venerdì 23 novembre 2018


Ricorso proposto da genitori per sottrarsi all'obbligo di vaccinare i figli minorenni

Processo amministrativo - Legittimazione - Attiva - Vaccinazione figli minorenni - Obbligo - Azione volta a sottrarsi - Inammissibilità.
       E' inammissibile il ricorso proposto da alcuni genitori e volto a  sottrarsi liberamente all'obbligo di sottoporre in figli minorenni all'obbligo vaccinale imposto dal d.l. 7 giugno 2013, n. 73, convertito nella l. 31 luglio 2017, n. 119  (1).

(1) Ha ricordato il Tar che la giurisprudenza ha concordemente sottolineato che il presupposto perché venga adita la tutela giurisdizionale riposa nell'interesse alla decisione, derivante da una lesione ad una posizione giuridica attiva tutelata dall'ordinamento (Cons. St., sez. VI, 19 gennaio 2010, n. 176; id., sez. V, 23 maggio 2011, n. 3084 e 12 febbraio 2010, n. 746). La titolarità di una posizione giuridica riconosciuta dall'ordinamento come meritevole di tutela attiene, del resto, allo stesso presupposto costituzionale dell'agire in giudizio, che, in base ai principi generali in materia di condizioni dell'azione, l'art. 24 comma 1, Cost. riconosce per la tutela dei diritti e degli interessi legittimi: la riconoscibilità della legittimità dell'interesse veicolato dal ricorso costituisce, quindi, un a priori dell'ingresso in giudizio.
Applicando tali considerazioni al caso sottoposto all'esame del Tar, viene in rilievo che la legittimazione vantata dai ricorrenti riposa, letteralmente, sul dichiarato intento di sottrarsi liberamente all'obbligo di sottoporre in figli minorenni all'obbligo vaccinale imposto dal d.l. 7 giugno 2013, n. 73, convertito nella l. 31 luglio 2017, n. 119, obbligo che i ricorrenti non contestano e del quale riconoscono a chiare lettere la vigenza e l'operatività. Tale intenzione, di sottrarsi ad un obbligo riconosciuto come tale e non contestato,  non può essere riconosciuta come fondante un interesse tutelabile in giudizio, dato che elimina la definizione stessa di “legittimo” dell’interesse a ciò abilitante.

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Corte cost. 22 novembre 2018, n. 212

Sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, lettera c), numero 2), e 8 del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5, recante «Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna, in riferimento all’art. 22 della Costituzione, con ordinanza depositata il 22 novembre 2017

Sono  infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017, sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna, in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 76 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, con l’ordinanza suddetta;


Sono infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017, sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna, in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 76 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della CEDU e agli artt. 1 e 7 della CDFUE, con l’ordinanza suddetta




SENTENZA N. 212
ANNO 2018


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,


ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3, lettera c), numero 2), e 8 del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5, recante «Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76)», promosso dal Tribunale ordinario di Ravenna con ordinanza depositata il 22 novembre 2017, iscritta al n. 32 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visto l’atto di costituzione di G. Z.G. e G. G., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella udienza pubblica del 9 ottobre 2018 il Giudice relatore Giuliano Amato;
udito l’avvocato Stefano Chinotti per G. Z.G. e G. G. e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.


Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 22 novembre 2017, il Tribunale ordinario di Ravenna ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, lettera c), numero 2), e 8 del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5, recante «Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 22, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
1.1.– In particolare, l’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017 inserisce nell’art. 20 del d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223 (Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente), il comma 3-bis, il quale prevede che «[p]er le parti dell’unione civile le schede devono essere intestate al cognome posseduto prima dell’unione civile».
L’art. 8 dello stesso decreto legislativo dispone che «[…] l’ufficiale dello stato civile, con la procedura di correzione di cui all’articolo 98, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, annulla l’annotazione relativa alla scelta del cognome effettuata a norma dell’articolo 4, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144».
1.2.– Ad avviso del giudice a quo, entrambe le disposizioni censurate violerebbero, in primo luogo, l’art. 2 Cost., poiché la parte dell’unione civile verrebbe privata, d’ufficio e senza contraddittorio, del cognome comune legittimamente acquisito e utilizzato, così determinando la lesione dei diritti al nome, all’identità e alla dignità personale.
Sarebbe violato anche il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., non essendo rinvenibile alcuna giustificazione del potere statale d’intervenire d’imperio, con la procedura senza contraddittorio prevista per la correzione di errori materiali, al fine di mutare l’identità personale di un soggetto.
Inoltre, le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto con l’art. 22 Cost., poiché, con l’eliminazione della valenza anagrafica del cognome comune, la parte dell’unione civile verrebbe privata di un cognome già acquisito.
Esse sarebbero altresì in contrasto con l’art. 76 Cost., poiché il legislatore delegante non avrebbe conferito alcun potere di revoca o annullamento delle iscrizioni e annotazioni già effettuate.
Infine, è denunciata la violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., poiché sarebbe pregiudicato il diritto al nome e al rispetto della vita privata e familiare, garantito dall’art. 8 della CEDU e dagli artt. 1 e 7 della CDFUE.
2.– Il Tribunale ordinario di Ravenna è chiamato a decidere in ordine al ricorso proposto da due persone unite civilmente al fine di ottenere, ai sensi dell’art. 98 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), l’annullamento della variazione delle generalità anagrafiche di una di esse, eseguite in applicazione delle disposizioni censurate.
Il giudice a quo riferisce che, al momento della costituzione dell’unione civile, in base all’art. 1, comma 10, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), i ricorrenti hanno scelto quale cognome comune quello di uno di essi, mentre l’altro ha dichiarato di voler aggiungere al proprio il cognome comune. A seguito di tale scelta, è stata modificata la sua scheda anagrafica e sono state conseguentemente rinnovate la carta d’identità, la tessera sanitaria e altri documenti personali.
Il giudice rimettente riferisce che, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2017, l’ufficiale d’anagrafe ha provveduto alla variazione delle generalità anagrafiche e all’annullamento dell’annotazione relativa alla scelta del cognome eseguita in base all’art. 4, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144 (Regolamento recante disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile, ai sensi dell’articolo 1, comma 34, della legge 20 maggio 2016, n. 76), nonché dell’annotazione nell’atto di nascita presso i registri dello stato civile, ripristinando il cognome originario.
Ad avviso del giudice a quo, le censurate disposizioni del d.lgs. n. 5 del 2017 avrebbero determinato la sostanziale abrogazione dell’art. l, comma 10, della legge n. 76 del 2016 e ne avrebbero negato l’originario contenuto precettivo, volto a riconoscere il diritto delle parti dell’unione civile di assumere a tutti gli effetti un cognome comune, consentendo ad una di esse di modificare il cognome originario. Da ciò discenderebbe la violazione di diritti fondamentali della persona, tutelati anche a livello sovranazionale, ed in particolare dagli artt. l e 7 della CDFUE, nonché dall’art. 8 della CEDU.
Ad avviso del rimettente, l’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017, nella parte in cui priva la persona di un cognome già acquisito e utilizzato, disponendo retroattivamente la modifica di una situazione anagrafica legittimamente costituita prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto, violerebbe il diritto al nome, all’identità e dignità personale, nonché il diritto al rispetto della vita privata e familiare.
Il giudice a quo fa rilevare che gli artt. 6 e seguenti del codice civile sanciscono il diritto al nome, prevedendo il generale divieto di mutamento dello stesso. Infatti, non sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome, se non nei casi e con le formalità previste dall’art. 89 del d.P.R. n. 396 del 2000. Ancorché previsto da una legge ordinaria, sarebbe indubitabile il rilievo costituzionale del diritto al nome (composto da nome e cognome), quale elemento costitutivo del diritto all’identità personale, tutelato dall’art. 2 Cost., anche nelle formazioni sociali nelle quali si esplica la personalità dell’individuo. Il rimettente osserva che il nome è stato ritenuto meritevole di un’espressa tutela anche da parte dell’art. 22 Cost. che, sia pure per il solo caso in cui ciò avvenga per motivi politici, prevede che «nessuno può essere privato del nome».
Inoltre, la norma delegata si porrebbe in contrasto con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), poiché non sarebbe rinvenibile alcuna giustificazione del potere statale d’intervenire d’imperio e con la procedura senza contraddittorio prevista per la correzione di errori materiali (art. 98 del d.P.R. n. 396 del 2000) al fine di mutare l’identità personale di un soggetto.
Il giudice rimettente sottolinea che, in caso di mutamento di status, l’interessato ha diritto di essere sentito e di opporsi al mutamento del proprio cognome (art. 262 cod. civ.). Al riguardo, si fa rilevare che con sentenza n. 13 del 1994 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 165 del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile), per violazione dell’art. 2 Cost., nella parte in cui non prevedeva che, ove la rettifica degli atti dello stato civile, per ragioni indipendenti dalla volontà del soggetto, comporti il cambiamento del cognome, il soggetto stesso possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli.
Sarebbe, inoltre, ravvisabile la violazione dell’art. 76 Cost., in quanto l’art. 1, comma 28, della legge n. 76 del 2016, nel conferire la potestà legislativa al Governo «fatte salve le disposizioni di cui alla presente legge», non avrebbe previsto alcun potere di revoca o annullamento retroattivo di iscrizioni e annotazioni già effettuate.
È inoltre denunciato il contrasto con l’art. 8 della CEDU che prevede il diritto della persona al rispetto della vita privata e familiare, nell’ambito del quale la Corte europea dei diritti dell’uomo ha individuato la tutela del diritto al nome, quale espressione del diritto all’identità e dignità personale. Le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto anche con i principi affermati dagli artt. 1 e 7 della CDFUE, i quali enunciano il diritto alla dignità umana e al rispetto della vita privata e familiare.
Ritenendo non praticabile un’interpretazione adeguatrice, tale da attribuire alle disposizioni censurate un significato conforme all’art. 8 della CEDU e agli artt. 1 e 7 della CDFUE, il giudice a quo ritiene necessario rimettere a questa Corte la valutazione della loro legittimità in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., alla luce dei principi e degli obblighi comunitari.
3.– Nel giudizio dinanzi alla Corte si sono costituiti con un unico atto G. Z.G. e G. G., parti ricorrenti nel giudizio principale, chiedendo l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale e ribadendo tali conclusioni con successiva memoria.
3.1.– Le parti costituite evidenziano che, privando di valenza anagrafica il cognome comune, relegato ad una funzione meramente simbolica, sarebbero stati svuotati i diritti soggettivi attribuiti alle parti delle unioni civili dall’art. 1, comma 10, della legge n. 76 del 2016. Sarebbe lesa l’identità personale della parte il cui cognome sia diverso da quello scelto quale cognome comune. Infatti, la cancellazione prevista dall’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017 ridefinisce l’identità personale secondo lo status quo ante.
Ciò determinerebbe la violazione del diritto di una delle parti dell’unione civile (quella che abbia assunto il cognome comune in luogo del proprio o in aggiunta al proprio) di trasmettere alla prole il proprio cognome, come modificato a seguito della scelta consentita dal citato comma 10. Si osserva inoltre che, ove una delle parti di unioni civili già costituite abbia generato figli, ai quali sia stato assegnato ex lege il cognome del proprio genitore, modificato per effetto delle disposizioni dettate dal d.P.C.m. n. 144 del 2016, sarebbe lesa anche l’identità personale dei figli, in quanto ne sarebbe trasformato il presupposto costituito dal nome.
L’eliminazione retroattiva delle annotazioni e degli aggiornamenti anagrafici già eseguiti determinerebbe il sacrificio di diritti soggettivi tutelati anche a livello sovranazionale. Al riguardo, sono richiamate alcune pronunce della Corte di Strasburgo che hanno ricondotto il diritto al nome nell’ambito dell’art. 8 della CEDU (sentenze 21 ottobre 2008, Guzel Erdagoz contro Turchia; 1° luglio 2008, Daróczy contro Ungheria; 6 settembre 2007, Johansson contro Finlandia; 16 novembre 2004, Unal Tekeli contro Turchia; 22 febbraio 1994, Burghartz contro Svizzera).
Le parti costituite deducono che, ai sensi dell’art. 52, comma 3, della CDFUE, in caso di corrispondenza tra i diritti riconosciuti dalla Carta di Nizza e quelli garantiti dalla CEDU, il significato e la portata dei primi sono identici a quelli conferiti dalla Convenzione. Pertanto, ad avviso delle parti costituite, tutti i diritti previsti dalla CEDU che trovino corrispondenza nella CDFUE debbono ritenersi tutelati con la medesima forza di quelli sanciti nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Ciò sarebbe confermato anche dall’art. 53 della CDFUE, il quale sancisce il divieto di interpretarne le disposizioni in senso limitativo dei diritti riconosciuti dalla CEDU.
Sono, quindi, richiamate alcune pronunce di giudici di merito che hanno ritenuto le disposizioni in esame incompatibili con la tutela sovranazionale dei diritti fondamentali della persona e hanno provveduto alla loro disapplicazione.
3.2.– Ciò premesso, le parti costituite illustrano le ragioni a sostegno dell’illegittimità costituzionale delle censurate disposizioni del d.lgs. n. 5 del 2017.
3.2.1.– Si evidenzia che l’istituto dell’unione civile, pur essendo modellato sulla disciplina del matrimonio, se ne discosterebbe sotto molteplici profili. Sarebbe infatti differente la disciplina relativa alla filiazione, all’adozione e agli obblighi derivanti dal vincolo. Particolarmente innovativa sarebbe poi la disciplina relativa al cognome comune.
Ad avviso delle parti costituite, l’art. 4, comma 2, del d.P.C.m. n. 144 del 2016, esplicitando il contenuto di queste novità legislative, avrebbe dettato la disciplina delle conseguenze anagrafiche della scelta operata dalle parti unite civilmente, in quanto costitutiva della loro nuova identità personale.
La scelta del cognome comune rappresenterebbe l’esercizio di un diritto soggettivo, previsto dalla legge n. 76 del 2016. In quanto espressione di un diritto fondamentale, incidente sulla stessa identità personale, oltre che sulla vita familiare, esso sarebbe incoercibile e non potrebbe essere negato dall’ufficiale dello stato civile, se non per ragioni espressamente ammesse dalla legge.
Viceversa, il d.lgs. n. 5 del 2017 ed il successivo decreto del Ministro dell’interno 27 febbraio 2017, nell’omologare la disciplina del cognome comune dell’unione civile a quella prevista dall’art. 143-bis cod. civ. per il cognome coniugale avrebbe stravolto il significato normativo dell’art. 1, comma 10, della legge n. 76 del 2016, condiviso dallo stesso Governo nel d.P.C.m. n. 144 del 2016.
A conferma di tale interpretazione, si osserva che se la legge n. 76 del 2016 avesse voluto consentire a una delle parti dell’unione civile il mero utilizzo del cognome dell’altra, senza alcuna incidenza anagrafica, non ci sarebbe stata ragione di prevedere l’ulteriore diritto di manifestare, con un’apposita dichiarazione, la volontà di mantenere anche il proprio cognome anagrafico. Il citato comma 10 dispone, infatti, che la parte può mantenere anche il proprio cognome, anteponendolo o posponendolo a quello acquisito. Ad avviso delle parti costituite, ciò sarebbe indicativo del fatto che, in caso contrario, la parte perde il cognome originario e assume solo quello comune.
3.2.2.– Ad avviso delle parti, il d.lgs. n. 5 del 2017, anziché costituire attuazione dell’art. l, comma 10, della legge n. 76 del 2016, introdurrebbe una disciplina contrastante con esso, in violazione dell’art. 76 Cost.
Il comma 28 dell’art. 1 della legge n. 76 del 2016, infatti, conferisce la delega facendo «salve le disposizioni di cui alla presente legge». Viceversa, le norme censurate, lungi dal far salvo il comma 10, ne determinerebbero lo svuotamento e la sostanziale abrogazione. Esse impedirebbero a questa disposizione di esprimere tutti i suoi precetti normativi e determinerebbero la lesione di diritti soggettivi riconosciuti sia alle parti unite civilmente nella vigenza del d.P.C.m. n. 144 del 2016, sia a quelle che intendano, in futuro, unirsi civilmente.
La disciplina del d.lgs. n. 5 del 2017 non sarebbe, quindi, coerente con il limite posto dalla delega, né potrebbe ritenersi espressiva di adeguamento e riassetto legislativo.
3.3.– Le disposizioni censurate si porrebbero, inoltre, in contrasto con gli artt. 2, 3, 11, 22 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in riferimento agli artt. 1 e 7 della CDFUE e all’art. 8 della CEDU.
Invero, la cancellazione retroattiva del «cognome comune» già assunto da una delle parti dell’unione civile, lederebbe la dignità della persona e il suo diritto inviolabile al nome e alla identità, protetto dall’art. 2 Cost., nonché il diritto al rispetto alla vita privata e familiare. Si fa rilevare che la Corte di Strasburgo ha garantito il diritto fondamentale alla vita familiare alle coppie omosessuali (sentenza 24 giugno 2010, Schalk e Kopf contro Austria) e che la giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto il diritto fondamentale delle stesse coppie ad essere riconosciute e tutelate ai sensi dell’art. 2 Cost. (sentenza n. 138 del 2010).
Con l’attribuzione della valenza anagrafica del cognome comune, la legge n. 76 del 2016 avrebbe inteso conferire all’unione civile visibilità sociale e caratterizzazione anche sotto il profilo familiare. La modifica del cognome, disposta dalle disposizioni censurate, frustrerebbe questa manifestazione della vita familiare, in violazione dell’art. 2 Cost. e dell’art. 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in riferimento agli artt. l e 7 della CDFUE e all’art. 8 della CEDU. Né sussisterebbe alcuna delle ragioni, previste dallo stesso art. 8 della CEDU, che possa giustificare tale ingerenza del legislatore.
3.4.– In particolare, con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 76 Cost., le parti fanno rilevare che l’art. 1, comma 28, della legge n. 76 del 2016 esprimerebbe un principio di intangibilità, da parte del legislatore delegato, delle disposizioni contenute nella legge delega. Tale principio sarebbe violato dal legislatore delegato attraverso l’adozione di disposizioni abrogative, che avrebbero l’effetto di stravolgere l’assetto normativo delineato dal legislatore delegante, facendo degradare il cognome comune dell’unione civile da cognome anagrafico a mero cognome d’uso.
Ad avviso delle parti, l’esclusione della valenza anagrafica del cognome comune non costituirebbe affatto un’opzione interpretativa di uno tra i diversi significati possibili della disposizione, ma sarebbe una soluzione contra legem: in tal modo, si finirebbe per attribuire all’art. 1, comma 10, della legge n. 76 del 2016 un’accezione priva di senso, in luogo dell’unico significato possibile dotato di senso (in particolare circa la natura anagrafica del cognome). In quanto frutto di un ripensamento del legislatore delegato, le disposizioni correttive introdotte dal d.lgs. n. 5 del 2017 sarebbero illegittime.
3.5.– D’altra parte, l’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017, nel prevedere la modificazione retroattiva delle risultanze anagrafiche, sarebbe lesivo anche del diritto al nome e alla sua conservazione (art. 22 Cost.), quale prima e più immediata manifestazione del diritto all’identità personale e del diritto alla dignità personale (art. 2 Cost. e art. 1 della CDFUE).
Infatti, le coppie unite civilmente, che abbiano assunto un cognome comune nell’intervallo di tempo intercorrente tra l’entrata in vigore della legge n. 76 del 2016 e l’entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2017, sarebbero titolari di un diritto fondamentale alla conservazione di tale cognome, ormai divenuto elemento costitutivo della loro identità personale. Pertanto, sarebbe illegittima la disposizione in esame che, con efficacia retroattiva, incide sul cognome legittimamente assunto.
Inoltre, l’indicazione della procedura di correzione di cui all’art. 98, comma 1, del d.P.R. n. 396 del 2000 sarebbe impropria ed incongrua. Le parti costituite ritengono, infatti, che l’annotazione della scelta del cognome, già effettuata in base al d.P.C.m. n. 144 del 2016, non costituisca un errore materiale, ma sia invece un adempimento amministrativo effettuato dall’ufficiale di stato civile nell’esecuzione di puntuali istruzioni legislative e regolamentari. L’annullamento delle annotazioni rappresenterebbe un tentativo surrettizio di dissimulare una rettificazione anagrafica imposta d’ufficio e in assenza di contraddittorio. Ciò determinerebbe il sacrificio dei diritti fondamentali delle coppie unite civilmente che abbiano esercitato il diritto di scelta del cognome comune.
4.– Nel giudizio innanzi alla Corte, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque non fondate.
4.1.– L’interveniente ha eccepito, in primo luogo, l’inammissibilità delle questioni per l’incompleta ricostruzione del quadro normativo. Il rimettente avrebbe omesso di considerare la disciplina delle schede anagrafiche individuali, di cui all’art. 20 del d.P.R. n. 223 del 1989, e dell’annotazione negli archivi dello stato civile di cui all’art. 63 del d.P.R. n. 396 del 2000.
Si fa rilevare che con il matrimonio la moglie acquista il diritto di aggiungere il cognome del marito al proprio (art. 143-bis cod. civ.); da ciò non deriva alcuna modifica anagrafica del cognome della moglie, ma solo il diritto di usare il cognome del marito, aggiungendolo al proprio. La relativa scheda anagrafica non subisce modificazioni e continua a riportare il cognome da nubile.
Per le unioni civili, la legge n. 76 del 2016, all’art. l, comma 10, consente alle parti di scegliere un cognome comune. Nel prevedere che le schede anagrafiche siano intestate al cognome posseduto prima dell’unione civile, l’art. 3 del d.lgs. n. 5 del 2017 sarebbe coerente con le disposizioni in materia di matrimonio.
Inoltre, sempre nell’intento di regolare in modo uniforme unioni civili e matrimoni, il legislatore delegato ha modificato l’art. 63 del d.P.R. n. 396 del 2000, prevedendo l’iscrizione negli archivi dello stato civile della dichiarazione di voler assumere un cognome comune e di anteporlo o posporlo al proprio.
4.2.– D’altra parte, non sarebbero fondate le questioni sollevate in riferimento agli artt. 2, 22 e 117, primo comma, Cost., con riguardo al parametro interposto dell’art. 8 della CEDU.
Al momento della costituzione dell’unione civile le parti possono scegliere il cognome, rendendo esplicita dichiarazione in tal senso. Secondo quanto stabilito dal novellato art. 20 del d.P.R. n. 223 del 1989, tali dichiarazioni non devono essere annotate nell’atto di nascita, né deve procedersi all’aggiornamento della scheda anagrafica.
4.3.– Ciò posto, si fa rilevare che, nel disporre l’annullamento dell’annotazione del cognome effettuata in vigenza del d.P.C.m. n. 144 del 2016, il censurato art. 8 avrebbe la funzione di norma di coordinamento.
Ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, questa disposizione non inciderebbe su diritti fondamentali della persona e non comporterebbe un cambio di identità. Quest’ultima ha radice nel cognome proprio di ogni soggetto, il quale è immutabile e identifica la persona. Oggetto di modifica sarebbe l’annotazione dello status, per sua natura transitorio, di componente dell’unione civile. Esso sarebbe identificativo non già dell’identità dell’individuo, ma della creazione di un nucleo familiare. Da queste considerazioni deriverebbe la non fondatezza delle questioni, in riferimento agli artt. 2, 22 e 117 Cost., in relazione al parametro interposto dell’art. 8 della CEDU.
Quanto alla denunciata violazione dell’art. 3 Cost., l’Avvocatura dello Stato eccepisce l’inammissibilità della censura per errata ed insufficiente descrizione della fattispecie. Nel merito, essa sarebbe comunque manifestamente infondata, poiché non vi sarebbe una modifica dell’identità personale, né d’altra parte sussisterebbe un obbligo di contraddittorio. Si evidenzia, a questo riguardo, che l’art. 98, comma 3, del d.P.R. n. 396 del 2000 consente al procuratore della Repubblica e a chiunque vi abbia interesse di proporre opposizione, con ciò garantendo il diritto di difesa.
4.4.– In riferimento al denunciato eccesso di delega, l’Avvocatura dello Stato eccepisce l’inammissibilità della censura perché generica e non adeguatamente motivata.
Nel merito, la questione sollevata in riferimento all’art. 76 Cost. non sarebbe fondata. La disposizione di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017 sarebbe perfettamente coerente con la legge delega. Essa dovrebbe essere esaminata congiuntamente all’art. 1, lettera m), numero 1), del medesimo d.lgs. n. 5 del 2017. Nel modificare l’art. 63 del d.P.R. n. 396 del 2000, tale disposizione prevede, alla lettera g-sexies), l’iscrizione della dichiarazione relativa alla scelta del cognome comune e alla sua posizione.
Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, nel prevedere il mantenimento del cognome originario sulla scheda anagrafica, nonché nel disporre la cancellazione delle annotazioni difformi effettuate nelle more dell’adozione della disciplina definitiva, il legislatore delegato non avrebbe violato alcuno dei criteri della delega, essendo autorizzato ad adottare le disposizioni necessarie per l’adeguamento alla nuova normativa delle «disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni ed annotazioni» (art. l, comma 28, della legge n. 76 del 2016).


Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Ravenna ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, lettera c), numero 2), e 8 del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5, recante «Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 22, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
1.1.– In particolare, la prima delle due disposizioni censurate inserisce, nell’art. 20 del d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223 (Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente), il comma 3-bis, il quale prevede che «[p]er le parti dell’unione civile le schede devono essere intestate al cognome posseduto prima dell’unione civile».
La disposizione dell’art. 8 prevede, d’altra parte, che «[…] l’ufficiale dello stato civile, con la procedura di correzione di cui all’articolo 98, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, annulla l’annotazione relativa alla scelta del cognome effettuata a norma dell’articolo 4, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144».
1.2.– Ad avviso del giudice a quo, entrambe le disposizioni sopra richiamate violerebbero, in primo luogo, l’art. 2 Cost., poiché la parte dell’unione civile verrebbe privata, d’ufficio e senza contraddittorio, del cognome comune legittimamente acquisito e utilizzato, così determinando la lesione dei diritti al nome, all’identità e alla dignità personale.
Sarebbe violato anche il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., non essendo rinvenibile alcuna giustificazione del potere statale d’intervenire d’imperio, con la procedura senza contraddittorio prevista per la correzione di errori materiali, al fine di modificare l’identità personale di un soggetto.
Inoltre, le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto con l’art. 22 Cost., poiché, con l’eliminazione della valenza anagrafica del cognome comune, la parte dell’unione civile verrebbe privata di un cognome già acquisito.
Esse sarebbero altresì in contrasto con l’art. 76 Cost., poiché il legislatore delegante non avrebbe conferito alcun potere di revoca o annullamento delle iscrizioni e annotazioni già effettuate.
Infine, è denunciata la violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., poiché sarebbe pregiudicato il diritto al nome e al rispetto della vita privata e familiare, garantito dall’art. 8 della CEDU e dagli artt. 1 e 7 della CDFUE.
2.– In via preliminare, vanno esaminate le eccezioni di inammissibilità delle questioni, formulate dall’Avvocatura generale dello Stato.
2.1.– Ad avviso di quest’ultima, il rimettente avrebbe omesso di considerare la disciplina delle schede anagrafiche individuali, di cui all’art. 20 del d.P.R. n. 223 del 1989, e dell’iscrizione negli archivi dello stato civile, di cui all’art. 63 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127). La considerazione di tali disposizioni avrebbe consentito di individuare la ratio dell’intervento legislativo in esame nell’esigenza di uniformare la disciplina del cognome delle unioni civili a quella del cognome coniugale.
Tuttavia, è proprio su tale volontà di assimilare la disciplina dei due istituti che il giudice a quo, sulla scorta di argomenti illustrati anche dalle parti costituite, appunta le proprie censure in ordine alle innovazioni introdotte dal d.lgs. n. 5 del 2017. Nella prospettazione del rimettente, l’omologazione della disciplina del cognome comune a quella del cognome coniugale avrebbe svuotato di significato una previsione innovativa e caratterizzante il riconoscimento giuridico e sociale delle unioni civili.
2.2.– L’Avvocatura dello Stato ha, inoltre, eccepito l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza, in considerazione della carente descrizione della fattispecie.
Dall’ordinanza di rimessione risulta che nel giudizio a quo le parti ricorrenti hanno chiesto l’annullamento della variazione delle registrazioni anagrafiche, nonché dell’annotazione nell’atto di nascita di una delle parti, conservato presso i registri dello stato civile. Il giudice a quo ha evidenziato che tali variazioni sono state eseguite in applicazione delle disposizioni censurate. Egli ritiene quindi che la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale discenda dalla natura stessa degli atti impugnati, in quanto meramente applicativi della disciplina censurata.
L’esposizione della vicenda concreta, se pur sintetica, è comunque sufficiente a soddisfare l’onere di motivazione sulla rilevanza, essendo stata adeguatamente rappresentata una situazione in cui le doglianze dei ricorrenti non potrebbero altrimenti essere accolte che a seguito dell’eventuale accoglimento della questione di legittimità proposta nei confronti della disposizione di legge di cui i provvedimenti impugnati sono applicazione (sentenze n. 16 del 2017, n. 151 del 2009, n. 303 del 2007 e n. 4 del 2000).
2.3.– Non è, infine, fondata l’eccezione di inammissibilità della censura relativa all’eccesso di delega, perché generica e non adeguatamente motivata.
Con motivazione sintetica, ma non implausibile, il giudice a quo deduce la violazione dell’art. 76 Cost., in quanto l’art. 1, comma 28, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), nel delegare la potestà legislativa al Governo «[f]atte salve le disposizioni di cui alla presente legge», non avrebbe previsto alcun potere di revoca o annullamento retroattivo di iscrizioni e annotazioni già effettuate.
I termini della questione sono stati dunque enucleati con un’argomentazione adeguata, che supera il vaglio preliminare di ammissibilità richiesto a questa Corte, giacché «[a]ttiene al merito – e non al profilo preliminare dell’ammissibilità – la valutazione della forza persuasiva degli argomenti addotti a sostegno delle censure» (sentenza n. 259 del 2017).
3.– Va d’altra parte dichiarata l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento all’art. 22 Cost.
Il rimettente si limita ad osservare che il nome costituisce elemento distintivo della personalità al punto da meritare un’espressa tutela da parte dell’art. 22 Cost., ma omette qualsiasi argomentazione a sostegno del denunciato contrasto tra le disposizioni censurate e il parametro evocato, il quale esclude la privazione del nome per motivi politici. Inoltre, nessun argomento è svolto circa la natura politica della lamentata privazione.
Tale difetto motivazionale comporta l’inammissibilità della questione. Per costante giurisprudenza di questa Corte, non basta l’indicazione delle norme da raffrontare per valutare la compatibilità dell’una rispetto al contenuto precettivo dell’altra, ma è necessario motivare il giudizio negativo in tal senso e, se del caso, illustrare i passaggi interpretativi operati al fine di enucleare i rispettivi contenuti di normazione (ex multis, sentenze n. 240 e n. 35 del 2017, n. 120 del 2015, n. 236 del 2011; ordinanze n. 26 del 2012, n. 321 del 2010 e n. 181 del 2009).
4.– Nel merito, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017 non sono fondate.
4.1.– Con la disposizione censurata il legislatore delegato ha escluso la valenza anagrafica del cognome comune scelto dalle parti dell’unione civile. Ferma restando la facoltà di scegliere ed utilizzare tale cognome comune per la durata della unione, viene espressamente esclusa la necessità di modificare la scheda anagrafica individuale, la quale resta, pertanto, intestata alla stessa parte con il cognome posseduto prima della costituzione dell’unione.
È questa la scelta del legislatore delegato che è stata censurata dal giudice rimettente, assumendo che essa contrasti, in primo luogo, con i principi posti dalla legge n. 76 del 2016 e, dunque, con l’art. 76 Cost.
4.1.1.– Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «la previsione di cui all’art. 76 Cost. non osta all’emanazione, da parte del legislatore delegato, di norme che rappresentino un coerente sviluppo e un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del primo sia limitata ad una mera scansione linguistica di previsioni stabilite dal secondo. Il sindacato costituzionale sulla delega legislativa deve, così, svolgersi attraverso un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli, riguardanti, da un lato, le disposizioni che determinano l’oggetto, i princìpi e i criteri direttivi indicati dalla legge di delegazione e, dall’altro, le disposizioni stabilite dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i princìpi e i criteri direttivi della delega. Il che, se porta a ritenere del tutto fisiologica quell’attività normativa di completamento e sviluppo delle scelte del delegante, circoscrive, d’altra parte, il vizio in discorso ai casi di dilatazione dell’oggetto indicato dalla legge di delega, fino all’estremo di ricomprendere in esso materie che ne erano escluse» (sentenza n. 194 del 2015; sentenze n. 229, n. 182 e n. 50 del 2014).
4.1.2.– Ciò premesso, va in primo luogo rilevato che oggetto della delega in esame era «[l’] adeguamento […] delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni» alle previsioni della stessa legge sulle unioni civili, con salvezza delle disposizioni da essa direttamente introdotte, e in particolare di quella di cui all’art. 1, comma 10, dedicato alla disciplina del cognome comune delle unioni civili.
Quest’ultima disposizione prevede un sistema di individuazione del cognome comune fondato sull’accordo e ispirato alla libertà di determinazione delle parti dell’unione civile. Ad esse è riconosciuta infatti la facoltà di adottare un cognome unico, scegliendolo tra quello dell’una o dell’altra. Parimenti, esse potrebbero legittimamente decidere di mantenere i rispettivi cognomi, rinunciando a contraddistinguere il vincolo con un cognome comune e condiviso.
Ancorché la disposizione del comma 10 non contenga un’espressa qualificazione degli effetti di tale scelta, essa fornisce tuttavia un’indicazione quanto mai significativa circa la necessità di modifiche anagrafiche, laddove espressamente delimita la durata del cognome comune a quella dell’unione civile. Ai sensi del comma 10 in esame, infatti, la scelta del cognome è operata «per la durata dell’unione». Dallo scioglimento dell’unione civile, anche in caso di morte di una delle parti, discende la perdita automatica del cognome comune.
È stata proprio la considerazione di tale delimitazione temporale che ha guidato la scelta operata dal legislatore delegato. Infatti, nella relazione illustrativa che accompagna lo schema del d.lgs. n. 5 del 2017, si rileva che «una vera e propria variazione anagrafica del cognome della parte dell’unione civile avrebbe effetto solo per la durata dell’unione». Tale rilievo sottintende la contraddittorietà e l’irragionevolezza insite nell’attribuire alla scelta compiuta dalle parti dell’unione civile un effetto, la variazione del cognome anagrafico, che è nell’ordinamento tendenzialmente definitivo e irreversibile, mentre nella specie sarebbe temporaneo e limitato alla durata dell’unione.
Vale la pena di rammentare che l’aggiornamento della scheda anagrafica individuale avrebbe comportato che qualsiasi successiva certificazione anagrafica sarebbe stata rilasciata con il solo cognome modificato, con la conseguente necessità di aggiornare non solo i documenti di identità, ma anche i dati fiscali, lavorativi, sanitari e previdenziali.
L’impostazione fatta propria dal rimettente non appare dunque coerente con il principio di ragionevolezza, né con le previsioni della legge delega ed in particolare con l’indicazione rinvenibile nell’art. 1, comma 10, della legge n. 76 del 2016. Nell’adeguare l’ordinamento dello stato civile alle previsioni sul cognome delle unioni civili, è stata dunque compiuta una scelta che rappresenta il coerente sviluppo dei principi posti dalla legge di delega.
4.2.– Anche in riferimento agli artt. 2, 3, 11 e 117, primo comma, Cost. le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017 non sono fondate.
Che il diritto al nome, quale elemento costitutivo dell’identità personale, debba concretizzarsi nel cognome comune, rendendo così doverosa la modifica anagrafica di quello originario, non discende, infatti, né dalle norme della nostra Costituzione, né da quelle interposte che essa richiama.
Va sottolineato, inoltre, che la ipotizzata valenza anagrafica del cognome comune sarebbe suscettibile di produrre effetti pregiudizievoli sulla sfera personale e giuridica dei figli di quella delle parti che avesse assunto tale cognome in sostituzione del proprio. Ad essi infatti, in base all’art. 262 del codice civile, è attribuito il cognome del genitore che li abbia riconosciuti. A seguito dello scioglimento dell’unione civile i figli (salva la facoltà di scelta riconosciuta al figlio maggiorenne dall’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 396 del 2000) rimarrebbero privi di uno degli elementi che, fino al momento dello scioglimento, identificava il relativo nucleo familiare, con tutto ciò che questo comporta nell’ambiente in cui essi vivono.
È bensì vero che le parti del giudizio a quo rifiutano ogni analogia con il matrimonio per quanto attiene al cognome comune. È tuttavia espressivo di un principio caratterizzante l’ordinamento dello stato civile che il cognome d’uso assunto dalla moglie a seguito di matrimonio non comporti alcuna variazione anagrafica del cognome originario, che rimane immodificato. L’art. 20, comma 3, del d.P.R. n. 223 del 1989 prevede, infatti, che «Per le donne coniugate o vedove le schede devono essere intestate al cognome da nubile». In linea di coerenza con tale previsione, si prevede che la scheda anagrafica della parte dell’unione civile debba indicare il nome ed il cognome dell’altra parte dell’unione (comma 1 dell’art. 20), senza che ciò comporti una modifica del proprio cognome anagrafico (comma 3-bis).
D’altra parte, la dichiarazione della scelta circa la posizione del cognome comune non è affatto priva di significato, come sostengono le parti, neppure laddove a tale cognome si riconnetta mero valore d’uso. Anche in questo caso, infatti, la posizione del cognome acquisito rispetto a quello originario riveste indubbio rilievo. Va infatti sottolineato che la dichiarazione sulla posizione del cognome comune costituisce esercizio di un’ulteriore facoltà che la legge n. 76 del 2016 ha espressamente attribuito alle parti dell’unione civile. Il rilievo di tale dichiarazione trova riscontro anche nella previsione della sua iscrizione, a cura dell’ufficiale dello stato civile, negli archivi informatici degli atti dello stato civile (art. 63, comma 1, lettera g-sexies, del d.P.R. n. 396 del 2000).
La natura paritaria e flessibile della disciplina del cognome comune da utilizzare durante l’unione civile e la facoltà di stabilirne la collocazione accanto a quello originario – anche in mancanza di modifiche della scheda anagrafica – costituiscono dunque garanzia adeguata dell’identità della coppia unita civilmente e della sua visibilità nella sfera delle relazioni sociali in cui essa si trova ad esistere.
5.– Anche le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017 non sono fondate.
5.1.– Le censure del giudice a quo attengono in primo luogo alla violazione dell’art. 76 Cost., in quanto non sarebbe stato conferito al legislatore delegato alcun potere di revoca o annullamento di iscrizioni e annotazioni già effettuate e relative alla scelta del cognome.
Al riguardo va rilevato che la disposizione dell’art. 8 detta una disciplina transitoria destinata ad applicarsi alle unioni civili costituite nell’intervallo temporale tra il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144 (Regolamento recante disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile, ai sensi dell’articolo 1, comma 34, della legge 20 maggio 2016, n. 76), e il d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 5, nelle quali sia stata esercitata l’opzione per il cognome comune e sia stata altresì effettuata la variazione anagrafica prevista dall’art. 4 del citato d.P.C.m. e successivamente esclusa dall’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017.
Va ribadito che la delega conferita dall’art. 1, comma 28, lettera a), della legge n. 76 del 2016 aveva ad oggetto «[l’] adeguamento […] delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni» alle previsioni della stessa legge sulle unioni civili, con salvezza delle disposizioni da essa direttamente introdotte, ed in particolare di quella di cui all’art. 1, comma 10, dedicato alla disciplina del cognome comune delle unioni civili.
Come si è visto nel precedente punto 4., il legislatore delegato ha dapprima esplicitato il significato del principio posto dall’art. 1, comma 10, della legge n. 76 del 2016, escludendo la valenza anagrafica del cognome comune. Con il successivo art. 8, e sempre al fine dell’adeguamento della disciplina dello stato civile, ha previsto la caducazione delle annotazioni effettuate medio tempore, in applicazione di una fonte normativa, provvisoria e di carattere secondario, non coerente con i principi della delega.
5.2.– Non è ravvisabile neppure la denunciata violazione degli artt. 2, 11 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in riferimento all’art. 8 della CEDU e agli artt. 1 e 7 della CDFUE. Nella prospettazione del rimettente, tali censure sono ricondotte al sacrificio del diritto alla conservazione del cognome comune da parte di chi lo abbia acquisito nel vigore dell’art. 4, comma 2, del d.P.C.m. n. 144 del 2016.
Introdotto da una disposizione destinata ad applicarsi in attesa dell’entrata in vigore dei decreti legislativi previsti dalla legge n. 76 del 2016, l’effetto modificativo della scheda anagrafica rivestiva la medesima natura provvisoria della fonte regolamentare che l’aveva previsto e che era destinata a cessare per effetto dei successivi decreti legislativi. La dichiarata transitorietà del d.P.C.m. in esame e la relativa brevità del suo orizzonte temporale di riferimento portano ad escludere che le novità da esso introdotte abbiano determinato un ragionevole affidamento in ordine all’emersione e al consolidamento di un nuovo tratto identificativo della persona. Ne consegue che la previsione dell’annullamento delle variazioni anagrafiche già effettuate non può ritenersi lesiva di una nuova identità personale, ancora non affermata.
Pertanto, non risulta conferente il richiamo alla sentenza n. 13 del 1994, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 165 del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile), per violazione dell’art. 2 Cost., nella parte in cui esso non prevedeva che, ove la rettifica degli atti dello stato civile, per ragioni indipendenti dalla volontà del soggetto, comporti il cambiamento del cognome, il soggetto stesso possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli.
In quella occasione, l’esigenza di protezione dell’interesse alla conservazione del cognome è stata riconosciuta «[…] in presenza di una situazione nella quale con quel cognome la persona sia ormai individuata e conosciuta nell’ambiente ove vive […]», ciò che non può ritenersi verificato nel caso in esame.
5.3.– Non è fondata, infine, la censura di irragionevolezza proposta dal rimettente in riferimento all’indicazione legislativa del procedimento di cui all’art. 98 del d.P.R. n. 396 del 2000 per l’annullamento delle variazioni anagrafiche effettuate in base all’art. 4 del citato d.P.C.m.
Il modello procedimentale prescelto dal legislatore delegato prevede, in particolare, che del provvedimento sia data comunicazione agli interessati, al procuratore della Repubblica ed al prefetto. A partire da questa comunicazione gli interessati hanno trenta giorni per proporre ricorso al tribunale, a norma dell’art. 95 del d.P.R. n. 396 del 2000. Lo stesso termine è previsto per il procuratore della Repubblica che può proporre ricorso contro la correzione effettuata dall’ufficiale dello stato civile.
Si tratta dunque di una procedura che garantisce il contraddittorio con la parte interessata attraverso la proposizione di un ricorso e l’instaurazione di un giudizio di fronte ad un tribunale (come è avvenuto proprio nel giudizio a quo).
E, se è vero che la procedura indicata contempla il contraddittorio e l’intervento del giudice in una fase differita, si tratta pur sempre di uno strumento processuale che consente alle parti coinvolte di contestare l’annullamento di variazioni anagrafiche. L’art. 8 in esame prescrive dunque l’utilizzo di uno schema procedimentale, già previsto nel sistema dell’ordinamento dello stato civile, ancorché utilizzato per differenti evenienze. La legittimità del rinvio a tale modello non è inficiata dall’estensione del suo ambito applicativo a ulteriori fattispecie, differenti da quelle per le quali esso era originariamente previsto.


