Cons. di Stato, Comm. spec, 31
luglio 2018, n. 1991/2018 (adunanza del 18 luglio 2018, n. 1298/2018), Ministero della salute . Richiesta di parere in materia di consenso
informato e di disposizioni anticipate di trattamento
LA COMMISSIONE SPECIALE del 18 luglio 2018
Vista la relazione n. 7237 del 15 giugno 2018 con la quale il
Ministero della salute ha formulato taluni quesiti al Consiglio di Stato in
materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento;
Esaminati gli atti e uditi i relatori Vincenzo Neri e Giulia
Ferrari;
1. Il quesito.
Il Ministero della salute, con richiesta del 22 giugno 2018,
formula taluni quesiti che hanno ad oggetto la prevista istituzione della banca
dati nazionale, ex art. 1, comma 418, l. n. 205/2017, destinata alla
registrazione delle disposizioni anticipate di trattamento (c.d. DAT).
Nella richiesta si evidenzia la necessità di interpretare la
norma ora richiamata coordinandola con l’art. 4 l. n. 219/2017 che, recando la
disciplina delle disposizioni anticipate di trattamento, al comma 7 prevede: “le
regioni che adottano modalità telematiche di gestione della cartella clinica o
il fascicolo sanitario elettronico o altre modalità informatiche di gestione
dei dati del singolo iscritto al Servizio sanitario nazionale possono, con
proprio atto, regolamentare la raccolta di copia delle DAT, compresa
l’indicazione del fiduciario, e il loro inserimento nella banca dati, lasciando
comunque al firmatario la libertà di scegliere se darne copia o indicare dove
esse siano reperibili”.
2. Il diritto alla salute, il consenso informato e le
disposizioni anticipate di trattamento (DAT).
Il concetto di salute, oggi, non è più inteso esclusivamente
come antitesi del concetto di malattia, ma assume, come rilevato dalla Corte di
Cassazione, il significato più ampio di stato di completo benessere
psico-fisico, parametrato e calibrato anche, e soprattutto, in relazione alla
percezione che ciascuno ha di sé, alle proprie concezioni di identità e
dignità, nonché con un’idea di persona non accolta apoditticamente in astratto,
bensì valutata giuridicamente nelle sue reali e concrete sfumature.
Il diritto alla salute e all’integrità psico-fisica è rimesso,
dunque, in linea di principio, all’autodeterminazione del suo titolare: i trattamenti
sanitari sono liberi. In base al secondo comma dell’art. 32 Cost., infatti,
nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, se non
nei casi stabiliti dalla legge.
Lo strumento attraverso il quale il diritto alla salute si concilia
con il diritto alla libertà di autodeterminazione è il consenso informato. Per
prestare un consenso pienamente informato l’interessato, capace di intendere e
di volere, deve essere messo a conoscenza della patologia da cui è affetto, dei
possibili sviluppi della malattia stessa, delle diverse opportunità
terapeutiche e anche delle conseguenze e dei rischi di eventuali interventi
terapeutici.
Il cammino verso la piena affermazione del diritto del paziente
di esprimere il proprio consenso o il proprio rifiuto alle cure mediche è stato
segnato da due vicende giuridiche note come il “caso Welby” ed il “caso
Englaro”.
Nella prima vicenda, tralasciando le implicazioni etiche e
bioetiche (perché esulano evidentemente dalla presente sede), occorreva, sotto
un profilo giuridico, comprendere se il paziente, capace di intendere e di
volere, potesse rifiutare il trattamento salvavita, in un momento successivo al
suo inizio, decidendo di interromperlo con l’aiuto di un sanitario. Nonostante
il fatto che il medico fosse stato indagato per omicidio del consenziente, il
g.u.p., partendo dalla considerazione che il consenso informato è condizione di
liceità dell’atto medico, ha ritenuto esistente la scriminante dell’adempimento
del dovere, ex art. 51 c.p., prosciogliendo l’anestesista dall’accusa.
