque, un mandatario (generalmente legato al dichiarante da vincoli di parentela, coniugio, affetto o amicizia) cui l’autore delle DAT assegna l’incarico di assicurare che tali dichiarazioni siano rispettate ove questi non sia più in grado d’autodeterminarsi a causa della patologia. Il mandato è revocabile ad nutum osservando le medesime forme stabilite per il suo conferimento. La sopravvenuta rinuncia, morte o incapacità del fiduciario non si ripercuote sull’efficacia delle DAT, giacché la nomina non partecipa della natura di elemento «strutturale» della fattispecie; in ogni caso, il giudice tutelare può nominare un amministratore di sostegno allorché le circostanze fattuali lo suggeriscano (comma 4).
Per quanto concerne la natura delle DAT, osserva la dottrina che si tratta di un negozio giuridico a contenuto non patrimoniale, unilaterale, non recettizio, sottoposto a condizione sospensiva che produrrà quindi i suoi effetti in un momento successivo, con la precisazione che, con riguardo alla nomina del fiduciario, la clausola di designazione è inefficace finché non è accettata da quest’ultimo, con sottoscrizione coeva o atto successivo. Giova ribadire che l’accettazione del fiduciario non è elemento di validità o efficacia delle DAT, in quanto queste ben possono non contenere designazione alcuna.
Ai sensi dell’art. 4, comma 5, il medico è tenuto al rispetto delle DAT, che tuttavia possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie, non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita. Nel caso di conflitto tra il medico e il fiduciario decide il giudice tutelare.
Con tali norme il legislatore ha preso esplicita posizione sulla rilevanza delle DAT. Prima della promulgazione della legge, infatti, la dottrina aveva chiarito l’esistenza di tre diversi possibili modelli teorici.
Per il primo, le DAT dovevano considerarsi vincolanti, in modo inderogabile, per il sanitario. Tale tesi, pur avendo il pregio di esaltare la volontà del paziente, tuttavia peccava per eccesso perché non consentiva alcuna discrezionalità al medico soprattutto nei casi in cui fossero sopravvenute nuove terapie non conosciute al momento dell’adozione delle DAT.
Per il secondo modello, invece, le DAT potevano semplicemente orientare il medico che però doveva, e poteva, scegliere liberamente quali trattamenti sanitari somministrare al paziente. La tesi evidentemente peccava per difetto svalutando la volontà del paziente e ponendosi al limite della legittimità costituzionale.
Ecco perché in dottrina era stata proposta la terza tesi - che sembra essere quella accolta dal Legislatore - che prevedeva la vincolatività delle DAT a meno che il sanitario, motivando adeguatamente, riscontrasse valide ragioni per discostarsene in tutto o in parte.
Per le DAT, a differenza del semplice consenso informato, è contemplata una maggiore rigidità nelle forme: devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata ovvero per scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza del disponente medesimo, che provvede all’annotazione in apposito registro, ove istituito, oppure presso le strutture sanitarie. Nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, le DAT possono essere espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi che permettano alla persona con disabilità di comunicare. Con le medesime forme esse sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento.
Il comma 7 stabilisce inoltre che “le regioni che adottano modalità telematiche di gestione della cartella clinica o il fascicolo sanitario elettronico o altre modalità informatiche di gestione dei dati del singolo iscritto al Servizio sanitario nazionale possono, con proprio atto, regolamentare la raccolta di copia delle DAT, compresa l’indicazione del fiduciario, e il loro inserimento nella banca dati, lasciando comunque al firmatario la libertà di scegliere se darne copia o indicare dove esse siano reperibili”.



3. La risposta ai quesiti formulati dal Ministero della salute.
La Commissione speciale, preliminarmente, evidenzia che la complessità del quadro normativo nonché talune espressioni non univoche utilizzate dal Legislatore potrebbero comportare concrete difficoltà applicative della legge n. 219/2017, tali da vanificare la rilevante portata innovativa delle relative disposizioni.
Pertanto, anche in applicazione dei tradizionali canoni di interpretazione della legge, il parere sui singoli quesiti avrà particolare riguardo alla necessità di dare effettiva attuazione ai precetti legislativi.
Sotto tale ultimo profilo appare anche essenziale dare adeguata pubblicità dell’istituzione della banca dati nazionale, analogamente a quanto testualmente previsto per le DAT dall’art. 4, comma 8 della legge n. 219/2017.

Primo quesito
Il Ministero, avanzando dubbi interpretativi dovuti alla parziale mancanza di coordinamento tra l’art. 4, comma 7, l. n. 219/2017 e l’art. 1, comma 418, l. n. 205/2017, chiede in particolare a questo Consiglio:
1. “se la banca dati, istituita presso questo Ministero, debba intendersi solo quale strumento finalizzato ad annotare ed attestare solo l’avvenuta espressione delle DAT nonché ad indicare ove la stessa sia reperibile, ovvero contenere essa stessa copia della disposizione anticipata di trattamento eventualmente resa”. Per il Ministero, “la prima interpretazione appare più aderente alla formulazione letterale della disposizione della legge di bilancio, ove si recita che la predetta banca dati è “destinata alla registrazione delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT)” e confortata dal raffronto della medesima con il testo dell’art 4, comma 7, della legge 22 dicembre 2017, n. 219, laddove si prevede espressamente che le regioni che adottano modalità informatiche di gestione dei dati del singolo iscritto al servizio sanitario nazionale (SSN) possono regolamentare “la raccolta di copia delle DAT, compresa l’indicazione del fiduciario, e il loro inserimento nella banca dati”. La seconda interpretazione, sempre per il Ministero, apparirebbe invece meramente desumile da una presunta – ma non esplicitata – intenzione del legislatore di assicurare una più estesa attuazione, con le disposizioni recate dalla legge di bilancio 2018, alla specifica normativa in materia di DAT”.
Al riguardo, il Consiglio osserva che è pur vero che il termine “registrazione” utilizzato nella legge di bilancio, confrontato con il termine “raccolta”, previsto dall’art. 4, comma 7, della legge n. 219/2017, potrebbe far propendere per un’interpretazione restrittiva, così come proposto dal Ministero richiedente; tuttavia detto termine sembra sia stato utilizzato dal Legislatore in senso atecnico, in quanto lo scopo indubbio della legge è quello di istituire un registro nazionale ove poter raccogliere le DAT.
Ciò del resto è confermato dalle seguenti considerazioni:
a) è vero che la tutela della salute, ex art. 117, comma 3, Cost., rientra nella potestà legislativa concorrente, ma è anche vero che, sulla base del quadro costituzionale sopra delineato, le DAT possono essere inquadrate, per un verso, nella materia dell’“ordinamento civile” di competenza esclusiva dello Stato (trattandosi di diritti fondamentali della persona umana) e, per altro verso, nella materia dei “livelli essenziali delle prestazioni”, anche questa di competenza esclusiva; conseguentemente il registro previsto dalla legge di bilancio, ad avviso del Consiglio, non può servire solo a registrare ciò che è stato raccolto dai registri regionali (che peraltro sono sostanzialmente facoltativi) o dai registri ex lege facoltativi istituiti presso i comuni né può limitarsi a contenere la semplice annotazione o registrazione delle DAT comunque esistenti; al contrario, tale registro nazionale deve svolgere l’importante compito di dare attuazione ai principi costituzionali prima ricordati – in un quadro di competenze legislative statali che per questo aspetto sono di tipo esclusivo – anche raccogliendo le DAT, consentendo, in tal modo, che le stesse siano conoscibili a livello nazionale ed evitando che abbiano una conoscibilità circoscritta al luogo in cui sono state rese. Il che vanificherebbe, con tutta evidenza, l’applicazione concreta della normativa;
b) peraltro, se il registro nazionale avesse unicamente il compito di registrare le DAT senza raccoglierle, vi sarebbe il concreto rischio di dar vita ad un sistema incompleto e privo di utilità: la legge 219/2017 - come si è visto - non prevede l’obbligatorietà né del registro regionale (le regioni “possono, con proprio atto, regolamentare la raccolta delle DAT”) né di quello comunale (l’art. 4, comma 6, parla di “apposito registro, ove istituito”), con la conseguenza che potrebbe mancare a livello locale un registro che raccolga le DAT; anche per tale ragione appare necessario un registro nazionale completo e efficiente, al quale gli interessati possono direttamente trasmettere le DAT che hanno reso;
c) è opportuno che siano raccolte anche le DAT delle persone non iscritte al SSN: se, infatti, il registro regionale può raccogliere solo le DAT degli iscritti al SSN, l’unico modo per garantire i medesimi diritti fondamentali della persona umana anche a coloro che non sono iscritti al SSN è l’istituzione di un effettivo ed efficiente registro nazionale.
Sul punto la Commissione speciale rileva che occorrerà prevedere, su richiesta dell’interessato, l’invio alla banca dati nazionale delle DAT da parte dell’ufficiale dello Stato civile o dalla struttura sanitaria ai quali sono state consegnate e del notaio che le ha ricevute. Detto incombente è necessario per consentire al medico, in caso di bisogno, di conoscere se il paziente ha reso o meno le disposizioni in questione.
In conclusione, la risposta al quesito è nel senso che la banca dati nazionale deve, su richiesta dell’interessato, poter contenere copia delle DAT stesse, compresa l’indicazione del fiduciario e l’eventuale revoca.