per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, lettera c), numero 2), e 8 del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5, recante «Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna, in riferimento all’art. 22 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017, sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna, in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 76 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017, sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna, in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 76 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della CEDU e agli artt. 1 e 7 della CDFUE, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 ottobre 2018.

mercoledì 21 novembre 2018


Riposo compensativo (per lo svolgimento di funzioni al seggio elettorale) del dipendente in cassa integrazione


Cass. 19 novembre 2018, n. 29774

La disciplina dettata dall’art. 119, c. 2, del d.P.R. 361/1957, non può trovare applicazione nell'ipotesi in cui il lavoratore, impegnato nello svolgimento di funzioni elettorali,  si trovi in cassa integrazione e cioè in una situazione nella quale le reciproche obbligazioni principali a carico delle parti del rapporto di lavoro, costituite dalla prestazione dell'attività di lavoro e dalla corresponsione della retribuzione, sono sospese.




OMISSIS



Fatti di causa

1. La Corte di appello di Campobasso, pronunziando in sede di reclamo, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto la domanda con la quale S.R. aveva chiesto accertarsi la illegittimità del licenziamento per motivi disciplinari (costituiti dall'assenza ingiustificata nel posto di lavoro nei giorni 27/29 maggio 2014 integrata dalla recidiva per ulteriori due mancanze) intimatogli da OMISSIS con lettera del 1.7.2014 .