In particolare, il giudice penale, una volta ribadita
l’esistenza di un diritto di rango costituzionale (art. 32 Cost.)
all’autodeterminazione consapevole del paziente capace di intendere e di
volere, ha affermato che tale diritto non può essere frustrato dall’esistenza
di ‘‘disposizioni normative di fonte gerarchica inferiore a contenuto
contrario’’, quali l’art. 5 cod. civ. e gli artt. 579 e 580 cod. pen., dal
momento che esso ‘‘è ascrivibile tra i valori supremi destinati a costituire
la matrice di ogni altro diritto della persona, alla stregua del diritto alla
vita’’.
Diritto all’autodeterminazione e diritto alla vita, quindi, ‘‘contribuiscono,
entrambi e ognuno per la sua parte, a costituire il nucleo fondamentale dei
diritti della persona che il nostro ordinamento riconosce e tutela’’.
Con sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748, la Corte di Cassazione ha
affrontato – in relazione alla vicenda della giovane Eluana Englaro – il
delicato problema della tutela del diritto all’autodeterminazione terapeutica
del malato nei casi in cui questi, versando in uno stato vegetativo permanente,
non sia più in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso sui
trattamenti sanitari cui deve essere sottoposto.
La Corte,
tracciando implicitamente i principi generali ai quali avrebbe dovuto attenersi
la disciplina sulle disposizioni anticipate di trattamento, ha affermato: «il
consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del
trattamento sanitario: senza il consenso informato l'intervento del medico è,
al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui
ricorra uno stato di necessità, sicuramente illecito, anche quando è
nell'interesse del paziente; la pratica del consenso libero e informato
rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell'individuo e un mezzo per
il perseguimento dei suoi migliori interessi. Il consenso informato ha come
correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di
trattamento medico, ma - atteso il principio personalistico che anima la nostra
Costituzione (la quale vede nella persona umana un valore etico in sé e guarda
al limite del «rispetto della persona umana» in riferimento al singolo
individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell'integralità della sua
persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose,
culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive) e la
nuova dimensione che ha assunto la salute (non più intesa come semplice assenza
di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi
coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli
aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua
esperienza) - altresì di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere
consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella
terminale».
Solo per completezza, occorre menzionare la sentenza della
Terza sezione, 21 giugno 2017, n. 3058, con cui questo Consiglio ha, tra
l’altro, precisato: «deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione
terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il
sacrificio del bene della vita. Benché sia stato talora prospettato un obbligo
per l'individuo di attivarsi a vantaggio della propria salute o un divieto di
rifiutare trattamenti o di omettere comportamenti ritenuti vantaggiosi o
addirittura necessari per il mantenimento o il ristabilimento di essa, il
Collegio ritiene che la salute dell'individuo non possa essere oggetto di
imposizione autoritativo-coattiva. Di fronte al rifiuto della cura da parte del
diretto interessato, c'è spazio - nel quadro dell' "alleanza
terapeutica" che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme,
di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno - per una
strategia della persuasione, perché il compito dell'ordinamento è anche quello
di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di
debolezza e di sofferenza; e c'è, prima ancora, il dovere di verificare che
quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia
tali connotati non c'è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di
curarsi come principio di ordine pubblico. Ciò posto, non v'è dubbio che
l'idratazione e l'alimentazione artificiali con sondino nasogastrico
costituiscono un trattamento sanitario. Esse, infatti, integrano un trattamento
che sottende un sapere scientifico, che è posto in essere da medici, anche se
poi proseguito da non medici, e consiste nella somministrazione di preparati
come composto chimico implicanti procedure tecnologiche».