Secondo quesito
Col secondo quesito il Ministero chiede “se la banca dati nazionale sia destinata al solo“ … iscritto al SSN …” cui si rivolgono le banche dati regionali ovvero ad ogni persona maggiorenne anche se non iscritta al SSN come sembra doversi dedurre dalla diversa terminologia utilizzata dal legislatore nei due casi”. Per l’Autorità di governo la seconda interpretazione sarebbe più aderente alla normativa di riferimento.
Come anticipato in occasione della risposta al primo quesito, il Consiglio di Stato è dell’opinione che i principi costituzionali prima ricordati vadano nella direzione di imporre una lettura estensiva, aprendo il registro nazionale anche a tutti coloro che non sono iscritti al SSN. La tutela costituzionale garantita a questo diritto, infatti, non permette di subordinare il riconoscimento alla suddetta iscrizione.

Terzo quesito
Il terzo dubbio interpretativo formulato è “se sia esclusa – alla luce della lettura coordinata delle disposizioni richiamate – la possibilità di imporre, ai fini di conservazione elettronica, la standardizzazione delle DAT, la cui formulazione, sia pure con l’avallo dei notai o degli Ufficiali dello Stato civile, sembra doversi consentire senza schemi preordinati, configurandosi le stesse come atti a contenuto libero”.
In ordine a tale quesito, il Consiglio esprime il parere che, in via generale, vada mantenuta la possibilità di rendere le DAT senza un particolare vincolo di contenuto: l’interessato deve poter scegliere di limitarle solo ad una particolare malattia, di estenderle a tutte le future malattie, di nominare il fiduciario o di non nominarlo, ecc.
Sotto tale profilo può essere utile un atto di indirizzo – eventualmente adottato all’esito di un tavolo tecnico con il Ministero della giustizia, il Consiglio nazionale del notariato e il Ministero dell’interno – che indichi alcuni contenuti che possono essere presenti nelle DAT, allo scopo di guidare gli interessati sulle scelte da effettuare. Spetterà poi al Ministero di mettere a disposizione un modulo tipo, il cui utilizzo è naturalmente facoltativo, per facilitare il cittadino, non necessariamente esperto, a rendere le DAT.
Conclusivamente è da escludere la possibilità di prevedere una vera e propria standardizzazione delle DAT a fini di conservazione elettronica.

Quarto quesito
Col quarto quesito - considerato che, ai sensi dell’art. 4, comma 1, della richiamata legge n. 219/2017, l’assistito esprime le DAT “dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte” - il Ministero chiede se l’acquisizione di siffatta informativa possa essere dichiarata dall’interessato, ai sensi del d.P.R. n. 445/2000 contestualmente alla disposizione anticipata.
Su tale problema osserva la Commissione speciale che - anche in relazione alle possibili responsabilità del medico che si è attenuto alle DAT considerandole valide, e della struttura sanitaria in cui è eventualmente incardinato - appare necessario che vi sia certezza in ordine alla “adeguatezza” delle informazioni mediche acquisite dall’interessato e riguardanti le conseguenze delle scelte effettuate.
Pertanto, pur non potendo rilevare sotto il profilo della validità dell’atto, sembra decisamente opportuno che tale circostanza venga attestata, magari suggerendola nel modulo-tipo facoltativo che verrà predisposto dal Ministero della salute, così come evidenziato nella risposta al terzo quesito.

Quinto quesito
Col quinto quesito viene chiesto “se la legittimazione ad accedere alla banca dati per verificare l’esistenza di una DAT e, ove riprodotto, il contenuto della stessa, debba intendersi limitata al personale medico (considerato che l’art 4, comma 5, della legge n. 219 del 2017 impone esplicitamente al “medico” il rispetto delle DAT) in procinto di iniziare o proseguire un trattamento sanitario nei confronti di un paziente in situazione di “incapacità di autodeterminarsi”, e se quest’ultima condizione debba essere attestata con idonea certificazione da trasmettere e acquisire alla menzionata banca dati”.
Al riguardo, il Consiglio osserva che la normativa in materia di DAT deve essere coordinata con le disposizioni normative a tutela del diritto alla riservatezza, anche questo diritto fondamentale della persona umana.
Ferma restando dunque la necessità che su tali profili si esprima il Garante per la protezione dei dati personali – come del resto previsto dal comma 419 dell’art. 1 della legge n. 205/2017 – la Commissione speciale è dell’avviso che:
1. alle DAT può accedere il medico che lo ha in cura allorché sussista una situazione di incapacità di autodeterminarsi del paziente;
2. deve potervi accedere il fiduciario sino a quando è in carica (nel senso che non è stato revocato, ex art. 4, comma 3, legge n. 219/2017) perché, ragionando diversamente, non avrebbe la possibilità di dare attuazione alle scelte compiute; va ricordato che in tal caso non sembra violato il diritto alla riservatezza del paziente perché l’art. 4, al comma 2, prevede espressamente che, dopo l’accettazione della nomina da parte del fiduciario, a quest’ultimo sia rilasciata una copia delle DAT.

Alla luce del quadro normativo fin qui sintetizzato, e delle risposte date ai quesiti, la Commissione evidenzia altresì la necessità che il Governo verifichi, dopo un primo periodo di applicazione, se vi siano profili da modificare o migliorare con interventi di carattere amministrativo o normativo.
Il Consiglio di Stato ha, infatti, sottolineato più volte (cfr. parere Sez. consultiva atti normativi n. 515 del 24 febbraio 2016; n. 298 del 5 febbraio 2018; n. 635 del 14 marzo 2018) la rilevanza cruciale della fase attuativa di ogni nuova normativa e della relativa fase di monitoraggio.
Anche in questa occasione, data l’importanza e la delicatezza dell’intervento normativo in questione - che ha ad oggetto, come è noto, l’esercizio di diritti fondamentali della persona umana - si sottolinea la necessità di prevedere efficaci e costanti strumenti di monitoraggio del funzionamento delle norme, volti a verificarne l’idoneità a perseguire, in concreto, gli obiettivi fissati dal legislatore ed a garantirne la più estesa attuazione.
P.Q.M.
nelle esposte considerazioni è la risposta ai quesiti del Consiglio di Stato.