1.1. Il giudice del reclamo, ritenuti provati gli addebiti contestati a titolo di recidiva, quanto all'addebito relativo ai tre giorni di assenza dal lavoro del 27, 28, e 29 maggio 2014 - che il lavoratore assumeva fruiti a titolo di riposo compensativo connesso all'impegno nell'espletamento del servizio elettorale e all'impegno di rappresentante di lista profusi nei giorni 24, 25 e 26 maggio - ha osservato che il R. non aveva alcun diritto alla fruizione dei detti riposi atteso che lo stesso, nel periodo dal 23 al 26 maggio, risultava posto in cigs ; la sospensione del rapporto di lavoro conseguente alla messa in cigs esonerava il datore di lavoro dall'obbligo di garantire il riposo.

1.2. Il realizzarsi della fattispecie prevista dal contratto collettivo, prevalutata dalla comune volontà delle parti stipulanti , comportava il rigetto della impugnativa di licenziamento a prescindere da qualsivoglia valutazione di proporzionalità .

2. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso S.R. sulla base di tre motivi; la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso

2.1. Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell'art. 378 cod. proc. civ. .



Ragioni della decisione



OMISSIS


3. Con il terzo motivo deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 11 Legge 21/3/1990 n. 53, dell'art. 1 Legge 29/1/1992 n. 69, dell'art. 7 Legge n. 300/1970 cit., degli artt. 1175 e 1375 cod. civ. e dell'art. 32 Titolo III, paragrafo A) lett. H) del ccsl di primo livello applicato in OMISSIS  censurando la sentenza impugnata per avere escluso il diritto ai riposi compensativi sul rilievo che nei giorni di impegno elettorale il rapporto di lavoro era sospeso in quanto il lavoratore si trovava in cigs; evidenzia, che, comunque, la contestazione disciplinare indicava quali giorni di messa in cigs il 23 ed il 26 maggio 2014 e non anche il 24 e 25 maggio . 



OMISSIS 



6. Il terzo motivo di ricorso è infondato. Si premette che la censura collegata al rilievo che la contestazione disciplinare indicava quali giorni in cui il R. era stato messo in cassa integrazione solo il 23 ed il 26 maggio e non anche il 24 ed il 25, è inammissibile in quanto, non avendo la sentenza impugnata trattato di tale specifica questione costituiva, per le ragioni già indicate sub paragrafo 4.3. onere della parte - onere in concreto non assolto dall'odierno ricorrente-, dimostrarne la avvenuta rituale devoluzione al giudice di appello.

6.1. Fermo, quindi, in fatto che le funzioni elettorali espletate dal R. coincidevano con il periodo in cui questi si trovava in cigs, occorre verificare se la disciplina di riferimento consente di riconoscere anche in tali ipotesi il diritto del lavoratore ai riposi compensativi.

6.2. Si premette che l'art. 119 del Testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei Deputati approvato con d. P.R. 30/3/1957 n. 361, nel testo sostituito dall'art. 11, Legge 21/3/1990 n. 53, così recita : " 1. In occasione di tutte le consultazioni elettorali disciplinate da leggi della Repubblica o delle Regioni coloro che adempiono funzioni presso gli uffici elettorali, ivi compresi i rappresentanti di lista o di gruppo di candidati nonché in occasione di referendum, i rappresentanti dei partiti o gruppi politici e dei promotori del referendum, hanno diritto ad assentarsi dal lavoro per tutto il periodo corrispondente alla durata delle relative operazioni. 2. I giorni di assenza dal lavoro compresi nel periodo di cui al comma primo sono considerati, a tutti gli effetti, giorni di attività lavorativa.".

6.3. L'art. 1 Legge 29 /1/1992 n. 69, con norma di dichiarata interpretazione autentica del comma 2 dell'art. 119 cit. ha statuito che " Il comma 2 dell'art. 119 del Testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della camera dei deputati, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361, come sostituito dall'art. 11 della Legge 21 marzo 1990, n. 53, va inteso nel senso che i lavoratori di cui al comma 1 dello stesso articolo articolo 119 hanno diritto al pagamento di specifiche quote retributive, in aggiunta alla ordinaria retribuzione mensile ovvero a riposi compensativi, per i giorni festivi o non lavorativi eventualmente compresi nel periodo di svolgimento delle operazioni elettorali.".

6.4. Dal tenore letterale delle disposizioni in esame e dalla finalità complessiva delle disciplina dettata per l'ipotesi di espletamento di funzioni connesse alle operazioni elettorali - finalità ravvisabile nell'esigenza di evitare che lo svolgimento di dette funzioni, configuranti munus publicum ( Cass. Sez. Un. 28/10/1995 n. 11314), si traduca in una penalizzazione per il dipendente sul piano del rapporto di lavoro - si evince che la piena funzionalità del rapporto di lavoro costituisce presupposto indispensabile per la relativa applicazione .

6.5 La disciplina di legge, infatti, è modulata su un rapporto di lavoro connotato dall'attualità delle rispettive obbligazioni a carico delle parti come reso palese dal riferimento al diritto del lavoratore di assentarsi per tutto il periodo corrispondente alla durata delle operazioni elettorali, dal fatto che i giorni di assenza sono considerati "a tutti gli effetti" giorni di attività lavorativa, dalla previsione del diritto al pagamento di specifiche quote retributive in aggiunta alla ordinaria retribuzione in alternativa a riposi compensativi per i giorni festivi o non lavorativi eventualmente compresi nel periodo di svolgimento delle operazioni elettorali.

6.6. Quanto sopra osservato esclude che la richiamata disciplina possa trovare applicazione, anche solo in via estensiva, nell'ipotesi in cui il lavoratore impegnato nello svolgimento di funzioni elettorali si trovi in cassa integrazione e cioè in una situazione nella quale le reciproche obbligazioni principali a carico delle parti del rapporto di lavoro, costituite dalla prestazione dell'attività di lavoro e dalla corresponsione della retribuzione, sono sospese.

6.7. In particolare, con riferimento al profilo di interesse nella presente controversia, la sospensione dell'obbligo lavorativo per il dipendente nel periodo di espletamento delle operazioni elettorali, rende incongruo il riconoscimento del diritto al riposo compensativo, istituto tradizionalmente destinato a "compensare" la maggiore onerosità dell'attività prestata in giorno festivo o non lavorativo in funzione del recupero delle energie psico- fisiche del dipendente.


7. In base alle considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto.


8. La assoluta novità della questione trattata nell'esame del terzo motivo giustifica la compensazione delle spese di lite.


P.Q.M.


La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese. 

martedì 20 novembre 2018


Alla Corte di Giustizia le misure di accoglienza, in caso di comportamenti violativi di norme generali dell’ordinamento posti in essere dal richiedente protezione internazionale
Straniero – Accoglienza - Richiedente protezione internazionale - Comportamenti violativi di norme generali dell’ordinamento – Grave violazione dei Regolamenti dei centri di accoglienza – Rilevanza – Comportamenti non previsti dai regolamenti dei centri di accoglienza e non penalmente rilevanti – Rimessione alla Corte di Giustizia UE.
           Sono rimesse alla Corte di Giustizia UE le questioni;  1) se l’art. 20, par. 4, della Direttiva osta ad un’interpretazione dell’art. 23, d.lgs. n. 142 del 2015 nel senso che anche comportamenti violativi di norme generali dell’ordinamento, non specificamente riprodotte nei regolamenti dei centri di accoglienza, possono integrare grave violazione di questi ultimi laddove siano in grado di incidere sull’ordinata convivenza nelle strutture di accoglienza. La questione è rilevante poiché, in caso di risposta negativa, i ricorsi dovrebbero essere accolti con annullamento dei provvedimenti prefettizi impugnati, avendo l’Amministrazione malamente applicato tale normativa come trasfusa nell’art. 23, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 142 del 2015. In tal caso infatti gli illeciti compiuti dai ricorrenti potrebbero, al più, essere motivo per il loro trattenimento all’interno delle strutture deputate ma non costituirebbero presupposto per la revoca dell’ammissione alle misure di accoglienza. In caso di risposta affermativa occorre risolvere un’ulteriore questione, che con la presente ordinanza viene posta alla Corte: 2) se l’art.  20, par. 4, della Direttiva osta ad un’interpretazione dell’art. 23, d.lgs. n. 142 del 2015 nel senso che possono essere considerati, ai fini della revoca dell’ammissione alle misure di accoglienza, anche comportamenti posti in essere dal richiedente protezione internazionale che non costituiscono illecito penalmente punibile ai sensi dell’ordinamento dello Stato membro, laddove essi siano comunque in grado di incidere negativamente sull’ordinata convivenza nelle strutture in cui gli stessi sono inseriti (1).

(1) Il Tar ha ricordato che la normativa italiana applicata dall’Amministrazione nella fattispecie è contenuta nel d.lgs. n. 142 del 2015, attuativo delle direttive 2013/33/UE recante norme relative all'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale e 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale. Viene in rilievo in particolare l’art. 23, comma 1, lett. e) del suddetto d.lgs. n. 142 del 2015 a norma del quale può essere disposta la revoca delle misure di accoglienza (tra l’altro) in caso di “violazione grave o ripetuta delle regole delle strutture in cui è accolto da parte del richiedente asilo compreso il danneggiamento doloso di beni mobili o immobili, ovvero comportamenti gravemente violenti”.
Viene inoltre in rilievo l’art. 6, comma 2, del citato d.lgs. n. 142 del 2015 a norma del quale “il richiedente è trattenuto, ove possibile in appositi spazi, nei centri di cui all'art. 14, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, sulla base di una valutazione caso per caso, quando: a) si trova nelle condizioni previste dall'art. 1, paragrafo F della Convenzione relativa allo status di rifugiato, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, ratificata con la l. 24 luglio 1954, n. 722, e modificata dal protocollo di New York del 31 gennaio 1967, ratificato con la l. 14 febbraio 1970, n. 95; b) si trova nelle condizioni di cui all'art. 13, commi 1 e 2, lett. c), d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, e nei casi di cui all'art. 3, comma 1, d.l. 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla l. 31 luglio 2005, n. 155; c) costituisce un pericolo per l'ordine e la sicurezza pubblica.
Nella valutazione della pericolosità si tiene conto di eventuali condanne, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei delitti indicati dall'articolo 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale ovvero per reati inerenti agli stupefacenti, alla libertà sessuale, al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite”.
Ha ricordato il Tar che la giurisprudenza italiana fornisce interpretazioni diversificate della normativa citata.
Secondo un primo orientamento, posto che la revoca di cui si tratta è volta a preservare il buon funzionamento delle strutture di accoglienza, legittimamente può essere adottata anche a fronte di condotte perpetrate al di fuori delle stesse laddove siano suscettibili di riverberarsi al suo interno per i possibili riflessi sugli altri ospiti, destabilizzandone la convivenza (Trga Bolzano 24 maggio 2017, n. 165).
Secondo un altro orientamento, invece, le ipotesi di revoca dell’ammissione alle misure di accoglienza e in particolare quella che rileva nella presente fattispecie non devono essere confuse con la sussistenza dei presupposti per la valutazione di “pericolosità” del richiedente, anche alla luce di eventuali denunce o condanne penali, ai sensi dell'art. 6 comma 2, d.lgs. n. 142 del 2015, che ne giustifica il trattenimento. La norma di cui all’art. 23, comma 1, lett. e), secondo questa interpretazione, sanziona con la perdita dell’accoglienza ricettiva le gravi violazioni, i gravi danneggiamenti e le gravi violenze commesse all’interno della struttura di accoglienza, e non all’esterno di essa (Tar Molise 29 marzo 2017, n. 116).
Quanto alla normativa comunitaria, va fatto riferimento alla Direttiva UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013, n. 33 (nel seguito: “Direttiva”), recante norme relative all'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale. Viene in rilievo segnatamente l’art. 20, par. 4, della stessa la quale recita che “gli Stati membri possono prevedere sanzioni applicabili alle gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza nonché ai comportamenti gravemente violenti”.
Il “Considerando” 25 specifica che “la possibilità di abuso del sistema di accoglienza dovrebbe essere contrastata specificando le circostanze in cui le condizioni materiali di accoglienza dei richiedenti possono essere ridotte o revocate, pur garantendo nel contempo un livello di vita dignitoso a tutti i richiedenti”.
L’art. 8, in tema di trattenimento, viene in rilievo per la disposizione contenuta nel suo par. 3 a norma del quale “un richiedente può essere trattenuto soltanto: a) per determinarne o verificarne l'identità o la cittadinanza; b) per determinare gli elementi su cui si basa la domanda di protezione internazionale che non potrebbero ottenersi senza il trattenimento, in particolare se sussiste il rischio di fuga del richiedente; c) per decidere, nel contesto di un procedimento, sul diritto del richiedente di entrare nel territorio; d) quando la persona è trattenuta nell'ambito di una procedura di rimpatrio ai sensi della direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, al fine di preparare il rimpatrio e/o effettuare l'allontanamento e lo Stato membro interessato può comprovare, in base a criteri obiettivi, tra cui il fatto che la persona in questione abbia già avuto l'opportunità di accedere alla procedura di asilo, che vi sono fondati motivi per ritenere che la persona abbia manifestato la volontà di presentare la domanda di protezione internazionale al solo scopo di ritardare o impedire l'esecuzione della decisione di rimpatrio; e) quando lo impongono motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico”.
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/alla-corte-di-giustizia-le-misure-di-accoglienza-in-caso-di-comportamenti-violativi-di-norme-generali-dell-ordinamento-posti-in-essere-dal-richiedente

sabato 17 novembre 2018


Corte di Giustizia UE 13 novembre 2018, (cause riunite) nn. C-47/17 e C-48/17, X e X



Rinvio pregiudiziale – Regolamento (UE) n. 604/2013 – Regolamento (CE) n. 1560/2003 – Determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale – Criteri e meccanismi di determinazione – Richiesta di presa o di ripresa in carico di un richiedente asilo – Risposta negativa dello Stato membro richiesto – Domanda di riesame – Articolo 5, paragrafo 2, del regolamento n. 1560/2003 – Termine per la risposta – Scadenza – Effetti












L’articolo 5, paragrafo 2, del regolamento (CE) n. 1560/2003 della Commissione, del 2 settembre 2003, recante modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 343/2003 del Consiglio che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo, come modificato dal regolamento di esecuzione (UE) n. 118/2014 della Commissione, del 30 gennaio 2014, dev’essere interpretato nel senso che, nell’ambito della procedura di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale, lo Stato membro investito di una richiesta di presa o di ripresa in carico ai sensi dell’articolo 21 o dell’articolo 23 del regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide, il quale, dopo aver proceduto alle verifiche necessarie, abbia risposto negativamente alla stessa entro i termini di cui all’articolo 22 o all’articolo 25 di quest’ultimo regolamento e che abbia successivamente ricevuto una domanda di riesame a norma del citato articolo 5, paragrafo 2, deve, entro un termine di due settimane, procurare di rispondere a tale domanda, in uno spirito di leale cooperazione.

Se lo Stato membro richiesto non risponde alla domanda stessa entro tale termine di due settimane, la procedura aggiuntiva di riesame è definitivamente chiusa, sicché, a partire dalla scadenza del suddetto termine, lo Stato membro richiedente dev’essere considerato competente ai fini dell’esame della domanda di protezione internazionale, salvo che disponga ancora del tempo necessario per poter presentare, entro i termini improrogabili previsti a tal fine dall’articolo 21, paragrafo 1, e dall’articolo 23, paragrafo 2, del regolamento n. 604/2013, una nuova richiesta di presa o di ripresa in carico.








