Corte cost. 31 luglio 2020, n. 186
Sent. 186/2020 - Pres. CARTABIA, Rel. DE PRETISillegittimità costituzionale - non fondatezza - ill. cost. conseg. ex art. 27 legge n. 87/1953Straniero - Accoglienza dei richiedenti protezione internazionale - Disposizione introdotta dal decreto-legge n. 113 del 2018, convertito, con modificazioni, in legge n. 132 del 2018 - Previsione che il permesso di soggiorno per richiesta di asilo non costituisce titolo per l'iscrizione anagrafica.
Sentenza 186/2020 (ECLI:IT:COST:2020:186)
Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ
COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente: CARTABIA -
Redattore: DE PRETIS
Udienza Pubblica del 08/07/2020;
Decisione del 09/07/2020
Deposito del 31/07/2020;
Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 4, c. 1° bis, del decreto
legislativo 18/08/2015, n. 142, come introdotto dall'art. 13, c. 1°, lett.
a), n. 2, del decreto-legge 04/10/2018, n. 113, convertito, con
modificazioni, nella legge 01/12/2018, n. 132.
Massime:
Atti decisi: ordd. 145, 153, 158 e 159/2019
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E’ costituzionalmente illegittimo l’art. 4,
comma 1-bis, del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142 (Attuazione della
direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti
protezione internazionale, nonché della direttiva 2013/32/UE, recante procedure
comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione
internazionale), come introdotto dall’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2),
del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di
protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per
la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il
funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione
dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito,
con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132
Sono
costituzionalmente illegittime, in via consequenziale, ai sensi
dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul
funzionamento della Corte costituzionale), le restanti disposizioni dell’art.
13 del d.l. n. 113 del 2018;
Non è fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 4, comma 1-bis, del d.lgs. n. 142 del 2015, sollevata,
in riferimento all’art. 77, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale
ordinario di Milano, prima sezione civile, con ordinanza 1° agosto 2019
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1-bis,
del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142 (Attuazione della direttiva
2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione
internazionale, nonché della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai
fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione
internazionale), come introdotto dall’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2),
del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di
protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per
la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il
funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione
dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito,
con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132, promossi dal Tribunale
ordinario di Milano, prima sezione civile, con ordinanza del 1° agosto 2019,
dal Tribunale ordinario di Ancona, prima sezione civile, con ordinanza del 29
luglio 2019 e dal Tribunale ordinario di Salerno, sezione civile feriale, con
due ordinanze del 9 agosto 2019, iscritte, rispettivamente, ai numeri 145, 153,
158 e 159 del registro ordinanze 2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica, numeri 39, 40 e 41, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visti gli atti di costituzione dei signori A. H. e A. S., delle
associazioni ASGI-Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e
Avvocati per Niente Onlus, del Comune di Milano, nonché gli atti di intervento
del Presidente del Consiglio dei ministri;
udita nell’udienza pubblica e nella camera di consiglio dell’8
luglio 2020 la Giudice
relatrice Daria de Pretis;
uditi gli avvocati Valerio Onida per A. H., Alberto Guariso per A.
H. e altri, Antonello Mandarano per il Comune di Milano, Paolo Cognini per A.
S. e gli avvocati dello Stato Giuseppe Albenzio e Ilia Massarelli per il
Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 9 luglio 2020.
1.– Con ordinanza del 1° agosto 2019, iscritta al n. 145 del
registro ordinanze 2019, il Tribunale ordinario di Milano, prima sezione
civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma
1-bis, del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142 (Attuazione della
direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti
protezione internazionale, nonché della direttiva 2013/32/UE, recante procedure
comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione
internazionale), introdotto dall’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), del
decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di
protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per
la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il
funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione
dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito,
con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132, per violazione degli
artt. 2, 3, 10, 77, secondo comma, 117, primo comma, della Costituzione,
quest’ultimo in relazione all’art. 2, paragrafo 1, del Protocollo n. 4 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, adottato a Strasburgo il 16 settembre 1963 e reso esecutivo con
il d.P.R. 14 aprile 1982, n. 217, che riconosce taluni diritti e libertà
diversi da quelli che figurano già nella convenzione e nel suo primo protocollo
addizionale, nonché in relazione agli artt. 14 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata
a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955,
n. 848, e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici,
adottato a New York il 16 dicembre 1966, entrato in vigore il 23 marzo 1976,
ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881.
1.1.– Il rimettente premette di essere stato investito di un
ricorso ai sensi dell’art. 28 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150
(Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di
riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi
dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), dell’art. 44 del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti
la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) e
dell’art. 702-bis del codice di procedura civile, promosso da A. H.,
richiedente asilo, nei confronti del Comune di Milano e del Ministero
dell’interno, al fine di ottenere «la dichiarazione di invalidità e
l’accertamento del carattere discriminatorio del rifiuto opposto dal Comune di
Milano alla iscrizione del ricorrente nell’anagrafe della popolazione
residente».
In particolare, il ricorrente ha chiesto di accertare il carattere
discriminatorio del diniego all’iscrizione anagrafica per violazione del
principio di parità di trattamento tra cittadini italiani e stranieri ai sensi
dell’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998 e dell’art. 15 del d.P.R. 31
agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante norme di attuazione del testo unico
delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero, a norma dell’articolo 1, comma 6, del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286), nonché per violazione del «principio
paritario, sotto il profilo della nazionalità» (ai sensi dell’art. 3 Cost.,
dell’art. 14 CEDU e dell’art. 43 del d.lgs. n. 286 del 1998).
Inoltre, «[i]n via autonoma», il ricorrente ha chiesto di accertare
l’illegittimità del rifiuto del Comune alla sua iscrizione all’anagrafe dei
residenti e di ordinare al Ministero dell’interno, e per esso al Sindaco del
Comune di Milano nella sua qualità di ufficiale del Governo per l’esercizio
delle funzioni di ufficiale dell’anagrafe, di procedere all’iscrizione. Infine,
«[q]ualora necessario», il ricorrente ha domandato la previa rimessione alla
Corte costituzionale della questione di legittimità dell’art. 4, comma 1-bis,
del d.lgs. n. 142 del 2015, introdotto dall’art. 13, comma 1, lettera a),
numero 2), del d.l. n. 113 del 2018, convertito, con modificazioni, nella legge
n. 132 del 2018, in riferimento a una pluralità di parametri costituzionali,
anche in relazione a fonti sovranazionali.
Nelle more dell’instaurazione del contraddittorio nel giudizio a
quo, hanno depositato un atto congiunto di intervento l’Associazione degli
studi giuridici sull’immigrazione (ASGI) e l’Associazione Avvocati per Niente
Onlus, deducendo la natura collettiva della discriminazione e aderendo alla
prospettazione del ricorrente quanto alla natura discriminatoria del diniego di
iscrizione anagrafica. Nel giudizio a quo si sono anche costituiti i convenuti
resistenti Ministero dell’interno e Comune di Milano.
1.2.– In merito all’interesse ad agire del ricorrente nel giudizio
principale, il rimettente afferma come esso, previsto quale condizione
dell’azione dall’art. 100 del codice di procedura civile, secondo il
consolidato orientamento della Corte di cassazione debba essere identificato in
«una situazione di carattere oggettivo derivante da un fatto lesivo, inteso in
senso ampio, di un diritto che, senza l’intervento del giudice, resterebbe
sfornito di tutela, con conseguente danno per l’attore». Pertanto, tale
interesse deve avere carattere attuale «assurgendo a giuridica ed oggettiva
consistenza».
Nell’odierno giudizio, il ricorrente vanterebbe «un effettivo
interesse ad agire che scaturisce dall’impossibilità di vedersi iscritto
all’anagrafe del Comune in cui ha stabilito la propria dimora abituale». In tal
senso, l’intervento del giudice sarebbe necessario per rimediare alla lesione
del diritto soggettivo di iscrizione anagrafica, cagionato dalla condotta
dell’amministrazione. Nella prospettiva del rimettente, la tutela di questo
diritto assicurerebbe al richiedente asilo «un’utilità ulteriore rispetto a
quella derivante dall’accesso ai servizi e dall’esercizio dei diritti e delle
facoltà rispetto alle quali l’iscrizione all’anagrafe è strumentale».
Quest’ultima sarebbe, infatti, «direttamente collegata alla dignità personale e
sociale dell’individuo, alla sua capacità di identificazione, appartenenza e,
in senso più ampio, integrazione con la comunità locale, che a loro volta
costituiscono passaggi indispensabili per la concretizzazione del progetto fondante
la nostra Costituzione, ossia assicurare all’individuo – legalmente presente
nel territorio italiano – una vita libera e degna».
Il giudice a quo aggiunge, al riguardo, che la mancata iscrizione
comporterebbe anche «un immediato […] nocumento in capo al ricorrente laddove
esclude a priori il computo del periodo trascorso come richiedente asilo […] ai
fini dell’esercizio di tutti quei diritti che sono collegati alla durata della
residenza» (tra cui quelli all’acquisizione della cittadinanza, all’accesso all’edilizia
popolare e al cosiddetto reddito di cittadinanza).
Il rimettente passa poi ad argomentare la presenza, nel caso di
specie, dei presupposti per l’esercizio dell’azione antidiscriminatoria,
richiamando, al riguardo, l’art. 43, commi 1 e 2, lettera a), del d.lgs. n. 286
del 1998. Nell’odierna vicenda giudiziaria il diniego dell’ufficiale dello
stato civile di iscrizione anagrafica sarebbe riconducibile a uno dei
presupposti per l’esercizio dell’azione antidiscriminatoria, «sussistendo un
trattamento ingiustificatamente differenziato in considerazione della
nazionalità del richiedente l’iscrizione». L’azione antidiscriminatoria sarebbe
dunque «il corretto contesto» in cui sollevare la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 4, comma 1-bis, del d.lgs. n. 142 del 2015, introdotto
dall’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 113 del 2018,
convertito, con modificazioni, nella legge n. 132 del 2018; infatti,
l’eventuale accoglimento della questione «non solo priverebbe di fondamento
normativo l’azione dell’anagrafe comunale, ma costituirebbe dimostrazione
inconfutabile del carattere discriminatorio dell’azione amministrativa».
