Il Tar capitolino
ribadisce l’inammissibilità del ricorso contro il testo del quesito
referendario
Tar Lazio, Roma, 22 novembre
2016, n. 11662
E’ inammissibile per difetto assoluto di giurisdizione (precludendosi –
in tal modo – “la possibilità di individuare,
ai sensi dell’art. 11 del codice del processo amministrativo, un diverso
giudice nazionale cui sottoporre la controversia”) il ricorso proposto contro
il d.P.R. datato 27 settembre 2016, con
il quale è stato indetto il referendum popolare confermativo, con oggetto il
quesito “Approvate il testo della legge costituzionale concernente
“Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del
numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle
istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte
II della Costituzione” approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?” [osserva il Collegio che, “essendo la
controversia in esame volta a denunciare l’illegittimità della formulazione del
quesito referendario indicato nel gravato decreto presidenziale – per non
essere indicati gli articoli della Costituzione soggetti a revisione e per
essere il quesito riferito ad oggetti eterogeni - ed essendo tale quesito il
medesimo di quello individuato dall’Ufficio Centrale per il Referendum – e
meramente recepito nel gravato decreto presidenziale - attraverso ordinanze non
impugnabili con gli ordinari mezzi giurisdizionali …, deve … concludersi per la
sottrazione di tali ultimi atti alla possibilità di sottoposizione a sindacato
giurisdizionale in mancanza di una espressa previsione in tal senso”; né – si
aggiunge – “la circostanza che il
quesito, come formulato dall’Ufficio Centrale per il Referendum, sia stato trasfuso
nel gravato decreto presidenziale di indizione del referendum può valere ad
incardinare la giurisdizione amministrativa sull’atto conclusivo del
procedimento referendario sulla base di un ipotetico assunto della sua natura
amministrativa, ostandovi il rilievo che – sulla scorta del concreto
svolgimento del procedimento - il quesito è stato in concreto formulato dal
predetto Ufficio nell’esercizio di specifiche prerogative che la legge n. 352
del 1970 gli attribuirebbe, con conseguente imputabilità della sua
formulazione, nell’applicazione che gli organi intervenuti nel procedimento
referendario hanno dato a tale legge, a tale organo, che si è espresso mediante
adozione di ordinanze soggette ad un particolare regime di tutela cui sono
estranei agli ordinari mezzi giurisdizionali”]
FATTO
Con ricorso notificato in data 10 ottobre 2016 e depositato il
successivo 11 ottobre 2016, gli odierni ricorrenti, nella loro dichiarata
qualità di elettori, propongono azione impugnatoria avverso il decreto del Presidente
della Repubblica datato 27 settembre 2016, con il quale è stato indetto il
“referendum popolare confermativo avente ad oggetto il seguente quesito:
<
>”, disponendo la convocazione dei comizi
elettorali per la data del 4 dicembre 2016.
Dopo aver sinteticamente illustrato, nel suo svolgimento, il
procedimento confluito nell’adozione del contestato decreto presidenziale ed
avere ricondotto i presupposti della proposta azione, ovvero la legittimazione
ad agire ed il relativo interesse, alla propria veste di cittadini elettori i
cui diritti di voto - nella specie di libertà di voto e di consapevole
espressione dello stesso - sarebbero irrimediabilmente compromessi dalle
modalità di formulazione del quesito referendario, articolano i ricorrenti, a
sostegno dell’azione impugnatoria, i seguenti motivi di censura;
I – Violazione dell’art. 138 della Costituzione e della legge
n. 352 del 1970 (artt. 3, 5 e 15). Eccesso di potere per sviamento.
Sotto un primo profilo, denunciano i ricorrenti l’illegittimità
della qualificazione del referendum - contenuta nel gravato decreto
presidenziale - quale ‘confermativo’, sostenendo come tale qualifica non trovi
alcun fondamento nella disciplina di riferimento, ed affermando invece come lo
stesso dovrebbe essere qualificato come referendum ‘oppositivo’, in quanto
asseritamente più rispondente alla ratio del referendum previsto dall’art. 138
della Costituzione, avente finalità di garanzia delle minoranze per i casi di
approvazione parlamentare della legge inferiore ai due terzi, come confermato
dalla mancata previsione di un quorum di validità.
II – Violazione dell’art. 4 della legge n. 352 del 1970.
Eccesso di potere per sviamento.
Riferendosi il quesito sottoposto a consultazione popolare
unicamente al titolo della legge, la sua formulazione contrasterebbe – secondo
i ricorrenti - con le previsioni recate dall’art. 4 della legge n. 352 del
1970, il quale distingue espressamente le ipotesi di referendum aventi ad
oggetto leggi di revisione costituzionale – con riferimento alle quali la legge
richiede l’indicazione, nel quesito, degli articoli della Costituzione
sottoposti a modifica – dalle ipotesi di referendum su leggi costituzionali,
per le quali è sufficiente l’indicazione nel quesito degli estremi della legge
e del relativo titolo.
Nonostante, quindi, che la legge sottoposta a referendum
contenga modifiche espresse della Costituzione, sarebbero state
illegittimamente applicate le modalità di formulazione del quesito referendario
riferite alle leggi costituzionali.
III – Violazione degli artt. 1, 48 e 138 della Costituzione per
la eterogeneità del quesito sottoposto agli elettori. Illegittimità derivata
dalla illegittimità costituzionale della legge n. 352 del 1970 nella parte in
cui non prevede che il referendum, se richiesto, debba essere indetto su
quesiti corrispondenti a oggetti omogenei.
Nel premettere i ricorrenti come la legge sottoposta a
referendum abbia oggetto e contenuti eterogenei, tra di loro non connessi, o
connessi in via generica e indiretta, e sia volta ad apportare significative
modifiche a cinque dei sei Titoli della Costituzione, la sottoposizione al
corpo elettorale di un unico quesito violerebbe la libertà di voto, garantita a
ogni cittadino dagli artt. 1 e 48 della Costituzione, proprio nella delicata
fase di ridefinizione delle regole del patto costituzionale, ponendo l’elettore
di fronte all’alternativa di approvare o meno l’intero testo legislativo, senza
poter effettuare alcuna valutazione in ordine alla sue diverse componenti.
Richiamano, inoltre, i ricorrenti, a sostegno della dedotta
illegittimità della formulazione del quesito referendario, il principio, affermato
dalla Consulta con la sentenza n. 16 del 1978 con riferimento al referendum
abrogativo – ma asseritamente estensibile anche a quello costituzionale – in
base al quale l’oggetto del referendum deve essere omogeneo proprio al fine di
rispettare la possibilità di scelta degli elettori, laddove la complessità
delle questioni si tradurrebbe in un distorto uso della democrazia
rappresentativa.
Il che troverebbe conferma, oltre che nei lavori dell’Assemblea
Costituente, anche nel carattere oppositivo del referendum costituzionale
previsto dall’art. 138 della Costituzione, posto a tutela delle minoranze, le
quali debbono potersi esprimere con riguardo ai contenuti concreti delle leggi
e non essere costrette ad un’unica manifestazione di volontà riguardante
l’intero corpus normativo, altrimenti risolvendosi il referendum in uno
strumento di adesione o meno al programma politico della maggioranza che ha
approvato la legge di revisione costituzionale.
Non prevedendo la legge n. 352 del 1970 l’ipotesi di referendum
su leggi a contenuto eterogeneo – in quanto formulata sul presupposto della
necessità del carattere puntuale delle revisioni costituzionali – ne deduce
parte ricorrente, con specifico riferimento agli artt. 4, 12 e 16 di tale
legge, l’illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 1, 48 e 138
della Costituzione, nella parte in cui non prescrivono che in caso di
referendum riferito a leggi aventi contenuto ed oggetto eterogenei debbano
essere predisposti più quesiti, ciascuno corrispondente ad un oggetto omogeneo.
Affermata la rilevanza della prospettata questione di
illegittimità costituzionale nel giudizio instaurato con il ricorso in esame -
in quanto dal suo accoglimento deriverebbe l’illegittimità derivata del gravato
decreto di indizione del referendum - chiede quindi parte ricorrente la
rimessione della relativa questione alla Corte Costituzionale sin dalla fase
cautelare del giudizio, con sospensione dei gravati provvedimenti fino alla
decisione della Consulta.