Edizione provvisoria
SENTENZA DELLA CORTE (Grande Sezione)
13 novembre 2018
Nelle cause riunite C‑47/17 e C‑48/17,
aventi ad oggetto le domande di pronuncia pregiudiziale proposte alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Rechtbank Den Haag (tribunale dell’Aia, Paesi Bassi), con decisioni del 23 gennaio e del 26 gennaio 2017, pervenute in cancelleria rispettivamente il 1° febbraio e il 3 febbraio 2017, nei procedimenti
X (C‑47/17),
X (C‑48/17)
contro
Staatssecretaris van Veiligheid en Justitie
LA CORTE (Grande Sezione),
composta da K. Lenaerts, presidente, R. Silva de Lapuerta, vicepresidente, J.‑C. Bonichot, M. Vilaras e F. Biltgen, presidenti di sezione, E. Juhász, M. Ilešič (relatore), J. Malenovský, E. Levits, L. Bay Larsen e S. Rodin, giudici,
avvocato generale: M. Wathelet
cancelliere: L. Carrasco Marco, amministratrice
vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 16 gennaio 2018,
considerate le osservazioni presentate:
–        per X (C‑47/17), da C.C. Westermann-Smit, advocaat;
–        per X (C‑48/17), da D.G.J. Sanderink e A. Khalaf, advocaten;
–        per il governo dei Paesi Bassi, da M.K. Bulterman e L. Noort, in qualità di agenti;
–        per il governo tedesco, da T. Henze e R. Kanitz, in qualità di agenti;
–        per il governo ungherese, da M.M. Tátrai, M.Z. Fehér e G. Koós, in qualità di agenti;
–        per il governo del Regno Unito, da S. Brandon, R. Fadoju e C. Crane, in qualità di agenti, assistiti da D. Blundell, barrister;
–        per il governo svizzero, da E. Bichet, in qualità di agente;
–        per la Commissione europea, da G. Wils e M. Condou-Durande, in qualità di agenti,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 22 marzo 2018,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1        Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione dell’articolo 5, paragrafo 2, del regolamento (CE) n. 1560/2003 della Commissione, del 2 settembre 2003, recante modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 343/2003 del Consiglio che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo (GU 2003, L 222, pag. 3), come modificato dal regolamento di esecuzione (UE) n. 118/2014 della Commissione, del 30 gennaio 2014 (GU 2014, L 39, pag. 1; in prosieguo: il «regolamento di esecuzione»).
2        Tali questioni sono state formulate nell’ambito delle controversie che oppongono due richiedenti asilo allo Staatssecretaris van Veiligheid en Justitie (segretario di Stato alla Sicurezza e alla Giustizia, Paesi Bassi, in prosieguo: il «segretario di Stato»).
 Contesto normativo
 Diritto dell’Unione
 Regolamento Eurodac
3        Il regolamento (UE) n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che istituisce l’«Eurodac» per il confronto delle impronte digitali per l’efficace applicazione del regolamento (UE) n. 604/2013 che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide e per le richieste di confronto con i dati Eurodac presentate dalle autorità di contrasto degli Stati membri e da Europol a fini di contrasto, e che modifica il regolamento (UE) n. 1077/2011 che istituisce un’agenzia europea per la gestione operativa dei sistemi IT su larga scala nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia (GU 2013, L 180, pag. 1; in prosieguo: il «regolamento Eurodac»), al suo articolo 9 così dispone:
«1.      Ciascuno Stato membro procede tempestivamente al rilevamento delle impronte digitali di tutte le dita di ogni richiedente protezione internazionale di età non inferiore a 14 anni, non appena possibile e in ogni caso entro 72 ore dalla presentazione della domanda di protezione internazionale ai sensi dell’articolo 20, paragrafo 2, del regolamento (UE) n. 604/2013 (...).
(...)
3.      I dati relativi alle impronte digitali (...) trasmessi da qualsiasi Stato membro (...) sono automaticamente confrontati con i dati relativi alle impronte digitali trasmessi da altri Stati membri e già registrati nel sistema centrale.
(...)
5.      Il sistema centrale trasmette automaticamente la risposta pertinente o il risultato negativo del confronto allo Stato membro d’origine. (...)
(...)».
4        L’articolo 14 del regolamento Eurodac così recita:
«1.      Ciascuno Stato membro procede tempestivamente al rilevamento delle impronte digitali di tutte le dita di cittadini di paesi terzi o apolidi di età non inferiore a 14 anni, che siano fermati dalle competenti autorità di controllo in relazione all’attraversamento irregolare via terra, mare o aria della propria frontiera in provenienza da un paese terzo e che non siano stati respinti o che rimangano fisicamente nel territorio degli Stati membri e che non siano in stato di custodia, reclusione o trattenimento per tutto il periodo che va dal fermo all’allontanamento sulla base di una decisione di respingimento.
2.      Lo Stato membro interessato trasmette quanto prima e in ogni caso entro 72 ore dopo la data del fermo al sistema centrale i dati (...) relativi ai cittadini di paesi terzi o apolidi di cui al paragrafo 1 non respinti (...)
(...)».
 Regolamento Dublino III
5        I considerando 4, 5, 7 e 12 del regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide (GU 2013, L 180, pag. 31; in prosieguo il «regolamento Dublino III») così recitano:
«(4)      Secondo le conclusioni [adottate dal Consiglio europeo nella riunione straordinaria tenutasi a] Tampere [il 15 e il 16 ottobre 1999], il [sistema europeo comune di asilo] dovrebbe prevedere a breve termine un meccanismo per determinare con chiarezza e praticità lo Stato membro competente per l’esame di una domanda di asilo.
(5)      Tale meccanismo dovrebbe essere fondato su criteri oggettivi ed equi sia per gli Stati membri sia per le persone interessate. Dovrebbe, soprattutto, consentire di determinare con rapidità lo Stato membro competente al fine di garantire l’effettivo accesso alle procedure volte al riconoscimento della protezione internazionale e non dovrebbe pregiudicare l’obiettivo di un rapido espletamento delle domande di protezione internazionale.
(...)
(7)      Nel programma di Stoccolma il Consiglio europeo ha ribadito il suo impegno per il raggiungimento dell’obiettivo di istituire, entro il 2012, uno spazio comune di protezione e solidarietà per coloro che hanno ottenuto la protezione internazionale, ai sensi dell’articolo 78 [TFUE]. Ha inoltre sottolineato che il sistema di Dublino resta una pietra miliare nella costruzione del [sistema europeo comune di asilo], poiché ripartisce con chiarezza tra gli Stati membri la competenza per l’esame delle domande di protezione internazionale.
(...)
(12)      La direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale [(GU 2013, L 180, pag. 60),] dovrebbe integrare e lasciare impregiudicate le disposizioni relative alle garanzie procedurali disciplinate dal presente regolamento, fatti salvi i limiti nell’applicazione di detta direttiva».
6        Ai sensi dell’articolo 2, lettera d), del regolamento Dublino III, ai fini del regolamento stesso si intende per «esame di una domanda di protezione internazionale» «l’insieme delle misure d’esame, le decisioni o le sentenze pronunciate dalle autorità competenti su una domanda di protezione internazionale conformemente alla direttiva 2013/32/UE e alla direttiva 2011/95/UE ad eccezione delle procedure volte a determinare quale sia lo Stato competente in applicazione del presente regolamento».
7        Ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, del regolamento Dublino III:
«Quando lo Stato membro competente non può essere designato sulla base dei criteri enumerati nel presente regolamento, è competente il primo Stato membro nel quale la domanda è stata presentata.
Qualora sia impossibile trasferire un richiedente verso lo Stato membro inizialmente designato come competente in quanto si hanno fondati motivi di ritenere che sussistono carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti in tale Stato membro, che implichino il rischio di un trattamento inumano o degradante ai sensi dell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, lo Stato membro che ha avviato la procedura di determinazione dello Stato membro competente prosegue l’esame dei criteri di cui al capo III per verificare se un altro Stato membro possa essere designato come competente.
Qualora non sia possibile eseguire il trasferimento a norma del presente paragrafo verso un altro Stato membro designato in base ai criteri di cui al capo III o verso il primo Stato membro in cui la domanda è stata presentata, lo Stato membro che ha avviato la procedura di determinazione diventa lo Stato membro competente».
8        L’articolo 13, paragrafo 1, del regolamento Dublino III è così formulato:
«Quando è accertato, sulla base degli elementi di prova e delle circostanze indiziarie di cui ai due elenchi menzionati all’articolo 22, paragrafo 3, del presente regolamento, inclusi i dati di cui al regolamento [Eurodac], che il richiedente ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un paese terzo, la frontiera di uno Stato membro, lo Stato membro in questione è competente per l’esame della domanda di protezione internazionale. Detta responsabilità cessa 12 mesi dopo la data di attraversamento clandestino della frontiera».
9        L’articolo 17, paragrafo 1, del regolamento Dublino III enuncia:
«In deroga all’articolo 3, paragrafo 1, ciascuno Stato membro può decidere di esaminare una domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo o da un apolide, anche se tale esame non gli compete in base ai criteri stabiliti nel presente regolamento.
(...)».
10      L’articolo 18 del citato regolamento così dispone:
1.      Lo Stato membro competente in forza del presente regolamento è tenuto a:
a)      prendere in carico, alle condizioni specificate negli articoli 21, 22 e 29, il richiedente che ha presentato domanda in un altro Stato membro;
b)      riprendere in carico, alle condizioni di cui agli articoli 23, 24, 25 e 29, il richiedente la cui domanda è in corso d’esame e che ha presentato domanda in un altro Stato membro oppure si trova nel territorio di un altro Stato membro senza un titolo di soggiorno;
(...)
2.      Per quanto riguarda i casi che rientrano nell’ambito di applicazione del paragrafo 1, lettere a) e b), lo Stato membro competente esamina o porta a termine l’esame della domanda di protezione internazionale presentata dal richiedente.
(...)».
11      L’articolo 20, paragrafi 1 e 5, del medesimo regolamento così recita:
«1.      La procedura di determinazione dello Stato membro competente è avviata non appena una domanda di protezione internazionale è presentata per la prima volta in uno Stato membro.
(...)
5.      Lo Stato membro nel quale è stata presentata per la prima volta la domanda di protezione internazionale è tenuto, alle condizioni di cui agli articoli 23, 24, 25 e 29 e al fine di portare a termine il procedimento di determinazione dello Stato membro competente, a riprendere in carico il richiedente che si trova in un altro Stato membro senza un titolo di soggiorno o ha presentato colà una nuova domanda di protezione internazionale dopo aver ritirato la prima domanda presentata in uno Stato membro diverso durante il procedimento volto a determinare lo Stato membro competente.
(...)».
12      L’articolo 21 del regolamento Dublino III ha il seguente tenore:
«1.      Lo Stato membro che ha ricevuto una domanda di protezione internazionale e ritiene che un altro Stato membro sia competente per l’esame della stessa può chiedere a tale Stato membro di prendere in carico il richiedente quanto prima e, al più tardi, entro tre mesi dopo la presentazione della domanda ai sensi dell’articolo 20, paragrafo 2.
In deroga al primo comma, nel caso di una risposta pertinente di Eurodac con dati registrati ai sensi dell’articolo 14 del regolamento [Eurodac], la richiesta è inviata entro due mesi dal ricevimento della risposta pertinente ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 2, di tale regolamento.
Se la richiesta di prendere in carico un richiedente non è formulata entro i termini previsti al primo e al secondo comma, la competenza dell’esame della domanda di protezione internazionale spetta allo Stato membro al quale la domanda è stata presentata.
2.      Lo Stato membro richiedente può sollecitare una risposta urgente nei casi in cui la domanda di protezione internazionale sia stata presentata a seguito di un rifiuto d’ingresso o di soggiorno, di un arresto per soggiorno irregolare, della notificazione o dell’esecuzione di un provvedimento di allontanamento.
La richiesta riporta i motivi che giustificano una risposta urgente e il termine entro il quale tale risposta è attesa. Tale termine è pari ad almeno una settimana.
3.      Nei casi di cui ai paragrafi 1 e 2, la richiesta di presa in carico da parte di un altro Stato membro è effettuata utilizzando un formulario uniforme e accludendo elementi di prova o circostanze indiziarie quali descritti nei due elenchi dell’articolo 22, paragrafo 3, e/o elementi pertinenti tratti dalla dichiarazione del richiedente, che permettano alle autorità dello Stato richiesto di verificare la competenza di questo in base ai criteri definiti dal presente regolamento.
La Commissione adotta, mediante atti di esecuzione, condizioni uniformi relative alla preparazione e alla presentazione delle richieste di presa in carico (...)».
13      A norma dell’articolo 22 del regolamento Dublino III:
«1.      Lo Stato membro richiesto procede alle verifiche necessarie e delibera sulla richiesta di presa in carico di un richiedente entro due mesi a decorrere dal ricevimento della richiesta.
(...)
3.      La Commissione, mediante atti di esecuzione, stabilisce e riesamina periodicamente due elenchi nei quali figurano gli elementi di prova e le circostanze indiziarie pertinenti (...).
(...)
6.      Se lo Stato membro richiedente ha invocato l’urgenza, conformemente alle disposizioni dell’articolo 21, paragrafo 2, lo Stato membro richiesto compie ogni sforzo al fine di rispettare il termine indicato. In casi eccezionali, quando è possibile dimostrare che l’esame di una richiesta ai fini della presa in carico di un richiedente è particolarmente complessa, lo Stato membro richiesto può fornire la sua risposta dopo il termine richiesto, ma comunque entro un mese. In tali situazioni lo Stato membro richiesto deve comunicare la propria decisione di differire la risposta allo Stato richiedente entro il termine originariamente richiesto.
7.      La mancata risposta entro la scadenza del termine di due mesi citato al paragrafo 1 e di quello di un mese citato al paragrafo 6 equivale all’accettazione della richiesta e comporta l’obbligo di prendere in carico la persona, compreso l’obbligo di prendere disposizioni appropriate all’arrivo della stessa».
14      L’articolo 23 del regolamento Dublino III prevede quanto segue:
«1.      Uno Stato membro presso il quale una persona di cui all’articolo 18, paragrafo 1, lettere b), c) o d), abbia presentato una nuova domanda di protezione internazionale che ritenga che un altro Stato membro sia competente ai sensi dell’articolo 20, paragrafo 5, e dell’articolo 18, paragrafo 1, lettere b), c) o d), può chiedere all’altro Stato membro di riprendere in carico tale persona.
2.      Una richiesta di ripresa in carico è presentata quanto prima e in ogni caso entro due mesi dal ricevimento della risposta pertinente Eurodac ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 5, del regolamento [Eurodac].
Se la richiesta di ripresa in carico è basata su prove diverse dai dati ottenuti dal sistema Eurodac, essa è inviata allo Stato membro richiesto entro tre mesi dalla data di presentazione della domanda di protezione internazionale ai sensi dell’articolo 20, paragrafo 2.