Dalle considerazioni che precedono emerge che il principio di
autodeterminazione terapeutica – di cui sono proiezione sia la disciplina del
consenso informato sia quella in materia di disposizioni anticipate di
trattamento – trova conferma in una lettura di sistema dell’art. 32 Cost. con
l’art. 13 Cost. e con le garanzie ivi previste (la doppia riserva, di legge e
di giurisdizione, contro ogni forma di coazione sul corpo) per cui imporre un
trattamento, pur vitale, contro la volontà del malato (e al di fuori delle
ipotesi di trattamenti sanitari obbligatori imposti ex lege)
determinerebbe la violazione della stessa libertà personale, risolvendosi tale
coazione in un’indebita invasione dello spazio fisico del paziente; paziente
che, sulla base proprio del tenore dell’art. 32, comma 2 Cost., è tutelato nel
suo diritto individuale a non subire trattamenti medici indesiderati, in
mancanza di una legge che sancisca l’obbligatorietà del trattamento.
La
Convenzione Europea di Bioetica del 1997 (c.d. di Oviedo),
dal canto suo, all’art. 5 stabilisce: “Un intervento nel campo della salute
non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato
consenso libero e informato.
Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata
sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi
rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare
il proprio consenso”.
L’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, d’altro canto, sancisce il diritto di ogni individuo alla propria
integrità fisica e psichica precisando che nell’ambito della medicina e della
biologia devono essere tra l’altro rispettati il consenso libero e informato
della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge, nonché il
divieto delle pratiche eugenetiche. Tutto questo in un quadro in cui all’art. 1
si stabilisce che la dignità umana è inviolabile e deve essere rispettata e
tutelata.
La legge 22 dicembre 2017, n. 219, contiene la prima ed
organica disciplina sul consenso informato. All’art. 1 si afferma
(conformemente ai principi espressi dalla Corte costituzionale nella sentenza
n. 448 del 2008) che la legge, nel rispetto dei principi di cui agli artt. 2,
13 e 32 della Costituzione e degli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, tutela il diritto alla vita, alla salute,
alla dignità e all’autodeterminazione della persona.
Si stabilisce chiaramente che nessun trattamento sanitario può
essere iniziato o proseguito - tranne che nei casi espressamente previsti - se
privo del consenso libero e informato, nel quale si incontrano l’autonomia
decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la
responsabilità del medico.
Il comma 3 dell’articolo ora citato pone l’accento sul fatto
che l’informazione deve essere esaustiva e comprensibile, con l’obiettivo che
la relazione terapeutica, pur essendo asimmetrica, si mantenga umana, personale
ed empatica, nonostante l’eccessivo tecnicismo della medicina e la
“spersonalizzazione” dei rapporti che questo può comportare. La relazione
terapeutica, per essere definita di cura, si deve dunque basare su una comunicazione
chiara e completa tra i due soggetti. È, infatti, previsto espressamente che
ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di
essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo
alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti
diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili
alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario
e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi.
Oltre al diritto di essere informati, è consacrato il diritto
di rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi accertamento diagnostico o
trattamento sanitario e il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso
prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento.
La legge precisa poi quanto già affermato dalla Cassazione nel
2007, ovvero che sono trattamenti sanitari anche la nutrizione artificiale e
l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica,
di nutrienti mediante dispositivi medici. Il paziente può dare incarico ai
familiari, ovvero a una persona di sua fiducia, di ricevere le informazioni ed
anche di esprimere il consenso in sua vece, facendo così potenzialmente acquisire
al terzo una sorta di “potere di rappresentanza” non trascurabile.
La novella del 2017 impone al medico di rispettare la volontà
espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al
medesimo, con la conseguenza che ciò lo esime da ogni eventuale responsabilità
civile o penale (precisazione non superflua dopo il caso Welby). Nel caso di
rifiuto di cure, il medico, avvertito il paziente delle conseguenze, deve
comunque promuovere ogni azione di sostegno, anche avvalendosi dei servizi di
assistenza psicologica; la norma ha il chiaro scopo di evitare che il rifiuto
delle cure si traduca in un potenziale abbandono terapeutico.