Si sono costituite in giudizio la Presidenza del
Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Interno e il Ministero della
Giustizia per il tramite dell’Avvocatura Generale dello Stato, la quale, con
articolata memoria, ha eccepito, in via preliminare, il difetto di
legittimazione passiva della Presidenza della Repubblica – precisando
espressamente di non costituirsi in giudizio anche per essa – chiedendone
l’estromissione in quanto priva di legittimazione passiva, legittimazione che
sarebbe da riconoscersi unicamente in capo ai soggetti che hanno controfirmato
il gravato decreto – e segnatamente, il Presidente del Consiglio dei Ministri,
il Ministro dell’Interno e il Ministro della Giustizia – che se ne assumono la
responsabilità.
La difesa delle resistenti Amministrazioni ha altresì eccepito,
con articolate argomentazioni, il difetto assoluto di giurisdizione in ordine
alla controversia in esame (pur riferendo tale “difetto assoluto di
giurisdizione” al “Giudice amministrativo adito”), sostenendo la natura
‘legislativa’ degli atti impugnati, in quanto inerenti il procedimento di
formazione della legge costituzionale, e riportandosi alla sentenza di questo
Tribunale n. 10445/2016 resa su controversia analoga, nonché alla ordinanza
della Prima Sezione Civile del Tribunale di Milano del 10 novembre 2016 e
all’ordinanza dell’Ufficio Centrale della Cassazione 20-21 ottobre 2016,
diffusamente soffermandosi sulla natura vincolata del gravato decreto
presidenziale e sul ristretto ambito di sindacabilità di tale atto.
Nel rappresentare come il quesito referendario sia stato
fissato dall’Ufficio Centrale per il Referendum mediante ordinanze datate 6
maggio 2016 e 8 agosto 2016 – che ha ammesso le richieste di referendum
presentate presso la propria cancelleria, specificatamente individuando il “quesito
da sottoporre a referendum” in base a dette richieste e ritenendo lo stesso
conforme “a quanto stabilito dalla legge ordinaria n. 352 del 1970” - afferma
la difesa delle resistenti Amministrazioni l’insindacabilità di tali ordinanze
in quanto, essendo chiamate a concorrere al procedimento legislativo, nella
specie di procedimento referendario, partecipano della relativa natura,
riportandosi al riguardo a pertinenti precedenti giurisprudenziali e
soffermandosi sull’esame della natura dell’Ufficio, quale unità organizzativa
della Corte di Cassazione.
Sotto altro profilo, eccepisce parte resistente
l’inammissibilità della proposta azione impugnatoria per difetto di interesse a
ricorrere ex art. 100 c.p.c., stante l’insussistenza dei requisiti
dell’attualità e concretezza della lesione della posizione dei ricorrenti,
quali cittadini elettori, per non essersi ancora svolto il referendum.
L’inammissibilità del ricorso “per difetto di interesse” viene
altresì eccepita da parte resistente con riferimento all’azione proposta dai
ricorrenti uti cives, in quanto assimilabile ad un’azione popolare non ammessa
dall’ordinamento, essendo sempre richiesta la sussistenza di un interesse
differenziato alla contestazione dell’atto.
Con specifico riferimento alle censure proposte, ne sostiene
parte ricorrente, con articolate controdeduzioni, l’infondatezza, affermando,
in particolare, la corretta qualificazione del referendum come confermativo di
una legge già approvata che interviene prima della promulgazione di quest’ultima,
essendo il corpo elettorale chiamato ad approvare definitivamente una legge
predisposta dal Parlamento e non ancora entrata in vigore, sostenendo altresì
la conformità del quesito referendario all’art. 16 della legge n. 352 del 1970,
venendo in rilievo un testo di legge che, oltre a recare modifiche alla
Costituzione, introduce anche altre disposizioni di rango costituzionale, con
la conseguenza che la natura mista rivestita lo ricondurrebbe nell’ambito della
categoria delle leggi costituzionali, comprensiva anche delle leggi di
revisione costituzionale.
Quanto alle censure formulate da parte ricorrente in ordine
alla illegittimità costituzionale della legge n. 352 del 1970, la difesa delle
resistenti Amministrazioni ne deduce l’infondatezza, con richiesta di
corrispondente pronuncia, nel dettaglio soffermandosi in ordine alla differenza
tra referendum abrogativo e costituzionale.
Ha spiegato intervento ad adiuvandum il Codacons, limitandosi
ad affermare la propria legittimazione alla proposta azione in base alle
proprie finalità statutarie, senza tuttavia articolare ulteriori deduzioni.
Ha proposto atto di intervento ad adiuvandum il Sig. Giuseppe
Orlano, in qualità di cittadino elettore, con formula di mero stile, chiedendo
genericamente l’accoglimento del ricorso.
Ha spiegato intervento ad opponendum la Sig.ra Rosaria
Terrasi, eccependo, in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso sotto
svariati profili, tra cui il difetto di legittimazione attiva e di interesse a
ricorrere, il difetto assoluto di giurisdizione, la violazione del ne bis in
idem - per essere stata proposta analoga azione innanzi al Tribunale Civile di
Milano - per essere stato impugnato un atto politico, e sostenendo nel merito
del ricorso l’infondatezza delle censure proposte, con richiesta di
corrispondente pronuncia.
Alla camera di consiglio del 16 novembre 2016, dopo ampia
discussione, dato avviso alle parti costituite, previa verifica della
completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, della possibilità di
definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art.
60 del codice del processo amministrativo, la causa è stata trattenuta in
decisione, come da verbale.
DIRITTO
Come sopra dato atto dell’oggetto della controversia sottoposta
all’esame del Collegio e ravvisati gli estremi per l’adozione di una decisione
definitiva nel merito della controversia, occorre in via preliminare verificare
la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo e, più in
generale, della stessa sindacabilità degli atti impugnati.
Al riguardo, il Collegio ritiene di dover confermare il proprio
orientamento precedentemente espresso, con sentenza breve n. 10445/2016,
pubblicata in data 20 ottobre 2016, con riferimento ad analoga controversia,
avente ad oggetto l’impugnazione dei medesimi atti contestati con il ricorso in
esame, definita con la declaratoria di difetto assoluto di giurisdizione.
A tale conclusione il Collegio è giunto, con considerazioni che
si ritiene di dover confermare in questa sede, sulla base dell’analisi
dell’oggetto del giudizio, della natura e del contenuto degli atti impugnati,
della disciplina di riferimento e del petitum azionato, volto alla
contestazione – sotto svariati profili - della formulazione del quesito, nonché
diretto a sollecitare, sulla base della ritenuta illegittimità di tale
formulazione, la rimessione alla Corte Costituzionale di questioni di
illegittimità, specificamente prospettate, della disciplina di riferimento,
come dettata dalla legge n. 352 del 1970, i cui vizi si riverberebbero in via
derivata sul gravato atto.
Al riguardo, occorre ricordare, per come meglio illustrato in
parte narrativa, che attraverso la proposizione del gravame in esame i
ricorrenti chiedono l’annullamento del decreto del Presidente della Repubblica
datato 27 settembre 2016 recante l’indizione del “referendum popolare
confermativo avente il seguente quesito <
> nonché di
“ogni altro atto preliminare, connesso o conseguenziale”.
Al fine di compiutamente individuare, alla luce della
disciplina di riferimento, le singole sfere di attribuzione, di poteri e di
competenze, riconosciute ai vari soggetti che sono intervenuti nel procedimento
confluito nell’adozione del gravato decreto presidenziale – sulla cui base
verificare la sindacabilità in sede giurisdizionale degli atti dagli stessi
adottati in relazione alla natura dei poteri esercitati - giova brevemente
ripercorrere lo svolgimento di tale procedimento, in modo da poter individuare
la genesi del quesito e le modalità procedurali che hanno condotto alla sua
concreta formulazione, individuando l’organo cui tale formulazione è
imputabile.