Il carattere discriminatorio della condotta dell’ufficiale dello
stato civile non sarebbe escluso dal fatto che la mancata iscrizione anagrafica
è prevista solo per i richiedenti asilo e non per tutti gli stranieri, poiché
«l’azione amministrativa […] colpi[rebbe] sistematicamente solo ed
esclusivamente degli stranieri, proprio per il loro essere stranieri».
Quanto alla legittimazione passiva del Comune di Milano, il giudice
a quo precisa che, a fronte della congiunta evocazione in giudizio del Comune
di Milano, in persona del Sindaco pro tempore, e di questi, in qualità di
ufficiale del Governo per l’esercizio delle funzioni di ufficiale
dell’anagrafe, il contraddittorio deve ritenersi correttamente instaurato con
quest’ultimo, a cui sono riferibili gli atti compiuti in tale veste e quindi
anche il diniego all’iscrizione all’anagrafe dei residenti.
Quanto alla legittimazione attiva delle associazioni, il rimettente
distingue l’intervento spiegato in via principale come azione
antidiscriminatoria collettiva ex art. 5 del decreto legislativo 9 luglio 2003,
n. 215 (Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra
le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica) – qualificato
dalle parti alla stregua di un «intervento litisconsortile o adesivo autonomo»,
rispetto al quale varrebbe l’eccezione del Ministero dell’interno di assenza
della giurisdizione del giudice ordinario – da quello svolto come «mero
intervento adesivo dipendente a sostegno delle domande proposte dal
[ricorrente]», che è reputato invece «pienamente ammissibile».
In merito al diritto vantato dal ricorrente, la qualificazione
della pretesa all’iscrizione anagrafica come diritto soggettivo deriverebbe
dalla definizione dell’ordinamento delle anagrafi della popolazione residente
alla stregua di uno «strumento giuridico-amministrativo di documentazione e
conoscenza, predisposto tanto nell’interesse dell’amministrazione, quanto
nell’interesse dei privati». Infatti, all’interesse pubblico alla conoscenza
della popolazione residente si affiancherebbe «l’interesse individuale ad
ottenere le certificazioni anagrafiche necessarie per l’esercizio dei diritti
civili e politici e, in generale, per provare la residenza e lo stato di
famiglia» (in tal senso è richiamata la sentenza della Corte di cassazione,
sezioni unite, 19 giugno 2000, n. 449).
Inoltre, l’iscrizione anagrafica non sarebbe solo un diritto per il
soggetto che ha dimora abituale in un Comune italiano, ma costituirebbe un
obbligo (ai sensi dell’art. 2 della legge 24 dicembre 1954, n. 1228, recante
«Ordinamento delle anagrafi della popolazione residente»), la cui violazione è
punita con una sanzione amministrativa (art. 11 della legge n. 1228 del 1954).
Siffatto ragionamento sarebbe estensibile anche agli stranieri, in virtù di
quanto previsto dall’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998.
Il regolamento di attuazione del testo unico sull’immigrazione
(d.P.R. n. 394 del 1999) prevede, all’art. 15, comma 1, che le iscrizioni e le
variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono
effettuate nei casi e secondo i criteri previsti dalla legge n. 1228 del 1954 e
dal regolamento anagrafico della popolazione residente.
A sua volta, dalla legge n. 1228 del 1954 si trarrebbe conferma
dell’esistenza di un obbligo di iscrizione anagrafica in capo ai migranti,
poiché l’art. 11, comma 2, della stessa dispone una specifica disciplina
dell’ipotesi di violazione di questo obbligo, prevedendo una sanzione
amministrativa più elevata rispetto a quella prevista per i cittadini italiani.
L’obbligo di iscrizione anagrafica si dedurrebbe anche dal regolamento di attuazione
della suddetta legge (d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, recante «Approvazione del
nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente»), il quale richiede
allo straniero che trasferisce la sua residenza in Italia di comprovare, oltre
che l’abitualità della dimora nel Comune di interesse, la propria identità
mediante l’esibizione del passaporto o di documento equipollente (art. 14,
comma 1).
1.3.– Sulla rilevanza delle odierne questioni di legittimità
costituzionale il rimettente sottolinea come sia l’amministrazione comunale sia
il Ministero abbiano riconosciuto che la disposizione censurata (e le
successive circolari del Ministero dell’interno) «non lasci[a] alcun margine di
discrezionalità al Sindaco, in qualità di Ufficiale dell’anagrafe». Dunque, il
diniego dell’iscrizione anagrafica discenderebbe dall’applicazione della norma
censurata, come, tra l’altro, risulta dalla motivazione del provvedimento.
Al contempo, non vi sarebbero dubbi sulla riconducibilità del caso
di specie alla fattispecie prevista dalla disposizione censurata. Inoltre,
l’eventuale caducazione di quest’ultima, pur non comportando la reintroduzione
della disciplina di favore prevista dall’art. 5-bis del d.lgs. n. 142 del 2015,
consentirebbe ai richiedenti asilo di procedere all’iscrizione anagrafica alle
stesse condizioni degli altri stranieri regolari e dei cittadini italiani.
1.4.– In merito alla possibilità di una interpretazione
costituzionalmente orientata della disposizione censurata, il rimettente dà
atto, in via preliminare, dell’orientamento assunto da alcuni giudici di
merito, secondo i quali non sarebbe preclusa la possibilità di iscrizione
anagrafica da parte dei richiedenti asilo, dovendosi ritenere che la regolarità
del soggiorno al fine dell’iscrizione anagrafica possa essere provata
attraverso altri documenti che attestino l’avvio del procedimento volto al
riconoscimento della fondatezza della pretesa di protezione, quali il
cosiddetto Modello C/3 o il documento con cui la questura attesta la
formalizzazione dell’istanza di protezione internazionale. In altre parole,
secondo questi giudici – rispetto ai quali l’odierno rimettente dissente –
dalla norma censurata non potrebbe desumersi un divieto di iscrizione
anagrafica per i richiedenti asilo, ma soltanto l’abrogazione della modalità
semplificata di iscrizione all’anagrafe prevista dall’art. 5-bis del d.lgs. n.
142 del 2015.
Secondo il giudice a quo, siffatta interpretazione non è
condivisibile per varie ragioni. Innanzitutto, non vi è dubbio che il permesso
di soggiorno per richiesta di asilo costituisce documento di riconoscimento e
di attestazione della permanenza sul territorio nazionale del migrante a
qualsiasi fine. In secondo luogo, a voler ritenere corretta l’interpretazione
sopra riferita, la modifica operata dal d.l. n. 113 del 2018 risulterebbe priva
di senso, poiché sarebbe stata sufficiente la mera abrogazione dell’art. 5-bis
del d.lgs. n. 142 del 2015 per rendere applicabile la procedura ordinaria
prevista dal combinato disposto del d.P.R. n. 223 del 1989 e dall’art. 6, comma
7, del d.lgs. n. 286 del 1998.
Piuttosto, «la contrarietà dell’ordinamento all’iscrizione
anagrafica» si desumerebbe da «un’interpretazione letterale, sistematica e
teleologica, che tenga in considerazione la (chiara) “intenzione del
legislatore”», quale desumibile anche dall’esame dei lavori preparatori della
legge di conversione del d.l. n. 113 del 2018. In questo senso si sarebbe mosso
il Tribunale ordinario di Trento (ordinanze 11 e 15 giugno 2019), che però (a
differenza dell’odierno rimettente) ha rigettato la domanda cautelare proposta
da un richiedente asilo. Pur condividendo l’interpretazione operata dal
Tribunale di Trento, il giudice a quo esclude di poter pervenire allo stesso
esito, dal momento che la norma in esame risulta, ai suoi occhi,
illegittimamente discriminatoria.
1.5.– In punto di non manifesta infondatezza, la norma censurata
appare in contrasto con gli artt. 2, 3, 10, 77, secondo comma, 117, primo
comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 2, paragrafo 1, Prot. n. 4
CEDU, nonché in relazione agli artt. 14 CEDU e 26 del Patto internazionale
relativo ai diritti civili e politici.
1.5.1.– Il rimettente illustra preliminarmente le ragioni
dell’asserita violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost. In particolare, nel
caso di specie mancherebbe «una motivazione circa la necessità e urgenza di
introdurre il divieto di iscrizione all’anagrafe» per i richiedenti asilo, né
varrebbero in tal senso le ragioni addotte dal Governo, consistenti
nell’esigenza di assicurare: l’effettività dei provvedimenti di rimpatrio di
coloro che non hanno titolo a soggiornare nel territorio nazionale; un accurato
esame delle (sempre più numerose) istanze di riconoscimento e di concessione
della cittadinanza; la massima accuratezza dell’istruttoria avviata; adeguate
politiche di prevenzione della minaccia terroristica. Al riguardo, il
rimettente precisa che, se anche si ritenesse che queste esigenze siano
tutelabili attraverso il ricorso alla decretazione d’urgenza, esse non rileverebbero
nel caso di specie, stante la mancata incidenza della norma censurata sulla
sicurezza nazionale, sull’efficacia dei provvedimenti di rimpatrio o sulla
necessità di svolgere un’accurata istruttoria. Anzi, la corretta registrazione
all’anagrafe di chi effettivamente e abitualmente dimora in un determinato
Comune finirebbe con il facilitare l’azione dell’ente territoriale e degli
organi di sicurezza.
Inoltre, la delicatezza delle «scelte di natura politica e
giuridica», adottate con il d.l. n. 113 del 2018, «avrebbe richiesto un
adeguato dibattito parlamentare», compresso sia dall’adozione di un
decreto-legge sia dall’apposizione della questione di fiducia, in entrambe le
Camere, in occasione della sua conversione in legge. Il decreto in esame
difetterebbe, infine, del requisito dell’omogeneità del suo contenuto,
risultando composto da disposizioni concernenti materie del tutto diverse tra
loro.
1.5.2.– Quanto all’asserita violazione dell’art. 2 Cost., il
rimettente ricorda come questa Corte, nella sua giurisprudenza, abbia
«suggerito un carattere dinamico dell’inviolabilità, che muta al mutare della
società, con un’apertura dei diritti inviolabili che non significa però una
loro indeterminatezza, dovendo e potendo essere ricompresi nel loro novero solo
quelli che siano riconducibili al cuore del progetto costituente, ossia quello
di predisporre per ciascun consociato le condizioni per il conseguimento di una
vita libera e degna». In questa prospettiva, «la dignità umana diventa tratto
comune o, meglio, punto di arrivo di questi diritti inviolabili».
