Corte cost. 22 novembre 2018, n. 212
Sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli
artt. 3, lettera c), numero 2), e 8 del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n.
5, recante «Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile
in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed
integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi
dell’articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76»,
sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna, in riferimento all’art. 22 della
Costituzione, con ordinanza depositata il 22 novembre 2017
Sono infondate le questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5
del 2017, sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna, in riferimento agli
artt. 2, 3, 11, 76 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione
all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 1 e 7 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000
e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, con l’ordinanza suddetta;
Sono infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8
del d.lgs. n. 5 del 2017, sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna, in
riferimento agli artt. 2, 3, 11, 76 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in
relazione all’art. 8 della CEDU e agli artt. 1 e 7 della CDFUE, con l’ordinanza
suddetta
SENTENZA N. 212
ANNO 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI,
Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,
Silvana SCIARRA, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio
PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3, lettera c), numero
2), e 8 del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5, recante «Adeguamento
delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di
iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni
normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo
1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76)», promosso dal
Tribunale ordinario di Ravenna con ordinanza depositata il 22 novembre 2017,
iscritta al n. 32 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visto l’atto di costituzione di G. Z.G. e G. G., nonché l’atto di intervento
del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella udienza pubblica del 9 ottobre 2018 il Giudice relatore Giuliano
Amato;
udito l’avvocato Stefano Chinotti per G. Z.G. e G. G. e l’avvocato dello
Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 22 novembre 2017, il Tribunale ordinario di Ravenna ha
sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, lettera c),
numero 2), e 8 del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5, recante
«Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia
di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni
normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo
1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», in
riferimento agli artt. 2, 3, 11, 22, 76 e 117, primo comma, della Costituzione,
quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e
agli artt. 1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
(CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12
dicembre 2007.
1.1.– In particolare, l’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del
2017 inserisce nell’art. 20 del d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223 (Approvazione del
nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente), il comma 3-bis, il
quale prevede che «[p]er le parti dell’unione civile le schede devono essere
intestate al cognome posseduto prima dell’unione civile».
L’art. 8 dello stesso decreto legislativo dispone che «[…] l’ufficiale dello
stato civile, con la procedura di correzione di cui all’articolo 98, comma 1,
del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, annulla
l’annotazione relativa alla scelta del cognome effettuata a norma dell’articolo
4, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio
2016, n. 144».
1.2.– Ad avviso del giudice a quo, entrambe le disposizioni censurate
violerebbero, in primo luogo, l’art. 2 Cost., poiché la parte dell’unione
civile verrebbe privata, d’ufficio e senza contraddittorio, del cognome comune
legittimamente acquisito e utilizzato, così determinando la lesione dei diritti
al nome, all’identità e alla dignità personale.
Sarebbe violato anche il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3
Cost., non essendo rinvenibile alcuna giustificazione del potere statale
d’intervenire d’imperio, con la procedura senza contraddittorio prevista per la
correzione di errori materiali, al fine di mutare l’identità personale di un
soggetto.
Inoltre, le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto con l’art. 22
Cost., poiché, con l’eliminazione della valenza anagrafica del cognome comune,
la parte dell’unione civile verrebbe privata di un cognome già acquisito.
Esse sarebbero altresì in contrasto con l’art. 76 Cost., poiché il
legislatore delegante non avrebbe conferito alcun potere di revoca o
annullamento delle iscrizioni e annotazioni già effettuate.
Infine, è denunciata la violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.,
poiché sarebbe pregiudicato il diritto al nome e al rispetto della vita privata
e familiare, garantito dall’art. 8 della CEDU e dagli artt. 1 e 7 della CDFUE.
2.– Il Tribunale ordinario di Ravenna è chiamato a decidere in ordine al
ricorso proposto da due persone unite civilmente al fine di ottenere, ai sensi
dell’art. 98 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e
la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo
2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), l’annullamento della
variazione delle generalità anagrafiche di una di esse, eseguite in
applicazione delle disposizioni censurate.
Il giudice a quo riferisce che, al momento della costituzione dell’unione
civile, in base all’art. 1, comma 10, della legge 20 maggio 2016, n. 76
(Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e
disciplina delle convivenze), i ricorrenti hanno scelto quale cognome comune
quello di uno di essi, mentre l’altro ha dichiarato di voler aggiungere al
proprio il cognome comune. A seguito di tale scelta, è stata modificata la sua
scheda anagrafica e sono state conseguentemente rinnovate la carta d’identità,
la tessera sanitaria e altri documenti personali.
Il giudice rimettente riferisce che, a seguito dell’entrata in vigore del
d.lgs. n. 5 del 2017, l’ufficiale d’anagrafe ha provveduto alla variazione
delle generalità anagrafiche e all’annullamento dell’annotazione relativa alla
scelta del cognome eseguita in base all’art. 4, comma 2, del decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144 (Regolamento
recante disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri
nell’archivio dello stato civile, ai sensi dell’articolo 1, comma 34, della
legge 20 maggio 2016, n. 76), nonché dell’annotazione nell’atto di nascita
presso i registri dello stato civile, ripristinando il cognome originario.
Ad avviso del giudice a quo, le censurate disposizioni del d.lgs. n. 5 del
2017 avrebbero determinato la sostanziale abrogazione dell’art. l, comma 10,
della legge n. 76 del 2016 e ne avrebbero negato l’originario contenuto
precettivo, volto a riconoscere il diritto delle parti dell’unione civile di
assumere a tutti gli effetti un cognome comune, consentendo ad una di esse di
modificare il cognome originario. Da ciò discenderebbe la violazione di diritti
fondamentali della persona, tutelati anche a livello sovranazionale, ed in
particolare dagli artt. l e 7 della CDFUE, nonché dall’art. 8 della CEDU.