3.      Se la richiesta di ripresa in carico non è presentata entro i termini prescritti al paragrafo 2, la competenza per l’esame della domanda di protezione internazionale spetta allo Stato membro in cui la nuova domanda è stata presentata.
4.      Una richiesta di ripresa in carico è effettuata utilizzando un formulario uniforme e comprende elementi di prova o circostanze indiziarie che figurano nelle due liste di cui all’articolo 22, paragrafo 3, e/o elementi pertinenti tratti dalle dichiarazioni dell’interessato, che permettano alle autorità dello Stato membro richiesto di verificare se è competente sulla base dei criteri stabiliti dal presente regolamento.
La Commissione adotta, mediante atti di esecuzione, condizioni uniformi per la preparazione e la presentazione delle richieste di ripresa in carico (...)».
15      Ai sensi dell’articolo 25 del regolamento Dublino III:
«1.      Lo Stato membro richiesto procede alle verifiche necessarie e decide in merito alla richiesta di ripresa in carico dell’interessato quanto prima e in ogni caso entro il termine di un mese dalla data in cui perviene la richiesta. Quando la richiesta è basata su dati ottenuti dal sistema Eurodac, tale termine è ridotto a due settimane.
2.      L’assenza di risposta entro la scadenza del termine di un mese o di due settimane previsto al paragrafo 1 equivale all’accettazione della richiesta e comporta l’obbligo di riprendere in carico l’interessato, compreso l’obbligo di adottare disposizioni appropriate all’arrivo dello stesso».
16      L’articolo 29 del regolamento Dublino III prevede quanto segue:
«1.      Il trasferimento del richiedente (...) dallo Stato membro richiedente verso lo Stato membro competente avviene conformemente al diritto nazionale dello Stato membro richiedente, previa concertazione tra gli Stati membri interessati, non appena ciò sia materialmente possibile e comunque entro sei mesi a decorrere dall’accettazione della richiesta di un altro Stato membro di prendere o riprendere in carico l’interessato, o della decisione definitiva su un ricorso o una revisione in caso di effetto sospensivo (...).
(...)
2.      Se il trasferimento non avviene entro il termine di sei mesi, lo Stato membro competente è liberato dall’obbligo di prendere o riprendere in carico l’interessato e la competenza è trasferita allo Stato membro richiedente. Questo termine può essere prorogato fino a un massimo di un anno se non è stato possibile effettuare il trasferimento a causa della detenzione dell’interessato, o fino a un massimo di diciotto mesi qualora questi sia fuggito.
(...)».
17      Secondo la tavola di concordanza di cui all’allegato II al regolamento Dublino III, l’articolo 18 e l’articolo 20, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (CE) n. 343/2003 del Consiglio, del 18 febbraio 2003, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo (GU 2003, L 50, pag. 1; in prosieguo: il «regolamento Dublino II»), che è stato abrogato e sostituito dal regolamento Dublino III, corrispondono, rispettivamente, all’articolo 22 e all’articolo 25, paragrafo 1, di quest’ultimo.
 Regolamento di esecuzione
18      Ai sensi del preambolo del regolamento di esecuzione, esso è stato adottato «visto il regolamento [Dublino II], in particolare l’articolo 15, paragrafo 5, l’articolo 17, paragrafo 3, l’articolo 18, paragrafo 3, l’articolo 19, paragrafi 3 e 5, l’articolo 20, paragrafi 1, 3 e 4 e l’articolo 22, paragrafo 2».
19      L’articolo 5 del regolamento di esecuzione così recita:
«1.      Lo Stato membro richiesto che previa verifica ritenga che gli elementi presentati non permettano di stabilire la sua competenza, invia allo Stato membro richiedente una risposta negativa pienamente motivata che spieghi nel dettaglio le ragioni del suo rifiuto.
2.      Ove lo Stato membro richiedente ritenga che il rifiuto oppostogli sia basato su un errore di valutazione ovvero disponga di prove complementari da far valere, esso può sollecitare un riesame della richiesta. Questa facoltà va esercitata nelle tre settimane successive al ricevimento della risposta negativa. Lo Stato membro richiesto procura di rispondere entro due settimane. Tale procedura aggiuntiva non riapre comunque i termini di cui all’articolo 18, paragrafi 1 e 6, e all’articolo 20, paragrafo 1, del regolamento [Dublino II]».
20      L’allegato X al regolamento di esecuzione contiene, nella sua parte A, talune informazioni sul regolamento Dublino III per i richiedenti protezione internazionale. Alla voce «Quanto tempo ci vorrà per decidere quale paese esaminerà la mia domanda? Quanto tempo ci vorrà prima che la mia domanda sia esaminata?», si precisa, segnatamente, che «[l]a durata complessiva della procedura [definita dal regolamento Dublino III], fino al momento in cui sarete trasferiti nel paese competente, potrebbe arrivare, in circostanze normali, fino a 11 mesi. La richiesta di asilo sarà poi esaminata nel paese competente. La durata della procedura Dublino potrebbe essere diversa se vi nascondete alle autorità, se siete in carcere o trattenuti, o se impugnate la decisione di trasferimento». La parte B di detto allegato, contenente informazioni sulla procedura stessa per richiedenti protezione internazionale che vi sono soggetti, spiega a tal proposito, più dettagliatamente, i termini previsti per la presentazione di una domanda di presa o di ripresa in carico nonché per la risposta a una siffatta domanda nonché per il trasferimento dell’interessato.
 Diritto dei Paesi Bassi
 La legge generale sulla procedura amministrativa
21      L’articolo 4:17, paragrafo 1, dell’Algemene wet bestuursrecht (legge generale sulla procedura amministrativa) dispone che, qualora l’autorità amministrativa non si pronunci in tempo utile su una domanda, essa è tenuta a corrispondere al richiedente una penale per ogni giorno di ritardo, per una durata che non può tuttavia essere superiore a 42 giorni. L’articolo 4:17, paragrafo 2, di detta legge dispone che la penale ammonta a EUR 20 al giorno per i primi quattordici giorni di ritardo, a EUR 30 al giorno per i successivi quattordici giorni e a EUR 40 al giorno per i giorni seguenti. L’articolo 4:17, paragrafo 3, della legge citata dispone che il primo giorno nel quale è dovuta la penale è il giorno in cui scade il termine di due settimane decorrente dal giorno successivo a quello in cui è scaduto il termine impartito per pronunciare la decisione e in cui l’autorità amministrativa ha ricevuto la diffida scritta inviata dal richiedente. Ai sensi dell’articolo 4:17, paragrafo 5, della stessa legge, la proposizione di un ricorso avverso la mancata tempestiva adozione della decisione non produce l’effetto di sospendere la penale. Ai sensi dell’articolo 4:17, paragrafo 6, lettera c), della legge generale sulla procedura amministrativa, la penale non è dovuta ove la domanda sia manifestamente irricevibile o manifestamente infondata.
22      L’articolo 6:2, lettera b), di detta legge prevede quanto segue:
«Ai fini dell’applicazione delle disposizioni di legge in materia di ricorso e di reclamo, l’omessa statuizione in tempo utile equivale a una decisione».
23      L’articolo 6:12, paragrafo 2, della medesima legge dispone quanto segue:
«Può essere presentato ricorso dal momento in cui l’autorità amministrativa non ha statuito in tempo utile ed è scaduto il termine di due settimane, decorrente dal giorno successivo a quello in cui l’interessato ha contestato per iscritto all’autorità amministrativa la sua omissione».
24      L’articolo 8:55b, paragrafo 1, della legge generale sulla procedura amministrativa così dispone:
«Se il ricorso è diretto avverso un’omessa statuizione in tempo utile, il giudice amministrativo si pronuncia, in applicazione dell’articolo 8:54 [della presente legge] entro un termine di otto settimane dal ricevimento del ricorso e dal momento in cui risultano soddisfatti i criteri di cui all’articolo 6:5 [di tale legge], salvo non ritenga necessario esaminare la causa in udienza».
25      A norma dell’articolo 8:55c della legge generale sulla procedura amministrativa:
«Se richiesto e se il ricorso è fondato, il giudice amministrativo determina altresì l’importo della penale dovuta».
26      In applicazione dell’articolo 8:55d, paragrafo 1, della legge citata, se il ricorso è fondato e se non è stata ancora notificata alcuna decisione, il giudice amministrativo ingiunge all’autorità amministrativa di notificare una decisione entro un termine di due settimane decorrenti dal giorno successivo alla notifica della sentenza. Ai sensi del paragrafo 2 del medesimo articolo, il giudice amministrativo correda la propria sentenza di una penale supplementare per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione della sentenza da parte dell’autorità amministrativa.
 La legge sugli stranieri
27      L’articolo 30, paragrafo 1, della Vreemdelingenwet 2000 (legge del 2000 sugli stranieri), nella versione applicabile ai fatti di cui al procedimento principale (in prosieguo: la «legge sugli stranieri») dispone che una domanda di permesso di soggiorno temporaneo per richiedenti asilo non sia esaminata ove si accerti, ai sensi del regolamento Dublino III, che un altro Stato membro è competente per l’esame della domanda.
28      L’articolo 42, paragrafo 1, della legge sugli stranieri stabilisce che dev’essere adottata una decisione entro un termine di sei mesi dal ricevimento della domanda di soggiorno temporaneo per richiedenti asilo.
29      L’articolo 42, paragrafo 4, della medesima legge dispone che il termine di cui al paragrafo 1 dello stesso articolo può essere prorogato per un massimo di nove mesi supplementari se:
«a.      il caso in questione implica questioni complesse in fatto e/o in diritto;
b.      un gran numero di stranieri presenta contemporaneamente una domanda, per cui in pratica è molto difficile concludere la procedura entro il termine di sei mesi; o
c.      il ritardo nell’esame della domanda è imputabile allo straniero».
30      Ai sensi dell’articolo 42, paragrafo 6, della legge sugli stranieri, se nel quadro di una domanda di permesso di soggiorno temporaneo per richiedenti asilo si esamina, in base all’articolo 30 di questa stessa legge, la questione se la domanda stessa debba o meno essere presa in considerazione, il termine di cui al paragrafo 1 di tale articolo inizia a decorrere solo dal momento in cui risulti accertato, ai sensi del regolamento Dublino III, che il Regno dei Paesi Bassi è competente per l’esame della domanda.
 Procedimenti principali e questioni pregiudiziali
 Causa C47/17
31      Il 24 gennaio 2016 il ricorrente nel procedimento principale, cittadino siriano, ha presentato nei Paesi Bassi, presso il segretario di Stato, una domanda di permesso di soggiorno temporaneo per richiedenti asilo.
32      In pari data il segretario di Stato, consultando la banca dati Eurodac, ha ricevuto una risposta pertinente da cui risultava che il 22 gennaio 2016 tale ricorrente aveva presentato una domanda di protezione internazionale in Germania, circostanza questa che è tuttavia contestata dall’interessato.
33      Il 24 marzo 2016 il segretario di Stato ha presentato alle autorità tedesche una richiesta di ripresa in carico del ricorrente nel procedimento principale, ai sensi dell’articolo 18, paragrafo 1, lettera b), del regolamento Dublino III.
34      Con missiva del 7 aprile 2016 le autorità tedesche hanno respinto la richiesta di ripresa in carico. In tale lettera le autorità tedesche hanno precisato di rispondere, per il momento, in senso negativo al fine di rispettare il termine di risposta sancito dall’articolo 25, paragrafo 1, del regolamento Dublino III, atteso che la risposta richiedeva un esame più approfondito in Germania, di cui le autorità olandesi sarebbero state informate senza dover inviare alcuna richiesta.
35      Il 14 aprile 2016 il segretario di Stato ha presentato alle autorità tedesche una richiesta di riesame, alla quale queste ultime non hanno tuttavia risposto.
36      Con lettera del 29 agosto 2016 il ricorrente nel procedimento principale ha chiesto al segretario di Stato di esaminare la sua domanda e di considerare il rifiuto delle autorità tedesche del 7 aprile 2016 come definitivo. Il segretario di Stato non ha risposto nel merito di tale richiesta.
37      Il 17 novembre 2016 il ricorrente nel procedimento principale ha proposto ricorso dinanzi al giudice del rinvio, lamentando l’omessa decisione in tempo utile in merito alla sua domanda di permesso di soggiorno temporaneo per richiedenti asilo e chiedendo a detto giudice di condannare il segretario di Stato al pagamento di una penale a decorrere dal giorno della sua omessa statuizione, ingiungendogli di pronunciarsi entro un termine stabilito dal giudice stesso e di corredare tale ingiunzione con una penale supplementare pari a EUR 100 per ogni giorno di ritardo.
38      Il 22 dicembre 2016 il segretario di Stato ha informato il giudice del rinvio di aver ritirato, in data 14 dicembre 2016, la richiesta di ripresa in carico presentata alle autorità tedesche e che la domanda di asilo del ricorrente nel procedimento principale sarebbe stata d’ora in avanti esaminata in base alla Nederlandse Algemene Asielprocedure (procedura generale d’asilo dei Paesi Bassi).
39      Le parti nel procedimento principale controvertono in merito alla questione se, nel frattempo, sia scaduto il termine entro cui il segretario di Stato è tenuto a statuire sulla domanda di permesso di soggiorno temporaneo per richiedenti asilo, presentata dal ricorrente nel procedimento principale il 24 gennaio 2016.
40      A tal proposito, il ricorrente nel procedimento principale deduce segnatamente che, dopo la scadenza dei termini stabiliti dal regolamento Dublino III per la procedura di ripresa in carico, lo Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale deve essere stato determinato. In caso di tempestiva risposta negativa alla richiesta di ripresa in carico da parte dello Stato membro richiesto, la competenza spetterebbe, da tale momento in poi, allo Stato membro richiedente. Pertanto, il termine semestrale per statuire sulla domanda di asilo comincerebbe a decorrere da tale momento. Posto che le autorità tedesche hanno respinto la richiesta di ripresa in carico il 7 aprile 2016, a partire da questa stessa data il Regno dei Paesi Bassi sarebbe divenuto competente ai fini dell’esame della domanda di asilo del ricorrente nel procedimento principale, di modo che il termine impartito per statuire su tale domanda sarebbe scaduto il 7 ottobre 2016.
41      Per contro, secondo il segretario di Stato, il termine per statuire sulla domanda stessa è iniziato a decorrere solo a partire dal 14 dicembre 2016, data in cui il Regno dei Paesi Bassi si è dichiarato competente ai fini del suo esame.
42      In tale contesto, il Rechtbank Den Haag (tribunale dell’Aia, Paesi Bassi) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1)      Se, in considerazione dell’obiettivo, del contenuto e della portata del regolamento [Dublino III] e della direttiva [2013/32], lo Stato membro richiesto debba deliberare entro due settimane sulla domanda di riesame, come previsto all’articolo 5, paragrafo 2, del regolamento di esecuzione.
2)      In caso di risposta negativa alla prima questione, se, in considerazione dell’ultimo periodo dell’articolo 5, paragrafo 2, del regolamento di esecuzione, valga in tal caso il termine massimo di un mese, indicato all’articolo 20, paragrafo 1, lettera b), del regolamento [Dublino II] (attualmente divenuto articolo 25, paragrafo 1, del regolamento [Dublino III]).