Il giudice a quo sottolinea, inoltre, «la centralità della persona»
come nota caratterizzante l’art. 2 Cost., il quale «non fa riferimento
all’individuo in quanto partecipe di una determinata comunità politica, ma in
quanto essere umano». A sua volta, «[c]he la dignità umana e, quindi, i diritti
necessari alla sua garanzia non spettino solo ai cittadini trova inconfutabile
conferma nei principi di eguaglianza e di parità sociale contenuti nel
successivo art. 3 Cost.» (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 62 del
1994, n. 490 del 1988, n. 54 del 1979, n. 244 e n. 177 del 1974, n. 144 del
1970, n. 104 del 1969, n. 11 del 1968 e n. 120 del 1967). Ciò nondimeno, è lo
stesso rimettente a ricordare – richiamando un’altra decisione di questa Corte
– come «tra cittadino e straniero, benché uguali nella titolarità di certi
diritti di libertà, esistano differenze di fatto che possano giustificare un
loro diverso trattamento nel godimento di quegli stessi diritti» (sentenza n.
104 del 1969). Da quanto appena detto deriverebbe «l’esigenza di distinguere
tra titolarità – estesa a tutti – e godimento – differentemente modulabile – di
un diritto inviolabile».
Di conseguenza, vi sarebbe un «nucleo irriducibile» dei diritti
inviolabili, che deve essere riconosciuto a tutti, mentre «[l]’accesso e il
godimento di quella porzione di diritto inviolabile che eccede questo “nucleo”
[…] ricadono nel margine di discrezionalità spettante al legislatore». In
questo caso, la differenza di trattamento tra cittadino e straniero non deve
sconfinare nell’irragionevolezza.
Alla luce di questa ricostruzione, il rimettente sostiene che «il
diritto all’iscrizione anagrafica ricada tra i diritti che hanno come punto di
approdo ultimo quella della dignità umana, nella sua dimensione individuale e
sociale», diventando «presupposto dell’identificazione di se stessi anche e
soprattutto mediante lo sviluppo di un senso di appartenenza con la comunità
locale presso cui si decide di fissare la propria stabile dimora». A questi
fini, la maturazione del senso di appartenenza sarebbe prodromica rispetto
all’inserimento dell’individuo nella società, al cui interno potrà svolgersi la
sua personalità (come sancito dall’art. 2 Cost.). Nella prospettiva da ultimo
indicata l’iscrizione anagrafica costituirebbe «un passo essenziale di quel
processo di integrazione a cui sono chiamati tanto lo straniero quanto la
società presso cui egli si stabilisce».
Infine, il Tribunale rimettente sottolinea il valore simbolico
della norma censurata, poiché il diniego dell’iscrizione anagrafica
equivarrebbe a «lasciare l’individuo al margine della collettività stessa,
confinandolo in un “non luogo” giuridico e sociale», che costituisce un limite
alla libera e dignitosa crescita della sua personalità e che appare
incompatibile con la sua partecipazione alla vita economica, sociale e
culturale del Paese in cui vive. Al riguardo, il giudice a quo ricorda come
l’iscrizione anagrafica sia condizione per il rilascio della carta d’identità,
che – sempre secondo il rimettente – è «un documento che, anche su un piano
meramente evocativo, esprime una maggiore identificazione con la comunità in
cui ci si inserisce rispetto al solo permesso di soggiorno che, invece,
comunica sempre e comunque una sensazione di estraneità».
Muovendo da questa prospettiva, diventerebbe «irrilevante» il fatto
che l’accesso ai servizi sociali sia comunque garantito in base al domicilio,
poiché il divieto di iscrizione anagrafica lederebbe «un diritto autonomo e presupposto
rispetto a questi ulteriori diritti sociali».
1.5.3.– Quanto alla lamentata violazione dell’art. 3 Cost., il
Tribunale di Milano muove dal dato testuale dell’art. 6, comma 7, del d.lgs. n.
286 del 1998 che prevede, come regola generale, quella dell’iscrivibilità degli
stranieri legalmente soggiornanti in Italia all’anagrafe della popolazione
residente. La norma censurata costituirebbe, pertanto, una deroga a questa
disciplina generale, priva però dei «requisiti di razionalità e ragionevolezza
che costituiscono i parametri tradizionalmente adottati dalla Corte per
svolgere il giudizio costituzionale di eguaglianza».
La valutazione della razionalità della norma censurata, che
comporta una verifica della coerenza tra la stessa e le altre disposizioni
vigenti nella stessa materia, produrrebbe, secondo il rimettente, esiti
negativi. In tal senso militerebbe la sua incoerenza rispetto alle finalità
perseguite dal legislatore con il d.l. n. 113 del 2018; infatti, il diniego di
iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo limiterebbe le capacità di
controllo e monitoraggio dell’autorità pubblica su una categoria di stranieri.
Peraltro, la natura obbligatoria dell’iscrizione anagrafica, sopra argomentata,
sarebbe finalizzata ad «assicurare la puntuale conoscenza dei soggetti presenti
sul territorio italiano e, dunque, anche la sicurezza pubblica», obiettivi,
questi, che sarebbero vanificati dalla norma in esame. Un ulteriore sintomo
dell’irrazionalità della disposizione censurata si coglierebbe in relazione
alle finalità perseguite dal d.lgs. n. 142 del 2015, che ha attuato la
direttiva (UE) 2013/33 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno
2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione
internazionale. Quest’ultima avrebbe, infatti, come obiettivo quello di
migliorare l’accoglienza e di garantire un livello di vita dignitoso, che non
sarebbe compatibile con la previsione di «un non necessario ostacolo
all’integrazione e al libero sviluppo individuale dello straniero qual è la
negazione del diritto d’iscrizione anagrafica».
Anche il controllo sulla ragionevolezza della norma censurata
dimostrerebbe l’assenza di una giustificazione del trattamento differenziato
tra richiedenti asilo e cittadini italiani, nonché tra i primi e gli altri
stranieri legalmente presenti sul territorio nazionale. In particolare, sarebbe
di «difficile (se non impossibile)» comprensione l’interesse perseguito dal
legislatore e non sarebbe ragionevole giustificare il diniego di iscrizione
anagrafica facendo leva sulla provvisorietà del permesso di soggiorno, in
quanto ad essere provvisorio sarebbe solo lo status di richiedente asilo,
«destinato a tramutarsi – nell’ipotesi fisiologica – in [quello] di titolare di
protezione internazionale». Peraltro, il permesso di soggiorno per richiedenti
asilo ha scadenza semestrale, rinnovabile fino alla decisione sulla domanda, e
occorre tenere conto non solo dei tempi del procedimento amministrativo, ma
anche di quelli dell’eventuale impugnazione del diniego. Di conseguenza, non
potrebbero escludersi periodi molto lunghi di soggiorno, «fino a tre o quattro
anni».
L’irragionevolezza della previsione censurata sarebbe confermata
anche dalla comparazione con quanto disposto dal decreto legislativo 6 febbraio
2007, n. 30 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei
cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare
liberamente nel territorio degli Stati membri), il cui art. 9 prevede che un
cittadino europeo, che intenda soggiornare per più di tre mesi sul territorio
italiano, deve richiedere l’iscrizione anagrafica. Risulterebbe, dunque,
incomprensibile la ragione per la quale il «periodo superiore a tre mesi»
costituisca «una finestra temporale sufficiente per escludere la precarietà
della presenza dello straniero sul territorio italiano, facendo sorgere il
diritto/dovere di iscrizione anagrafica» per il cittadino di Stato membro
dell’Unione europea, mentre il periodo di sei mesi, «de plano incrementabili
fino oltre due anni», non lo sia.
Il divieto di iscrizione anagrafica mostrerebbe, poi, «tutta la sua
irragionevolezza» in quanto costituente un ostacolo al processo di integrazione
dei soli richiedenti asilo. A tal fine il rimettente richiama l’art. 4-bis del
d.lgs. n. 286 del 1998, rubricato «Accordo di integrazione», e il decreto del
Ministero dell’interno 23 aprile 2007 (Carta dei valori della cittadinanza e
dell’integrazione).
Ed ancora, l’impossibilità di procedere all’iscrizione anagrafica
impedirebbe o renderebbe più difficoltoso l’esercizio di alcuni diritti sociali
del richiedente asilo (come il cosiddetto reddito di cittadinanza, l’accesso
all’edilizia popolare o il cosiddetto bonus bebè), rispetto ai cittadini
italiani e ad altre categorie di stranieri. Da questo punto di vista,
l’assicurazione dell’accesso ai servizi nel luogo di domicilio non escluderebbe
la creazione di una situazione deteriore. A tal fine, il rimettente sottolinea
come il domicilio dei richiedenti asilo costituisca una «situazione
oggettivamente più vaga e incerta» rispetto alla residenza, ben potendosi
configurare tre ipotesi di domicilio: quello indicato nella domanda di
protezione internazionale, quello indicato nella successiva comunicazione alla
questura e quello indicato nella dichiarazione del centro di accoglienza. Senza
considerare che l’accesso ai servizi pubblici in base al domicilio non potrebbe
«prevenire tutti gli ostacoli che emergono nell’ambito delle relazioni
sociali», come, ad esempio, nei rapporti tra privati, «refrattari a superare la
rilevanza, ai fini dell’identificazione delle parti, dell’iscrizione
anagrafica».
Da ultimo, il rimettente – riprendendo un’argomentazione del
ricorrente nel giudizio a quo – mette in evidenza come lo straniero titolare di
permesso di soggiorno per richiesta di asilo sia «esposto all’onere di esibire
copia della domanda di protezione internazionale o copia della successiva
dichiarazione fatta presso la
Questura». In sostanza, per accedere ai servizi sociali non
potrebbe esibire la carta d’identità, essendone privo, ma la documentazione
suddetta, con conseguente violazione dell’«obbligo di riservatezza delle
informazioni concernenti le domande di protezione internazionale», previsto
dall’art. 37 del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25 (Attuazione della
direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli
Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di
rifugiato).