GLI ESTENSORI
IL PRESIDENTE

Vincenzo Neri, Giulia Ferrari
Mario Luigi Torsello













IL SEGRETARIO
Giuseppe Testa




Il Consiglio di Stato ha espresso il parere sui quesiti del Ministro della salute sulle disposizioni anticipate di trattamento (cd. DAT)

Il Consiglio di Stato, in Commissione speciale, ha espresso il parere sui quesiti sottoposti dal Ministero della salute in materia di Disposizioni anticipate di trattamento (c.d. DAT), con particolare riferimento all’istituzione della banca dati nazionale prevista dal comma 418 dell’art. 1 della legge di bilancio n. 205 del 2017.
Con le Disposizioni anticipate di trattamento ciascun individuo, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, può decidere “ora per allora” su eventuali trattamenti sanitari che potrebbero riguardarlo e sui quali in futuro non sarà in condizione di prestare il consenso; ciò avviene manifestando la propria volontà mediante la redazione di un atto specificamente previsto.
Il Consiglio di Stato, al fine di dare effettiva attuazione alla legge n. 219 del 2017 che ha introdotto tali Disposizioni, ha ritenuto che:
a) la banca dati nazionale - proprio perché le relative informazioni possono essere conosciute sull’intero territorio del Paese - su richiesta dell’interessato deve contenere copia delle DAT, compresa l’indicazione del fiduciario, salvo che il dichiarante non intenda indicare soltanto dove esse sono reperibili;
b) il registro nazionale è aperto anche a tutti coloro che non sono iscritti al Servizio sanitario nazionale;
c) le DAT non hanno alcun vincolo di contenuto: l’interessato deve poter scegliere di limitarle solo ad una particolare malattia, di estenderle a tutte le future malattie, di nominare il fiduciario o di non nominarlo, ecc. Spetterà al Ministero della salute mettere a disposizione un modulo-tipo per facilitare il cittadino a rendere le DAT;
d) poiché le DAT servono ad orientare l’attività del medico, è necessario che ci sia certezza sulla corretta formazione della volontà del dichiarante. Conseguentemente occorre che tale circostanza venga attestata, magari suggerendola nel modulo-tipo facoltativo che verrà predisposto dal Ministero della salute;
e) alle DAT può accedere il medico e il fiduciario sino a quando è in carica.

La Commissione speciale - data l’importanza e la delicatezza dell’intervento normativo in questione, che ha ad oggetto l’esercizio di diritti fondamentali della persona umana - ha sottolineato la necessità di prevedere efficaci e costanti strumenti di monitoraggio del funzionamento della norma, volti a verificarne l’idoneità a perseguire, in concreto, gli obiettivi fissati dal Legislatore e a garantirne la più estesa attuazione.
***********
La disposizione anticipata di trattamento è un negozio giuridico a contenuto non patrimoniale, unilaterale, non recettizio, sottoposto a condizione sospensiva che produrrà i suoi effetti in un momento successivo.
Tre i requisiti perché si abbiano valide disposizioni anticipate di trattamento:
il primo è relativo alla capacità del disponente, che deve essere maggiorenne e capace di intendere e di volere;
il secondo riguarda il presupposto, a ricorrere del quale il soggetto può esprimere le proprie disposizioni: “in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi”;
il terzo riguarda il momento che precede le DAT: “dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte”. 
Il disponente può indicare una persona di sua fiducia, denominata “fiduciario”, maggiorenne e capace di intendere e di volere, che ne faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie. La clausola di designazione è inefficace finché non è accettata da quest’ultimo, con sottoscrizione coeva o atto successivo, ma tale accettazione non è elemento di validità o efficacia delle DAT, in quanto queste ben possono non designare alcun fiduciario
Il mandato al fiduciario è revocabile ad nutum osservando le medesime forme stabilite per il suo conferimento. La sopravvenuta rinuncia, morte o incapacità del fiduciario non si ripercuote sull’efficacia delle DAT.
Il medico è tenuto al rispetto delle DAT, che tuttavia possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie, non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita.
Le DAT devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata ovvero per scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza del disponente medesimo, che provvede all’annotazione in apposito registro, ove istituito, oppure presso le strutture sanitarie.
Anche le Regioni che adottano modalità telematiche di gestione della cartella clinica o il fascicolo sanitario elettronico o altre modalità informatiche di gestione dei dati del singolo iscritto al Servizio sanitario nazionale possono, con proprio atto, regolamentare la raccolta di copia delle DAT, compresa l’indicazione del fiduciario, e il loro inserimento in banca dati.
Nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, le DAT possono essere espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare. Con le medesime forme esse sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento.
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/il-consiglio-di-stato-ha-espresso-il-parere-sui-quesiti-del-ministro-della-salute-sulle-disposizioni-anticipate-di-trattamento-cd-dat-


Incostituzionalità della normativa regionale (veneta) in materia di disturbo all’esercizio dell’attività venatoria e piscatoria

Corte cost. 11 luglio 2018, n. 148

E’ costituzionalmente illegittima la legge della Regione Veneto 17 gennaio 2017, n. 1 (Norme regionali in materia di disturbo all’esercizio dell’attività venatoria e piscatoria: modifiche alla legge regionale 9 dicembre 1993, n. 50 “Norme regionali per la protezione della fauna selvatica e per il prelievo venatorio” e alla legge regionale 28 aprile 1998, n. 19 “Norme per la tutela delle risorse idrobiologiche e della fauna ittica e per la disciplina dell’esercizio della pesca nelle acque interne e marittime interne della Regione Veneto”).

SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 3 della legge della Regione Veneto 17 gennaio 2017, n. 1 (Norme regionali in materia di disturbo all’esercizio dell’attività venatoria e piscatoria: modifiche alla legge regionale 9 dicembre 1993, n. 50 “Norme regionali per la protezione della fauna selvatica e per il prelievo venatorio” e alla legge regionale 28 aprile 1998, n. 19 “Norme per la tutela delle risorse idrobiologiche e della fauna ittica e per la disciplina dell’esercizio della pesca nelle acque interne e marittime interne della Regione Veneto”), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso notificato il 17-22 marzo 2017, depositato in cancelleria il 27 marzo 2017, iscritto al n. 33 del registro ricorsi 2017 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di costituzione della Regione Veneto;
udito nell’udienza pubblica del 5 giugno 2018 il Giudice relatore Giancarlo Coraggio;
uditi l’avvocato dello Stato Marina Russo per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Ezio Zanon e Luigi Manzi per la Regione Veneto.