Ad avviso del rimettente, l’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017, nella parte in
cui priva la persona di un cognome già acquisito e utilizzato, disponendo
retroattivamente la modifica di una situazione anagrafica legittimamente
costituita prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto, violerebbe il
diritto al nome, all’identità e dignità personale, nonché il diritto al
rispetto della vita privata e familiare.
Il giudice a quo fa rilevare che gli artt. 6 e seguenti del codice civile
sanciscono il diritto al nome, prevedendo il generale divieto di mutamento
dello stesso. Infatti, non sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche al
nome, se non nei casi e con le formalità previste dall’art. 89 del d.P.R. n.
396 del 2000. Ancorché previsto da una legge ordinaria, sarebbe indubitabile il
rilievo costituzionale del diritto al nome (composto da nome e cognome), quale
elemento costitutivo del diritto all’identità personale, tutelato dall’art. 2
Cost., anche nelle formazioni sociali nelle quali si esplica la personalità
dell’individuo. Il rimettente osserva che il nome è stato ritenuto meritevole
di un’espressa tutela anche da parte dell’art. 22 Cost. che, sia pure per il
solo caso in cui ciò avvenga per motivi politici, prevede che «nessuno può
essere privato del nome».
Inoltre, la norma delegata si porrebbe in contrasto con il principio di
ragionevolezza (art. 3 Cost.), poiché non sarebbe rinvenibile alcuna
giustificazione del potere statale d’intervenire d’imperio e con la procedura
senza contraddittorio prevista per la correzione di errori materiali (art. 98
del d.P.R. n. 396 del 2000) al fine di mutare l’identità personale di un
soggetto.
Il giudice rimettente sottolinea che, in caso di mutamento di status,
l’interessato ha diritto di essere sentito e di opporsi al mutamento del
proprio cognome (art. 262 cod. civ.). Al riguardo, si fa rilevare che con
sentenza n. 13 del 1994 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale
dell’art. 165 del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato
civile), per violazione dell’art. 2 Cost., nella parte in cui non prevedeva
che, ove la rettifica degli atti dello stato civile, per ragioni indipendenti
dalla volontà del soggetto, comporti il cambiamento del cognome, il soggetto
stesso possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il
cognome originariamente attribuitogli.
Sarebbe, inoltre, ravvisabile la violazione dell’art. 76 Cost., in quanto
l’art. 1, comma 28, della legge n. 76 del 2016, nel conferire la potestà
legislativa al Governo «fatte salve le disposizioni di cui alla presente
legge», non avrebbe previsto alcun potere di revoca o annullamento retroattivo
di iscrizioni e annotazioni già effettuate.
È inoltre denunciato il contrasto con l’art. 8 della CEDU che prevede il
diritto della persona al rispetto della vita privata e familiare, nell’ambito
del quale la Corte
europea dei diritti dell’uomo ha individuato la tutela del diritto al nome,
quale espressione del diritto all’identità e dignità personale. Le disposizioni
censurate si porrebbero in contrasto anche con i principi affermati dagli artt.
1 e 7 della CDFUE, i quali enunciano il diritto alla dignità umana e al
rispetto della vita privata e familiare.
Ritenendo non praticabile un’interpretazione adeguatrice, tale da attribuire
alle disposizioni censurate un significato conforme all’art. 8 della CEDU e
agli artt. 1 e 7 della CDFUE, il giudice a quo ritiene necessario rimettere a
questa Corte la valutazione della loro legittimità in riferimento agli artt. 11
e 117, primo comma, Cost., alla luce dei principi e degli obblighi comunitari.
3.– Nel giudizio dinanzi alla Corte si sono costituiti con un unico atto G.
Z.G. e G. G., parti ricorrenti nel giudizio principale, chiedendo
l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale e ribadendo tali
conclusioni con successiva memoria.
3.1.– Le parti costituite evidenziano che, privando di valenza anagrafica il
cognome comune, relegato ad una funzione meramente simbolica, sarebbero stati
svuotati i diritti soggettivi attribuiti alle parti delle unioni civili
dall’art. 1, comma 10, della legge n. 76 del 2016. Sarebbe lesa l’identità
personale della parte il cui cognome sia diverso da quello scelto quale cognome
comune. Infatti, la cancellazione prevista dall’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017
ridefinisce l’identità personale secondo lo status quo ante.
Ciò determinerebbe la violazione del diritto di una delle parti dell’unione
civile (quella che abbia assunto il cognome comune in luogo del proprio o in
aggiunta al proprio) di trasmettere alla prole il proprio cognome, come
modificato a seguito della scelta consentita dal citato comma 10. Si osserva
inoltre che, ove una delle parti di unioni civili già costituite abbia generato
figli, ai quali sia stato assegnato ex lege il cognome del proprio genitore,
modificato per effetto delle disposizioni dettate dal d.P.C.m. n. 144 del 2016,
sarebbe lesa anche l’identità personale dei figli, in quanto ne sarebbe trasformato
il presupposto costituito dal nome.
L’eliminazione retroattiva delle annotazioni e degli aggiornamenti
anagrafici già eseguiti determinerebbe il sacrificio di diritti soggettivi
tutelati anche a livello sovranazionale. Al riguardo, sono richiamate alcune
pronunce della Corte di Strasburgo che hanno ricondotto il diritto al nome
nell’ambito dell’art. 8 della CEDU (sentenze 21 ottobre 2008, Guzel Erdagoz
contro Turchia; 1° luglio 2008, Daróczy contro Ungheria; 6 settembre 2007,
Johansson contro Finlandia; 16 novembre 2004, Unal Tekeli contro Turchia; 22
febbraio 1994, Burghartz contro Svizzera).
Le parti costituite deducono che, ai sensi dell’art. 52, comma 3, della
CDFUE, in caso di corrispondenza tra i diritti riconosciuti dalla Carta di
Nizza e quelli garantiti dalla CEDU, il significato e la portata dei primi sono
identici a quelli conferiti dalla Convenzione. Pertanto, ad avviso delle parti
costituite, tutti i diritti previsti dalla CEDU che trovino corrispondenza
nella CDFUE debbono ritenersi tutelati con la medesima forza di quelli sanciti
nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Ciò sarebbe
confermato anche dall’art. 53 della CDFUE, il quale sancisce il divieto di
interpretarne le disposizioni in senso limitativo dei diritti riconosciuti
dalla CEDU.