1.5.4.– Il Tribunale di Milano ritiene che la violazione del
principio di uguaglianza ex art. 3 Cost. sussista anche nell’ipotesi in cui si
ritenga ammissibile una lettura della disposizione censurata che consenta
l’iscrizione anagrafica. Questa interpretazione, infatti, costringendo il
richiedente asilo a produrre una «documentazione differente dal permesso di
soggiorno per provare la propria identità e il proprio soggiorno legale sul
suolo italiano», «ingenererebbe un trattamento irrazionalmente e
irragionevolmente deteriore per una categoria di stranieri rispetto alle altre,
senza alcuna giustificazione».
In particolare, sarebbe evidente l’irrazionalità legislativa di una
norma, quale quella che introduce la norma censurata, che, da una parte,
qualifica espressamente il permesso di soggiorno come documento di
riconoscimento (art. 13, comma 1, lettera a, numero 1, del d.l. n. 113 del
2018) e, dall’altra, nega che questo possa servire per l’identificazione dello
straniero nella procedura di iscrizione anagrafica (art. 13, comma 1, lettera
a, numero 2, del d.l. n. 113 del 2018). A ciò si aggiunga che, in tal caso, il
richiedente asilo dovrebbe provare la propria identità mediante l’esibizione
del passaporto o di altro documento equipollente (ai sensi dell’art. 4 del
d.P.R. n. 223 del 1989); ma «lo status di richiedente protezione internazionale
[…] presuppone una condizione di persecuzione, guerra o, generalmente, pericolo
nel paese di provenienza che ben potrebbe precludere i contatti del cittadino
straniero con le autorità pubbliche e, quindi, l’ottenimento del passaporto e
di altra documentazione di identità». Risiederebbe proprio in questa
considerazione la ragionevolezza dell’originaria previsione normativa che
consentiva ai richiedenti asilo di provare la propria identità con la
produzione del permesso di soggiorno, rilasciato dopo essere stati identificati
dalle autorità italiane competenti.
La norma censurata, quindi, avrebbe abrogato una normativa di
favore (art. 5-bis del d.lgs. n. 142 del 2015) sostituendola con una previsione
che crea incertezze, non essendo indicato il documento oggi necessario per
provate la propria identità e il soggiorno legale. Né sarebbe ragionevole
ritenere che la documentazione da produrre sia la copia della domanda di
protezione internazionale presentata dallo straniero alla questura o del
cosiddetto Modello C/3, essendo, questi, «atti endoprocedimentali, prodromici
al rilascio del permesso di soggiorno per richiesta di asilo».
L’incertezza lamentata sarebbe «ancor più difficilmente
giustificabile» nel caso di specie, trattandosi di soggetti «in posizione di
particolare fragilità», nei cui confronti sarebbe auspicabile «una scelta di
semplificazione degli adempimenti burocratici […] piuttosto che una
complicazione della loro posizione».
1.5.5.– La norma censurata si porrebbe in contrasto anche con
l’art. 10 Cost., dando vita «a un trattamento diversificato soltanto nei
confronti di una categoria di stranieri regolarmente soggiornanti, ossia
proprio quelli che hanno esercitato il diritto di asilo ex art. 10, comma 3,
Cost.». Questi ultimi sarebbero titolari di un diritto soggettivo perfetto al
soggiorno, essendo legittimati all’ingresso e alla permanenza nel territorio
dello Stato in attesa che venga definita la loro domanda di protezione
internazionale. Peraltro – aggiunge il rimettente, richiamando una pronuncia delle
sezioni unite civili della Corte di cassazione – il diritto di asilo sarebbe
immediatamente azionabile anche in mancanza di leggi ordinarie che fissino le
condizioni per il suo esercizio.
1.5.6.– Infine, la norma in esame è censurata per contrasto con l’art.
117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 2 Prot. n. 4 CEDU, all’art. 14
CEDU e all’art. 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e
politici.
L’art. 2 Prot. n. 4 CEDU sarebbe violato perché l’iscrizione
all’anagrafe costituirebbe «l’essenza stessa del fissare la residenza in un
comune dello Stato» e pertanto il diniego dell’iscrizione implicherebbe una
lesione del diritto a scegliere liberamente la propria residenza (sancito dal
citato art. 2). Né potrebbe dubitarsi che il termine «residenza» utilizzato
nell’art. 2, paragrafo 1, Prot. n. 4 CEDU corrisponda al concetto tecnico di
residenza di cui all’art. 43 del codice civile; militerebbero in tal senso
l’utilizzo del diverso termine «domicilio» nell’art. 8 CEDU e la versione in lingua
inglese del testo della CEDU, che utilizza il termine «residence»,
differenziandolo da quello di «home», impiegato nell’art. 8 CEDU. Inoltre, la
norma censurata non sarebbe rispettosa della riserva di legge rinforzata
prevista nell’art. 2, paragrafi 3 e 4, Prot. n. 4 CEDU.
E ancora, il diniego del diritto di stabilire liberamente la
residenza sarebbe dettato da ragioni discriminatorie, da cui la violazione
dell’art. 14 CEDU e dell’art. 26 del Patto internazionale relativo ai diritti
civili e politici, rispetto alla quale il rimettente rinvia agli argomenti già
svolti in relazione all’asserita violazione dell’art. 3 Cost.
2.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo
che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o infondate.
L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, in primo luogo,
l’inammissibilità della questione sollevata ai sensi dell’art. 77 Cost. in
quanto «già decisa dalla Corte nel senso dell’infondatezza» con la sentenza n.
194 del 2019. Nel merito, la questione sarebbe infondata: da un lato, il d.l.
n. 113 del 2018 si fonderebbe sulla necessità di un «intervento immediato» di
modifica della normativa vigente in tema di immigrazione, al fine di tutelare
la sicurezza nazionale, ragion per cui in relazione sia all’intero Titolo I del
decreto sia al censurato art. 13 non sarebbe riscontrabile l’evidente mancanza
dei presupposti di necessità ed urgenza; dall’altro lato, le norme del decreto,
pur riguardando materie diverse, avrebbero una complessiva uniformità
teleologica, presentando «una sostanziale omogeneità di scopo», che sarebbe
quello «di affrontare temi delicatissimi per la sicurezza nazionale».
L’Avvocatura osserva poi che la norma sarebbe stata sollecitata dai
comuni, al fine di «sterilizzare alcuni problemi connessi al dilagare del
fenomeno migratorio, come il sovraccarico di iscrizioni anagrafiche di
richiedenti asilo presso Comuni di piccole dimensioni, sul cui territorio si trovano
centri di accoglienza, con i conseguenti onerosi adempimenti anche in termini
di cancellazioni e di ripetuti accertamenti in caso di irreperibilità».
Inoltre, si sarebbe voluta eliminare la prassi del rilascio di carte d’identità
con validità decennale a stranieri la cui posizione giuridica non è ancora
definita.
Ancora, l’Avvocatura rileva che l’omogeneità dell’art. 13 del d.l.
n. 113 del 2018, rispetto ai temi della protezione internazionale e dei flussi
migratori, emergerebbe anche dalla citata sentenza n. 194 del 2019, secondo la
quale l’art. 13 regolerebbe lo status del richiedente protezione
internazionale. Questo articolo sarebbe, dunque, coerente con l’art. 15, comma
3, della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento
della Presidenza del Consiglio dei Ministri).
In relazione all’art. 2 Cost., l’Avvocatura osserva che
l’integrazione sociale del richiedente asilo sarebbe legata all’esito della
domanda di protezione più che alla mera iscrizione nei registri anagrafici, e
che la norma censurata sarebbe in sintonia con i concetti generali di domicilio
e residenza. L’esclusione dell’iscrizione sarebbe dovuta alla precarietà del
permesso per richiesta asilo e alla necessità di attendere la definizione della
posizione giuridica dei richiedenti.
Ancora, il giudice a quo avrebbe eccessivamente dilatato l’art. 2
Cost., che non potrebbe ricomprendere quelle prestazioni (come il reddito di
cittadinanza e la carta d’identità) che presuppongono la residenza anagrafica:
invece, i diritti fondamentali di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 286 del 1998
(come il diritto alla salute e quello all’istruzione dei minori) non
dipenderebbero direttamente dall’iscrizione anagrafica.
L’Avvocatura evidenzia poi che, sempre in base al censurato art.
13, da un lato, il permesso di soggiorno per richiesta asilo costituisce
documento di riconoscimento, con conseguente garanzia del diritto all’identità
personale dei richiedenti asilo; dall’altro lato, «[l]’accesso ai servizi
previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai
sensi delle norme vigenti è assicurato nel luogo di domicilio […]». In
particolare, il richiedente asilo potrebbe accedere al servizio sanitario, al
lavoro, alla scuola per i figli, alle misure di accoglienza, godrebbe di
autonomia contrattuale, potrebbe aprire un conto corrente e si vedrebbe
attribuito il codice fiscale.
Secondo l’Avvocatura, la norma censurata non violerebbe l’art. 3
Cost. in quanto si fonderebbe proprio sul diverso status dei richiedenti asilo
rispetto agli italiani e agli altri stranieri regolarmente soggiornanti, poiché
le condizioni della residenza non potrebbero prescindere dal preventivo
accertamento del diritto alla protezione.
Infine, la norma de qua non violerebbe gli artt. 10 e 117, primo
comma, Cost. in quanto, da un lato, l’iscrizione anagrafica non apparterrebbe
ai diritti fondamentali di cui alla CEDU e al Patto internazionale relativo ai
diritti civili e politici, dall’altro la direttiva 2013/33/UE e la Convenzione relativa
allo statuto dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 non
imporrebbero modalità di registrazione dei richiedenti asilo diverse dal
rilascio di un permesso di soggiorno.
3.– Nel giudizio di legittimità costituzionale si è costituito il
Comune di Milano, parte del giudizio a quo, chiedendo che le questioni
sollevate siano ritenute ammissibili e fondate, per violazione degli artt. 2,
3, 10, 114, 117 e 118 Cost., e svolgendo argomentazioni in gran parte
coincidenti con quelle del Tribunale rimettente. Fanno eccezione le censure
prospettate in riferimento agli artt. 114 e 118 Cost. – parametri, questi, non
indicati dal giudice a quo –, rispetto ai quali il Comune ritiene che la
mancata registrazione anagrafica della residenza e la conseguente «invisibilità»
dei richiedenti asilo impediscano l’esercizio delle funzioni amministrative
comunali relative ai servizi alla persona e alla comunità, all’assetto e
all’utilizzazione del territorio e allo sviluppo economico.