In tale direzione, va rilevato che le richieste di
consultazione referendaria sono state presentate dai relativi promotori sulla
base delle previsioni dettate dall’art. 4 della legge n. 352 del 1970 – recante
norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa
del popolo – il quale stabilisce, al comma 1, che “La richiesta di referendum
di cui all'articolo 138 della Costituzione deve contenere l'indicazione della
legge di revisione della Costituzione o della legge costituzionale che si
intende sottoporre alla votazione popolare, e deve altresì citare la data della
sua approvazione finale da parte delle Camere, la data e il numero della
Gazzetta Ufficiale nella quale è stata pubblicata”, disponendo, al comma 2, che
le richieste devono pervenire alla cancelleria della Corte di Cassazione entro
un determinato arco temporale.
Le richieste così formulate – le quali non debbono contenere,
ai sensi della richiamata norma, la formulazione del quesito, non essendo tale
compito rimesso dalla legge ai promotori - sono state vagliate dall’Ufficio
Centrale per il Referendum costituito presso la Corte Suprema di
Cassazione, al quale, ai sensi dell’art. 12 della citata legge n. 352 del 1970,
spetta il compito della verifica di “conformità” della richiesta di referendum
“alle norme dell'articolo 138 della Costituzione e della legge”, nonché quello
di pronunciandosi sulla “legittimità della richiesta” previa possibilità di
contestare ai presentatori eventuali irregolarità e la possibilità per gli
stessi di procedere alla loro sanatoria.
In esito all’esercizio di tali compiti e funzioni,
espressamente disciplinati dalla legge, l’Ufficio Centrale per il Referendum,
con le ordinanze del 6 maggio 2016 e dell’8 agosto 2016, ha verificato la
completezza delle richieste di referendum rispetto agli elementi di cui
all’art. 4 della legge n. 352 del 1970 - ovvero l'indicazione della ‘legge
costituzionale’ che si intende sottoporre alla votazione popolare, della data
della sua approvazione finale da parte delle Camere, della data e del numero della
Gazzetta Ufficiale nella quale è stata pubblicata e della designazione dei
delegati – la tempestività delle richieste, il rispetto del numero dei
richiedenti in relazione alla loro qualità, l’autentica delle sottoscrizioni,
ritenendo, come riferito nei considerando delle ordinanze, che “il quesito da
sottoporre a referendum, in base alle richieste (ndr: quattro richieste
indicate nell’ordinanza del 6 maggio, una nell’ordinanza dell’8 agosto) e
conformemente a quanto stabilito dall’art. 16 della legge n. 352 del 1970, è il
seguente: <
> e concludendo che le richieste referendarie
“sono conformi alle norme dell’art. 138 della Costituzione e della legge n. 352
del 1970 e, pertanto vanno ammesse”, dichiarando conclusivamente, nella parte
dispositiva delle pronunce, la conformità delle richieste referendarie e la
legittimità del quesito da sottoporre agli elettori.
Successivamente all’adozione delle illustrate ordinanze da
parte dell’Ufficio Centrale per il Referendum, è intervenuta la delibera del
Consiglio dei Ministri, datata 26 settembre 2016, con la quale è stata proposta
al Presidente della Repubblica la data del 4 dicembre 2016 per lo svolgimento
del referendum popolare.
Infine, ai sensi dell’art. 15 della legge n. 352 del 1970 - il
quale dispone che il referendum è indetto con decreto del Presidente della
Repubblica su deliberazione del Consiglio dei Ministri - con il decreto del
Presidente della Repubblica oggetto di gravame, richiamate in premessa le norme
di riferimento e la legge costituzionale da sottoporre a referendum, nonché le
ordinanze adottate dall’Ufficio Centrale per il Referendum e la deliberazione
del Consiglio dei Ministri del 26 settembre 2016, è stato quindi indetto il
“referendum popolare confermativo” avente ad oggetto il medesimo quesito
contenuto nelle predette ordinanze dell’Ufficio Centrale per il Referendum,
convocando i comizi elettorali per il giorno 4 dicembre 2016.
Dalla illustrata ricostruzione dello svolgimento del complesso
iter di indizione del referendum – che vede intervenire, a titoli diversi, vari
soggetti - e delle norme di riferimento che lo governano, deve dunque
osservarsi come il quesito contenuto nel gravato decreto presidenziale sia il
medesimo di quello indicato nelle ordinanze adottate dall’Ufficio Centrale per
il Referendum, dovendo pertanto la formulazione di tale quesito essere imputata
a quest’ultimo organo.
Il quesito così predisposto è stato successivamente trasfuso
nel gravato decreto presidenziale senza che altri e diversi soggetti – e
segnatamente la Presidenza
del Consiglio dei Ministri - siano intervenuti sulla relativa formulazione.
La circostanza che il quesito sia stato individuato
dall’Ufficio Centrale per il Referendum attraverso l’adozione di atti tipici,
aventi la forma di ordinanze, conduce a ritenere che le stesse non possano,
all’evidenza, essere sindacate innanzi al Giudice Amministrativo.
Essendo la controversia in esame volta a denunciare
l’illegittimità della formulazione del quesito referendario indicato nel
gravato decreto presidenziale – per non essere indicati gli articoli della
Costituzione soggetti a revisione e per essere il quesito riferito ad oggetti
eterogeni - ed essendo tale quesito il medesimo di quello individuato
dall’Ufficio Centrale per il Referendum – e meramente recepito nel gravato
decreto presidenziale - attraverso ordinanze non impugnabili con gli ordinari
mezzi giurisdizionali (per le ragioni che meglio si illustreranno in seguito),
deve dunque concludersi per la sottrazione di tali ultimi atti alla possibilità
di sottoposizione a sindacato giurisdizionale in mancanza di una espressa
previsione in tal senso.
Né la circostanza che il quesito, come formulato dall’Ufficio
Centrale per il Referendum, sia stato trasfuso nel gravato decreto
presidenziale di indizione del referendum può valere ad incardinare la
giurisdizione amministrativa sull’atto conclusivo del procedimento referendario
sulla base di un ipotetico assunto della sua natura amministrativa, ostandovi
il rilievo che – sulla scorta del concreto svolgimento del procedimento - il
quesito è stato in concreto formulato dal predetto Ufficio nell’esercizio di
specifiche prerogative che la legge n. 352 del 1970 gli attribuirebbe, con
conseguente imputabilità della sua formulazione, nell’applicazione che gli
organi intervenuti nel procedimento referendario hanno dato a tale legge, a
tale organo, che si è espresso mediante adozione di ordinanze soggette ad un
particolare regime di tutela cui sono estranei agli ordinari mezzi
giurisdizionali.
La circostanza, quindi, che il quesito contenuto nel gravato
decreto presidenziale trovi la propria genesi in ordinanze dell’Ufficio
Centrale per il Referendum comporta la sottrazione di tale atto al sindacato
giurisdizionale.
Né potrebbe ipotizzarsi che il regime di giustiziabilità del
quesito referendario possa prescindere dalla natura dell’organo che lo ha in
concreto formulato, traslando il sistema di tutela sull’atto finale che tale
requisito recepisce in modo vincolato dandogli la veste formale di decreto
presidenziale.
Ed invero, indirizzando la disamina verso il decreto
presidenziale, atto conclusivo dell’iter di indizione del referendum costituzionale
e che costituisce oggetto principale dell’impugnativa in esame, deve rilevarsi
come lo stesso presenti plurimi contenuti, aventi natura e corrispondenti
regimi di sindacabilità differenti, di cui l’uno riferito alla individuazione
della data di svolgimento del referendum, che avviene sulla base di una
deliberazione adottata dal Consiglio dei Ministri e che è soggetto al sindacato
di legittimità del giudice amministrativo, e l’altro riferito alla formulazione
del quesito in recepimento delle ordinanze dell’Ufficio Centrale per il
Referendum, ivi espressamente richiamate, rispetto al quale, ritiene il
Collegio, non vi siano spazi di sindacato giurisdizionale.