Sono, quindi, richiamate alcune pronunce di giudici di merito che hanno
ritenuto le disposizioni in esame incompatibili con la tutela sovranazionale
dei diritti fondamentali della persona e hanno provveduto alla loro
disapplicazione.
3.2.– Ciò premesso, le parti costituite illustrano le ragioni a sostegno
dell’illegittimità costituzionale delle censurate disposizioni del d.lgs. n. 5
del 2017.
3.2.1.– Si evidenzia che l’istituto dell’unione civile, pur essendo
modellato sulla disciplina del matrimonio, se ne discosterebbe sotto molteplici
profili. Sarebbe infatti differente la disciplina relativa alla filiazione,
all’adozione e agli obblighi derivanti dal vincolo. Particolarmente innovativa
sarebbe poi la disciplina relativa al cognome comune.
Ad avviso delle parti costituite, l’art. 4, comma 2, del d.P.C.m. n. 144 del
2016, esplicitando il contenuto di queste novità legislative, avrebbe dettato
la disciplina delle conseguenze anagrafiche della scelta operata dalle parti
unite civilmente, in quanto costitutiva della loro nuova identità personale.
La scelta del cognome comune rappresenterebbe l’esercizio di un diritto
soggettivo, previsto dalla legge n. 76 del 2016. In quanto espressione di un
diritto fondamentale, incidente sulla stessa identità personale, oltre che
sulla vita familiare, esso sarebbe incoercibile e non potrebbe essere negato
dall’ufficiale dello stato civile, se non per ragioni espressamente ammesse
dalla legge.
Viceversa, il d.lgs. n. 5 del 2017 ed il successivo decreto del Ministro
dell’interno 27 febbraio 2017, nell’omologare la disciplina del cognome comune
dell’unione civile a quella prevista dall’art. 143-bis cod. civ. per il cognome
coniugale avrebbe stravolto il significato normativo dell’art. 1, comma 10, della
legge n. 76 del 2016, condiviso dallo stesso Governo nel d.P.C.m. n. 144 del
2016.
A conferma di tale interpretazione, si osserva che se la legge n. 76 del
2016 avesse voluto consentire a una delle parti dell’unione civile il mero
utilizzo del cognome dell’altra, senza alcuna incidenza anagrafica, non ci
sarebbe stata ragione di prevedere l’ulteriore diritto di manifestare, con
un’apposita dichiarazione, la volontà di mantenere anche il proprio cognome
anagrafico. Il citato comma 10 dispone, infatti, che la parte può mantenere
anche il proprio cognome, anteponendolo o posponendolo a quello acquisito. Ad
avviso delle parti costituite, ciò sarebbe indicativo del fatto che, in caso
contrario, la parte perde il cognome originario e assume solo quello comune.
3.2.2.– Ad avviso delle parti, il d.lgs. n. 5 del 2017, anziché costituire
attuazione dell’art. l, comma 10, della legge n. 76 del 2016, introdurrebbe una
disciplina contrastante con esso, in violazione dell’art. 76 Cost.
Il comma 28 dell’art. 1 della legge n. 76 del 2016, infatti, conferisce la
delega facendo «salve le disposizioni di cui alla presente legge». Viceversa,
le norme censurate, lungi dal far salvo il comma 10, ne determinerebbero lo
svuotamento e la sostanziale abrogazione. Esse impedirebbero a questa
disposizione di esprimere tutti i suoi precetti normativi e determinerebbero la
lesione di diritti soggettivi riconosciuti sia alle parti unite civilmente
nella vigenza del d.P.C.m. n. 144 del 2016, sia a quelle che intendano, in
futuro, unirsi civilmente.
La disciplina del d.lgs. n. 5 del 2017 non sarebbe, quindi, coerente con il
limite posto dalla delega, né potrebbe ritenersi espressiva di adeguamento e
riassetto legislativo.
3.3.– Le disposizioni censurate si porrebbero, inoltre, in contrasto con gli
artt. 2, 3, 11, 22 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in riferimento agli
artt. 1 e 7 della CDFUE e all’art. 8 della CEDU.
Invero, la cancellazione retroattiva del «cognome comune» già assunto da una
delle parti dell’unione civile, lederebbe la dignità della persona e il suo
diritto inviolabile al nome e alla identità, protetto dall’art. 2 Cost., nonché
il diritto al rispetto alla vita privata e familiare. Si fa rilevare che la Corte di Strasburgo ha
garantito il diritto fondamentale alla vita familiare alle coppie omosessuali
(sentenza 24 giugno 2010, Schalk e Kopf contro Austria) e che la giurisprudenza
costituzionale ha riconosciuto il diritto fondamentale delle stesse coppie ad
essere riconosciute e tutelate ai sensi dell’art. 2 Cost. (sentenza n. 138 del
2010).
Con l’attribuzione della valenza anagrafica del cognome comune, la legge n.
76 del 2016 avrebbe inteso conferire all’unione civile visibilità sociale e
caratterizzazione anche sotto il profilo familiare. La modifica del cognome,
disposta dalle disposizioni censurate, frustrerebbe questa manifestazione della
vita familiare, in violazione dell’art. 2 Cost. e dell’art. 117, primo comma,
Cost., quest’ultimo in riferimento agli artt. l e 7 della CDFUE e all’art. 8
della CEDU. Né sussisterebbe alcuna delle ragioni, previste dallo stesso art. 8
della CEDU, che possa giustificare tale ingerenza del legislatore.