4.– Nel giudizio di legittimità costituzionale si è costituito A.
H., cittadino siriano, titolare del permesso di soggiorno per richiesta di
asilo, ricorrente nel giudizio principale per la dichiarazione di invalidità
del provvedimento che gli ha negato l’iscrizione nell’anagrafe della popolazione
residente nel Comune di Milano. A. H. chiede che questa Corte accolga le
questioni sollevate dal Tribunale di Milano.
La parte costituita premette di aderire pienamente alle censure
prospettate dal giudice a quo e si limita a svolgere alcune riflessioni a
sostegno delle ragioni addotte dal rimettente e a proporre considerazioni più
generali sul significato e sul contesto in cui si inscrive la disposizione
denunciata.
Quanto alla censura formulata rispetto all’art. 77 Cost., rileva
l’estrema difficoltà di individuare «la situazione straordinaria di necessità e
urgenza» cui si è inteso far fronte, sottolineando come il d.l. n. 113 del 2018
intervenga «funditus su una serie numerosa di rapporti e di questioni diverse».
Peraltro, aggiunge, «[g]ià nella sua formulazione originaria il decreto aveva
un contenuto plurimo e non omogeneo»; situazione, questa, ulteriormente
amplificata in sede di conversione in legge. In questo come in altri casi, la
scelta dello strumento del decreto-legge sarebbe stata dettata «non già
dall’urgenza del provvedere, ma dalla evidente volontà di impedire che sul
provvedimento si svolgessero un normale compiuto esame e una normale
discussione parlamentare, attraverso la drastica amputazione del dibattito
ottenuta con la “tecnica” del maxiemendamento governativo sul quale lo stesso
Governo ha posto la questione di fiducia, sia al Senato (voto del 7 novembre
2018), sia alla Camera (voto del 28 novembre 2018)».
Sulla base delle anzidette considerazioni la parte costituita
ritiene che, nel caso di specie, sia innegabile l’«evidente mancanza» dei «casi
straordinari di necessità e d’urgenza» del decreto-legge e la disomogeneità
della norma censurata rispetto alla restante disciplina contenuta nel decreto.
Sarebbe significativa, al riguardo, l’assenza nelle premesse dell’atto
censurato di «qualsiasi motivato riferimento a situazioni di urgente
necessità». Inoltre, quand’anche si volesse ricondurre la norma censurata «al
comune denominatore della “sicurezza”», la previsione del diniego di iscrizione
anagrafica per i richiedenti asilo non sarebbe «in nessun modo giustificata né
giustificabile in nome di esigenze di sicurezza pubblica». Al contrario, i
richiedenti asilo senza residenza anagrafica e senza carta d’identità sarebbero
«meno conoscibili, meno suscettibili di essere “seguiti”, identificati, se
necessario controllati». Né la mancata iscrizione potrebbe spiegarsi in ragione
del carattere temporaneo e precario del soggiorno dei richiedenti asilo;
sarebbe, infatti, inspiegabile la previsione di una discriminazione nei
confronti di questi soggetti e non invece di altri, per i quali l’iscrizione
anagrafica è «un diritto elementare, oltre che un obbligo, connesso alla dimora
abituale sul territorio nazionale».
Piuttosto, la ratio di questa misura dovrebbe essere individuata
«nel suo valore di “messaggio” implicito: lo Stato italiano dice che “non
gradisce” i richiedenti asilo»; considerazione, questa, che induce a ravvisare
nella norma censurata «un grado di “irragionevolezza” che non solo smentisce la
sua “necessità e urgenza”, ma ne vizia palesemente il contenuto, sotto il
profilo del contrasto con i principi costituzionali».
La difesa della parte costituita richiama, altresì, le sentenze n.
194 e n. 195 del 2019, con le quali questa Corte ha deciso i ricorsi promossi
da alcune Regioni nei confronti di varie norme contenute nel d.l. n. 113 del
2018, sottolineando come molte delle questioni promosse non siano state
esaminate nel merito in quanto dichiarate inammissibili per difetto di ridondanza
sulle competenze regionali.
Passando alle questioni sollevate dal Tribunale di Milano in
riferimento all’art. 2 Cost., la difesa di A. H. ritiene che la norma censurata
incida «pesantemente» su un diritto della persona, garantito dall’art. 2 Cost.,
come si evince dalla sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite, 19
giugno 2000, n. 449, nella quale si afferma che «tutta l’attività
dell’ufficiale d’anagrafe è disciplinata dalle norme sopra richiamate in modo
vincolato, senza che trovi spazio alcun momento di discrezionalità» e che le
norme in materia di anagrafe «non attribuiscono all’amministrazione alcun
potere idoneo a degradare i diritti soggettivi attribuiti ai singoli
individui».
L’iscrizione anagrafica costituirebbe, dunque, «un diritto soggettivo
strumentale a certificare e a dimostrare la residenza della persona, sancendone
la presenza stabile in un Comune; a sua volta l’iscrizione è necessaria per
l’esercizio dei diritti propri dei “residenti”. Essa consegue e deve conseguire
al semplice accertamento dei presupposti di fatto, cioè della dimora abituale».
Prim’ancora che un diritto, l’iscrizione all’anagrafe costituirebbe altresì un
obbligo per tutte le persone, famiglie o convivenze che abbiano fissato nel
territorio del Comune la propria «dimora abituale» (ai sensi dell’art. 43,
secondo comma, del codice civile), oltre che essere un obbligo per gli uffici
del relativo Comune. Una speciale esenzione dall’obbligo dell’iscrizione
anagrafica è prevista solo per «il personale diplomatico e consolare straniero»
e per «il personale straniero da esso dipendente» (art. 2, sesto comma, della
legge n. 1228 del 1954).
Da quanto detto la parte costituita deduce che l’iscrizione
all’anagrafe non è una semplice facoltà attribuita dalla legge alle persone, ma
è la conseguenza obbligatoria dell’aver stabilito la propria dimora abituale
nel territorio del Comune. Siffatta previsione perseguirebbe, tra l’altro, lo
scopo di rendere le persone, legalmente dimoranti nel territorio, note ai
pubblici poteri e reperibili nel luogo in cui hanno fissato la loro dimora. In
tal senso sarebbe significativo che anche le persone senza fissa dimora devono
essere registrate nell’anagrafe della popolazione residente e hanno una
residenza nel Comune dove hanno stabilito il proprio domicilio o in quello di
nascita. Sono poi richiamate le norme sull’iscrizione anagrafica degli
stranieri (art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998 e art. 15 del d.P.R. n.
394 del 1999), dalle quali sarebbe ulteriormente desumibile la natura di diritto
fondamentale dell’iscrizione anagrafica.
La difesa della parte costituita dichiara, poi, di condividere
l’assunto del Tribunale rimettente secondo cui non sarebbe praticabile
l’interpretazione della disposizione censurata (operata da alcuni giudici di
merito) che non precluda l’iscrizione anagrafica. A suo dire si tratterebbe di
una «interpretatio abrogans» che toglierebbe ogni effetto pratico alla
disposizione in esame e che contraddirebbe apertamente il contenuto della
relazione illustrativa del disegno di legge di conversione del d.l. n. 113 del
2018.
In ogni caso – aggiunge la difesa di A. H. – qualora siffatta
interpretazione «correttiva» fosse accolta da questa Corte con una pronuncia di
non fondatezza «nei sensi di cui in motivazione», «essa acquisterebbe
tutt’altra autorità».
La parte costituita argomenta, poi, la fondatezza delle censure
formulate dal rimettente per contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost. e con l’art.
117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 14 CEDU e all’art.
26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, svolgendo
argomentazioni in gran parte coincidenti con quelle del Tribunale di Milano. In
particolare, sottolinea il carattere discriminatorio del trattamento previsto
dalla norma censurata, anche rispetto agli stranieri in possesso di altri tipi
di permessi di soggiorno, tale da tradursi «in una pura e semplice “deminutio
capitis” dello straniero richiedente asilo, priva di alcuno scopo socialmente e
giuridicamente apprezzabile».
La difesa di A. H. esclude, inoltre, che il diniego di iscrizione
anagrafica possa essere giustificato in ragione della precarietà e della
temporaneità del permesso di soggiorno per richiesta di asilo, in quanto né
l’una né l’altra di queste caratteristiche è impeditiva della fissazione di una
dimora abituale nel territorio italiano.
Quanto, poi, al venir meno per i richiedenti asilo dei diritti a
prestazioni legate alla residenza, la parte costituita precisa che il diritto
ad avere la residenza nel luogo di dimora abituale spetta di per sé,
indipendentemente dai servizi territoriali cui lo straniero può essere ammesso.
La difesa della parte argomenta anche sull’asserito contrasto con
l’art. 10 Cost., che discenderebbe dall’impossibilità per lo Stato di impedire
al richiedente asilo di soggiornare legalmente nel territorio dello Stato e di
essere titolare di tutti i diritti fondamentali che discendono dal soggiorno
regolare.
Infine, la parte costituita ritiene che la norma censurata sia in
contrasto con l’art. 16 Cost., con l’art. 2 Prot. n. 4 CEDU e con l’art. 12,
paragrafo 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici,
nella parte in cui queste disposizioni riconoscono il diritto di chi si trovi
regolarmente nel territorio di uno Stato di fissarvi la residenza, attestata
dall’iscrizione anagrafica. Quella censurata sarebbe, in definitiva, «una
limitazione “per motivi politici”» (intesi come «“non gradimento” politico dei
richiedenti asilo») espressamente vietata dall’art. 16 Cost.
Peraltro, eventuali limitazioni del diritto alla residenza
dovrebbero essere stabilite nel rispetto del principio di eguaglianza di cui
all’art. 3 Cost. e di quello di non discriminazione di cui agli artt. 14 CEDU e
26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici. A tal fine,
la difesa della parte richiama il contenuto della direttiva 2013/33/UE,
sottolineando come da questa normativa si deduca che le uniche limitazioni
possibili devono concernere singole persone, per ragioni individualmente
indicate, e riguardano l’ambito territoriale in cui lo straniero può
liberamente circolare, senza quindi che sia negato il diritto di fissare la
dimora abituale.