Al riguardo, occorre innanzitutto ricordare che - come più
volte affermato dalla Corte Costituzionale (cfr., ex multis, sentenza n. 1 del
2013) – il Presidente della Repubblica costituisce un organo costituzionale
monocratico “titolare di un complesso di attribuzioni, non inquadrabili nella
tradizionale tripartizione dei poteri dello Stato ed esercitabili in posizione
di piena indipendenza e autonomia, costituzionalmente garantita”, qualificabile
come “potere” dello Stato e legittimato - in quanto tale - a sollevare
“conflitti di attribuzione” (cfr., tra le altre, Corte Costituzionale, ordinanza
n. 138 del 2015; sentenza n. 200 del 2006), dotato altresì di competenze
molteplici finalizzate alla attuazione dei principi costituzionali, idonee a
tradursi nell’adozione di atti e provvedimenti differentemente classificabili a
seconda della funzione effettivamente esercitata, che può incidere sul processo
legislativo, sul potere esecutivo o essere riconducibile all’attività
amministrativa, abbracciando anche funzioni peculiari ed esclusive, non
classificabili nella tradizionale tripartizione dei poteri, come, ad esempio,
in caso di decreti di nomina di senatori a vita e di atti di scioglimento delle
Camere, esercitando altresì poteri che sono espressione di funzioni neutrali.
Proprio in ragione della poliedricità delle funzioni e delle
competenze del Presidente della Repubblica è, dunque, da escludere
l’insindacabilità in termini assoluti degli atti e dei provvedimenti adottati
da tale organo, essendo conseguentemente necessario procedere ad una
valutazione - sempre e in ogni caso – della natura del potere in concreto
esercitato alla stregua delle specifiche attribuzioni riconosciute
dall’ordinamento, tenendo comunque conto delle peculiarità che connotano tali
atti e provvedimenti, da coordinarsi con gli specifici profili che risultano
oggetto di contestazione.
In tal senso ha già avuto modo di esprimersi la giurisprudenza,
anche di questa Sezione, affermando, proprio in ordine a deliberazioni del
Consiglio dei Ministri adottate per la celebrazione di “referendum popolari” e
al “conseguente D.P.R.”, l’impossibilità di attribuire “la qualificazione di
natura legislativa a tutti gli atti del relativo procedimento” e, quindi,
rilevando la sindacabilità di tali provvedimenti “segnatamente con riferimento
ai profili lesivi della libertà e della segretezza delle scelte degli elettori”
e, più specificamente, nell’ipotesi in cui gli atti di cui si discute siano
configurabili, “pur se connotati da un certo margine di discrezionalità”, come
“atti applicativi della legislazione primaria” e, quindi, risultino soggetti a
precisi vincoli giuridici (cfr. ordinanza del TAR Lazio, Roma, n. 1302 del
2011, confermata dal Consiglio di Stato, Sezione V, con l’ordinanza n. 1736 del
2011 che qualifica gli atti impugnati come di alta amministrazione non
riconducibili all’esercizio del potere politico).
L’estensione dell’ambito, oggettivo e soggettivo, di
sindacabilità degli atti – cui il Collegio ritiene di aderire - è stata
progressivamente affermata in ossequio al generale principio costituzionale di
tutela delle posizioni giuridiche soggettive di cui agli artt. 24 e 113 della
Costituzione, segnalandosi al riguardo, quali punti di approdo di tale
processo, la sentenza della Corte Costituzionale n. 81 del 2012 (laddove si
afferma che “gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini
nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello
costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore
predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in
ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui
l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che
connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme
giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto
di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità
dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate”, giungendo a ritenere che la
circostanza che l’organo che ha adottato l’atto sia un organo politico ed
eserciti un potere politico non comporta che i relativi atti siano tutti e
sotto ogni profilo insindacabili, non alterando la presenza di alcuni vincoli
la natura politica del potere esercitato, ma piuttosto delimitandone lo spazio
di azione, con conseguente sindacabilità dell’atto in sede giurisdizionale se e
in quanto abbia violato una norma giuridica), nonché la sentenza del Consiglio
di Stato, Sezione V, n. 6002 del 2012 – laddove si afferma che la presenza di
un vincolo giuridico all’azione determina l’attrazione “delle determinazioni
assunte da organi politici nell’alveo dell’azione amministrativa sottoposta,
alla stregua dei principi costituzionali, al controllo di legalità da parte
dell’autorità giurisdizionale” (al riguardo, anche Consiglio di Stato, sentenza
n. 2413 del 2000 e Cassazione Civile, Sezioni Unite, 13 gennaio 2000 n. 1170);
Posto, quindi, che i decreti del Presidente della Repubblica,
quali quelli di indizione di referendum, non sono insindacabili in termini
assoluti in quanto tali - dovendo distinguersi tra le ipotesi in cui il
relativo contenuto costituisca esercizio di poteri riconducibili a quelli
amministrativi e ‘politici’ non liberi nei fini nel senso dianzi illustrato,
con riferimento alle quali deve affermarsi la loro piena sindacabilità in sede
giurisdizionale, dalle ipotesi in cui siano piuttosto riconducibili
all’esplicazione di poteri neutrali di garanzia e controllo, di rilievo
costituzionale – assume decisivo rilievo, al fine di individuare il regime di
sindacabilità del gravato atto, il petitum azionato mediante la proposizione
del gravame in trattazione, volto, attraverso le censure formulate, a
denunciare l’illegittimità del decreto del Presidente della Repubblica nella
parte in cui richiama e, quindi, sostanzialmente recepisce, il contenuto delle
ordinanze dell’Ufficio Centrale per il Referendum costituito presso la Corte suprema di Cassazione,
il quale, dopo essersi positivamente espresso sulla legittimità e
sull’ammissibilità delle “richieste di referendum popolare, ai sensi dell’articolo
138, secondo comma, della Costituzione”, ha riconosciuto la legittimità del
quesito referendario individuandolo nella seguente formula: <
>, espressamente giudicandolo, nella parte motiva delle
citate ordinanze, conforme a quanto stabilito “dall’art. 16 della legge n. 352
del 1970”.
Le superiori premesse conducono a ritenere l’insindacabilità
del D.P.R. impugnato in relazione al profilo inerente il quesito referendario,
tenuto conto che la formulazione dello stesso proviene dalle ordinanze
dell’Ufficio Centrale per il Referendum e che tale quesito è stato meramente
recepito nel conclusivo decreto presidenziale.
A tale conclusione si addiviene in ragione della
insindacabilità, da parte del giudice amministrativo delle ordinanze adottate,
in materia, dall’Ufficio Centrale del Referendum istituito presso la Suprema Corte di
Cassazione, dovendo allo stesso riconoscersi la natura di organo rigorosamente
neutrale in quanto essenzialmente titolare di funzioni di controllo esterno
espletate in posizione di terzietà ed indipendenza, con la connessa
impossibilità di qualificare gli atti dallo stesso adottati in materia di
referendum come atti oggettivamente e soggettivamente amministrativi (in senso
analogo, pur se spingendosi fino ad affermare anche la partecipazione di tali
atti alla funzione legislativa, non condivisa dalla Sezione, ex multis,
Consiglio di Stato, Sez. IV, 26 novembre 2015, n. 5369, di conferma della
sentenza di questa Sezione n. 4059 del 2015; Sez. IV, 4 maggio 2010, n. 2552;
16 giugno 2009, n. 3834; 2 aprile 1997, n. 333).
La ritenuta non sindacabilità delle determinazioni assunte
dall’Ufficio Centrale per il Referendum in ordine alla individuazione del
quesito discende, pertanto, dal loro essere emanate da un organo rigorosamente
neutrale, e non nell’esplicazione di un potere amministrativo (pur
concretandosi anche in compiti di verifica di conformità delle richieste, per
come previsto dall’art. 12 della legge n. 352 del 1970) per concreti scopi
particolari di pubblico interesse, ma nella prospettiva della tutela
dell’ordinamento generale dello Stato e nell’esercizio di funzioni pubbliche
neutrali affidate ad un organo che, per composizione e struttura, si colloca in
posizione di terzietà e di indipendenza, in quanto indifferente rispetto agli
interessi in gioco e non chiamato a dirimere conflitti, ma a svolgere
un’attività diretta alla soddisfazione di interessi generali garantendo
l’osservanza della legge, collocandosi ad un livello diverso rispetto alle
funzioni amministrative e a quelle giurisdizionali.