Anche nelle situazioni di urgenza il medico è tenuto a
rispettare la volontà del paziente se questi è in grado di manifestarla,
altrimenti deve agire assicurando le cure necessarie.
Il sanitario inoltre, ai sensi dell’art. 2, deve adoperarsi per
alleviare le sofferenze del paziente, anche in caso di rifiuto o di revoca del
consenso al trattamento sanitario, garantendo un’appropriata terapia del
dolore.
Con le disposizioni anticipate di trattamento (DAT), invece,
ciascun individuo, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, può
decidere “ora per allora” su eventuali trattamenti sanitari che potrebbero
riguardarlo e sui quali in futuro non sarà in condizione di prestare il
consenso; ciò avviene manifestando la propria volontà mediante la redazione di
un atto all’uopo previsto e nel rispetto delle previsioni di legge.
Le DAT hanno fatto ingresso nel nostro ordinamento con l’art. 4
della legge n. 219/2017, anche se da tempo conosciute dalla Convenzione di
Oviedo (art. 9: i desideri precedentemente espressi a proposito di un
intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non
è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione) e
dai giuristi attraverso un’interpretazione estensiva, ad opera di una parte
della giurisprudenza, dell’istituto giuridico dell’amministrazione di sostegno.
L’istituto delle DAT consiste, in altri termini,
nell’espressione della volontà della persona fisica maggiorenne che enuncia, in
un momento in cui è capace di intendere e di volere, i propri orientamenti sul
"fine vita", in merito ai trattamenti sanitari, agli accertamenti
diagnostici o alle scelte terapeutiche che intende o non intende accettare,
volontà queste di cui il medico “è tenuto al rispetto” – secondo quanto
previsto dal comma 5 dell’art. 4 - nell'ipotesi in cui sopravvenga una perdita
della capacità di intendere e di volere e l’interessato non dovesse essere più
in grado di esprimere le proprie determinazioni acconsentendo o non
acconsentendo alle cure proposte.
L’art. 4 prima citato si occupa delle DAT prevedendo tre
requisiti.
Il primo è relativo alla capacità del disponente: egli deve
essere un soggetto maggiorenne e capace di intendere e di volere.
Il secondo requisito riguarda il presupposto in presenza del
quale il soggetto può esprimere le proprie disposizioni: “in previsione di
un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi”.
Il terzo requisito riguarda il momento che precede le DAT: “dopo
avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue
scelte”.
Il disponente può indicare una persona di sua fiducia,
denominata “fiduciario”, maggiorenne e capace di intendere e di volere, che ne
faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le
strutture sanitarie.
L’accettazione della nomina da parte del fiduciario avviene
attraverso la sottoscrizione delle DAT o con atto successivo ad esse allegato.
Il fiduciario è, dunque, un mandatario (generalmente legato al
dichiarante da vincoli di parentela, coniugio, affetto o amicizia) cui l’autore
delle DAT assegna l’incarico di assicurare che tali dichiarazioni siano
rispettate ove questi non sia più in grado d’autodeterminarsi a causa della
patologia. Il mandato è revocabile ad nutum osservando le medesime forme
stabilite per il suo conferimento. La sopravvenuta rinuncia, morte o incapacità
del fiduciario non si ripercuote sull’efficacia delle DAT, giacché la nomina
non partecipa della natura di elemento «strutturale» della fattispecie; in ogni
caso, il giudice tutelare può nominare un amministratore di sostegno allorché
le circostanze fattuali lo suggeriscano (comma 4).
Per quanto concerne la natura delle DAT, osserva la dottrina
che si tratta di un negozio giuridico a contenuto non patrimoniale,
unilaterale, non recettizio, sottoposto a condizione sospensiva che produrrà
quindi i suoi effetti in un momento successivo, con la precisazione che, con
riguardo alla nomina del fiduciario, la clausola di designazione è inefficace
finché non è accettata da quest’ultimo, con sottoscrizione coeva o atto
successivo. Giova ribadire che l’accettazione del fiduciario non è elemento di
validità o efficacia delle DAT, in quanto queste ben possono non contenere
designazione alcuna.