Ritenuto in fatto
1.− Con ricorso n. 33 del 2017, il Presidente del Consiglio dei ministri ha proposto in via principale questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la legge della Regione Veneto 17 gennaio 2017, n. 1 (Norme regionali in materia di disturbo all’esercizio dell’attività venatoria e piscatoria: modifiche alla legge regionale 9 dicembre 1993, n. 50 “Norme regionali per la protezione della fauna selvatica e per il prelievo venatorio” e alla legge regionale 28 aprile 1998, n. 19 “Norme per la tutela delle risorse idrobiologiche e della fauna ittica e per la disciplina dell’esercizio della pesca nelle acque interne e marittime interne della Regione Veneto”), per violazione degli artt. 117, secondo comma, lettere h) ed l), nonché 3, 25 e 27 della Costituzione.
1.1.− L’art. 1 della legge regionale impugnata inserisce nella legge della Regione Veneto 9 dicembre 1993, n. 50 (Norme regionali per la protezione della fauna selvatica e per il prelievo venatorio), l’art. 35-bis (Disturbo all’esercizio dell’attività venatoria e molestie agli esercenti l’attività venatoria), che così dispone: «1. Chiunque, con lo scopo di impedire intenzionalmente l’esercizio dell’attività venatoria ponga in essere atti di ostruzionismo o di disturbo dai quali possa essere turbata o interrotta la regolare attività di caccia o rechi molestie ai cacciatori nel corso delle loro attività, è punito con la sanzione amministrativa da euro 600,00 a euro 3.600,00. 2. All’accertamento e alla contestazione delle violazioni procedono gli organi cui sono demandate funzioni di polizia. 3. La Regione esercita le funzioni amministrative riguardanti l’applicazione delle sanzioni amministrative previste dalla presente legge e ne introita i proventi. 4. Non integrano, in ogni caso, la fattispecie di cui al comma 1, gli atti rientranti nell’esercizio dell’attività agricola, di cui all’articolo 2135 del Codice Civile, nel rispetto dell’articolo 842 del Codice Civile».
Il successivo art. 2, a sua volta, inserisce, nella legge della Regione Veneto 28 aprile 1998 n. 19 (Norme per la tutela delle risorse idrobiologiche e della fauna ittica e per la disciplina dell’esercizio della pesca nelle acque interne e marittime interne della Regione Veneto), l’art. 33-ter (Disturbo all’esercizio dell’attività piscatoria e molestie agli esercenti l’attività piscatoria), dal seguente tenore: «1. Chiunque, con lo scopo di impedire intenzionalmente l’esercizio dell’attività piscatoria ponga in essere atti di ostruzionismo o di disturbo dai quali possa essere turbata o interrotta la regolare attività di pesca o rechi molestie ai pescatori nel corso delle loro attività, è punito con la sanzione amministrativa da euro 600,00 a euro 3.600,00. 2. All’accertamento e alla contestazione delle violazioni procedono gli organi cui sono demandate funzioni di polizia. 3. La Regione esercita le funzioni amministrative riguardanti l’applicazione delle sanzioni amministrative previste dalla presente legge e ne introita i proventi».
L’art. 3, infine, contiene la clausola di neutralità finanziaria.
2.− Secondo il ricorrente, le disposizioni sopra riportate inciderebbero su materie riservate alla competenza legislativa statale dall’art. 117, secondo comma, lettere h) ed l), Cost.
Infatti, sanzionando a titolo di illecito amministrativo comportamenti quali il «disturbo», l’«ostruzionismo» e la «molestia», esse colpirebbero «condotte emulative dirette al solo fine di arrecare nocumento a beni fondamentali quali l’integrità delle persone e la sicurezza, sussumibili nella categoria dell’ordine pubblico e della sicurezza, sulle quali lo Stato ha potestà legislativa esclusiva» (art. 117, comma secondo, lettera h, Cost.).
A supporto della propria censura, viene rilevato che le condotte prese in esame dalla legge regionale impugnata sarebbero agevolmente riconducibili alla fattispecie di reato di cui all’art. 660 del codice penale, posto che le condotte di disturbo o molestia − coincidenti con quelle contemplate dalla impugnata legge regionale − avrebbero per indefettibile presupposto il loro compimento in luogo pubblico o aperto al pubblico (tali essendo i luoghi tipici in cui si svolgono le attività venatoria e piscatoria) e che sarebbe senza dubbio meritevole di biasimo la finalità della condotta diretta a recare disturbo a chi svolge un’attività lecita.
La scelta del legislatore regionale di sanzionare come illecito amministrativo una condotta che è già prevista e punita dalla legge statale a titolo di illecito penale ex art. 660 cod. pen. dimostrerebbe, altresì, l’interferenza della norma regionale con un ambito (l’ordinamento penale, appunto) che alla legislazione regionale è sottratto (ex art. 117, comma secondo, lettera l, Cost.)
La legge regionale censurata inciderebbe anche su un’altra materia (l’ordinamento civile) di competenza statale (ai sensi della medesima lettera l del citato secondo comma dell’art. 117 Cost.), posto che gli interessi che la legge regionale mirerebbe a tutelare sarebbero già oggetto di una tutela di tipo privatistico, idonea a garantire la risarcibilità dei danni arrecati dalle condotte prese in esame dalle norme impugnate.
Le denunciate disposizioni regionali violerebbero, inoltre, i principi di legalità, razionalità e non discriminazione rinvenibili negli artt. 3, 25 e 27 Cost.
Esse, infatti, sanzionerebbero a titolo di illecito amministrativo condotte descritte in termini generici e privi del sufficiente grado di determinatezza, tali da prospettare difficoltà a livello applicativo e, più in generale, da determinare un contrasto con i princìpi costituzionali di legalità e razionalità, validi anche per gli illeciti amministrativi ed espressamente richiamati dalla legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale).
Verrebbe inoltre in rilievo, oltre alla mancata previsione della clausola di riserva «salvo che il fatto non costituisca reato», la considerazione che le sanzioni amministrative introdotte dalle norme regionali in esame (da euro 600,00 a euro 3.600,00) sarebbero decisamente sproporzionate, sia in comparazione con quelle previste dall’art. 35 della legge reg. Veneto n. 50 del 1993, il cui massimo edittale, nei casi più gravi, è fissato in euro 1.200,00 sia rispetto a quelle previste a carico del cacciatore per le violazioni commesse ai sensi dell’art. 31 della legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), il cui massimo edittale è inferiore a quello previsto dalla legge regionale impugnata.
L’Avvocatura generale dello Stato rileva, infine, come dall’illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge reg. Veneto n. 1 del 2017 discenderebbe la necessità di caducare anche il successivo art. 3, in quanto, recando solo una clausola di neutralità finanziaria, sarebbe privo di autonoma portata precettiva.
3.− Si è costituita in giudizio la Regione Veneto, chiedendo che il ricorso sia dichiarato non fondato e sostenendo che il sospetto di illegittimità costituzionale delineato nel ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri sarebbe «il frutto di un radicale travisamento della ontologia e della teleologia della legge regionale».
Quest’ultima, infatti, introdurrebbe due fattispecie parallele di sanzioni amministrative, le quali, a differenza di quanto affermato dal ricorrente, non presenterebbero alcuna coincidenza con la fattispecie penale descritta nell’art. 660 cod. pen., né sotto il profilo materiale, né tanto meno sotto il profilo del bene giuridico protetto.
Ed infatti, la disposizione penale punirebbe genericamente qualsiasi comportamento di molestia o di disturbo che sia compiuto in un luogo pubblico o aperto al pubblico, interferendo nell’altrui vita privata e relazionale, mentre, per configurare gli illeciti amministrativi introdotti dalla impugnata legge regionale, non sarebbe sufficiente il compimento di atti diretti a recare molestia, ma occorrerebbe una condotta che illecitamente e scientemente interferisca con il regolare svolgimento delle attività di caccia e di pesca. Si tratterebbe, dunque, di condotte materiali distinte e solo parzialmente sovrapponibili, in ragione, peraltro, dell’ampiezza e della residualità della fattispecie penale.
Tale diversità si dispiegherebbe anche sotto il profilo teleologico, in quanto il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice sarebbe l’ordine pubblico inteso come pubblica tranquillità, senza che assuma alcun rilievo l’ambito di attività o di vita su cui incide la molestia. Contrariamente, invece, le sanzioni amministrative regionali non mirerebbero in alcun modo a tutelare l’ordine pubblico, avendo come loro finalità primaria ed esclusiva quella di garantire il regolare e ordinato esercizio dell’attività venatoria e piscatoria. Tanto si evincerebbe non solo dalla descrizione della condotta materiale degli illeciti amministrativi, ma anche dal profilo soggettivo degli stessi, che richiede una forma di dolo intenzionale al fine del concretizzarsi dell’illecito, ovverosia lo scopo di impedire l’esercizio dell’attività di caccia o pesca.
La Regione Veneto rileva, inoltre, che le disposizioni de quibus dovrebbero essere ricomprese nell’ambito competenziale cui afferisce la relativa materia sostanziale, ovverosia la caccia, di spettanza regionale.
A suo parere, andrebbe esclusa qualsivoglia lesione della competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile e penale, stante la diversa natura, il differente regime e la distinta finalità perseguita dalla disciplina regionale. D’altronde ben sarebbe ammissibile la compresenza di rimedi penali, amministrativi e civili, senza che derivi alcuna compromissione della legittimità degli uni rispetto agli altri, operando gli stessi su piani diversi e solo accidentalmente sovrapponibili.
Infondato sarebbe anche il secondo motivo di ricorso.
Gli illeciti amministrativi introdotti dalla legge impugnata sarebbero, infatti, descritti in modo esaustivo e dettagliato sia sotto il profilo oggettivo sia sotto il profilo soggettivo.
La condotta materiale sarebbe delineata in maniera puntuale, dovendo consistere in atti di «ostruzionismo» e di «disturbo», ossia comportamenti volontari che si pongono come un ostacolo, un impedimento o un intralcio all’altrui agire. A tale condotta si assocerebbe, poi, uno specifico eventus damni, sostanziantesi nella turbativa o nell’impedimento dell’attività venatoria o piscatoria ovvero in una molestia ai danni del cacciatore o del pescatore nell’esercizio di attività che sono oggetto di una specifica perimetrazione normativa rinvenibile, tra l’altro, nell’art. 12 della legge n. l57 del 1992 e, ancora, nell’art. 24 della legge reg. Veneto n. 19 del l998. Sarebbe, infine, richiesto, per l’integrazione dell’illecito, sotto il profilo psicologico, lo scopo di impedire l’esercizio delle predette attività.
Peraltro, per perimetrare la condotta di molestia presa in considerazione dal legislatore regionale, l’interprete avrebbe a propria disposizione la ricca e risalente tradizione interpretativa della fattispecie di cui all’art. 660 cod. pen.
Quanto al rilievo legato alla assenza della clausola di riserva «salvo che il fatto non costituisca reato», la Regione ancora una volta richiama la diversità ontologica e teleologica delle fattispecie disciplinate dalla legge regionale, sottolineando, peraltro, la possibile coesistenza di sanzioni penali ed amministrative.
Con riguardo all’asserita sproporzione della sanzione pecuniaria prevista dalla legge regionale, infine, sostiene che tali fattispecie di illecito amministrativo in esame costituiscono norme di chiusura, strumento di salvaguardia dell’intero sistema, dirette non a sanzionare la violazione di singoli obblighi settoriali ma a salvaguardare il regolare e ordinato svolgimento delle attività venatoria e piscatoria. Ciò giustificherebbe quindi la scelta sanzionatoria e la sua asimmetria rispetto alle ipotesi richiamate dal ricorrente.