Le superiori considerazioni in ordine alla natura dei poteri –
di fatto e con specifico riferimento alla fattispecie - esercitati dall’Ufficio
Centrale per il Referendum nell’ambito del referendum costituzionale di cui si
controverte, unitamente al fondamento giustificativo dei poteri attribuiti al
Presidente della Repubblica, funzionali al controllo ed alla garanzia del
corretto funzionamento del sistema ordinamentale sulla base di canoni obiettivi
e precostituiti, nell’esercizio dei quali, attraverso l’adozione del gravato
decreto di indizione del referendum, è stata conferita veste formale al quesito
individuato da un organo, quale l’Ufficio Centrale del Referendum, in esito
allo svolgimento di analoga funzione neutrale e di garanzia, conclusivamente
saldandosi nel decreto impugnato, rendono tale atto ed il quesito formulato
insuscettibili di sindacato giurisdizionale, in quanto non riconducibili
all’esercizio di attività amministrativa, ma all’esplicazione di funzioni di
garanzia e di controllo aventi carattere neutrale poste a presidio
dell’ordinamento.
Né a diverse conclusioni potrebbe addivenirsi mediante l’adesione
all’orientamento della Corte Costituzionale che in taluni casi ha riconosciuto
la natura giurisdizionale all’Ufficio Centrale per il Referendum (sentenza n.
164 del 2008, ordinanza n. 343 del 2003 e sentenza n. 334 del 2004),
orientamento peraltro espresso anche dallo stesso Ufficio Centrale – con
ordinanza 11 novembre 2008 e, da ultimo, con ordinanza depositata in data 21
ottobre 2016 - dal momento che la natura dei relativi provvedimenti ed il
conseguente regime di tutela non ne consentirebbe comunque la sindacabilità
secondo gli ordinari mezzi di tutela giurisdizionale.
Nelle considerazioni sopra rassegnate risiedono le ragioni per
cui non ritiene, il Collegio, di aderire alla qualificazione dell’Ufficio
Centrale per il Referendum quale organo che, in quanto interviene nell’ambito
di un procedimento di esercizio della funzione legislativa, parteciperebbe a
tale funzione condividendone la natura, per come affermato dalla difesa delle
resistenti Amministrazioni sulla base del richiamo a conformi precedenti
giurisprudenziali (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. IV, 26 novembre 2015, n.
5369, di conferma della sentenza di questa Sezione n. 4059 del 2015; Sez. IV, 4
maggio 2010, n. 2552; 16 giugno 2009, n. 3834; 2 aprile 1997, n. 333).
La circostanza che la funzione espletata dall’Ufficio Centrale
per il Referendum si inserisca in un procedimento complesso che ha natura
sostanzialmente legislativa, in quanto volto, nel suo esito, ad incidere su una
fonte legislativa attraverso l’intervento del corpo elettorale, non appare
invero sufficiente per acquisire, in via automatica, la sua stessa natura,
ostandovi la tradizionale tripartizione dei poteri e non potendo a tale organo
riconoscersi alcuna investitura di rappresentanza popolare o attribuzione di
funzione sovrana, attuandosi, a diversamente ritenere, una inammissibile
interferenza nella sfera propria del potere legislativo regolata dalla
Costituzione e non estensibile con legge ordinaria, dovendo quindi escludersi
che l’Ufficio centrale per il referendum svolga attività di carattere
legislativo e che i relativi atti partecipino di tale funzione o siano
ascrivibili alla categoria degli atti politici.
L’esatta individuazione della natura dei poteri esercitati
dall’Ufficio Centrale per il Referendum riveste, per come sopra evidenziato,
valenza centrale ai fini della decisione in ordine alla questione inerente la
sindacabilità del quesito referendario, oggetto di censura nella controversia
in esame, la cui soluzione è difatti imprescindibilmente connessa con l’individuazione
del soggetto cui il quesito è imputabile.
Al riguardo, giova ricordare che la formulazione del quesito,
come individuato dall’Ufficio Centrale per il Referendum e trasfuso nel decreto
presidenziale impugnato, non può essere imputata ai promotori i quali, come
dianzi illustrato, si limitano ad indicare nella richiesta di referendum, ai
sensi dell’art. 4 della legge n. 352 del 1970, i tratti identificativi della
legge da sottoporre a consultazione referendaria.
Dagli atti che hanno scandito il procedimento confluito
nell’adozione del gravato D.P.R. emerge chiaramente come la formulazione del
quesito sia contenuta per la prima volta nelle ordinanze adottate dall’Ufficio
Centrale per il Referendum, mentre né la richiesta referendaria né la delibera
del Consiglio dei Ministri recano alcun riferimento ad esso.
Occorre tuttavia coniugare lo svolgimento del procedimento in
esame, come scandito dagli atti adottati dai vari organi che vi sono
intervenuti, con la disciplina di riferimento.
Al riguardo, occorre evidenziare come il potere di formulazione
del quesito non sia stato espressamente attribuito ad alcun soggetto dalla
legge n. 352 del 1970, la quale, con riguardo al referendum previsto dall’art.
138 della Costituzione sulle leggi di revisione costituzionale e sulle leggi
costituzionali - a differenza di quanto previsto per il referendum abrogativo
agli artt. 27 e 32 - non individua in alcun modo il soggetto che deve
provvedere alla formulazione del quesito e le relative modalità, né dedica
alcun cenno a tale fase del procedimento referendario costituzionale.
Mentre infatti, per come in precedenza illustrato, l’art. 4,
nel disciplinare la fase della richiesta di referendum costituzionale, non
prevede l’onere di indicazione, da parte dei promotori, del quesito
referendario – a differenza che nel referendum abrogativo, in cui i promotori
sono chiamati a individuare il contenuto della scheda di votazione – l’art. 12
affida all’Ufficio Centrale per il Referendum unicamente il compito di
verificare “che la richiesta di referendum sia conforme alle norme
dell'articolo 138 della Costituzione e della legge”, mentre all’art. 15 dispone
che il referendum è indetto con decreto del Presidente della Repubblica, su
deliberazione del Consiglio dei Ministri, senza alcuna ulteriore specificazione
in ordine ai poteri attribuiti al Consiglio dei Ministri.
Dal silenzio della legge circa la formulazione del quesito
referendario e dalla illustrata scarna disciplina non può, innanzitutto,
affermarsi, in via interpretativa e integrativa, che il potere di formulare il
quesito spetti al Consiglio dei Ministri, comportando tale soluzione – che pure
permetterebbe il sindacato giurisdizionale di legittimità della relativa
decisione – una inammissibile forte ingerenza del potere politico sul
procedimento referendario avuto riguardo, in particolare, alla formulazione del
quesito, che riveste delicatissima valenza tenuto conto degli interessi in
gioco, in contrasto, peraltro, con la natura del referendum costituzionale
(avente carattere eventuale ed effetto sospensivo dell’entrata in vigore della
legge) quale strumento di tipo oppositivo posto a garanzia delle minoranze.
Considerato, inoltre, che all’Ufficio Centrale per il
Referendum è affidato espressamente ed unicamente il compito di verificare che
la ‘richiesta’ di referendum sia conforme alla Costituzione e alla legge senza
alcuna espressa attribuzione del compito di formulare il quesito, si aprono due
possibili strade interpretative per individuare come il quesito debba essere
formulato.
Infatti, in assenza di una norma che, nell’ambito del
procedimento di indizione del referendum, individui specificamente il soggetto
chiamato a individuare il quesito, potrebbe ritenersi che lo stesso debba
discendere in via automatica ed ex lege dall’applicazione dell’art. 16 della
legge n. 352 del 1970.
Dispone tale articolo che il “quesito da sottoporre a
referendum consiste nella formula seguente: «Approvate il testo della legge di
revisione dell'articolo... (o degli articoli ...) della Costituzione, concernente
... (o concernenti ...), approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale numero ... del ... ?»; ovvero: «Approvate il testo della legge
costituzionale ... concernente ... approvato dal Parlamento e pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale numero ... del ... ?».