Ai sensi dell’art. 4, comma 5, il medico è tenuto al rispetto
delle DAT, che tuttavia possono essere disattese, in tutto o in parte, dal
medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente
incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente
ovvero sussistano terapie, non prevedibili all’atto della sottoscrizione,
capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di
vita. Nel caso di conflitto tra il medico e il fiduciario decide il giudice
tutelare.
Con tali norme il legislatore ha preso esplicita posizione
sulla rilevanza delle DAT. Prima della promulgazione della legge, infatti, la
dottrina aveva chiarito l’esistenza di tre diversi possibili modelli teorici.
Per il primo, le DAT dovevano considerarsi vincolanti, in modo
inderogabile, per il sanitario. Tale tesi, pur avendo il pregio di esaltare la
volontà del paziente, tuttavia peccava per eccesso perché non consentiva alcuna
discrezionalità al medico soprattutto nei casi in cui fossero sopravvenute
nuove terapie non conosciute al momento dell’adozione delle DAT.
Per il secondo modello, invece, le DAT potevano semplicemente
orientare il medico che però doveva, e poteva, scegliere liberamente quali
trattamenti sanitari somministrare al paziente. La tesi evidentemente peccava
per difetto svalutando la volontà del paziente e ponendosi al limite della
legittimità costituzionale.
Ecco perché in dottrina era stata proposta la terza tesi - che
sembra essere quella accolta dal Legislatore - che prevedeva la vincolatività
delle DAT a meno che il sanitario, motivando adeguatamente, riscontrasse valide
ragioni per discostarsene in tutto o in parte.
Per le DAT, a differenza del semplice consenso informato, è
contemplata una maggiore rigidità nelle forme: devono essere redatte per atto
pubblico o per scrittura privata autenticata ovvero per scrittura privata
consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del
comune di residenza del disponente medesimo, che provvede all’annotazione in
apposito registro, ove istituito, oppure presso le strutture sanitarie. Nel
caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, le DAT
possono essere espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi che
permettano alla persona con disabilità di comunicare. Con le medesime forme
esse sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento.
Il comma 7 stabilisce inoltre che “le regioni che adottano
modalità telematiche di gestione della cartella clinica o il fascicolo
sanitario elettronico o altre modalità informatiche di gestione dei dati del
singolo iscritto al Servizio sanitario nazionale possono, con proprio atto,
regolamentare la raccolta di copia delle DAT, compresa l’indicazione del
fiduciario, e il loro inserimento nella banca dati, lasciando comunque al
firmatario la libertà di scegliere se darne copia o indicare dove esse siano
reperibili”.
3. La risposta ai quesiti formulati dal Ministero della
salute.
La
Commissione speciale, preliminarmente, evidenzia che la
complessità del quadro normativo nonché talune espressioni non univoche
utilizzate dal Legislatore potrebbero comportare concrete difficoltà
applicative della legge n. 219/2017, tali da vanificare la rilevante portata
innovativa delle relative disposizioni.
Pertanto, anche in applicazione dei tradizionali canoni di
interpretazione della legge, il parere sui singoli quesiti avrà particolare
riguardo alla necessità di dare effettiva attuazione ai precetti legislativi.
Sotto tale ultimo profilo appare anche essenziale dare adeguata
pubblicità dell’istituzione della banca dati nazionale, analogamente a quanto
testualmente previsto per le DAT dall’art. 4, comma 8 della legge n. 219/2017.