5.– Nel giudizio di legittimità costituzionale si sono costituite,
con un unico atto, l’ASGI e l’Associazione Avvocati per Niente Onlus,
intervenute già nel procedimento principale in senso adesivo rispetto alle
domande proposte dal ricorrente, chiedendo l’accoglimento delle questioni
sollevate dal Tribunale di Milano e svolgendo argomentazioni sostanzialmente
coincidenti con quelle del rimettente e di A. H., con l’unica eccezione
dell’asserita violazione (da parte della norma censurata) dell’art. 8 CEDU e
degli artt. 1, 7, 18, 20 e 29 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo
il 12 dicembre 2007.
5.1.– A. H., l’ASGI e l’Associazione Avvocati per Niente Onlus
hanno depositato memorie integrative, contestando le affermazioni contenute
nell’atto di intervento e nella memoria del Presidente del Consiglio dei
ministri e insistendo nelle conclusioni già rassegnate nei rispettivi atti di
intervento.
6.– Con ordinanza del 29 luglio 2019, iscritta al n. 153 del
registro ordinanze 2019, il Tribunale ordinario di Ancona, prima sezione
civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale del citato art.
13, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 113 del 2018, che inserisce il
comma 1-bis all’art. 4 del d.lgs. n. 142 del 2015, per violazione degli artt.
2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 2 Prot. n. 4
CEDU e all’art. 12 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e
politici.
Il Tribunale è stato adito da un cittadino straniero, A. S., che ha
convenuto il Comune di Ancona con un’azione cautelare ai sensi dell’art. 700
cod. proc. civ., chiedendo al giudice di ordinare al Sindaco l’immediata
iscrizione del ricorrente nel registro anagrafico della popolazione residente.
Il rimettente riferisce che lo straniero è regolarmente
soggiornante in Italia dal 20 giugno 2017, in virtù di un permesso di soggiorno
per richiesta di asilo, e vive stabilmente nel Comune di Ancona dal 17 novembre
2018, nel centro di accoglienza per richiedenti asilo. Nel marzo 2019 ha
chiesto l’iscrizione anagrafica al Comune di Ancona, ma l’ufficiale di stato
civile l’ha negata in applicazione della norma censurata. Il ricorrente ritiene
il rifiuto illegittimo e comunque il divieto di iscrizione incostituzionale.
Nel giudizio a quo anche il Comune di Ancona ha eccepito, fra
l’altro, l’illegittimità costituzionale del citato art. 13, comma 1, lettera
a), numero 2).
Il Tribunale ha, in primo luogo, argomentato sulla legittimazione
passiva del Comune di Ancona, contestata dal Comune stesso in quanto l’anagrafe
sarebbe un servizio di competenza statale. Secondo il rimettente, il sindaco
risponderebbe «in proprio degli atti emessi anche nell’esercizio di poteri
statali».
Il giudice a quo si sofferma poi sul significato della disposizione
censurata, osservando che, in base ad essa, «il permesso di soggiorno per
richiedenti asilo non attesta la regolarità del soggiorno ai fini
dell’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente». Il rimettente
richiama la relazione illustrativa del d.l. n. 113 del 2018, che giustifica l’esclusione
dall’iscrizione anagrafica «per la precarietà del permesso per richiesta asilo»
e per la «necessità di definire in via preventiva la condizione giuridica del
richiedente».
Il Tribunale esamina l’interpretazione adeguatrice operata da altri
tribunali, ma ritiene che non possa essere condivisa, perché si tradurrebbe in
una «interpretazione abrogante».
Il rimettente accerta poi l’esistenza di un periculum in mora, in
quanto il divieto di iscrizione anagrafica impedirebbe medio tempore
l’esercizio di diritti non ristorabili per equivalente all’esito di un
eventuale giudizio di merito che stabilisse l’illegittimità del diniego. In
particolare, il giudice a quo fa riferimento all’impossibilità per il
ricorrente di accettare un’offerta lavorativa (che presuppone l’apertura di una
partita Iva e il conseguimento della patente di guida, che a loro volta
richiedono l’iscrizione anagrafica), all’impossibilità di stipulare contratti
di lavoro occasionale e alla mancata decorrenza del termine di dieci anni per l’ottenimento
della cittadinanza italiana.
Quanto alla rilevanza della questione di costituzionalità, il
giudice a quo mette in evidenza che il rifiuto di iscrizione anagrafica si
fonda sulla norma censurata e richiama la giurisprudenza amministrativa e costituzionale
secondo la quale la questione di costituzionalità sollevata nella fase
cautelare è ammissibile quando la misura cautelare è stata concessa in via
provvisoria, prevedendosi la ripresa del giudizio cautelare dopo la decisione
della Corte costituzionale: ciò varrebbe sia per la tutela cautelare sospensiva
sia per quella anticipatoria richiesta nel caso di specie.
Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente lamenta la
violazione degli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost.
Secondo il giudice a quo, la residenza sarebbe «una situazione di
fatto» che esiste a prescindere dall’iscrizione anagrafica. Questa avrebbe
valore di pubblicità e permetterebbe di fornire la prova della residenza ai
fini dell’esercizio di diversi diritti.
La precarietà del soggiorno del richiedente asilo non sarebbe una
giustificazione sufficiente della norma in questione, perché il soggiorno del
richiedente asilo non è di breve durata. L’accertamento dei presupposti della
protezione internazionale richiederebbe un tempo (sempre più di un anno) di
gran lunga superiore a quello necessario per definire la dimora come abituale.
Quanto all’art. 2 Cost., secondo il rimettente l’impossibilità per
lo straniero richiedente asilo di ottenere la certificazione anagrafica in
ordine alla sua dimora abituale comporterebbe «una condizione di minorazione
generale della sua persona la quale si vede impossibilitata a dare prova di una
condizione di fatto esistente (la dimora abituale)». Tale limite si tradurrebbe
«in una preclusione all’accesso a tutti quei diritti, facoltà e servizi che
elevano tale prova a requisito costitutivo, interponendo quindi seri ostacoli
allo sviluppo della persona come singolo e nelle formazioni sociali».
L’art. 3 Cost. sarebbe violato sia sotto il profilo della
ragionevolezza sia sotto quello dell’uguaglianza.
Quanto al primo aspetto, la norma censurata, al solo fine di
impedire l’iscrizione anagrafica, avrebbe privato il permesso di soggiorno
«della sua ontologica natura ovvero della sua capacità di provare la legittima
permanenza sul territorio nazionale». Tale differenziazione non potrebbe
giustificarsi con la «precarietà della condizione giuridica dello straniero»,
in quanto tale precarietà non corrisponderebbe ad un soggiorno di breve durata.
Inoltre, la soluzione adottata dal legislatore sarebbe
«sproporzionata rispetto al fine: il legislatore avrebbe dovuto selezionare i
diritti ed i servizi rispetto ai quali si legittima una preclusione all’accesso
da parte del richiedente asilo e non anche precludere indiscriminatamente ogni
facoltà – in ambito pubblico e privato – che si riconnette al possesso della
residenza anagrafica, etichettando il soggiorno del richiedente asilo come
“soggiorno irregolare” solo a taluni fini». Il carattere sproporzionato della norma
sarebbe confermato da una contraddizione in cui sarebbe caduto lo stesso
legislatore: da un lato, infatti, il legislatore avrebbe previsto che il
permesso di soggiorno per richiesta asilo consente di svolgere un’attività
lavorativa (art. 22 del d.lgs. n. 142 del 2015), dall’altro, precludendo
l’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente, avrebbe impedito al
titolare di tale permesso di soggiorno «di interloquire con l’ente deputato
alla gestione ed alla ricerca di occasioni lavorative».
Quanto al secondo aspetto, la norma censurata discriminerebbe in
modo non giustificato il richiedente asilo, pur abitualmente dimorante,
rispetto al cittadino italiano e soprattutto rispetto allo straniero
regolarmente soggiornante con altro titolo.
Infine, la norma in questione violerebbe l’art. 117, primo comma,
Cost., in relazione all’art. 2 Prot. n. 4 CEDU, nonché all’art. 12 del Patto
internazionale relativo ai diritti civili e politici.
7.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o infondate
e riprendendo le considerazioni già svolte nel giudizio promosso dal Tribunale
di Milano.
8.– Nel giudizio di legittimità costituzionale si è costituito A.
S., ricorrente nel giudizio a quo.
La parte argomenta, in primo luogo, la violazione dell’art. 2
Cost., rilevando che, in presenza di certe condizioni, la persona ha un diritto
soggettivo all’iscrizione anagrafica e che la preclusione di tale iscrizione
produce diverse conseguenze sulla vita del singolo, ponendolo in una
«condizione di marginalizzazione» e ostacolando il suo processo di
integrazione. La transitorietà della condizione giuridica del richiedente asilo
non dovrebbe essere confusa con una condizione di «instabilità residenziale».
Il divieto generalizzato di iscrizione anagrafica violerebbe dunque l’art. 2
Cost.
Inoltre, la norma censurata violerebbe l’art. 117, primo comma,
Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, all’art. 2 Prot. n. 4 CEDU e all’art. 12
del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.
Ancora, la norma censurata violerebbe i principi di uguaglianza e
ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. La situazione del richiedente asilo
sarebbe assimilabile a quella degli altri stranieri titolari di un diverso
permesso di soggiorno. La norma censurata porrebbe un divieto generalizzato di
iscrizione anagrafica che «prescinde totalmente dall’effettiva durata della
permanenza in Italia del richiedente», mentre altri permessi di soggiorno, pur
avendo una durata limitata, consentono l’iscrizione anagrafica. Inoltre, la
norma de qua sarebbe incongrua e contraddittoria rispetto «alla complessiva
disciplina della residenza anagrafica e della protezione internazionale»: il
divieto di iscrizione anagrafica avrebbe una finalità dissuasiva dell’accesso
alla procedura di protezione e verrebbe posto inoltre con una norma
giuridicamente incomprensibile, perché l’iscrizione anagrafica non consegue all’esibizione
di un “titolo” ma alla sussistenza di determinate condizioni.