Sulla base di una interpretazione letterale della norma,
l’individuazione del quesito potrebbe non essere ancorata al dato sostanziale
del disegno normativo da sottoporre a referendum (ovvero alla sua portata
effettiva in relazione al contenuto, se di revisione della Costituzione o se
volto ad introdurre ulteriori norme di rango costituzionali che non modificano la Costituzione), quanto
al mero dato formale della titolazione del testo della legge, operando
l’opzione per l’una o per l’altra formula, contenuta nel citato art. 16, in via
automatica e sulla base del mero dato letterale della denominazione del testo
normativo, se di revisione costituzionale o se invece di legge costituzionale.
Secondo, invece, una interpretazione dell’art. 16 volta a dare
rilievo al dato sostanziale e contenutistico della legge da sottoporre a
referendum, a determinare la scelta del quesito sarebbe la portata della legge,
se di revisione costituzionale – nel qual caso il quesito dovrebbe indicare gli
articoli della Costituzione sottoposti a modifica – o se concernente altre
norme di rango costituzionale.
La prima delle prospettate opzioni – volta a dare rilievo al
dato formale – potrebbe porre dei problemi di legittimità costituzionale della
disciplina normativa che la consente, tenuto conto della differenza sostanziale
tra leggi di revisione costituzionale e leggi costituzionali che non può non
riflettersi, in ossequio all’art. 138 della Costituzione e per come sembra
suggerire una lettura costituzionalmente orientata dall’art. 16 della legge n.
352 del 1970, in distinte formulazioni dei relativi quesiti al fine di
consentire agli elettori la piena consapevolezza della portata del referendum.
Pur potendo le leggi costituzionali e le leggi di revisione
costituzionale essere ricondotte nella più ampia categoria delle leggi
costituzionali – la cui omogeneità è riconducibile unicamente alla loro
posizione nella gerarchia delle fonti del diritto – la portata delle leggi di
revisione della Costituzione, idonee ad incidere sulla architettura della Carta
Fondamentale, sembra invero riflettersi, nella legge n. 352 del 1970,
coerentemente con l’art. 138 della Costituzione, sulla previsione di due
distinte formulazioni del quesito referendario, di cui uno riferito alle
ipotesi di legge di revisione costituzionale, con riferimento alle quali viene
richiesta l’indicazione degli articoli della Costituzione che si intendono
modificare, con una scelta che sembra rispondere alla ratio di tutela
dell’elettore e del diritto dello stesso alla consapevolezza – funzionale alla
libertà del voto – circa la valenza e la portata della legge sottoposta a
referendum.
Ulteriore ipotesi ricostruttiva in ordine alla fase di
formulazione del quesito ed al soggetto a tale compito deputato – tenuto conto
dell’assenza di una espressa previsione normativa in tal senso – è quella che è
stata seguita dall’Ufficio Centrale del referendum, il quale, con le ordinanze
del 6 maggio 2016 e dell’8 agosto 2016, verificata la completezza delle
richieste di referendum, la tempestività delle stesse, il rispetto del numero
dei richiedenti in relazione alla loro qualità e l’autentica delle
sottoscrizioni, ha individuato il quesito da sottoporre a referendum
“conformemente a quanto stabilito dall’art. 16 della legge n. 352 del 1970”.
Con successiva ordinanza, depositata in data 21 ottobre 2016,
l’Ufficio, chiamato a pronunciarsi sull’istanza di revocazione di dette
ordinanze – dichiarata inammissibile per difetto di legittimazione attiva del
soggetto istante - ha reso una sorta di interpretazione autentica delle ragioni
sottese alla formulazione del quesito dallo stesso adottata nelle precedenti
ordinanze.
Ha espressamente affermato l’Ufficio che la legge n. 352 del
1970 non assegna il compito di individuare il quesito né ai promotori, né al
Consiglio dei Ministri, né al Presidente della Repubblica, con la conseguenza
che tale compito deve essere demandato – “anche alla stregua della
giurisprudenza di questo Ufficio” - all’Ufficio Centrale per il Referendum
nella qualità di “giudice della legittimità della complessiva richiesta
referendaria”.
Con riferimento alla formula del quesito referendario, afferma
l’Ufficio che la stessa “è fissata (a differenza del quesito referendario per
l’abrogazione di disposizioni di legge) direttamente dall’art. 16 della legge
n. 352 del 1970” il quale, sempre secondo l’Ufficio, prevede due distinti
quesiti a seconda che l’oggetto referendario sia costituito da una legge
costituzionale – nel qual caso il quesito deve indicare gli articoli da
modificare – o sia invece costituito da altra legge costituzionale, prevedendo,
in tale ultima ipotesi, che sia indicato il titolo della legge, che ha la
funzione di informare sinteticamente sull’oggetto del provvedimento
legislativo.
Pur aderendo tale organo all’impostazione secondo cui il
quesito – la cui formulazione concreta sarebbe di spettanza dell’Ufficio
Centrale – discenderebbe in via automatica ed ex lege dall’applicazione
dell’art. 16 e pur dando rilievo alla sostanziale distinzione (sebbene
qualificata come meramente formale) tra leggi di revisione costituzionale – che
modificano articoli della Costituzione – e altre leggi costituzionali che
lasciano intatto il contenuto della Carta fondamentale, dalla quale
discenderebbe l’individuazione di distinte formule del quesito referendario
(con indicazione degli articoli della Costituzione da modificare nel caso di
leggi di revisione costituzionale), l’Ufficio Centrale ha rilevato come la
legge da sottoporre a referendum abbia ‘natura mista’, in quanto oltre a recare
modifiche di 50 articoli della Costituzione, contiene anche la modifica della
rubrica di un titolo della Costituzione (che quindi non si risolve in una
modifica di un articolo della Costituzione), la modifica di alcuni articoli di
“tre diverse leggi costituzionali” e l’introduzione di norme che non
costituiscono modifica testuale di articoli della Costituzione.
Nel rilevare come l’art. 16 della legge n. 352 del 1970 non
disciplini tale ipotesi di leggi aventi ‘natura mista’, l’Ufficio ha quindi
proceduto, nell’esercizio dei compiti asseritamente allo stesso spettanti, ad
individuare un quesito “compatibile” per tutte le parti della legge da
sottoporre a referendum “valutando la natura effettiva della legge oggetto di
referendum” e risolvendo “il problema del quesito da utilizzare per le leggi
costituzionali ‘miste’ ”.
In tal modo la portata della revisione costituzionale della
legge da sottoporre a referendum viene resa subvalente – ai fini
dell’individuazione del quesito - rispetto alle altre disposizioni non aventi
tale carattere di revisione, con individuazione del quesito, tra quelli
previsti dall’art. 16, in quello dedicato alle leggi costituzionali, e non in
quello riferito alle leggi di revisione.
Dal sistema così delineato e dalla sua applicazione discende,
quindi, che il potere di formulare il quesito spetta all’Ufficio Centrale per
il Referendum, il quale procede in concreto alla sua individuazione sulla base
del contenuto della legge da sottoporre a referendum, facendone discendere la
formula dall’applicazione diretta dell’art. 16 della legge n. 352 del 1970.
A fronte di leggi aventi contenuto misto - di revisione
costituzionale e contenenti altresì altre norme di valore costituzionale – e
del silenzio del citato articolo per tali ipotesi, l’Ufficio ha individuato il
quesito “che la legge riconnette a tale domanda” scegliendo, tra le due formule
previste dall’art. 16, quella riferita alle leggi costituzionali, e non quello
indicato per le leggi di revisione costituzionale, pur non contenendo la legge
di riferimento alcuna indicazione in tal senso.
E’ quindi evidente come, per tali ipotesi di legge ‘mista’, la
legge n. 352 del 1970 lasci ampi spazi interpretativi in ordine alla
formulazione del quesito il quale, nella fattispecie in esame, è stato
autonomamente individuato dall’Ufficio “nella sua qualità di giudice della
legittimità della complessiva richiesta referendaria”, riferendolo – con scelta
contestata dagli odierni ricorrenti - all’intero testo normativo.