Considerato in diritto
1.− Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso, in riferimento agli artt. 3, 25, 27 e 117, secondo comma, lettere h) ed l), della Costituzione, questione di legittimità costituzionale della legge della Regione Veneto 17 gennaio 2017, n. 1 (Norme regionali in materia di disturbo all’esercizio dell’attività venatoria e piscatoria: modifiche alla legge regionale 9 dicembre 1993, n. 50 “Norme regionali per la protezione della fauna selvatica e per il prelievo venatorio” e alla legge regionale 28 aprile 1998, n. 19 “Norme per la tutela delle risorse idrobiologiche e della fauna ittica e per la disciplina dell’esercizio della pesca nelle acque interne e marittime interne della Regione Veneto”).
Gli artt. 1 e 2 della legge regionale impugnata inseriscono, rispettivamente, l’art. 35-bis nella legge della Regione Veneto 9 dicembre 1993, n. 50 (Norme regionali per la protezione della fauna selvatica e per il prelievo venatorio) e l’art. 33-ter nella legge della Regione Veneto 28 aprile 1998, n. 19 (Norme per la tutela delle risorse idrobiologiche e della fauna ittica e per la disciplina dell’esercizio della pesca nelle acque interne e marittime interne della Regione Veneto), disponendo che venga punito con la sanzione amministrativa da euro 600,00 a euro 3.600,00 chiunque, con lo scopo di impedire intenzionalmente l’esercizio dell’attività (rispettivamente) venatoria e piscatoria, ponga in essere atti di ostruzionismo o di disturbo dai quali possa essere turbata o interrotta la regolare attività di caccia o pesca o rechi molestie ai cacciatori o ai pescatori nel corso delle loro attività.
L’art. 3, infine, contiene la clausola di neutralità finanziaria.
2.− Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna la legge nella sua interezza, prospettando una molteplicità di questioni.
3.− Per economia di giudizio, e facendo ricorso al potere di decidere l’ordine delle questioni da affrontare, eventualmente dichiarando assorbite le altre (sentenza n. 98 del 2013), si esamina anzitutto l’eccepita violazione del riparto delle competenze legislative tra Stato e Regione, in quanto pregiudiziale sotto il profilo logico-giuridico rispetto a quelle che investono il contenuto della scelta operata con la norma regionale, riferite a parametri non compresi nel Titolo V della Parte II della Costituzione (sentenza n. 81 del 2017).
4.− La questione è fondata.
5.− Lo scrutinio delle censure implica, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, l’individuazione dell’ambito materiale al quale vanno ascritte le disposizioni impugnate, tenendo conto della loro ratio, della finalità, del contenuto e dell’oggetto della disciplina (ex plurimis, sentenze n. 108 e n. 32 del 2017).
5.1.– In linea di principio, per pacifico orientamento di questa Corte, la disciplina in tema di sanzioni accede a quella sostanziale. Essa, cioè, non costituisce una materia a sé stante e spetta al soggetto nella cui sfera di competenza rientra la disciplina la cui inosservanza costituisce l’atto sanzionabile (ex multis, sentenze n. 90 del 2013, n. 240 del 2007, n. 384 del 2005 e n. 12 del 2004).
Ma nel caso di specie, contrariamente a quanto sostenuto dalla Regione Veneto, le sanzioni non possono essere ricondotte alla materia “caccia e pesca”. Non si tratta, infatti, di sanzioni amministrative poste a presidio di prescrizioni relative all’esercizio di tali attività, come nel caso dell’art. 35 della legge reg. Veneto n. 50 del 1993 e dell’art. 33 della legge reg. Veneto n. 19 del 1998, che al contrario contengono un elenco di fattispecie di inosservanze di puntuali obblighi e adempimenti posti a carico di coloro che le esercitano.
La condotta presa in considerazione si sostanzia in atti di «ostruzionismo» o «disturbo», rispetto ai quali la caccia e la pesca rilevano solo al fine di delimitare l’ambito delle persone offese e l’elemento psicologico.
La finalità perseguita non è quella di assicurare il rispetto di specifici obblighi settoriali posti dal legislatore per regolamentare l’esercizio delle attività venatoria o piscatoria. È, invece, quella di garantire il diritto all’esercizio delle attività in questione al riparo da interferenze esterne e di prevenire la possibilità di reazione della persona offesa.
5.2.– Le norme impugnate, quindi, attengono a comportamenti che pregiudicano la «ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale» (tra le altre, sentenze n. 108 del 2017, n. 300 del 2011, n. 274 del 2010, n. 129 del 2009), e in quanto tali sono riconducibili alla materia «ordine pubblico e sicurezza» di cui alla lettera h) del secondo comma dell’art. 117 Cost., pur nella lettura rigorosa che questa Corte ha operato della stessa.
6.− Restano assorbiti gli ulteriori motivi di censura.