3.4.– In particolare, con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 76
Cost., le parti fanno rilevare che l’art. 1, comma 28, della legge n. 76 del
2016 esprimerebbe un principio di intangibilità, da parte del legislatore
delegato, delle disposizioni contenute nella legge delega. Tale principio
sarebbe violato dal legislatore delegato attraverso l’adozione di disposizioni
abrogative, che avrebbero l’effetto di stravolgere l’assetto normativo
delineato dal legislatore delegante, facendo degradare il cognome comune
dell’unione civile da cognome anagrafico a mero cognome d’uso.
Ad avviso delle parti, l’esclusione della valenza anagrafica del cognome
comune non costituirebbe affatto un’opzione interpretativa di uno tra i diversi
significati possibili della disposizione, ma sarebbe una soluzione contra
legem: in tal modo, si finirebbe per attribuire all’art. 1, comma 10, della legge
n. 76 del 2016 un’accezione priva di senso, in luogo dell’unico significato
possibile dotato di senso (in particolare circa la natura anagrafica del
cognome). In quanto frutto di un ripensamento del legislatore delegato, le
disposizioni correttive introdotte dal d.lgs. n. 5 del 2017 sarebbero
illegittime.
3.5.– D’altra parte, l’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017, nel prevedere la
modificazione retroattiva delle risultanze anagrafiche, sarebbe lesivo anche
del diritto al nome e alla sua conservazione (art. 22 Cost.), quale prima e più
immediata manifestazione del diritto all’identità personale e del diritto alla
dignità personale (art. 2 Cost. e art. 1 della CDFUE).
Infatti, le coppie unite civilmente, che abbiano assunto un cognome comune
nell’intervallo di tempo intercorrente tra l’entrata in vigore della legge n.
76 del 2016 e l’entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2017, sarebbero titolari
di un diritto fondamentale alla conservazione di tale cognome, ormai divenuto
elemento costitutivo della loro identità personale. Pertanto, sarebbe
illegittima la disposizione in esame che, con efficacia retroattiva, incide sul
cognome legittimamente assunto.
Inoltre, l’indicazione della procedura di correzione di cui all’art. 98,
comma 1, del d.P.R. n. 396 del 2000 sarebbe impropria ed incongrua. Le parti
costituite ritengono, infatti, che l’annotazione della scelta del cognome, già
effettuata in base al d.P.C.m. n. 144 del 2016, non costituisca un errore
materiale, ma sia invece un adempimento amministrativo effettuato dall’ufficiale
di stato civile nell’esecuzione di puntuali istruzioni legislative e
regolamentari. L’annullamento delle annotazioni rappresenterebbe un tentativo
surrettizio di dissimulare una rettificazione anagrafica imposta d’ufficio e in
assenza di contraddittorio. Ciò determinerebbe il sacrificio dei diritti
fondamentali delle coppie unite civilmente che abbiano esercitato il diritto di
scelta del cognome comune.
4.– Nel giudizio innanzi alla Corte, è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque non
fondate.
4.1.– L’interveniente ha eccepito, in primo luogo, l’inammissibilità delle
questioni per l’incompleta ricostruzione del quadro normativo. Il rimettente
avrebbe omesso di considerare la disciplina delle schede anagrafiche
individuali, di cui all’art. 20 del d.P.R. n. 223 del 1989, e dell’annotazione
negli archivi dello stato civile di cui all’art. 63 del d.P.R. n. 396 del 2000.
Si fa rilevare che con il matrimonio la moglie acquista il diritto di
aggiungere il cognome del marito al proprio (art. 143-bis cod. civ.); da ciò
non deriva alcuna modifica anagrafica del cognome della moglie, ma solo il
diritto di usare il cognome del marito, aggiungendolo al proprio. La relativa
scheda anagrafica non subisce modificazioni e continua a riportare il cognome
da nubile.
Per le unioni civili, la legge n. 76 del 2016, all’art. l, comma 10,
consente alle parti di scegliere un cognome comune. Nel prevedere che le schede
anagrafiche siano intestate al cognome posseduto prima dell’unione civile,
l’art. 3 del d.lgs. n. 5 del 2017 sarebbe coerente con le disposizioni in
materia di matrimonio.
Inoltre, sempre nell’intento di regolare in modo uniforme unioni civili e
matrimoni, il legislatore delegato ha modificato l’art. 63 del d.P.R. n. 396
del 2000, prevedendo l’iscrizione negli archivi dello stato civile della
dichiarazione di voler assumere un cognome comune e di anteporlo o posporlo al
proprio.
4.2.– D’altra parte, non sarebbero fondate le questioni sollevate in
riferimento agli artt. 2, 22 e 117, primo comma, Cost., con riguardo al
parametro interposto dell’art. 8 della CEDU.
Al momento della costituzione dell’unione civile le parti possono scegliere
il cognome, rendendo esplicita dichiarazione in tal senso. Secondo quanto
stabilito dal novellato art. 20 del d.P.R. n. 223 del 1989, tali dichiarazioni
non devono essere annotate nell’atto di nascita, né deve procedersi all’aggiornamento
della scheda anagrafica.
4.3.– Ciò posto, si fa rilevare che, nel disporre l’annullamento
dell’annotazione del cognome effettuata in vigenza del d.P.C.m. n. 144 del
2016, il censurato art. 8 avrebbe la funzione di norma di coordinamento.
Ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, questa disposizione non inciderebbe
su diritti fondamentali della persona e non comporterebbe un cambio di
identità. Quest’ultima ha radice nel cognome proprio di ogni soggetto, il quale
è immutabile e identifica la persona. Oggetto di modifica sarebbe l’annotazione
dello status, per sua natura transitorio, di componente dell’unione civile.
Esso sarebbe identificativo non già dell’identità dell’individuo, ma della
creazione di un nucleo familiare. Da queste considerazioni deriverebbe la non
fondatezza delle questioni, in riferimento agli artt. 2, 22 e 117 Cost., in
relazione al parametro interposto dell’art. 8 della CEDU.