Con l’ordinanza in esame, depositata in data 21 ottobre 2016,
l’Ufficio Centrale per il Referendum – dopo aver rilevato il difetto di
legittimazione attiva degli istanti – afferma inoltre espressamente – ribadendo
il proprio orientamento già precedentemente espresso (ordinanza 11 novembre
2008) – la propria natura giurisdizionale, la cui composizione e funzionamento
sono regolati dalla legge n. 352 del 1970, sostenendo altresì la non
assimilabilità dei relativi provvedimenti a quelli di volontaria giurisdizione
– con conseguente non revocabilità degli stessi – stanti i caratteri di
definitività e decisorietà degli stessi, e precisando come il rimedio della
revocazione sia ammissibile solo nelle ipotesi in cui le ordinanze dell’Ufficio
costituiscano “l’atto conclusivo del procedimento e la rimozione o la
modificazione di esse non esplichi alcuna incidenza sulle attività successive,
poste in essere da organi differenti, di rango costituzionale”.
Ne discende che, sulla base dell’orientamento espresso nella
pronuncia in esame, le ordinanze dell’Ufficio Centrale per il Referendum con le
quali viene ammessa la richiesta referendaria e formulato il quesito non sono
impugnabili per revocazione, in quanto non definitive, e non sono revocabili,
“ostandovi il divieto di invasione delle sfere di attribuzione degli altri
organi” che intervengono nelle fasi successive, quali il Consiglio dei Ministri
e la Presidenza
della Repubblica.
La natura dell’organo cui spetta la formulazione del quesito (e
che, nella fattispecie in esame, lo ha in concreto individuato e che è stato
recepito nel decreto presidenziale impugnato), come declinata alla luce del
recente orientamento dell’Ufficio Centrale per il Referendum, nel confermare la
non sindacabilità delle relative decisioni – per come ritenuto dalla Sezione
nella precedente sentenza n. 10445/2016, seppur sulla base della diversa
considerazione della natura di organo neutrale, titolare di funzioni di
controllo esterno espletate in posizione di terzietà ed indipendenza –
unitamente alla ritenuta non ammissibilità dello strumento della revocazione
allorquando viene ammesso il referendum e definito il relativo quesito,
impongono, sotto il profilo sistematico, alcune riflessioni.
Escluso che l’Ufficio Centrale per il referendum possa
ritenersi una giurisdizione speciale, ostandovi il divieto di cui all’art. 102
della Costituzione, potrebbe al più essere considerato una sezione
specializzata, ma tuttavia tale configurazione presenta difficoltà di
coordinamento con le regole di composizione dell’Ufficio predeterminata ex lege
(segnatamente, ai sensi dell’art. 12 della legge n. 352 del 1970 che lo
istituisce, dai tre presidenti di sezione della Corte di cassazione più anziani
nonché dai tre consiglieri più anziani di ciascuna sezione), con
l’individuazione della – insolita - figura dei vicepresidenti (prevedendosi che
il più anziano dei tre presidenti presiede l'ufficio e gli altri due esercitano
le funzioni di vice presidente) e le modalità di funzionamento, essendo
sufficiente per la validità delle deliberazioni la presenza del presidente o di
un vice presidente e di sedici consiglieri, laddove per gli organi
giurisdizionali vige la regola generale dell’immutabilità del collegio, che
deve essere a composizione fissa ed invariabile, mentre è propria degli organi
amministrativi la previsione di un quorum strutturale e la possibilità di
deliberare con un numero variabile di membri.
Le competenze assegnate all’Ufficio Centrale per il referendum
– a composizione soggettivamente giurisdizionale - non sono, inoltre, riconducibili
alle funzioni tradizionalmente svolte dalla Cassazione, e i relativi atti,
connotati, per come dianzi illustrato e per come significativamente avvenuto
nella fattispecie in esame, da ampi margini interpretativi ed applicativi, sono
insindacabili, precluso essendo sia il ricorso in Cassazione per violazione di
legge, sia quello per revocazione laddove il procedimento referendario non si
arresti con una pronuncia di inammissibilità della richiesta, ma prosegua con
l’intervento del Consiglio dei Ministri e della Presidenza della Repubblica
sulla base del quesito individuato dall’Ufficio Centrale.
Pur non rivestendo il principio del doppio grado del giudizio
cogente valenza costituzionale, occorre tuttavia segnalare la progressiva
estensione dell’ambito di applicazione del ricorso in Cassazione per violazione
di legge a tutti i provvedimenti con contenuti decisori (si pensi ai
provvedimenti con cui vengono irrogate sanzioni disciplinari ai magistrati
ordinari), nonché l’immanenza del diritto di difesa costituzionalmente
riconosciuto dall’art. 24 della Costituzione e la declinazione di tale
principio offerta sia dalla Corte Costituzionale che dalla Corte Europea dei
Diritti dell'Uomo, unitamente alla necessità di attuazione dell’art. 113 della
Costituzione.
Le statuizioni contenute nell’ordinanza del 21 ottobre 2016
dell’Ufficio Centrale per il Referendum precludono, quindi, la possibilità di
tutela che la Sezione
aveva individuato nella sentenza n. 10445/2016, laddove si è affermato che
“eventuali questioni di illegittimità costituzionale della legge n. 352 del
1970 – in ipotesi riconducibili alla predeterminazione del quesito in base alla
autoqualificazione della legge, in termini di revisione costituzionale o quale
mera legge costituzionale indipendentemente dal contenuto effettivo e
sostanziale della stessa (la cui scelta è rimessa alle determinazioni del
proponente e della maggioranza parlamentare), e del titolo della stessa, tenuto
conto dell’art. 138 della Costituzione, di cui la legge n. 352 del 1970 costituisce
attuazione, e tenuto altresì conto dei principi che devono presiedere
l’esercizio del diritto di voto tra cui quelli di libero convincimento e di
consapevole manifestazione della volontà popolare, nonché della finalità del
referendum costituzionale, volto, anche, alla tutela della minoranza
parlamentare – sono da ritenere rimesse al vaglio dell’Ufficio Centrale per il
Referendum in sede di applicazione di tale normativa, essendo stata ammessa la
sua legittimazione a sollevare questioni incidentali di costituzionalità
innanzi alla Corte Costituzionale (ex plurimis: Corte Costituzionale, sentenza
17 ottobre 2011 n. 278 proprio con riferimento a questioni inerenti alla legge
n. 352 del 1970; sul piano più generale, in tema di legittimazione a sollevare
questioni di costituzionalità si veda anche Corte Costituzionale 23 luglio 2015
n. 181 e n. 226 del 1976), eventualmente in sede di revocazione delle ordinanze
adottate in materia di referendum costituzionale, ritenendo lo stesso Ufficio
Centrale per il Referendum l’esperibilità di tale rimedio sull’assunto della
propria natura giurisdizionale (ordinanza dell’Ufficio Centrale per il
Referendum adottata nella camera di consiglio dell’11 novembre 2008; la
possibilità di revocazione è stata riconosciuta anche con sentenza della Corte
Costituzionale 30 gennaio 1986 n. 17)”.
La natura giurisdizionale dell’Ufficio Centrale, dallo stesso
affermata, nel non consentirne la sindacabilità innanzi al giudice – tantomeno
innanzi al giudice amministrativo – delle relative decisioni, preclude,
inoltre, di traslare la possibilità di impugnazione al decreto presidenziale
conclusivo del procedimento che, in modo vincolato, recepisce il quesito
formulato dall’Ufficio, dovendo tale quesito imputarsi all’Ufficio stesso.
Le perplessità ed i profili di difficile compatibilità, sotto
il profilo costituzionale, del complessivo sistema delineato, anche attraverso
le pronunce dell’Ufficio Centrale per il Referendum, che governa il
procedimento referendario costituzionale, avuto riguardo sia alla
configurazione di tale Ufficio quale organo giurisdizionale, sia
all’attribuzione allo stesso del compito di formulare il quesito sulla base di
un’attività interpretativa dell’art. 16 della legge n. 352 del 1970, sia al
contenuto di tale norma laddove possa essere interpretata nel senso che anche
in caso di leggi aventi contenuto misto – di revisione di norme della
Costituzione e di modifica o introduzione di leggi costituzionali – il quesito
referendario possa prescindere dall’indicazione degli articoli della
Costituzione sottoposti a modifica, sia con riguardo alla non prevista
possibilità di procedere a referendum costituzionale per singole parti omogenee
della legge, non possono essere, all’evidenza, sollevati dal Tribunale adito,
stante il riscontrato difetto di giurisdizione che preclude, per difetto di
rilevanza, la rimessione alla Corte Costituzionale delle relative questioni.