per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Veneto 17 gennaio 2017, n. 1 (Norme regionali in materia di disturbo all’esercizio dell’attività venatoria e piscatoria: modifiche alla legge regionale 9 dicembre 1993, n. 50 “Norme regionali per la protezione della fauna selvatica e per il prelievo venatorio” e alla legge regionale 28 aprile 1998, n. 19 “Norme per la tutela delle risorse idrobiologiche e della fauna ittica e per la disciplina dell’esercizio della pesca nelle acque interne e marittime interne della Regione Veneto”).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 giugno 2018.

sabato 28 luglio 2018



Corte di Giustizia UE 25 luglio 2018, n. C-404/17, A

Rinvio pregiudiziale – Politica d’asilo – Direttiva 2013/32/UE – Articolo 31, paragrafo 8, e articolo 32, paragrafo 2 – Domanda di protezione internazionale manifestamente infondata – Concetto di paese di origine sicuro – Assenza di norme nazionali relative a tale concetto – Dichiarazioni del richiedente considerate affidabili, ma insufficienti in ragione dell’adeguatezza della protezione offerta dal paese di origine del richiedente







L’articolo 31, paragrafo 8, lettera b), della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, letto in combinato disposto con l’articolo 32, paragrafo 2, di tale direttiva, dev’essere interpretato nel senso che esso non consente di ritenere manifestamente infondata una domanda di protezione internazionale in una situazione, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, nella quale, da un lato, dalle informazioni sul paese di origine del richiedente risulti che a quest’ultimo può essere garantita in tale paese una protezione accettabile e, dall’altro, il medesimo richiedente abbia fornito informazioni insufficienti per giustificare il riconoscimento di una protezione internazionale, qualora lo Stato membro di proposizione della domanda non abbia adottato norme per l’attuazione del concetto di paese di origine sicuro.