Primo quesito
Il Ministero, avanzando dubbi interpretativi dovuti alla
parziale mancanza di coordinamento tra l’art. 4, comma 7, l. n. 219/2017 e
l’art. 1, comma 418, l. n. 205/2017, chiede in particolare a questo Consiglio:
1. “se la banca dati, istituita presso questo Ministero,
debba intendersi solo quale strumento finalizzato ad annotare ed attestare solo
l’avvenuta espressione delle DAT nonché ad indicare ove la stessa sia
reperibile, ovvero contenere essa stessa copia della disposizione anticipata di
trattamento eventualmente resa”. Per il Ministero, “la prima
interpretazione appare più aderente alla formulazione letterale della
disposizione della legge di bilancio, ove si recita che la predetta banca dati
è “destinata alla registrazione delle disposizioni anticipate di trattamento
(DAT)” e confortata dal raffronto della medesima con il testo dell’art 4, comma
7, della legge 22 dicembre 2017, n. 219, laddove si prevede espressamente che
le regioni che adottano modalità informatiche di gestione dei dati del singolo
iscritto al servizio sanitario nazionale (SSN) possono regolamentare “la
raccolta di copia delle DAT, compresa l’indicazione del fiduciario, e il loro
inserimento nella banca dati”. La seconda interpretazione, sempre per il
Ministero, apparirebbe invece meramente desumile da una presunta – ma non
esplicitata – intenzione del legislatore di assicurare una più estesa
attuazione, con le disposizioni recate dalla legge di bilancio 2018, alla
specifica normativa in materia di DAT”.
Al riguardo, il Consiglio osserva che è pur vero che il termine
“registrazione” utilizzato nella legge di bilancio, confrontato con il
termine “raccolta”, previsto dall’art. 4, comma 7, della legge n.
219/2017, potrebbe far propendere per un’interpretazione restrittiva, così come
proposto dal Ministero richiedente; tuttavia detto termine sembra sia stato
utilizzato dal Legislatore in senso atecnico, in quanto lo scopo indubbio della
legge è quello di istituire un registro nazionale ove poter raccogliere le DAT.
Ciò del resto è confermato dalle seguenti considerazioni:
a) è vero che la tutela della salute, ex art. 117,
comma 3, Cost., rientra nella potestà legislativa concorrente, ma è anche vero
che, sulla base del quadro costituzionale sopra delineato, le DAT possono
essere inquadrate, per un verso, nella materia dell’“ordinamento civile”
di competenza esclusiva dello Stato (trattandosi di diritti fondamentali della
persona umana) e, per altro verso, nella materia dei “livelli essenziali
delle prestazioni”, anche questa di competenza
esclusiva; conseguentemente il registro previsto dalla legge di bilancio,
ad avviso del Consiglio, non può servire solo a registrare ciò che è stato
raccolto dai registri regionali (che peraltro sono sostanzialmente facoltativi)
o dai registri ex lege facoltativi istituiti presso i comuni né può
limitarsi a contenere la semplice annotazione o registrazione delle DAT
comunque esistenti; al contrario, tale registro nazionale deve svolgere
l’importante compito di dare attuazione ai principi costituzionali prima
ricordati – in un quadro di competenze legislative statali che per questo
aspetto sono di tipo esclusivo – anche raccogliendo le DAT, consentendo, in tal
modo, che le stesse siano conoscibili a livello nazionale ed evitando che
abbiano una conoscibilità circoscritta al luogo in cui sono state rese. Il che
vanificherebbe, con tutta evidenza, l’applicazione concreta della normativa;
b) peraltro, se il registro nazionale avesse unicamente il
compito di registrare le DAT senza raccoglierle, vi sarebbe il concreto rischio
di dar vita ad un sistema incompleto e privo di utilità: la legge 219/2017 -
come si è visto - non prevede l’obbligatorietà né del registro regionale (le
regioni “possono, con proprio atto, regolamentare la raccolta delle DAT”)
né di quello comunale (l’art. 4, comma 6, parla di “apposito registro, ove
istituito”), con la conseguenza che potrebbe mancare a livello locale un
registro che raccolga le DAT; anche per tale ragione appare necessario un
registro nazionale completo e efficiente, al quale gli interessati possono
direttamente trasmettere le DAT che hanno reso;
c) è opportuno che siano raccolte anche le DAT delle
persone non iscritte al SSN: se, infatti, il registro regionale può raccogliere
solo le DAT degli iscritti al SSN, l’unico modo per garantire i medesimi
diritti fondamentali della persona umana anche a coloro che non sono iscritti
al SSN è l’istituzione di un effettivo ed efficiente registro nazionale.