Rimessione che, nel delineato quadro, potrebbe essere
effettuata unicamente dall’Ufficio Centrale per il Referendum in sede di
verifica dell’ammissibilità della richiesta referendaria, mentre, ai soggetti
che si assumono lesi dalle conseguenze di tale sistema, è riconosciuta la
possibilità di adire la
Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.
A fini di completezza sotto il profilo ricostruttivo della
delicata tematica in esame – involgente il diritto di voto in ambito
referendario ed il procedimento di formazione del relativo quesito in relazione
alle sfere di attribuzione dei soggetti che vi intervengono, nonché l’ambito di
giustiziabilità dei relativi provvedimenti, comunque soggetti al vincolo del
rispetto della legge e della sua corretta applicazione - va rilevato come anche
l’ordinanza del Tribunale Civile di Milano, resa sul procedimento cautelare n.
54353/2016, del 10 novembre 2016, ha affermato la natura giurisdizionale
dell’Ufficio Centrale per il Referendum, pur al contempo riportandosi alla
natura di organo neutrale dello stesso affermata dalla citata sentenza n.
10445/2016 della Sezione, senza tuttavia espressamente declinare o affermare la
giurisdizione del giudice amministrativo o del giudice ordinario, procedendo
all’esame delle questioni prospettate dai ricorrenti – i medesimi che agiscono
in questa sede – dopo aver dichiarato l’inammissibilità del ricorso in via
d’urgenza e solo per l’ipotesi, subordinata, in cui “non si intenda condividere
le argomentazioni sin qui espresse”, concludendo per l’infondatezza delle
domande proposte stante la ritenuta “rispondenza della formulazione del quesito
referendario in un’unica domanda formulata ai sensi della legge n. 352/1070,
ancorchè avente ad oggetto più articoli della Costituzione e più oggetti, alle
previsioni di cui all’art. 138 della Costituzione” e ritenendo altresì che “la
pedissequa applicazione della procedura disciplinata dall’art. 138 Cost.” non
consente di sollevare dubbi di legittimità costituzionale delle norme evocate.
Anche in tale pronuncia, analogamente a quanto affermato
nell’ordinanza dell’Ufficio Centrale per il Referendum del 21 ottobre 2016, si
sostiene inoltre che l’individuazione del quesito, tra le opzioni previste
dalla legge n. 352 del 1970, è di “esclusiva competenza dell’Ufficio Centrale
per il Referendum”.
Tale ricostruzione, unitamente alla preclusione all’esercizio
di mezzi di tutela giurisdizionale – per le ragioni dianzi illustrate e in
considerazione della natura giurisdizionale di tale organo, affermata nelle
citate pronunce, e della non definitività delle decisioni di ammissione della
richiesta referendaria, non sottoponibili quindi a revocazione – comporta che
il corretto esercizio dei poteri da parte dell’Ufficio, comunque vincolati al
rispetto della legge ed all’applicazione della stessa in senso
costituzionalmente orientato, non sia sindacabile innanzi allo stesso o a un
diverso giudice, non essendo esperibili mezzi di tutela – in disparte il potere
dell’Ufficio, sinora non esercitato, di sottoporre al vaglio di
costituzionalità la legge n. 352 del 1970 – nonostante che la formulazione del
quesito referendario, di competenza di tale Ufficio, assuma rilevanza centrale
nell’ambito del procedimento referendario, quale istituto di democrazia
diretta, anche in relazione ai principi di libertà del voto e di corretta
informazione e nonostante che il sistema così delineato susciti perplessità in
ordine alla sua compatibilità costituzionale.
Aggiungasi che, se per come sostenuto dalla difesa delle
resistenti Amministrazioni, l’art. 16 della legge n. 352 del 1970 fa
riferimento a ipotesi di modifiche puntuali e limitate – essendo stato concepito
per tali ipotesi – avviene che nei diversi casi in cui la legge da sottoporre a
referendum costituzionale rechi contenuti ulteriori rispetto alla revisione
costituzionale, l’individuazione del quesito non discende più in modo
automatico dalla legge, ma deriva da un’attività di tipo interpretativo
dell’Ufficio Centrale del Referendum, il quale si inserisce nel procedimento
referendario senza che la relativa attività decisoria sia in alcun modo
sindacabile, realizzandosi un unico grado di giudizio in materia di procedure
referendarie.
Il vuoto di tutela che viene a determinarsi, anche a fronte di
seri dubbi di costituzionalità del complessivo sistema, non è in alcun modo
rimediabile dal giudice adito, neanche in via interpretativa, essendo a tal
fine necessario un intervento della Corte Costituzionale – non azionabile in
questo giudizio per difetto di rilevanza – o un intervento normativo sulla
disciplina vigente.
Né, al fine di legittimare il quesito così formulato, può
essere utilmente invocata la prassi, richiamata dalla difesa delle resistenti
Amministrazioni, in base alla quale anche nei precedenti referendum
costituzionali del 2001 e del 2006 i quesiti erano riferiti a leggi
costituzionali nella loro interessa e senza indicazione degli articoli della Costituzione
da modificare nonostante venissero in rilievo norme di revisione
costituzionale, non costituendo tale prassi una fonte del diritto e tenuto
conto che le leggi sottoposte a referendum costituzionale facevano riferimento
- contrariamente al caso in esame - al titolo della Costituzione da modificare
e recavano, per gli altri profili, un titolo cd. ‘muto’.
Né può condividersi quanto affermato dalla difesa delle
resistenti Amministrazioni circa le conseguenze, sulla determinazione del
quesito referendario – con opzione per la formula riferita alle leggi
costituzionali - della riconducibilità delle leggi di revisione costituzionale
al più ampio genus delle leggi costituzionali, posto che tale comune
appartenenza rileva sul piano delle fonti del diritto, ma non può incidere,
elidendone la differenza, sul contenuto sostanziale delle norme, se di
revisione della Carta Costituzionale o meno, altrimenti vanificandosi lo stesso
art. 138 della Costituzione, nonché l’art. 16 della legge n. 352 del 1970 che
vi dà attuazione, che distinguono tra leggi di revisione costituzionale e altre
leggi costituzionali sulla base del loro specifico contenuto, distinzione
(peraltro contenuta nella legge n. 352 del 1970 sia all’art. 16 he all’art. 4)
che non avrebbe ragion d’essere alla luce della suggerita equiparazione tra le
due categorie invocata da parte resistente.
Il rilevato vuoto di tutela, lamentato dagli stessi ricorrenti,
non può, inoltre, essere colmato attraverso il sindacato del mancato esercizio,
da parte del Presidente della Repubblica, del potere di intervento o del potere
di rinvio degli atti ai fini del loro riesame, rientrando tali prerogative,
laddove esercitabili, tra quelle di esclusiva spettanza del Presidente della
Repubblica, in alcun modo sindacabili o sollecitabili in sede giurisdizionale
in quanto espressione del ruolo costituzionale di tipo obiettivo e di garanzia
svolto dal Presidente stesso quale garante dell’ordinamento costituzionale.
In conclusione, per le ragioni illustrate, il ricorso in esame
deve essere dichiarato inammissibile per difetto assoluto di giurisdizione, il
che, nel rendere irrilevante ogni altra questione di tipo processuale, preclude
altresì la possibilità di indicare, ai sensi dell’art. 11 del codice del
processo amministrativo, un diverso giudice nazionale presso il quale
riproporre la controversia.
Tenuto conto delle peculiarità che connotano la delicata
vicenda in esame e dell’assenza di precedenti in materia di referendum
costituzionale, sussistono ragionevoli motivi per disporre la compensazione
delle spese di giudizio tra le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
Roma - Sezione Seconda Bis
definitivamente pronunciando sul ricorso N. 10984/2016 R.G.,
come in epigrafe proposto, trattenuto per la decisione ai sensi dell’art. 60
del codice del processo amministrativo, così statuisce;
lo dichiara inammissibile per difetto assoluto di
giurisdizione;
compensa tra le parti le spese di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità
amministrativa.