9.– Con due ordinanze del 9 agosto 2019, iscritte ai numeri 158 e
159 del registro ordinanze del 2019, il Tribunale ordinario di Salerno, sezione
civile feriale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art.
4, comma 1-bis, del d.lgs. n. 142 del 2015, introdotto dall’art. 13, comma 1,
lettera a), numero 2), del d.l. n. 113 del 2018, per violazione degli artt. 2,
3 e 16 Cost.
Il Tribunale è stato adito da due cittadini stranieri che hanno
convenuto il Comune di Capaccio Paestum con azioni cautelari ai sensi dell’art.
700 cod. proc. civ., chiedendo al giudice di ordinare al Sindaco l’immediata
iscrizione dei ricorrenti nel registro anagrafico della popolazione residente.
Il rimettente riferisce che gli stranieri sono regolarmente
soggiornanti in Italia, rispettivamente, dal 14 agosto e dal 19 novembre 2018,
in virtù di permessi di soggiorno per richiesta di asilo, e che il 15 aprile
2019 hanno chiesto l’iscrizione anagrafica al Comune di Capaccio Paestum, ma
l’ufficiale di stato civile l’ha negata in virtù della norma censurata. I
ricorrenti ritengono il rifiuto illegittimo in quanto la norma censurata
avrebbe solo abolito la procedura semplificata di iscrizione anagrafica
prevista dall’abrogato art. 5-bis del d.lgs. n. 142 del 2015.
Argomentando sul fumus boni juris, il giudice a quo rileva che,
secondo la Corte
di cassazione, le controversie in materia di iscrizione anagrafica attengono a
diritti soggettivi e rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario. Il
potere dell’ufficiale d’anagrafe sarebbe limitato all’accertamento dei
presupposti dell’iscrizione, con un’attività di tipo vincolato, inidonea a
degradare i diritti soggettivi.
Secondo il rimettente, il diritto dello straniero all’iscrizione
anagrafica risulterebbe dall’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998, in
base al quale «[l]e iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero
regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini
italiani con le modalità previste dal regolamento di attuazione». Dunque, i
presupposti del diritto dello straniero all’iscrizione anagrafica sarebbero
due: la regolarità del soggiorno in Italia e la dimora abituale nel comune, e
nel caso di specie il ricorrente sarebbe ospite da più di tre mesi di un centro
di accoglienza. Però, secondo il Comune a tale disciplina avrebbe derogato
l’art. 4, comma 1-bis, del d.lgs. n. 142 del 2015, come introdotto dall’art.
13, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 113 del 2018.
Il giudice a quo non condivide l’interpretazione adeguatrice di
tale disposizione (secondo la quale essa avrebbe solo abolito la procedura
semplificata di iscrizione anagrafica del richiedente asilo), seguita da alcuni
giudici di merito e posta alla base delle domande cautelari, in quanto essa
renderebbe la disposizione stessa inutile, assegnando a una norma derogatoria
lo stesso significato della regola generale (secondo la quale il permesso di
soggiorno non è sufficiente per l’iscrizione anagrafica, occorrendo anche la
residenza). Inoltre, la procedura semplificata di iscrizione anagrafica sarebbe
stata abrogata dall’art. 13, comma 1, lettera c), del d.l. n. 113 del 2018.
Ancora, l’interpretazione adeguatrice sarebbe smentita dai lavori preparatori,
che parlano di «esclusione dall’iscrizione anagrafica».
La disposizione censurata dovrebbe invece essere intesa nel senso
che, poiché il permesso di soggiorno «non costituisce titolo per l’iscrizione
anagrafica», viene a mancare il primo presupposto di essa, cioè la regolarità
del soggiorno: il permesso di soggiorno per richiedenti asilo, a differenza
degli altri permessi, non integrerebbe la condizione del soggiorno regolare ai
fini dell’iscrizione anagrafica. Il richiedente asilo sarebbe autorizzato a
rimanere in Italia, ma non avrebbe diritto all’iscrizione.
Così intesa, la disposizione censurata violerebbe i «diritti umani
fondamentali tutelati dall’art. 2 Cost. (l’accesso all’assistenza sociale e la
concessione di eventuali sussidi o agevolazioni previste dal Comune, come
quelle basate sulle condizioni di reddito; il conseguimento della patente di
guida italiana […])», il «principio di uguaglianza (art. 3), per
l’irragionevole trattamento rispetto allo straniero regolarmente soggiornante
ad altro titolo», e la «libertà di soggiorno (art. 16), per l’esclusione dello
straniero avente diritto ad una definizione della sua domanda di protezione
internazionale da una regolare condizione anagrafica».
Il giudice a quo argomenta poi sulla rilevanza delle questioni di
legittimità costituzionale ai fini della definizione dei giudizi cautelari.
Infine, il rimettente, ritenuto di non poter ordinare al Comune
l’iscrizione anagrafica, in ragione del divieto di cui all’art. 4 della legge
20 marzo 1865, n. 2248 (Legge sul contenzioso amministrativo. All. E),
«dichiara, in via provvisoria e fino alla ripresa del giudizio cautelare dopo
l’incidente di legittimità costituzionale, la sussistenza del diritto» dei due
ricorrenti all’iscrizione anagrafica presso il Comune di Capaccio Paestum.
10.– Anche in questi due giudizi è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o infondate
e riprendendo – in riferimento alla lamentata violazione degli artt. 2 e 3
Cost. – le considerazioni già svolte nel giudizio promosso dal Tribunale di
Milano.
Sulla violazione dell’art. 16 Cost., l’Avvocatura ritiene la
questione inammissibile, «non ravvisandosi, nell’ordinanza di rimessione,
argomentazioni in base alle quali sia possibile comprendere per quali ragioni
il Tribunale di Salerno ritenga che la mancata iscrizione nei registri
anagrafici limiti la libertà di soggiorno del richiedente asilo».
La questione sarebbe comunque infondata, sia perché la situazione
del richiedente asilo non sarebbe assimilabile a quella del cittadino, al quale
fa riferimento l’art. 16 Cost., sia perché la limitazione della libertà di
circolazione del richiedente asilo, possibile solo nelle ipotesi particolari
previste dalla legge (d.lgs. n. 142 del 2015), prescinderebbe dalla iscrizione
o meno nei registri anagrafici.
11.– L’Avvocatura generale dello Stato ha depositato due memorie
integrative nei giudizi reg. ord. n. 145 e n. 153 del 2019. In esse ha ribadito
l’infondatezza della questione riferita all’art. 77 Cost., osservando che già
la sentenza di questa Corte n. 194 del 2019 avrebbe riconosciuto la
legittimità, sotto questo profilo, dell’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018.
Inoltre, l’Avvocatura rileva che, essendo lo status del richiedente asilo
precario, mancherebbe l’abitualità della sua dimora, «una volta eliminata la
fictio juris […] della dimora abituale connessa alla ospitalità da più di tre
mesi presso un centro di accoglienza (art. 5, co. 3, d.lgs. 142/15)».
Dopo aver svolto alcune considerazioni sul permesso di soggiorno
per ragioni umanitarie, la difesa erariale si sofferma sulla asserita
violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., osservando che l’art. 2 del Prot.
n. 4 CEDU e l’art. 12 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e
politici riconoscono il diritto di fissare la residenza in uno Stato solo a chi
vi si trovi legalmente, cosicché tali norme non potrebbero essere richiamate in
relazione all’art. 13, che regola «la condizione dello straniero nel tempo
necessario per l’accertamento di quella legalità».
Ancora, l’Avvocatura ricorda che l’accesso ai servizi è garantito
ai richiedenti asilo nel luogo del domicilio, per cui le regioni dovranno
semplicemente adattare le proprie norme al nuovo sistema, con la conseguenza
che «quello della residenza/domicilio» sarebbe «un falso problema».
In conclusione, la residenza anagrafica non sarebbe un diritto
fondamentale e l’iscrizione anagrafica sarebbe «un adempimento amministrativo
di per sé non condizionante alcun diritto fondamentale del richiedente asilo».
1.– I Tribunali ordinari di Milano, sezione prima (reg. ord. 145
del 2019), Ancona, sezione prima (reg. ord. n. 153 del 2019) e Salerno, sezione
civile feriale (reg. ord. n. 158 e n. 159 del 2019), hanno sollevato questioni
di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1-bis, del decreto legislativo
18 agosto 2015, n. 142 (Attuazione della direttiva 2013/33/UE recante norme
relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, nonché
della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento
e della revoca dello status di protezione internazionale), introdotto dall’art.
13, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113
(Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione,
sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero
dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per
l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla
criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 1°
dicembre 2018, n. 132, per violazione complessivamente degli artt. 2, 3, 10,
16, 77, secondo comma, 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in
relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, all’art. 2,
paragrafo 1, del Protocollo n. 4 della CEDU, adottato a Strasburgo il 16
settembre 1963 e reso esecutivo con il d.P.R. 14 aprile 1982, n. 217, che
riconosce taluni diritti e libertà diversi da quelli che figurano già nella
convenzione e nel suo primo protocollo addizionale, nonché in riferimento agli
artt. 12 e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici,
adottato a New York il 16 dicembre 1966, entrato in vigore il 23 marzo 1976, ratificato
e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881.
I Tribunali rimettenti sono stati aditi da stranieri richiedenti
asilo cui è stata negata l’iscrizione anagrafica. I ricorsi introduttivi dei
giudizi davanti ai Tribunali di Ancona e di Salerno sono stati proposti ex art.
700 del codice di procedura civile. Quello dinanzi al Tribunale di Milano è
stato promosso con ricorso ex art. 28 del decreto legislativo 1° settembre
2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia
di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi
dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), ed ex art. 44 del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti
la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero),
nonché ex art. 702-bis cod. proc. civ.
I giudizi davanti ai Tribunali di Ancona e di Salerno sono dunque
procedimenti cautelari promossi sul presupposto del pregiudizio grave e
irreparabile che potrebbe derivare al ricorrente dal diniego di iscrizione
anagrafica (conseguente all’applicazione della norma censurata), in attesa
della decisione di merito. In questi giudizi i rimettenti hanno concesso la
misura cautelare «con riserva di confermare il provvedimento o caducarlo,
ordinando quindi la cancellazione dell’iscrizione, all’esito del giudizio di
costituzionalità» (in questi termini, il Tribunale di Ancona).