Quanto alla denunciata violazione dell’art. 3 Cost., l’Avvocatura dello
Stato eccepisce l’inammissibilità della censura per errata ed insufficiente
descrizione della fattispecie. Nel merito, essa sarebbe comunque manifestamente
infondata, poiché non vi sarebbe una modifica dell’identità personale, né
d’altra parte sussisterebbe un obbligo di contraddittorio. Si evidenzia, a
questo riguardo, che l’art. 98, comma 3, del d.P.R. n. 396 del 2000 consente al
procuratore della Repubblica e a chiunque vi abbia interesse di proporre
opposizione, con ciò garantendo il diritto di difesa.
4.4.– In riferimento al denunciato eccesso di delega, l’Avvocatura dello
Stato eccepisce l’inammissibilità della censura perché generica e non
adeguatamente motivata.
Nel merito, la questione sollevata in riferimento all’art. 76 Cost. non
sarebbe fondata. La disposizione di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017
sarebbe perfettamente coerente con la legge delega. Essa dovrebbe essere
esaminata congiuntamente all’art. 1, lettera m), numero 1), del medesimo d.lgs.
n. 5 del 2017. Nel modificare l’art. 63 del d.P.R. n. 396 del 2000, tale disposizione
prevede, alla lettera g-sexies), l’iscrizione della dichiarazione relativa alla
scelta del cognome comune e alla sua posizione.
Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, nel prevedere il
mantenimento del cognome originario sulla scheda anagrafica, nonché nel
disporre la cancellazione delle annotazioni difformi effettuate nelle more
dell’adozione della disciplina definitiva, il legislatore delegato non avrebbe
violato alcuno dei criteri della delega, essendo autorizzato ad adottare le
disposizioni necessarie per l’adeguamento alla nuova normativa delle
«disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni,
trascrizioni ed annotazioni» (art. l, comma 28, della legge n. 76 del 2016).
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Ravenna ha sollevato questioni di legittimità
costituzionale degli artt. 3, lettera c), numero 2), e 8 del decreto
legislativo 19 gennaio 2017, n. 5, recante «Adeguamento delle disposizioni
dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e
annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la
regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28,
lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», in riferimento agli artt.
2, 3, 11, 22, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in
relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt.
1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE),
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre
2007.
1.1.– In particolare, la prima delle due disposizioni censurate inserisce,
nell’art. 20 del d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223 (Approvazione del nuovo
regolamento anagrafico della popolazione residente), il comma 3-bis, il quale
prevede che «[p]er le parti dell’unione civile le schede devono essere
intestate al cognome posseduto prima dell’unione civile».
La disposizione dell’art. 8 prevede, d’altra parte, che «[…] l’ufficiale
dello stato civile, con la procedura di correzione di cui all’articolo 98,
comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396,
annulla l’annotazione relativa alla scelta del cognome effettuata a norma
dell’articolo 4, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri
23 luglio 2016, n. 144».
1.2.– Ad avviso del giudice a quo, entrambe le disposizioni sopra richiamate
violerebbero, in primo luogo, l’art. 2 Cost., poiché la parte dell’unione
civile verrebbe privata, d’ufficio e senza contraddittorio, del cognome comune
legittimamente acquisito e utilizzato, così determinando la lesione dei diritti
al nome, all’identità e alla dignità personale.
Sarebbe violato anche il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3
Cost., non essendo rinvenibile alcuna giustificazione del potere statale
d’intervenire d’imperio, con la procedura senza contraddittorio prevista per la
correzione di errori materiali, al fine di modificare l’identità personale di
un soggetto.
Inoltre, le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto con l’art. 22
Cost., poiché, con l’eliminazione della valenza anagrafica del cognome comune,
la parte dell’unione civile verrebbe privata di un cognome già acquisito.
Esse sarebbero altresì in contrasto con l’art. 76 Cost., poiché il
legislatore delegante non avrebbe conferito alcun potere di revoca o
annullamento delle iscrizioni e annotazioni già effettuate.
Infine, è denunciata la violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.,
poiché sarebbe pregiudicato il diritto al nome e al rispetto della vita privata
e familiare, garantito dall’art. 8 della CEDU e dagli artt. 1 e 7 della CDFUE.
2.– In via preliminare, vanno esaminate le eccezioni di inammissibilità
delle questioni, formulate dall’Avvocatura generale dello Stato.
2.1.– Ad avviso di quest’ultima, il rimettente avrebbe omesso di considerare
la disciplina delle schede anagrafiche individuali, di cui all’art. 20 del
d.P.R. n. 223 del 1989, e dell’iscrizione negli archivi dello stato civile, di
cui all’art. 63 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la
revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma
dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127). La
considerazione di tali disposizioni avrebbe consentito di individuare la ratio
dell’intervento legislativo in esame nell’esigenza di uniformare la disciplina
del cognome delle unioni civili a quella del cognome coniugale.
Tuttavia, è proprio su tale volontà di assimilare la disciplina dei due
istituti che il giudice a quo, sulla scorta di argomenti illustrati anche dalle
parti costituite, appunta le proprie censure in ordine alle innovazioni introdotte
dal d.lgs. n. 5 del 2017. Nella prospettazione del rimettente, l’omologazione
della disciplina del cognome comune a quella del cognome coniugale avrebbe
svuotato di significato una previsione innovativa e caratterizzante il
riconoscimento giuridico e sociale delle unioni civili.
2.2.– L’Avvocatura dello Stato ha, inoltre, eccepito l’inammissibilità delle
questioni per difetto di rilevanza, in considerazione della carente descrizione
della fattispecie.
Dall’ordinanza di rimessione risulta che nel giudizio a quo le parti
ricorrenti hanno chiesto l’annullamento della variazione delle registrazioni
anagrafiche, nonché dell’annotazione nell’atto di nascita di una delle parti,
conservato presso i registri dello stato civile. Il giudice a quo ha
evidenziato che tali variazioni sono state eseguite in applicazione delle
disposizioni censurate. Egli ritiene quindi che la rilevanza delle questioni di
legittimità costituzionale discenda dalla natura stessa degli atti impugnati,
in quanto meramente applicativi della disciplina censurata.