Edizione provvisoria
SENTENZA DELLA CORTE (Prima Sezione)
25 luglio 2018
Nella causa C‑404/17,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Förvaltningsrätten i Malmö – Migrationsdomstolen (Tribunale amministrativo di Malmö, competente in materia di immigrazione, Svezia), con decisione del 3 luglio 2017, pervenuta in cancelleria il 6 luglio 2017, nel procedimento
A
contro
Migrationsverket,
LA CORTE (Prima Sezione),
composta da R. Silva de Lapuerta, presidente di sezione, J.-C. Bonichot (relatore), A. Arabadjiev, S. Rodin ed E. Regan, giudici,
avvocato generale: M. Wathelet
cancelliere: A. Calot Escobar
vista la fase scritta del procedimento,
considerate le osservazioni presentate:
–        per il governo svedese, da A. Falk, C. Meyer-Seitz, H. Shev e L. Zettergren, in qualità di agenti;
–        per il governo del Regno Unito, da R. Fadoju, C. Crane e S. Brandon, in qualità di agenti, assistiti da D. Blundell, barrister;
–        per la Commissione europea, da K. Simonsson e M. Condou-Durande, in qualità di agenti,
vista la decisione, adottata dopo aver sentito l’avvocato generale, di giudicare la causa senza conclusioni,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1        La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 31, paragrafo 8, della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (GU 2013, L 180, pag. 60).
2        Tale domanda è stata proposta nell’ambito di una controversia tra A e il Migrationsverket (Ufficio per l’immigrazione, Svezia; in prosieguo: l’«Ufficio») in merito alla decisione di quest’ultimo di respingere la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e di autorizzazione al soggiorno di A, di disporre il suo ritorno verso il paese di origine e di vietargli il reingresso in Svezia per due anni.
 Contesto normativo
 Diritto dell’Unione
3        L’articolo 23, paragrafo 4, lettera g), della direttiva 2005/85/CE del Consiglio, del 1° dicembre 2005, recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato (GU 2005, L 326, pag. 13), è così redatto:
«Gli Stati membri possono altresì prevedere che una procedura d’esame sia valutata in via prioritaria o accelerata conformemente ai principi fondamentali e alle garanzie di cui al capo II, se:
(…)
g)      il richiedente ha rilasciato dichiarazioni incoerenti, contraddittorie, improbabili o insufficienti, che rendono chiaramente non convincente la sua asserzione di essere stato oggetto di persecuzione (…)».
4        La direttiva 2013/32, ai considerando 11, 12, 18, 40, 41 e 42, enuncia quanto segue:
«(11)      Onde garantire una valutazione completa ed efficiente delle esigenze di protezione internazionale dei richiedenti ai sensi della direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta [(GU 2011, L 337, pag. 9)], è opportuno che il quadro dell’Unione sulle procedure per il riconoscimento e la revoca della protezione internazionale si fondi sul concetto di una procedura unica.
(12)      Obiettivo principale della presente direttiva è sviluppare ulteriormente le norme relative alle procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca della protezione internazionale, così da istituire una procedura comune di asilo nell’Unione.
(...)
(18)      È nell’interesse sia degli Stati membri sia dei richiedenti protezione internazionale che sia presa una decisione quanto prima possibile in merito alle domande di protezione internazionale, fatto salvo lo svolgimento di un esame adeguato e completo.
(...)
(40)      Criterio fondamentale per stabilire la fondatezza della domanda di protezione internazionale è la sicurezza del richiedente nel paese di origine. Se un paese terzo può essere considerato paese di origine sicuro, gli Stati membri dovrebbero poterlo designare paese sicuro e presumerne la sicurezza per uno specifico richiedente, a meno che quest’ultimo non adduca controindicazioni.
(41)      Visto il grado di armonizzazione raggiunto in relazione all’attribuzione della qualifica di rifugiato ai cittadini di paesi terzi e agli apolidi o ai beneficiari della protezione internazionale, si dovrebbero definire criteri comuni per la designazione dei paesi terzi quali paesi di origine sicuri.
(42)      La designazione di un paese terzo quale paese di origine sicuro ai fini della presente direttiva non può stabilire una garanzia assoluta di sicurezza per i cittadini di tale paese. Per la sua stessa natura, la valutazione alla base della designazione può tener conto soltanto della situazione civile, giuridica e politica generale in tale paese e se in tale paese i responsabili di persecuzioni, torture o altre forme di punizione o trattamento disumano o degradante siano effettivamente soggetti a sanzioni se riconosciuti colpevoli. Per questo motivo è importante che, quando un richiedente dimostra che vi sono validi motivi per non ritenere sicuro tale paese per la sua situazione particolare, la designazione del paese come sicuro non può più applicarsi al suo caso».
5        Ai sensi dell’articolo 1 di tale direttiva:
«Obiettivo della presente direttiva è stabilire procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca della protezione internazionale (...)».
6        L’articolo 31 della citata direttiva, intitolato «Procedura di esame», che apre il capo III «Procedure di primo grado», stabilisce quanto segue:
«1.      Gli Stati membri esaminano le domande di protezione internazionale con procedura di esame conformemente ai principi fondamentali e alle garanzie di cui al capo II.
2.      Gli Stati membri provvedono affinché la procedura di esame sia espletata quanto prima possibile, fatto salvo un esame adeguato e completo.
3.      Gli Stati membri provvedono affinché la procedura di esame sia espletata entro sei mesi dalla presentazione della domanda.
(...)
8.      Gli Stati membri possono prevedere che una procedura d’esame sia accelerata e/o svolta alla frontiera o in zone di transito a norma dell’articolo 43 se:
a)      nel presentare domanda ed esporre i fatti il richiedente ha sollevato soltanto questioni che non hanno alcuna pertinenza per esaminare se attribuirgli la qualifica di beneficiario di protezione internazionale a norma della direttiva [2011/95]; oppure
b)      il richiedente proviene da un paese di origine sicuro a norma della presente direttiva; o
(...)
e)      il richiedente ha rilasciato dichiarazioni palesemente incoerenti e contraddittorie, palesemente false o evidentemente improbabili che contraddicono informazioni sufficientemente verificate sul paese di origine, rendendo così chiaramente non convincente la sua asserzione di avere diritto alla qualifica di beneficiario di protezione internazionale ai sensi della direttiva [2011/95]; o
(...)».
7        A norma dell’articolo 32, paragrafo 2, della direttiva 2013/32:
«Nei casi di domande infondate cui si applichi una qualsiasi delle circostanze elencate nell’articolo 31, paragrafo 8, gli Stati membri possono altresì ritenere una domanda manifestamente infondata, se così definita dal diritto nazionale».
8        L’articolo 36 di detta direttiva, intitolato «Concetto di paese di origine sicuro», è così redatto:
«1.      Un paese terzo designato paese di origine sicuro a norma della presente direttiva può essere considerato paese di origine sicuro per un determinato richiedente, previo esame individuale della domanda, solo se:
a)      questi ha la cittadinanza di quel paese; ovvero
b)      è un apolide che in precedenza soggiornava abitualmente in quel paese,
e non ha invocato gravi motivi per ritenere che quel paese non sia un paese di origine sicuro nelle circostanze specifiche in cui si trova il richiedente stesso e per quanto riguarda la sua qualifica di beneficiario di protezione internazionale a norma della direttiva [2011/95].
2.      Gli Stati membri stabiliscono nel diritto nazionale ulteriori norme e modalità inerenti all’applicazione del concetto di paese di origine sicuro».
9        L’articolo 37 della direttiva 2013/32, intitolato «Designazione nazionale dei paesi terzi quali paesi di origine sicuri», dispone quanto segue:
«1.      Gli Stati membri possono mantenere in vigore o introdurre una normativa che consenta, a norma dell’allegato I, di designare a livello nazionale paesi di origine sicuri ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale.
2.      Gli Stati membri riesaminano periodicamente la situazione nei paesi terzi designati paesi di origine sicuri conformemente al presente articolo.
3.      La valutazione volta ad accertare che un paese è un paese di origine sicuro a norma del presente articolo si basa su una serie di fonti di informazioni, comprese in particolare le informazioni fornite da altri Stati membri, dall’[Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (EASO)], dall’[Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR)], dal Consiglio d’Europa e da altre organizzazioni internazionali competenti.
4.      Gli Stati membri notificano alla Commissione i paesi designati quali paesi di origine sicuri a norma del presente articolo».
10      Ai sensi dell’allegato I di detta direttiva, intitolato «Designazione dei paesi di origine sicuri ai fini dell’articolo 37, paragrafo 1»:
«Un paese è considerato paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva [2011/95], né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
Per effettuare tale valutazione si tiene conto, tra l’altro, della misura in cui viene offerta protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti mediante:
a)      le pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del paese ed il modo in cui sono applicate;
b)      il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali[, firmata a Roma il 4 novembre 1950,] e/o nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici[, adottato il 16 dicembre 1966 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite,] e/o nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, in particolare i diritti ai quali non si può derogare a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, di detta Convenzione europea;
c)      il rispetto del principio di «non-refoulement» conformemente alla [Convenzione relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951];
d)      un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di tali diritti e libertà».
11      L’articolo 46 della direttiva 2013/32, intitolato «Diritto a un ricorso effettivo», comprende i paragrafi 5 e 6, così redatti:
«5.      Fatto salvo il paragrafo 6, gli Stati membri autorizzano i richiedenti a rimanere nel loro territorio fino alla scadenza del termine entro il quale possono esercitare il loro diritto a un ricorso effettivo oppure, se tale diritto è stato esercitato entro il termine previsto, in attesa dell’esito del ricorso.
6.      Qualora sia stata adottata una decisione:
a)      di ritenere una domanda manifestamente infondata conformemente all’articolo 32, paragrafo 2 (...)
(...)
un giudice è competente a decidere, su istanza del richiedente o d’ufficio, se autorizzare o meno la permanenza del richiedente nel territorio dello Stato membro, se tale decisione mira a far cessare il diritto del richiedente di rimanere nello Stato membro e ove il diritto nazionale non preveda, in simili casi, il diritto di rimanere nello Stato membro in attesa dell’esito del ricorso».
 Diritto svedese
12      Il giudice del rinvio afferma che il diritto svedese non contiene alcuna disposizione legislativa o regolamentare relativa ai paesi di origine sicuri ai sensi della direttiva 2013/32.