3)      In caso di risposta negativa alla prima e alla seconda questione, se lo Stato membro richiesto, a causa del vocabolo «procura di», utilizzato all’articolo 5, paragrafo 2, del regolamento di esecuzione, disponga di un termine ragionevole per deliberare sulla domanda di riesame.
4)       Qualora si tratti effettivamente di un termine ragionevole entro il quale lo Stato membro richiesto, in forza dell’articolo 5, paragrafo 2, del regolamento di esecuzione, deve deliberare sulla domanda di riesame, se il decorso di più di sei mesi, come nella fattispecie in esame, configuri ancora un termine ragionevole. In caso di risposta negativa a detta questione, cosa si debba intendere per “termine ragionevole”.
5)       Quali conseguenze debbano essere ricollegate alla circostanza che lo Stato membro richiesto non deliberi sulla domanda di riesame entro due settimane o un mese, oppure entro un termine ragionevole. Se in tal caso per l’esame di merito della domanda d’asilo dello straniero sia competente lo Stato membro richiedente o lo Stato membro richiesto.
6)       Qualora si debba considerare che lo Stato membro richiesto divenga competente per l’esame di merito della domanda d’asilo a causa della mancata tempestiva reazione alla domanda di riesame, ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, del regolamento di esecuzione, entro quale termine lo Stato membro richiedente, nella fattispecie il convenuto, debba comunicarlo allo straniero».
 Causa C48/17
43      Il 22 settembre 2015 il ricorrente nel procedimento principale, cittadino eritreo, ha presentato presso il segretario di Stato una domanda di permesso di soggiorno temporaneo per richiedente asilo nei Paesi Bassi. Secondo la banca dati Eurodac, il 9 giugno 2015 egli aveva già presentato una domanda di protezione internazionale in Svizzera. Emerge, peraltro, dal fascicolo presentato alla Corte che, dopo aver attraversato il mare Mediterraneo, il ricorrente nel procedimento principale è giunto alla fine di maggio 2015 in Italia, ove tuttavia le sue impronte digitali non sembrano essere state prelevate e ove egli non sembra aver presentato alcuna domanda di protezione internazionale.
44      Il 20 novembre 2015 il segretario di Stato ha presentato alle autorità svizzere una richiesta di ripresa in carico del ricorrente nel procedimento principale, ai sensi dell’articolo 18, paragrafo 1, lettera b), del regolamento Dublino III.
45      Il 25 novembre 2015 le autorità svizzere hanno respinto tale richiesta, atteso che, nell’ambito della procedura di determinazione dello Stato membro competente per l’esame della domanda di protezione internazionale che il ricorrente aveva proposto in Svizzera, tali autorità avevano presentato una richiesta di presa in carico o di ripresa in carico alle autorità italiane, che era rimasta senza risposta, di modo che, a decorrere dal 1º  settembre 2015, la Repubblica italiana sarebbe divenuta responsabile ai fini dell’esame della domanda stessa.
46      Il 27 novembre 2015 il segretario di Stato ha presentato alle autorità italiane una richiesta ai fini della ripresa in carico del ricorrente nel procedimento principale.
47      Il 30 novembre 2015 le autorità italiane hanno respinto tale richiesta.
48      Il 1º dicembre 2015 il segretario di Stato ha presentato alle autorità italiane una domanda di riesame e il 18 gennaio 2016 ha inviato alle stesse una lettera di sollecito.
49      Il 26 gennaio 2016 le autorità italiane hanno accolto tale richiesta.
50      Con decisione datata 19 aprile 2016 il segretario di Stato ha rifiutato di esaminare la domanda di permesso di soggiorno temporaneo per richiedenti asilo formulata dal ricorrente nel procedimento principale, in quanto la Repubblica italiana sarebbe stata competente per l’esame della stessa.
51      Il ricorrente nel procedimento principale ha proposto ricorso avverso tale decisione dinanzi al giudice del rinvio. Egli ha inoltre chiesto al giudice dei procedimenti sommari di vietare al segretario di Stato, mediante provvedimento provvisorio, di procedere alla sua espulsione prima della scadenza di un termine di quattro settimane decorrente dal giorno in cui il giudice del rinvio avesse statuito sul ricorso. Con ordinanza del 30 giugno 2016 il giudice dei procedimenti sommari ha accolto tale domanda di provvedimento provvisorio.
52      Le parti nel procedimento principale controvertono, in particolare, sulla questione se il convenuto sia o meno divenuto competente per l’esame della domanda di permesso di soggiorno temporaneo per richiedenti asilo presentata dal ricorrente nel procedimento principale, in quanto le autorità italiane, dopo aver inizialmente respinto la richiesta di ripresa in carico formulata dal segretario di Stato, non hanno risposto alla domanda di riesame entro il termine impartito.
53      In tali circostanze, il Rechtbank Den Haag (Tribunale dell’Aia) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte sei questioni pregiudiziali, che sono sostanzialmente identiche a quelle poste nel procedimento C‑47/17, fermo restando che, per un verso, il periodo menzionato nella quarta questione è stato adattato alla situazione di cui trattasi nella causa C‑48/17, facendo riferimento a un periodo di sette settimane e mezzo e, per altro verso, nella quinta questione in detta causa si menziona solo l’ipotesi di superamento di un termine di due settimane o di un termine ragionevole.
 Procedimento dinanzi alla Corte
54      Con decisione del presidente della Corte del 13 febbraio 2017 le cause C‑47/17 e C‑48/17 sono state riunite ai fini delle fasi scritta e orale del procedimento, nonché della sentenza.
55      Nella sua domanda di pronuncia pregiudiziale nella causa C‑47/17, il giudice del rinvio ha chiesto l’applicazione del procedimento accelerato ai sensi dell’articolo 105, paragrafo 1, del regolamento di procedura della Corte. Tale domanda è stata respinta con ordinanza del presidente della Corte del 15 marzo 2017, X (C‑47/17 e C‑48/17, non pubblicata, EU:C:2017:224). Benché inizialmente si sia comunque stabilito di concedere alle cause in esame una trattazione prioritaria, data la situazione del ricorrente nel procedimento principale nella causa C‑47/17, quest’ultimo ha tuttavia segnalato alla Corte, nelle sue osservazioni scritte, che dopo la presentazione della domanda di pronuncia pregiudiziale le autorità olandesi si sono pronunciate favorevolmente in merito alla sua domanda di asilo, di modo che la controversia nel procedimento principale verte ormai solamente su una compensazione finanziaria per la mancata decisione in merito alla stessa entro i termini. Posto che, in simili circostanze, la trattazione prioritaria non risulta più giustificata, si è deciso di porvi fine e di sottoporre la causa alla trattazione ordinaria.
 Sulle questioni pregiudiziali
56      Con le sue questioni, che occorre trattare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 5, paragrafo 2, del regolamento di esecuzione debba essere interpretato nel senso che, nell’ambito della procedura per la determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale, lo Stato membro investito di una richiesta di presa o di ripresa in carico ai sensi dell’articolo 21 o dell’articolo 23 del regolamento Dublino III, che abbia risposto in senso negativo alla stessa entro i termini di cui all’articolo 22 o all’articolo 25 del regolamento stesso e che abbia successivamente ricevuto una domanda di riesame a norma del citato articolo 5, paragrafo 2, è tenuto a rispondere a tale richiesta entro un determinato termine. Esso si chiede inoltre quale sia, eventualmente, detto termine e quali siano gli effetti dell’omessa risposta entro il termine stesso, da parte dello Stato membro richiesto, alla domanda di riesame dello Stato membro richiedente.
57      A tale proposito, va ricordato che le procedure di presa e di ripresa in carico devono obbligatoriamente essere condotte in conformità con le regole enunciate, segnatamente, nel capo VI del regolamento Dublino III e che esse devono, in particolare, essere eseguite nel rispetto di una serie di termini imperativi (v., in tal senso, sentenza del 26 luglio 2017, Mengesteab, C‑670/16, EU:C:2017:587, punti 49 e 50, nonché del 25 gennaio 2018, Hasan, C‑360/16, EU:C:2018:35, punto 60).
58      In tal senso, l’articolo 21, paragrafo 1, del regolamento Dublino III prevede che la richiesta di presa in carico debba essere formulata quanto prima e, al più tardi, entro tre mesi dopo la presentazione della domanda di protezione internazionale. In deroga a questo primo termine, nel caso di una risposta pertinente di Eurodac con dati registrati ai sensi dell’articolo 14 del regolamento Eurodac, tale richiesta dev’essere formulata entro due mesi dal ricevimento della menzionata risposta.
59      Analogamente, l’articolo 23, paragrafo 2, del regolamento Dublino III dispone che una richiesta di ripresa in carico è presentata quanto prima e in ogni caso entro due mesi dal ricevimento della risposta pertinente Eurodac ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 5, del regolamento Eurodac. Se tale richiesta è basata su prove diverse dai dati ottenuti dal sistema Eurodac, essa è inviata allo Stato membro richiesto entro tre mesi dalla data di presentazione della domanda di protezione internazionale ai sensi dell’articolo 20, paragrafo 2, del regolamento Dublino III.
60      Occorre al riguardo rilevare che il legislatore dell’Unione ha definito gli effetti della scadenza di tali termini precisando, all’articolo 21, paragrafo 1, terzo comma, del regolamento Dublino III, nonché all’articolo 23, paragrafo 3, dello stesso, che se le suddette richieste non sono formulate entro i termini citati, la competenza ai fini dell’esame della domanda di protezione internazionale spetta allo Stato membro richiedente.
61      Inoltre, il legislatore dell’Unione ha stabilito siffatti termini imperativi, nonché gli effetti della loro scadenza, anche con riferimento alla risposta a una richiesta di presa o di ripresa in carico.
62      Infatti, per quanto riguarda, per un verso, la risposta a una richiesta di presa in carico, l’articolo 22, paragrafo 1, del regolamento Dublino III prevede che lo Stato membro richiesto proceda alle verifiche necessarie e deliberi sulla stessa entro due mesi a decorrere dal ricevimento della richiesta.
63      Ai sensi dell’articolo 22, paragrafo 6, del regolamento Dublino III, se lo Stato membro richiedente ha invocato l’urgenza, conformemente alle disposizioni dell’articolo 21, paragrafo 2, di tale regolamento, lo Stato membro richiesto compie ogni sforzo al fine di rispettare il termine indicato, che è di almeno una settimana. In casi eccezionali, quando è possibile dimostrare che l’esame di una richiesta ai fini della presa in carico di un richiedente è particolarmente complessa, lo Stato membro richiesto può fornire la sua risposta dopo il termine richiesto, ma comunque entro un mese. In tali situazioni lo Stato membro richiesto deve comunicare la propria decisione di differire la risposta allo Stato richiedente entro il termine originariamente richiesto.
64      Ai sensi dell’articolo 22, paragrafo 7, del regolamento Dublino III, la mancata risposta entro la scadenza del termine di due mesi citato al paragrafo 1 di detto articolo o di quello di un mese citato al paragrafo 6 dello stesso equivale all’accettazione della richiesta e comporta l’obbligo di prendere in carico la persona, compreso l’obbligo di prendere disposizioni appropriate all’arrivo della stessa.
65      Per altro verso, quanto alla risposta a una richiesta di ripresa in carico, l’articolo 25, paragrafo 1, del regolamento Dublino III dispone che lo Stato membro richiesto proceda alle verifiche necessarie e decida in merito alla richiesta quanto prima e, in ogni caso, entro il termine di un mese dalla data in cui perviene la richiesta. Quando la richiesta è basata su dati ottenuti dal sistema Eurodac, tale termine è ridotto a due settimane.
66      Ai sensi dell’articolo 25, paragrafo 2, del regolamento Dublino III, l’assenza di risposta entro la scadenza del termine di un mese o di due settimane previsto al paragrafo 1 di detto articolo equivale all’accettazione della richiesta e comporta l’obbligo di riprendere in carico l’interessato, compreso l’obbligo di adottare disposizioni appropriate all’arrivo dello stesso.
67      Quanto agli effetti che l’articolo 22, paragrafo 7, e l’articolo 25, paragrafo 2, del regolamento Dublino III associano all’assenza di risposta, allo scadere dei termini imperativi sanciti dall’articolo 22, paragrafi 1 e 6, nonché dall’articolo 25, paragrafo 1, del regolamento stesso, a una richiesta di presa o ripresa in carico, si deve sottolineare che tali effetti non possono essere elusi mediante l’invio di una risposta puramente formale allo Stato membro richiedente. Emerge infatti inequivocabilmente dal citato articolo 22, paragrafo 1 e dal citato articolo 25, paragrafo 1, che lo Stato membro richiesto è tenuto a procedere, nel rispetto di tali termini imperativi, a tutte le verifiche necessarie per poter statuire sulla richiesta di presa o di ripresa in carico. L’articolo 5, paragrafo 1, del regolamento di esecuzione precisa, peraltro, che una risposta negativa a tale richiesta dev’essere pienamente motivata e deve spiegare nel dettaglio le ragioni del rifiuto.
68      Tuttavia, ai sensi dell’articolo 29, paragrafo 2, del regolamento Dublino III, se il trasferimento non avviene entro il termine di sei mesi, lo Stato membro competente ai fini dell’esame di una domanda di protezione internazionale è liberato dall’obbligo di prendere o riprendere in carico l’interessato e la competenza è trasferita allo Stato membro richiedente. Questo termine può essere prorogato fino a un massimo di un anno se non è stato possibile effettuare il trasferimento a causa della detenzione dell’interessato, o fino a un massimo di diciotto mesi qualora questi sia fuggito.
69      Dalle disposizioni citate ai punti da 58 a 68 della presente sentenza risulta che, mediante tali disposizioni, il legislatore dell’Unione ha disciplinato le procedure di presa e di ripresa in carico corredandole di una serie di termini imperativi che contribuiscono, in modo determinante, alla realizzazione dell’obiettivo di un rapido espletamento delle domande di protezione internazionale, menzionato al considerando 5 del regolamento Dublino III, garantendo che tali procedure siano attuate senza ritardi ingiustificati (v., in tal senso, sentenze del 26 luglio 2017, Mengesteab, C‑670/16, EU:C:2017:587, punti 53 e 54; del 25 ottobre 2017, Shiri, C‑201/16, EU:C:2017:805, punto 31, nonché del 25 gennaio 2018, Hasan, C‑360/16, EU:C:2018:35, punto 62).
70      Questa serie di termini imperativi attesta la particolare importanza attribuita dal legislatore dell’Unione alla rapida determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale e dimostra che, tenuto conto della finalità di garantire un effettivo accesso alle procedure volte al riconoscimento della protezione internazionale e di non pregiudicare l’obiettivo di un rapido espletamento delle domande di protezione internazionale, è importante, secondo questo stesso legislatore, che siffatte domande siano esaminate, se del caso, da uno Stato membro diverso da quello designato come competente in applicazione dei criteri di cui al capo III del regolamento stesso.
71      È alla luce di tali considerazioni che andranno esaminate le questioni pregiudiziali, come riformulate al punto 56 della presente sentenza, relative ai termini applicabili alla procedura di riesame di cui all’articolo 5, paragrafo 2, del regolamento di esecuzione.