L’esposizione della vicenda concreta, se pur sintetica, è comunque
sufficiente a soddisfare l’onere di motivazione sulla rilevanza, essendo stata
adeguatamente rappresentata una situazione in cui le doglianze dei ricorrenti
non potrebbero altrimenti essere accolte che a seguito dell’eventuale
accoglimento della questione di legittimità proposta nei confronti della
disposizione di legge di cui i provvedimenti impugnati sono applicazione
(sentenze n. 16 del 2017, n. 151 del 2009, n. 303 del 2007 e n. 4 del 2000).
2.3.– Non è, infine, fondata l’eccezione di inammissibilità della censura
relativa all’eccesso di delega, perché generica e non adeguatamente motivata.
Con motivazione sintetica, ma non implausibile, il giudice a quo deduce la
violazione dell’art. 76 Cost., in quanto l’art. 1, comma 28, della legge 20
maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello
stesso sesso e disciplina delle convivenze), nel delegare la potestà
legislativa al Governo «[f]atte salve le disposizioni di cui alla presente
legge», non avrebbe previsto alcun potere di revoca o annullamento retroattivo
di iscrizioni e annotazioni già effettuate.
I termini della questione sono stati dunque enucleati con un’argomentazione
adeguata, che supera il vaglio preliminare di ammissibilità richiesto a questa
Corte, giacché «[a]ttiene al merito – e non al profilo preliminare
dell’ammissibilità – la valutazione della forza persuasiva degli argomenti
addotti a sostegno delle censure» (sentenza n. 259 del 2017).
3.– Va d’altra parte dichiarata l’inammissibilità delle questioni di
legittimità costituzionale sollevate in riferimento all’art. 22 Cost.
Il rimettente si limita ad osservare che il nome costituisce elemento
distintivo della personalità al punto da meritare un’espressa tutela da parte
dell’art. 22 Cost., ma omette qualsiasi argomentazione a sostegno del
denunciato contrasto tra le disposizioni censurate e il parametro evocato, il
quale esclude la privazione del nome per motivi politici. Inoltre, nessun
argomento è svolto circa la natura politica della lamentata privazione.
Tale difetto motivazionale comporta l’inammissibilità della questione. Per
costante giurisprudenza di questa Corte, non basta l’indicazione delle norme da
raffrontare per valutare la compatibilità dell’una rispetto al contenuto
precettivo dell’altra, ma è necessario motivare il giudizio negativo in tal
senso e, se del caso, illustrare i passaggi interpretativi operati al fine di
enucleare i rispettivi contenuti di normazione (ex multis, sentenze n. 240 e n.
35 del 2017, n. 120 del 2015, n. 236 del 2011; ordinanze n. 26 del 2012, n. 321
del 2010 e n. 181 del 2009).
4.– Nel merito, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3,
lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017 non sono fondate.
4.1.– Con la disposizione censurata il legislatore delegato ha escluso la
valenza anagrafica del cognome comune scelto dalle parti dell’unione civile.
Ferma restando la facoltà di scegliere ed utilizzare tale cognome comune per la
durata della unione, viene espressamente esclusa la necessità di modificare la
scheda anagrafica individuale, la quale resta, pertanto, intestata alla stessa
parte con il cognome posseduto prima della costituzione dell’unione.
È questa la scelta del legislatore delegato che è stata censurata dal
giudice rimettente, assumendo che essa contrasti, in primo luogo, con i
principi posti dalla legge n. 76 del 2016 e, dunque, con l’art. 76 Cost.
4.1.1.– Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «la previsione
di cui all’art. 76 Cost. non osta all’emanazione, da parte del legislatore
delegato, di norme che rappresentino un coerente sviluppo e un completamento
delle scelte espresse dal legislatore delegante, dovendosi escludere che la
funzione del primo sia limitata ad una mera scansione linguistica di previsioni
stabilite dal secondo. Il sindacato costituzionale sulla delega legislativa
deve, così, svolgersi attraverso un confronto tra gli esiti di due processi
ermeneutici paralleli, riguardanti, da un lato, le disposizioni che determinano
l’oggetto, i princìpi e i criteri direttivi indicati dalla legge di delegazione
e, dall’altro, le disposizioni stabilite dal legislatore delegato, da
interpretarsi nel significato compatibile con i princìpi e i criteri direttivi
della delega. Il che, se porta a ritenere del tutto fisiologica quell’attività
normativa di completamento e sviluppo delle scelte del delegante, circoscrive,
d’altra parte, il vizio in discorso ai casi di dilatazione dell’oggetto
indicato dalla legge di delega, fino all’estremo di ricomprendere in esso
materie che ne erano escluse» (sentenza n. 194 del 2015; sentenze n. 229, n.
182 e n. 50 del 2014).
4.1.2.– Ciò premesso, va in primo luogo rilevato che oggetto della delega in
esame era «[l’] adeguamento […] delle disposizioni dell’ordinamento dello stato
civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni» alle previsioni
della stessa legge sulle unioni civili, con salvezza delle disposizioni da essa
direttamente introdotte, e in particolare di quella di cui all’art. 1, comma
10, dedicato alla disciplina del cognome comune delle unioni civili.
Quest’ultima disposizione prevede un sistema di individuazione del cognome
comune fondato sull’accordo e ispirato alla libertà di determinazione delle
parti dell’unione civile. Ad esse è riconosciuta infatti la facoltà di adottare
un cognome unico, scegliendolo tra quello dell’una o dell’altra. Parimenti,
esse potrebbero legittimamente decidere di mantenere i rispettivi cognomi,
rinunciando a contraddistinguere il vincolo con un cognome comune e condiviso.