13      Nella sua versione in vigore fino al 31 dicembre 2016, il paragrafo 19 del capitolo 8 dell’utlänningslag (legge sugli stranieri) (SFS 2005, n. 716) stabiliva che l’Ufficio poteva disporre l’esecuzione immediata delle sue decisioni di allontanamento, e ciò anche prima che queste diventassero definitive, qualora la domanda di asilo fosse manifestamente infondata e non sussistessero manifestamente altri motivi per concedere un titolo di soggiorno.
14      Secondo il giudice del rinvio, tale disposizione è stata modificata con effetto dal 1° gennaio 2017 per tener conto, nel diritto svedese, della revisione delle procedure di asilo effettuata dalla direttiva 2013/32, e in particolare dal suo articolo 31, paragrafo 8. Pertanto, a partire da tale data, l’Ufficio può disporre l’esecuzione immediata delle sue decisioni di allontanamento, e ciò anche prima che queste siano diventate definitive, se i fatti esposti dal cittadino straniero risultano «irrilevanti» ai fini della sua domanda di asilo, ovvero se non sono «affidabili», di modo tale che la domanda di asilo debba essere ritenuta manifestamente infondata, e se, inoltre, un titolo di soggiorno non può essere manifestamente concesso per altri motivi.
 Procedimento principale e questione pregiudiziale
15      Dalla decisione di rinvio risulta che A, cittadino serbo, presentava, nel marzo del 2017, una domanda di asilo e di autorizzazione al soggiorno in Svezia.
16      A sostegno di tale domanda egli adduceva di essere stato vittima, tra il 2001 e il 2003, di minacce e violenze da parte di un gruppo paramilitare clandestino e di aver denunciato tale gruppo nel 2003. A indicava di aver beneficiato fino al 2012 della protezione dei testimoni garantita dalle autorità serbe e dalla Missione delle Nazioni Unite per l’amministrazione ad interim nel Kosovo (MINUK), ma che tale protezione aveva comportato il suo trasferimento in varie località della Serbia, in particolare in carcere. Siffatte condizioni lo avrebbero indotto, a partire dall’anno 2012, a rinunciare allo status di testimone protetto e a scegliere di rifugiarsi nella sua cittadina di origine, nonostante le minacce di morte che continuava a ricevere.
17      L’Ufficio respingeva detta domanda ritenendola manifestamente infondata in quanto, secondo le informazioni fornite dal richiedente stesso, la Repubblica di Serbia era in grado di offrirgli una protezione efficace e perché spettava principalmente alle autorità del paese di origine garantire la protezione contro minacce come quelle di cui il richiedente si riteneva vittima.
18      Tale decisione di rigetto prevedeva anche l’obbligo di lasciare il territorio, reso immediatamente esecutivo per l’assenza manifesta di elementi che consentissero di accogliere la domanda di asilo e per il fatto che A non aveva presentato argomenti pertinenti a sostegno della sua domanda di permesso di soggiorno.
19      A ha proposto ricorso avverso la decisione dell’Ufficio dinanzi al Förvaltningsrätten i Malmö – Migrationsdomstolen (Tribunale amministrativo di Malmö, competente in materia di immigrazione, Svezia), che ha sospeso l’esecuzione dell’obbligo di lasciare il territorio.
20      Detto giudice esprime dubbi su come occorra interpretare l’articolo 31, paragrafo 8, della direttiva 2013/32, il quale, letto in combinato disposto con l’articolo 32, paragrafo 2, della medesima, consente agli Stati membri di respingere domande manifestamente infondate.
21      In tale contesto, il Förvaltningsrätten i Malmö – Migrationsdomstolen (Tribunale amministrativo di Malmö, competente in materia di immigrazione) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:
«Se una domanda contenente informazioni, fornite dal [richiedente], considerate affidabili – e conseguentemente assunte a fondamento ai fini dell’esame della domanda medesima –, ma insufficienti per accertare la necessità di una protezione internazionale atteso che dalle informazioni sul paese [di origine] risulta che le autorità offrono una protezione accettabile, debba essere ritenuta manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 31, paragrafo 8, della direttiva 2013/32, come modificata».
 Sulla questione pregiudiziale
22      Con la sua questione il giudice del rinvio domanda, sostanzialmente, se l’articolo 31, paragrafo 8, lettera b), della direttiva 2013/32, letto in combinato disposto con l’articolo 32, paragrafo 2, della medesima, debba essere interpretato nel senso che esso consente di ritenere manifestamente infondata una domanda di protezione internazionale in una situazione, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, nella quale, da un lato, dalle informazioni sul paese di origine del richiedente risulti che a quest’ultimo può essere garantita in tale paese una protezione accettabile e, dall’altro, il medesimo richiedente abbia fornito informazioni insufficienti per giustificare il riconoscimento di una protezione internazionale, qualora lo Stato membro di proposizione della domanda non abbia adottato norme per l’attuazione del concetto di paese di origine sicuro.
23      Come risulta dalla decisione di rinvio, l’Ufficio ha, in sostanza, respinto la domanda di A in quanto manifestamente infondata in applicazione del diritto nazionale di recepimento della direttiva 2013/32, poiché, nel suo paese di origine, la Serbia, esisteva una protezione efficace ed egli non aveva dimostrato che tale paese non gli offrisse una protezione sufficiente contro le minacce di cui si riteneva vittima.
24      In tal modo, l’Ufficio ha basato la propria decisione su un ragionamento analogo a quello previsto dagli articoli 36 e 37 della direttiva 2013/32 per il trattamento delle domande di protezione internazionale presentate dai cittadini di paesi di origine sicuri.
25      Tali disposizioni istituiscono un regime particolare di esame basato su una forma di presunzione relativa di protezione sufficiente nel paese di origine, la quale può essere confutata dal richiedente indicando motivi imperativi attinenti alla sua situazione particolare.
26      In mancanza di tali motivi imperativi, la domanda può essere respinta in quanto manifestamente infondata, conformemente all’articolo 31, paragrafo 8, lettera b), in combinato disposto con l’articolo 32, paragrafo 2, della direttiva 2013/32, se la situazione considerata – nel caso di specie il fatto che il richiedente provenga da un paese di origine sicuro – è definita come tale nella normativa nazionale.
27      Una delle conseguenze per l’interessato la cui domanda sia respinta su tale fondamento è che, contrariamente a quanto previsto in caso di mero rigetto, può non essergli consentito trattenersi sul territorio dello Stato di proposizione della domanda in attesa dell’esito del suo ricorso, come risulta dalle disposizioni dell’articolo 46, paragrafi 5 e 6, della direttiva 2013/32.
28      In tale contesto, spetta a ciascuno Stato membro procedere alla designazione dei paesi di origine sicuri ai sensi di tale normativa secondo le modalità previste agli articoli 36 e 37 nonché all’allegato I della direttiva 2013/32, vale a dire, in particolare, l’adozione da parte del legislatore nazionale di un elenco di paesi terzi sulla base dei criteri fissati nell’allegato I, la formulazione di norme e di modalità supplementari di attuazione, la notifica alla Commissione dell’elenco di paesi di origine sicuri o, ancora, il suo riesame periodico.
29      Il giudice del rinvio fa presente al riguardo che, alla data della decisione impugnata nel procedimento principale, quando il termine di recepimento delle disposizioni pertinenti della direttiva 2013/32 era ormai scaduto, il Regno di Svezia non aveva adottato disposizioni come quelle menzionate nel punto precedente né previsto che il fatto che una persona provenisse da un paese di origine sicuro potesse comportare un rigetto della domanda in quanto manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 32, paragrafo 2, di tale direttiva.
30      Orbene, si deve ricordare che, in virtù dei considerando 11 e 12 nonché dell’articolo 1 della direttiva 2013/32, il quadro per il riconoscimento della protezione internazionale è fondato sul concetto di procedura unica e si basa su norme minime comuni (v., per analogia, sentenza del 31 gennaio 2013, D. e A., C‑175/11, EU:C:2013:45, punto 57).
31      Pertanto, uno Stato membro non può ricorrere alla presunzione relativa istituita dalle norme della direttiva 2013/32 concernenti le procedure basate sul concetto di paese di origine sicuro senza aver, del pari, effettuato una completa attuazione di dette norme quanto alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che è tenuto ad adottare.
32      Riguardo ai dubbi espressi dal giudice del rinvio in merito alla possibilità, ai sensi dell’articolo 31, paragrafo 8, della direttiva 2013/32, di ritenere una domanda manifestamente infondata per il motivo che le dichiarazioni del richiedente sarebbero insufficienti, occorre ricordare che tale direttiva ha proceduto alla rifusione della direttiva 2005/85.
33      Orbene, se è vero che l’articolo 23, paragrafo 4, lettera g), della direttiva 2005/85 riguardava il caso di dichiarazioni «insufficienti» del richiedente, l’articolo 31, paragrafo 8, lettera e), della direttiva 2013/32, che ha sostituito detta disposizione, non fa più riferimento a tale caso.
34      Pertanto, dalla formulazione dell’articolo 31, paragrafo 8, lettera e), della direttiva 2013/32, letto in combinato disposto con l’articolo 32, paragrafo 2, di quest’ultima, risulta che uno Stato membro non può ritenere manifestamente infondata una domanda di protezione internazionale adducendo l’insufficienza delle dichiarazioni del richiedente.
35      Di conseguenza, occorre rispondere alla questione sollevata dichiarando che l’articolo 31, paragrafo 8, lettera b), della direttiva 2013/32, letto in combinato disposto con l’articolo 32, paragrafo 2, di tale direttiva, dev’essere interpretato nel senso che esso non consente di ritenere manifestamente infondata una domanda di protezione internazionale in una situazione, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, nella quale, da un lato, dalle informazioni sul paese di origine del richiedente risulti che a quest’ultimo può essere garantita in tale paese una protezione accettabile e, dall’altro, il medesimo richiedente abbia fornito informazioni insufficienti per giustificare il riconoscimento di una protezione internazionale, qualora lo Stato membro di proposizione della domanda non abbia adottato norme per l’attuazione del concetto di paese di origine sicuro.
 Sulle spese
36      Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice del rinvio, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara:
L’articolo 31, paragrafo 8, lettera b), della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, letto in combinato disposto con l’articolo 32, paragrafo 2, di tale direttiva, dev’essere interpretato nel senso che esso non consente di ritenere manifestamente infondata una domanda di protezione internazionale in una situazione, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, nella quale, da un lato, dalle informazioni sul paese di origine del richiedente risulti che a quest’ultimo può essere garantita in tale paese una protezione accettabile e, dall’altro, il medesimo richiedente abbia fornito informazioni insufficienti per giustificare il riconoscimento di una protezione internazionale, qualora lo Stato membro di proposizione della domanda non abbia adottato norme per l’attuazione del concetto di paese di origine sicuro.
Firme
Dal sito http://curia.europa.eu