72      A norma dell’articolo 5, paragrafo 2, del regolamento di esecuzione, ove lo Stato membro richiedente ritenga che il rifiuto di presa o di ripresa in carico del richiedente oppostogli dallo Stato membro richiesto sia basato su un errore di valutazione ovvero disponga di prove complementari da far valere, gli è possibile sollecitare un riesame della sua richiesta ai fini di una siffatta presa o ripresa in carico da parte di quest’ultimo Stato membro. Questa facoltà va esercitata nelle tre settimane successive al ricevimento della risposta negativa dello Stato membro richiesto. Quest’ultimo procura in tal caso di rispondere entro due settimane. Tale procedura aggiuntiva non riapre comunque i termini di cui all’articolo 18, paragrafi 1 e 6, e all’articolo 20, paragrafo 1, lettera b), del regolamento Dublino II, corrispondenti a quelli ormai previsti all’articolo 22, paragrafi 1 e 6, nonché all’articolo 25, paragrafo 1, del regolamento Dublino III.
73      Va rilevato che dal tenore stesso dell’articolo 5, paragrafo 2, del regolamento di esecuzione si evince che la possibilità per lo Stato membro richiedente di investire lo Stato membro richiesto di una domanda di riesame, dopo che quest’ultimo ha rifiutato di accogliere la richiesta di presa o di ripresa in carico, rappresenta una «procedura aggiuntiva». Posto che il regolamento di esecuzione mira, conformemente al suo considerando 1, a garantire l’effettiva attuazione del regolamento Dublino II, che è stato abrogato e sostituito dal regolamento Dublino III, la norma in esame deve essere interpretata conformemente alle disposizioni di quest’ultimo regolamento e agli obiettivi da esso perseguiti.
74      L’articolo 5, paragrafo 2, del regolamento di esecuzione deve quindi essere interpretato in maniera tale che la durata della procedura aggiuntiva di riesame, che rappresenta una procedura facoltativa, sia circoscritta in modo rigoroso e prevedibile, e ciò tanto per ragioni attinenti alla certezza del diritto per tutte le parti interessate, quanto al fine di garantire la sua compatibilità con il preciso quadro temporale instaurato dal regolamento Dublino III e di non alterare l’obiettivo di un rapido espletamento delle domande di protezione internazionale, perseguito da tale regolamento. Una procedura di riesame avente una durata indeterminata, tale da lasciare in sospeso la questione della determinazione dello Stato membro competente ai fini dell’esame di una domanda di protezione internazionale e da ritardare quindi in maniera significativa, se non addirittura potenzialmente illimitata, l’esame di una simile domanda sarebbe incompatibile con detto obiettivo di celerità.
75      Il citato obiettivo, sotteso altresì all’articolo 5, paragrafo 2, del regolamento di esecuzione, si traduce, secondo i termini stessi di tale disposizione, in un rigido inquadramento temporale mediante la previsione di un termine di tre settimane concesso allo Stato membro richiedente per poter presentare una domanda di riesame allo Stato membro richiesto e di un termine di due settimane per l’eventuale risposta di quest’ultimo a tale richiesta.
76      Infatti, in primo luogo, si evince inequivocabilmente dal tenore letterale dell’articolo 5, paragrafo 2, seconda frase, del regolamento di esecuzione che la facoltà concessa dall’articolo 5, paragrafo 2, allo Stato membro richiedente di sollecitare presso lo Stato membro richiesto un riesame della sua domanda di presa o di ripresa in carico va esercitata nelle tre settimane successive al ricevimento della risposta negativa di quest’ultimo. Ne consegue che, allo scadere di detto termine imperativo, lo Stato membro richiedente perde tale facoltà.
77      In secondo luogo, quanto al termine di cui dispone lo Stato membro richiesto per rispondere a una domanda di riesame, l’articolo 5, paragrafo 2, terza frase, del regolamento di esecuzione prevede che tale Stato procuri di rispondere entro due settimane. Tale disposizione intende sollecitare lo Stato membro richiesto a cooperare lealmente con lo Stato membro richiedente, riesaminando, entro il termine stabilito da tale disposizione, la richiesta di quest’ultimo Stato di prendere o riprendere in carico l’interessato, tuttavia essa non mira a introdurre un obbligo giuridico di rispondere a una richiesta di riesame, a pena di vedersi trasferire la competenza ai fini dell’esame della domanda di protezione internazionale.
78      Tale constatazione è corroborata dal fatto che, diversamente dall’articolo 22, paragrafo 7, e dall’articolo 25, paragrafo 2, del regolamento Dublino III, l’articolo 5, paragrafo 2, del regolamento di esecuzione non prevede che l’omessa risposta allo scadere del termine di due settimane equivalga all’accettazione della richiesta e implichi l’obbligo di presa o di ripresa in carico dell’interessato.
79      Simili effetti non potrebbero neppure essere associati all’omessa risposta dello Stato membro richiesto alla domanda di riesame dello Stato membro richiedente entro il termine massimo di un mese, che è sancito dall’articolo 25, paragrafo 1, del regolamento Dublino III e al quale fa riferimento il giudice del rinvio nelle sue seconde questioni. Invero, a prescindere dal fatto che una simile interpretazione sarebbe contraria al tenore stesso dell’articolo 5, paragrafo 2, del regolamento di esecuzione, l’ultima frase di tale disposizione precisa espressamente che la procedura aggiuntiva di riesame non riapre i termini di cui dispone lo Stato membro richiesto per rispondere a una richiesta di presa o di ripresa in carico, ai sensi dell’articolo 22, paragrafi 1 e 6, nonché dell’articolo 25, paragrafo 1, del regolamento Dublino III, termini che, per definizione, sono stati rispettati nel caso in cui lo Stato membro richiedente chieda un riesame.
80      Emerge pertanto dall’articolo 5, paragrafo 2, del regolamento di esecuzione che laddove lo Stato membro richiesto, dopo aver proceduto alle verifiche necessarie, abbia risposto negativamente a una richiesta di presa o di ripresa in carico entro i termini impartiti a tal fine dal regolamento Dublino III, la procedura aggiuntiva di riesame non può innescare le conseguenze indicate all’articolo 22, paragrafo 7, e all’articolo 25, paragrafo 2, di tale regolamento.
81      In terzo luogo, quanto alla questione di chiarire quale sia, allora, la portata giuridica del termine di due settimane previsto all’articolo 5, paragrafo 2, terza frase, del regolamento di esecuzione e di quali siano gli effetti connessi alla sua scadenza, si deve ricordare che, come rilevato al punto 73 della presente sentenza, tale norma dev’essere interpretata conformemente alle disposizioni del regolamento Dublino III e agli obiettivi da esso perseguiti, segnatamente a quello di istituire un meccanismo per determinare con chiarezza e praticità lo Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale, al fine di garantire l’effettivo accesso alle procedure volte al riconoscimento di una siffatta protezione e di non pregiudicare l’obiettivo di un rapido espletamento delle domande di protezione internazionale, sancito ai considerando 4 e 5 del regolamento stesso.
82      Orbene, il citato obiettivo del regolamento Dublino III non sarebbe rispettato da un’interpretazione dell’articolo 5, paragrafo 2, del regolamento di esecuzione secondo cui il termine di due settimane previsto da tale disposizione sarebbe meramente indicativo, di modo che la procedura aggiuntiva di riesame non sarebbe delimitata da alcun termine per la risposta, o sarebbe delimitata unicamente da un termine di risposta «ragionevole», di durata non predefinita, cui fanno riferimento la terza e la quarta questione pregiudiziale e che dovrebbe essere di volta in volta valutato dai giudici nazionali, tenendo conto di tutte le circostanze del caso di specie.
83      L’applicazione di un tale termine «ragionevole» di risposta darebbe infatti origine a una notevole incertezza giuridica, posto che risulterebbe impossibile, tanto per le amministrazioni degli Stati membri interessati, quanto per i richiedenti protezione internazionale, stabilire ex ante la durata precisa di tale termine in una situazione determinata, il che potrebbe peraltro indurre tali richiedenti ad adire i giudici nazionali, chiedendo loro di verificare il rispetto di detto termine, e incentivare quindi l’avvio di azioni giudiziarie che, a loro volta, andrebbero a ritardare la determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale.
84      Pertanto, un’interpretazione dell’articolo 5, paragrafo 2, del regolamento di esecuzione secondo cui la procedura aggiuntiva di riesame sarebbe delimitata unicamente da un termine «ragionevole» di risposta, di durata non predefinita, si porrebbe in contrasto con gli obiettivi del regolamento Dublino III e sarebbe altresì incompatibile con l’economia generale delle procedure di presa e di ripresa in carico, come configurate da tale regolamento, che il legislatore dell’Unione ha avuto cura di disciplinare ricorrendo a termini chiaramente definiti, prevedibili e relativamente brevi.
85      Va inoltre osservato, a tale riguardo, che le cause in esame differiscono da quelle in cui la Corte ha applicato la nozione di «termine ragionevole». Infatti, mentre queste ultime cause erano caratterizzate dall’assenza di disposizioni del diritto dell’Unione che precisassero il termine in questione (v., in particolare, sentenze del 28 febbraio 2013, Riesame Arango Jaramillo e a./BEI, C‑334/12 RX-II, EU:C:2013:134, punti 5, 28 e 33; del 16 luglio 2015, Lanigan, C‑237/15 PPU, EU:C:2015:474, punti 44 e 48; del 5 aprile 2016, Aranyosi e Căldăraru, C‑404/15 e C‑659/15 PPU, EU:C:2016:198, punti 97 e 104; del 14 giugno 2016, Marchiani/Parlamento, C‑566/14 P, EU:C:2016:437, punti 89 e da 95 a 97; del 13 settembre 2017, Khir Amayry C‑60/16, EU:C:2017:675, punto 41; del 12 aprile 2018, A e S, C‑550/16, EU:C:2018:248, punti 45 e 61, nonché del 27 giugno 2018, Diallo, C‑246/17, EU:C:2018:499, punti 58 e 69), la Commissione ha invece previsto, all’articolo 5, paragrafo 2, del regolamento di esecuzione, un termine preciso, pari a due settimane, in cui lo Stato membro richiesto deve procurare di rispondere a una domanda di riesame rivoltagli dallo Stato membro richiedente.
86      In tali circostanze, è necessario interpretare l’articolo 5, paragrafo 2, terza frase, del regolamento di esecuzione nel senso che la scadenza del termine di risposta di due settimane previsto da tale disposizione chiude definitivamente la procedura aggiuntiva di riesame, a prescindere dal fatto che lo Stato membro richiesto abbia o meno risposto entro detto termine alla domanda di riesame dello Stato membro richiedente.
87      Pertanto, salvo il caso in cui esso disponga ancora del tempo necessario per poter presentare, entro i termini imperativi previsti a tal fine dall’articolo 21, paragrafo 1, e dall’articolo 23, paragrafo 2, del regolamento Dublino III, una nuova domanda di presa o di ripresa in carico, lo Stato membro richiedente deve essere considerato competente ai fini dell’esame della domanda di protezione internazionale di cui trattasi.
88      Si deve rilevare, in quarto luogo, che il termine di risposta previsto, rispettivamente, dall’articolo 22, paragrafi 1 e 6, del regolamento Dublino III o dall’articolo 25, paragrafo 1, del regolamento stesso non incide sul calcolo dei termini previsti per la procedura aggiuntiva di riesame. Infatti, un’interpretazione dell’articolo 5, paragrafo 2, del regolamento di esecuzione secondo cui tale procedura potrebbe svolgersi solo entro i limiti stabiliti da tali disposizioni del regolamento Dublino III, di modo che essa sarebbe possibile soltanto nei limiti in cui lo Stato membro richiesto non abbia esaurito il termine previsto per la sua risposta alla richiesta di presa o di ripresa in carico, ostacolerebbe ampiamente, nella pratica, l’applicazione di tale procedura e non potrebbe pertanto essere considerata utile ai fini dell’attuazione del regolamento Dublino III.
89      Pertanto, lo Stato membro richiedente ha il diritto di inviare allo Stato membro richiesto una domanda di riesame entro il termine, sancito dall’articolo 5, paragrafo 2, seconda frase, del regolamento di esecuzione, di tre settimane decorrenti dal ricevimento della risposta negativa dello Stato membro richiesto, benché la chiusura di questa procedura aggiuntiva di riesame alla scadenza del termine di due settimane previsto all’articolo 5, paragrafo 2, terza frase, del regolamento di esecuzione intervenga dopo la scadenza dei termini stabiliti, rispettivamente, dall’articolo 22, paragrafi 1 e 6, del regolamento Dublino III, o dall’articolo 25, paragrafo 1, del medesimo regolamento.
90      Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, occorre rispondere alle questioni proposte dichiarando che:
–        l’articolo 5, paragrafo 2, del regolamento di esecuzione dev’essere interpretato nel senso che, nell’ambito della procedura di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale, lo Stato membro investito di una richiesta di presa o di ripresa in carico ai sensi dell’articolo 21 o dell’articolo 23 del regolamento Dublino III, il quale, dopo aver proceduto alle verifiche necessarie, abbia risposto negativamente alla stessa entro i termini di cui all’articolo 22 o all’articolo 25 di quest’ultimo regolamento e che abbia successivamente ricevuto una domanda di riesame a norma del citato articolo 5, paragrafo 2, deve procurare di rispondere a tale domanda, in uno spirito di leale cooperazione, entro un termine di due settimane, e
–        se lo Stato membro richiesto non risponde alla domanda stessa entro tale termine di due settimane, la procedura aggiuntiva di riesame è definitivamente chiusa, sicché, a partire dalla scadenza del termine stesso, lo Stato membro richiedente dev’essere considerato competente ai fini dell’esame della domanda di protezione internazionale, salvo non disponga ancora del tempo necessario per poter presentare, entro i termini imperativi previsti a tal fine dall’articolo 21, paragrafo 1, e dall’articolo 23, paragrafo 2, del regolamento Dublino III, una nuova richiesta di presa o di ripresa in carico.
 Sulle spese
91      Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
L’articolo 5, paragrafo 2, del regolamento (CE) n. 1560/2003 della Commissione, del 2 settembre 2003, recante modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 343/2003 del Consiglio che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo, come modificato dal regolamento di esecuzione (UE) n. 118/2014 della Commissione, del 30 gennaio 2014, dev’essere interpretato nel senso che, nell’ambito della procedura di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale, lo Stato membro investito di una richiesta di presa o di ripresa in carico ai sensi dell’articolo 21 o dell’articolo 23 del regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide, il quale, dopo aver proceduto alle verifiche necessarie, abbia risposto negativamente alla stessa entro i termini di cui all’articolo 22 o all’articolo 25 di quest’ultimo regolamento e che abbia successivamente ricevuto una domanda di riesame a norma del citato articolo 5, paragrafo 2, deve, entro un termine di due settimane, procurare di rispondere a tale domanda, in uno spirito di leale cooperazione.
Se lo Stato membro richiesto non risponde alla domanda stessa entro tale termine di due settimane, la procedura aggiuntiva di riesame è definitivamente chiusa, sicché, a partire dalla scadenza del suddetto termine, lo Stato membro richiedente dev’essere considerato competente ai fini dell’esame della domanda di protezione internazionale, salvo che disponga ancora del tempo necessario per poter presentare, entro i termini improrogabili previsti a tal fine dall’articolo 21, paragrafo 1, e dall’articolo 23, paragrafo 2, del regolamento n. 604/2013, una nuova richiesta di presa o di ripresa in carico.
Dal sito http://curia.europa.eu