Ancorché la disposizione del comma 10 non contenga un’espressa
qualificazione degli effetti di tale scelta, essa fornisce tuttavia
un’indicazione quanto mai significativa circa la necessità di modifiche
anagrafiche, laddove espressamente delimita la durata del cognome comune a
quella dell’unione civile. Ai sensi del comma 10 in esame, infatti, la scelta
del cognome è operata «per la durata dell’unione». Dallo scioglimento
dell’unione civile, anche in caso di morte di una delle parti, discende la
perdita automatica del cognome comune.
È stata proprio la considerazione di tale delimitazione temporale che ha
guidato la scelta operata dal legislatore delegato. Infatti, nella relazione
illustrativa che accompagna lo schema del d.lgs. n. 5 del 2017, si rileva che
«una vera e propria variazione anagrafica del cognome della parte dell’unione
civile avrebbe effetto solo per la durata dell’unione». Tale rilievo
sottintende la contraddittorietà e l’irragionevolezza insite nell’attribuire
alla scelta compiuta dalle parti dell’unione civile un effetto, la variazione
del cognome anagrafico, che è nell’ordinamento tendenzialmente definitivo e
irreversibile, mentre nella specie sarebbe temporaneo e limitato alla durata
dell’unione.
Vale la pena di rammentare che l’aggiornamento della scheda anagrafica
individuale avrebbe comportato che qualsiasi successiva certificazione
anagrafica sarebbe stata rilasciata con il solo cognome modificato, con la
conseguente necessità di aggiornare non solo i documenti di identità, ma anche
i dati fiscali, lavorativi, sanitari e previdenziali.
L’impostazione fatta propria dal rimettente non appare dunque coerente con
il principio di ragionevolezza, né con le previsioni della legge delega ed in
particolare con l’indicazione rinvenibile nell’art. 1, comma 10, della legge n.
76 del 2016. Nell’adeguare l’ordinamento dello stato civile alle previsioni sul
cognome delle unioni civili, è stata dunque compiuta una scelta che rappresenta
il coerente sviluppo dei principi posti dalla legge di delega.
4.2.– Anche in riferimento agli artt. 2, 3, 11 e 117, primo comma, Cost. le
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, lettera c), numero 2), del
d.lgs. n. 5 del 2017 non sono fondate.
Che il diritto al nome, quale elemento costitutivo dell’identità personale,
debba concretizzarsi nel cognome comune, rendendo così doverosa la modifica
anagrafica di quello originario, non discende, infatti, né dalle norme della
nostra Costituzione, né da quelle interposte che essa richiama.
Va sottolineato, inoltre, che la ipotizzata valenza anagrafica del cognome
comune sarebbe suscettibile di produrre effetti pregiudizievoli sulla sfera
personale e giuridica dei figli di quella delle parti che avesse assunto tale
cognome in sostituzione del proprio. Ad essi infatti, in base all’art. 262 del
codice civile, è attribuito il cognome del genitore che li abbia riconosciuti.
A seguito dello scioglimento dell’unione civile i figli (salva la facoltà di
scelta riconosciuta al figlio maggiorenne dall’art. 33, comma 2, del d.P.R. n.
396 del 2000) rimarrebbero privi di uno degli elementi che, fino al momento
dello scioglimento, identificava il relativo nucleo familiare, con tutto ciò
che questo comporta nell’ambiente in cui essi vivono.
È bensì vero che le parti del giudizio a quo rifiutano ogni analogia con il
matrimonio per quanto attiene al cognome comune. È tuttavia espressivo di un
principio caratterizzante l’ordinamento dello stato civile che il cognome d’uso
assunto dalla moglie a seguito di matrimonio non comporti alcuna variazione
anagrafica del cognome originario, che rimane immodificato. L’art. 20, comma 3,
del d.P.R. n. 223 del 1989 prevede, infatti, che «Per le donne coniugate o
vedove le schede devono essere intestate al cognome da nubile». In linea di
coerenza con tale previsione, si prevede che la scheda anagrafica della parte
dell’unione civile debba indicare il nome ed il cognome dell’altra parte
dell’unione (comma 1 dell’art. 20), senza che ciò comporti una modifica del
proprio cognome anagrafico (comma 3-bis).
D’altra parte, la dichiarazione della scelta circa la posizione del cognome
comune non è affatto priva di significato, come sostengono le parti, neppure
laddove a tale cognome si riconnetta mero valore d’uso. Anche in questo caso,
infatti, la posizione del cognome acquisito rispetto a quello originario
riveste indubbio rilievo. Va infatti sottolineato che la dichiarazione sulla
posizione del cognome comune costituisce esercizio di un’ulteriore facoltà che
la legge n. 76 del 2016 ha espressamente attribuito alle parti dell’unione
civile. Il rilievo di tale dichiarazione trova riscontro anche nella previsione
della sua iscrizione, a cura dell’ufficiale dello stato civile, negli archivi
informatici degli atti dello stato civile (art. 63, comma 1, lettera g-sexies,
del d.P.R. n. 396 del 2000).
La natura paritaria e flessibile della disciplina del cognome comune da
utilizzare durante l’unione civile e la facoltà di stabilirne la collocazione
accanto a quello originario – anche in mancanza di modifiche della scheda
anagrafica – costituiscono dunque garanzia adeguata dell’identità della coppia
unita civilmente e della sua visibilità nella sfera delle relazioni sociali in
cui essa si trova ad esistere.
5.– Anche le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8 del d.lgs.
n. 5 del 2017 non sono fondate.
5.1.– Le censure del giudice a quo attengono in primo luogo alla violazione
dell’art. 76 Cost., in quanto non sarebbe stato conferito al legislatore delegato
alcun potere di revoca o annullamento di iscrizioni e annotazioni già
effettuate e relative alla scelta del cognome.