Sul punto la
Commissione speciale rileva che occorrerà prevedere, su richiesta
dell’interessato, l’invio alla banca dati nazionale delle DAT da parte
dell’ufficiale dello Stato civile o dalla struttura sanitaria ai quali sono
state consegnate e del notaio che le ha ricevute. Detto incombente è necessario
per consentire al medico, in caso di bisogno, di conoscere se il paziente ha
reso o meno le disposizioni in questione.
In conclusione, la risposta al quesito è nel senso che la banca
dati nazionale deve, su richiesta dell’interessato, poter contenere copia delle
DAT stesse, compresa l’indicazione del fiduciario e l’eventuale revoca.
Secondo quesito
Col secondo quesito il Ministero chiede “se la banca dati
nazionale sia destinata al solo“ … iscritto al SSN …” cui si rivolgono le
banche dati regionali ovvero ad ogni persona maggiorenne anche se non iscritta
al SSN come sembra doversi dedurre dalla diversa terminologia utilizzata dal
legislatore nei due casi”. Per l’Autorità di governo la seconda
interpretazione sarebbe più aderente alla normativa di riferimento.
Come anticipato in occasione della risposta al primo quesito,
il Consiglio di Stato è dell’opinione che i principi costituzionali prima
ricordati vadano nella direzione di imporre una lettura estensiva, aprendo il
registro nazionale anche a tutti coloro che non sono iscritti al SSN. La tutela
costituzionale garantita a questo diritto, infatti, non permette di subordinare
il riconoscimento alla suddetta iscrizione.
Terzo quesito
Il terzo dubbio interpretativo formulato è “se sia esclusa –
alla luce della lettura coordinata delle disposizioni richiamate – la
possibilità di imporre, ai fini di conservazione elettronica, la
standardizzazione delle DAT, la cui formulazione, sia pure con l’avallo dei
notai o degli Ufficiali dello Stato civile, sembra doversi consentire senza schemi
preordinati, configurandosi le stesse come atti a contenuto libero”.
In ordine a tale quesito, il Consiglio esprime il parere che,
in via generale, vada mantenuta la possibilità di rendere le DAT senza un
particolare vincolo di contenuto: l’interessato deve poter scegliere di
limitarle solo ad una particolare malattia, di estenderle a tutte le future
malattie, di nominare il fiduciario o di non nominarlo, ecc.
Sotto tale profilo può essere utile un atto di indirizzo –
eventualmente adottato all’esito di un tavolo tecnico con il Ministero della
giustizia, il Consiglio nazionale del notariato e il Ministero dell’interno –
che indichi alcuni contenuti che possono essere presenti nelle DAT, allo scopo
di guidare gli interessati sulle scelte da effettuare. Spetterà poi al
Ministero di mettere a disposizione un modulo tipo, il cui utilizzo è
naturalmente facoltativo, per facilitare il cittadino, non necessariamente
esperto, a rendere le DAT.
Conclusivamente è da escludere la possibilità di prevedere una
vera e propria standardizzazione delle DAT a fini di conservazione elettronica.
Quarto quesito
Col quarto quesito - considerato che, ai sensi dell’art. 4,
comma 1, della richiamata legge n. 219/2017, l’assistito esprime le DAT “dopo
avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue
scelte” - il Ministero chiede se l’acquisizione di siffatta informativa
possa essere dichiarata dall’interessato, ai sensi del d.P.R. n. 445/2000
contestualmente alla disposizione anticipata.
Su tale problema osserva la Commissione speciale
che - anche in relazione alle possibili responsabilità del medico che si è
attenuto alle DAT considerandole valide, e della struttura sanitaria in cui è
eventualmente incardinato - appare necessario che vi sia certezza in ordine
alla “adeguatezza” delle informazioni mediche acquisite dall’interessato e
riguardanti le conseguenze delle scelte effettuate.
Pertanto, pur non potendo rilevare sotto il profilo della
validità dell’atto, sembra decisamente opportuno che tale circostanza venga
attestata, magari suggerendola nel modulo-tipo facoltativo che verrà
predisposto dal Ministero della salute, così come evidenziato nella risposta al
terzo quesito.
Quinto quesito
Col quinto quesito viene chiesto “se la legittimazione ad
accedere alla banca dati per verificare l’esistenza di una DAT e, ove
riprodotto, il contenuto della stessa, debba intendersi limitata al personale
medico (considerato che l’art 4, comma 5, della legge n. 219 del 2017 impone
esplicitamente al “medico” il rispetto delle DAT) in procinto di iniziare o
proseguire un trattamento sanitario nei confronti di un paziente in situazione
di “incapacità di autodeterminarsi”, e se quest’ultima condizione debba essere
attestata con idonea certificazione da trasmettere e acquisire alla menzionata
banca dati”.
Al riguardo, il Consiglio osserva che la normativa in materia
di DAT deve essere coordinata con le disposizioni normative a tutela del
diritto alla riservatezza, anche questo diritto fondamentale della persona
umana.
Ferma restando dunque la necessità che su tali profili si
esprima il Garante per la protezione dei dati personali – come del resto
previsto dal comma 419 dell’art. 1 della legge n. 205/2017 – la Commissione speciale è
dell’avviso che:
1. alle DAT può accedere il medico che lo ha in cura allorché
sussista una situazione di incapacità di autodeterminarsi del paziente;
2. deve potervi accedere il fiduciario sino a quando è in
carica (nel senso che non è stato revocato, ex art. 4, comma 3, legge n.
219/2017) perché, ragionando diversamente, non avrebbe la possibilità di dare
attuazione alle scelte compiute; va ricordato che in tal caso non sembra
violato il diritto alla riservatezza del paziente perché l’art. 4, al comma 2,
prevede espressamente che, dopo l’accettazione della nomina da parte del
fiduciario, a quest’ultimo sia rilasciata una copia delle DAT.
Alla luce del quadro normativo fin qui sintetizzato, e delle
risposte date ai quesiti, la
Commissione evidenzia altresì la necessità che il Governo
verifichi, dopo un primo periodo di applicazione, se vi siano profili da
modificare o migliorare con interventi di carattere amministrativo o normativo.
Il Consiglio di Stato ha, infatti, sottolineato più volte (cfr.
parere Sez. consultiva atti normativi n. 515 del 24 febbraio 2016; n. 298 del 5
febbraio 2018; n. 635 del 14 marzo 2018) la rilevanza cruciale della fase
attuativa di ogni nuova normativa e della relativa fase di monitoraggio.
Anche in questa occasione, data l’importanza e la delicatezza
dell’intervento normativo in questione - che ha ad oggetto, come è noto,
l’esercizio di diritti fondamentali della persona umana - si sottolinea la
necessità di prevedere efficaci e costanti strumenti di monitoraggio del
funzionamento delle norme, volti a verificarne l’idoneità a perseguire, in
concreto, gli obiettivi fissati dal legislatore ed a garantirne la più estesa
attuazione.
P.Q.M.
nelle esposte considerazioni è la risposta ai quesiti del
Consiglio di Stato.
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GLI ESTENSORI
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IL PRESIDENTE
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Vincenzo Neri, Giulia Ferrari
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Mario Luigi Torsello
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IL SEGRETARIO
Giuseppe Testa