Al riguardo va rilevato che la disposizione dell’art. 8 detta una disciplina
transitoria destinata ad applicarsi alle unioni civili costituite
nell’intervallo temporale tra il decreto del Presidente del Consiglio dei
ministri 23 luglio 2016, n. 144 (Regolamento recante disposizioni transitorie
necessarie per la tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile, ai
sensi dell’articolo 1, comma 34, della legge 20 maggio 2016, n. 76), e il
d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 5, nelle quali sia stata esercitata l’opzione per il
cognome comune e sia stata altresì effettuata la variazione anagrafica prevista
dall’art. 4 del citato d.P.C.m. e successivamente esclusa dall’art. 3, lettera
c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017.
Va ribadito che la delega conferita dall’art. 1, comma 28, lettera a), della
legge n. 76 del 2016 aveva ad oggetto «[l’] adeguamento […] delle disposizioni
dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e
annotazioni» alle previsioni della stessa legge sulle unioni civili, con
salvezza delle disposizioni da essa direttamente introdotte, ed in particolare
di quella di cui all’art. 1, comma 10, dedicato alla disciplina del cognome
comune delle unioni civili.
Come si è visto nel precedente punto 4., il legislatore delegato ha dapprima
esplicitato il significato del principio posto dall’art. 1, comma 10, della
legge n. 76 del 2016, escludendo la valenza anagrafica del cognome comune. Con
il successivo art. 8, e sempre al fine dell’adeguamento della disciplina dello
stato civile, ha previsto la caducazione delle annotazioni effettuate medio
tempore, in applicazione di una fonte normativa, provvisoria e di carattere
secondario, non coerente con i principi della delega.
5.2.– Non è ravvisabile neppure la denunciata violazione degli artt. 2, 11 e
117, primo comma, Cost., quest’ultimo in riferimento all’art. 8 della CEDU e
agli artt. 1 e 7 della CDFUE. Nella prospettazione del rimettente, tali censure
sono ricondotte al sacrificio del diritto alla conservazione del cognome comune
da parte di chi lo abbia acquisito nel vigore dell’art. 4, comma 2, del
d.P.C.m. n. 144 del 2016.
Introdotto da una disposizione destinata ad applicarsi in attesa
dell’entrata in vigore dei decreti legislativi previsti dalla legge n. 76 del
2016, l’effetto modificativo della scheda anagrafica rivestiva la medesima
natura provvisoria della fonte regolamentare che l’aveva previsto e che era
destinata a cessare per effetto dei successivi decreti legislativi. La
dichiarata transitorietà del d.P.C.m. in esame e la relativa brevità del suo
orizzonte temporale di riferimento portano ad escludere che le novità da esso
introdotte abbiano determinato un ragionevole affidamento in ordine
all’emersione e al consolidamento di un nuovo tratto identificativo della
persona. Ne consegue che la previsione dell’annullamento delle variazioni
anagrafiche già effettuate non può ritenersi lesiva di una nuova identità
personale, ancora non affermata.
Pertanto, non risulta conferente il richiamo alla sentenza n. 13 del 1994,
con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 165
del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile), per
violazione dell’art. 2 Cost., nella parte in cui esso non prevedeva che, ove la
rettifica degli atti dello stato civile, per ragioni indipendenti dalla volontà
del soggetto, comporti il cambiamento del cognome, il soggetto stesso possa ottenere
dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome
originariamente attribuitogli.
In quella occasione, l’esigenza di protezione dell’interesse alla
conservazione del cognome è stata riconosciuta «[…] in presenza di una
situazione nella quale con quel cognome la persona sia ormai individuata e
conosciuta nell’ambiente ove vive […]», ciò che non può ritenersi verificato
nel caso in esame.
5.3.– Non è fondata, infine, la censura di irragionevolezza proposta dal
rimettente in riferimento all’indicazione legislativa del procedimento di cui
all’art. 98 del d.P.R. n. 396 del 2000 per l’annullamento delle variazioni
anagrafiche effettuate in base all’art. 4 del citato d.P.C.m.
Il modello procedimentale prescelto dal legislatore delegato prevede, in
particolare, che del provvedimento sia data comunicazione agli interessati, al
procuratore della Repubblica ed al prefetto. A partire da questa comunicazione
gli interessati hanno trenta giorni per proporre ricorso al tribunale, a norma
dell’art. 95 del d.P.R. n. 396 del 2000. Lo stesso termine è previsto per il
procuratore della Repubblica che può proporre ricorso contro la correzione
effettuata dall’ufficiale dello stato civile.
Si tratta dunque di una procedura che garantisce il contraddittorio con la
parte interessata attraverso la proposizione di un ricorso e l’instaurazione di
un giudizio di fronte ad un tribunale (come è avvenuto proprio nel giudizio a
quo).
E, se è vero che la procedura indicata contempla il contraddittorio e
l’intervento del giudice in una fase differita, si tratta pur sempre di uno
strumento processuale che consente alle parti coinvolte di contestare
l’annullamento di variazioni anagrafiche. L’art. 8 in esame prescrive dunque
l’utilizzo di uno schema procedimentale, già previsto nel sistema
dell’ordinamento dello stato civile, ancorché utilizzato per differenti
evenienze. La legittimità del rinvio a tale modello non è inficiata
dall’estensione del suo ambito applicativo a ulteriori fattispecie, differenti
da quelle per le quali esso era originariamente previsto.
per questi motivi
LA CORTE
COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli
artt. 3, lettera c), numero 2), e 8 del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n.
5, recante «Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile
in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed
integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi
dell’articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76»,
sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna, in riferimento all’art. 22 della
Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art.
3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017, sollevate dal Tribunale
ordinario di Ravenna, in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 76 e 117, primo
comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma
il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n.
848, e agli artt. 1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12
dicembre 2007, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art.
8 del d.lgs. n. 5 del 2017, sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna, in
riferimento agli artt. 2, 3, 11, 76 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in
relazione all’art. 8 della CEDU e agli artt. 1 e 7 della CDFUE, con l’ordinanza
indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 9 ottobre 2018.