Il giudizio davanti al Tribunale di Milano è un procedimento
sommario di cognizione promosso per chiedere, «previo occorrendo rinvio alla
Corte Costituzionale, la dichiarazione di invalidità e l’accertamento del
carattere discriminatorio del rifiuto opposto dal Comune di Milano alla
iscrizione del ricorrente nell’anagrafe della popolazione residente».
1.1.– Le quattro ordinanze di rimessione solo formalmente censurano
disposizioni diverse (art. 4, comma 1-bis, del d.lgs. n. 142 del 2015 e art.
13, comma 1, lettera a, numero 2, del d.l. n. 113 del 2018). Pertanto, in
ragione della identità del petitum, si rende opportuna la loro trattazione
congiunta (ex plurimis, sentenze n. 99 e n. 79 del 2020). I relativi giudizi
vanno perciò riuniti, per essere decisi con un’unica sentenza.
1.2.– In via ulteriormente preliminare, deve essere dichiarata l’inammissibilità
delle deduzioni svolte dalla difesa delle associazioni ASGI-Associazione per
gli studi giuridici sull’immigrazione e Avvocati per Niente Onlus, costituite
nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 145 del 2019, dirette ad estendere il
thema decidendum – come fissato nella ordinanza di rimessione – alla violazione
dell’art. 8 CEDU e degli artt. 1, 7, 18, 20, 29 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000
e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. Per costante giurisprudenza di
questa Corte, l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via
incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle
ordinanze di rimessione. Pertanto, non possono essere presi in considerazione
«ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia che
siano stati eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano
diretti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse
ordinanze (ex plurimis, sentenze n. 271 del 2011, n. 236 del 2009, n. 56 del
2009, n. 86 del 2008)» (sentenza n. 203 del 2016; nello stesso senso, sentenze
n. 165, n. 150 e n. 85 del 2020).
2.– Prima di esaminare le censure prospettate, si impone una
ricostruzione del quadro normativo, anche al fine di chiarire il significato
della disposizione censurata.
2.1.– L’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018 ha apportato una serie di
modifiche agli artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 142 del 2015 e ha disposto
l’abrogazione del successivo art. 5-bis. In particolare, l’art. 13 si compone
di un solo comma, articolato, al suo interno, in tre lettere (a, b e c).
La lettera a) modifica l’art. 4 del d.lgs. n. 142 del 2015 e reca
due disposizioni (contraddistinte dai numeri 1 e 2): con la prima al comma 1
del citato art. 4 è aggiunto il seguente periodo (non censurato dagli odierni
rimettenti): «Il permesso di soggiorno costituisce documento di riconoscimento
ai sensi dell’articolo 1, comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della
Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445»; con la seconda è inserito, dopo il comma
1 del citato art. 4, il comma 1-bis (censurato da tutti i rimettenti) del
seguente tenore: «1-bis. Il permesso di soggiorno di cui al comma 1 non
costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del
Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e dell’articolo 6, comma 7,
del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286».
La lettera b) modifica l’art. 5 del d.lgs. n. 142 del 2015 e reca
due disposizioni (contraddistinte dai numeri 1 e 2), entrambe non censurate
dagli odierni rimettenti: con la prima è così sostituito il comma 3 del citato
art. 5: «3. L’accesso ai servizi previsti dal presente decreto e a quelli
comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti è assicurato nel
luogo di domicilio individuato ai sensi dei commi 1 e 2»; con la seconda è così
modificato il comma 4 del citato art. 5: «le parole “un luogo di residenza”
sono sostituite dalle seguenti: “un luogo di domicilio”».
Infine, la lettera c) (anch’essa non censurata) dispone
l’abrogazione dell’art. 5-bis del d.lgs. n. 142 del 2015, che disciplinava le
modalità di iscrizione anagrafica del richiedente protezione internazionale.
2.2.– La disposizione censurata, in base alla quale «[i]l permesso
di soggiorno di cui al comma 1 non costituisce titolo per l’iscrizione
anagrafica […]», è stata oggetto di due opposte interpretazioni.
2.2.1.– A fronte dell’interpretazione fatta propria dagli odierni
rimettenti che sostengono – almeno in via principale (così il Tribunale di
Milano) – l’effetto preclusivo dell’iscrizione anagrafica e, su questo assunto,
argomentano sull’illegittimità costituzionale della disposizione de qua, si
registra una diversa opzione interpretativa (sostenuta, tra i primi, da: Tribunale
di Firenze, sezione quarta civile, ordinanza 18 marzo 2019; Tribunale di
Bologna, protezione internazionale civile, ordinanza 2 maggio 2019; Tribunale
di Genova, sezione undicesima civile, ordinanza 20 maggio 2019; Tribunale di
Firenze, sezione specializzata per l’immigrazione, la protezione internazionale
e la libera circolazione dei cittadini UE, ordinanza 27 maggio 2019; Tribunale
di Lecce, sezione prima civile, ordinanza 4 luglio 2019; Tribunale di Parma,
sezione prima civile, ordinanza 2 agosto 2019; Tribunale di Bologna, sezione
specializzata per l’immigrazione, la protezione internazionale e la libera
circolazione dei cittadini UE, ordinanza 23 settembre 2019; Tribunale di
Firenze, sezione quarta civile, ordinanza 22 novembre 2019; Tribunale di Roma,
sezione diritti della persona e immigrazione civile, ordinanza 25 novembre
2019), che, facendo leva sull’asserita ambiguità del dato letterale (e in
particolare sulla formula «non costituisce titolo»), esclude che l’art. 13 del
d.l. n. 113 del 2018 impedisca l’iscrizione anagrafica, dovendosi piuttosto
ritenere che esso si limiti a precisare che il possesso del solo permesso di
soggiorno per richiesta di asilo non è sufficiente per ottenere l’iscrizione
all’anagrafe.
In particolare, i passaggi fondamentali di questo percorso
interpretativo sono i seguenti: la norma non contiene un divieto esplicito di
iscrizione anagrafica; nell’ordinamento non si rinvengono documenti che
«costituiscono titolo» per l’iscrizione anagrafica; tale iscrizione è,
piuttosto, l’esito di un procedimento amministrativo diretto ad accertare una
situazione di fatto; esiste un diritto soggettivo all’iscrizione anagrafica
(fra le tante, Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 26 maggio
1997, n. 4674, e 19 giugno 2000, n. 449), disciplinato dall’art. 1 del d.P.R.
30 maggio 1989, n. 223 (Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della
popolazione residente); il diritto all’iscrizione anagrafica è esercitato
attraverso una dichiarazione dell’interessato all’ufficiale di stato civile,
con cui si dà atto della propria permanenza in un certo luogo e dell’intenzione
di abitarvi stabilmente; nel quadro normativo delineato (e così interpretato)
si inserisce, coerentemente, l’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998,
secondo cui: «Le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero
regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei
cittadini italiani con le modalità previste dal regolamento di attuazione […]»;
il permesso di soggiorno per richiesta di asilo – ma la stessa cosa può dirsi
per gli altri permessi di soggiorno – non è mai stato «titolo» per l’iscrizione
anagrafica; l’abrogazione dell’art. 5-bis del d.lgs. n. 142 del 2015 ha come
effetto solo quello di eliminare la modalità di iscrizione “semplificata” ivi
prevista e di far riespandere le modalità ordinarie di iscrizione anagrafica
(previste dal d.P.R. n. 223 del 1989); infine, la previsione secondo cui
«[l]’accesso ai servizi previsti dal presente decreto e a quelli comunque
erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti è assicurato nel luogo di
domicilio […]» non può supplire alla limitazione dei diritti individuali
connessi alla residenza anagrafica.
2.2.2.– La descritta interpretazione non appare praticabile per le
ragioni di seguito indicate, dovendosi invece ritenere, come sostenuto dai
giudici rimettenti, che la disposizione censurata precluda l’iscrizione
anagrafica degli stranieri richiedenti asilo.
Innanzitutto, depone in tale senso quanto riportato nella relazione
illustrativa del decreto-legge e, negli stessi termini, in quella illustrativa
del disegno di legge di sua conversione. In questi documenti si legge, tra
l’altro, che il «permesso di soggiorno per richiesta asilo non consente
l’iscrizione anagrafica dei residenti» e che «[l]’esclusione dall’iscrizione
anagrafica si giustifica per la precarietà del permesso per richiesta asilo e
risponde alla necessità di definire preventivamente la condizione giuridica del
richiedente». In questo modo, del resto, la disposizione è stata letta anche
dai vari soggetti auditi nel corso del procedimento di conversione in legge del
decreto, come risulta dalle loro relazioni. In particolare, va segnalato quanto
affermato dal direttore dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), secondo
cui «[i]l cambiamento normativo comporterà comunque un’interruzione nella serie
storica della popolazione residente, portando in alcuni casi, specie a livello
locale, variazioni non trascurabili del totale della popolazione residente», e
dal Ministro dell’interno, che, a fronte della «difficoltà per le
amministrazioni comunali di far fronte agli adempimenti in materia di
iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo residenti sui loro territori», ha
individuato nella «precarietà della loro permanenza sul territorio» la ragione
dell’esclusione dell’iscrizione anagrafica.
Coerenti con queste premesse appaiono alcune circolari diramate dal
Ministero dell’interno dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, tra
le quali quella del 18 ottobre 2018, recante «D.L. 4 ottobre 2018, n. 113 (G.U.
n. 231 del 4/10/2018). Art. 13 (Disposizioni in materia di iscrizione
anagrafica)», in cui si legge: «[p]ertanto, dall’entrata in vigore delle nuove
disposizioni il permesso di soggiorno per richiesta di protezione internazionale
di cui all’art. 4, comma 1, del citato d.lgs. n. 142/2015, non potrà consentire
l’iscrizione anagrafica», e quella del 18 dicembre 2018 (Decreto-legge 4
ottobre 2018, n. 113, recante “Disposizioni urgenti in materia di protezione
internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la
funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento
dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni
sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”, convertito, con
modificazioni, dalla legge 1° dicembre 2018, n. 132), nella quale si legge:
«[d]i conseguenza, ai richiedenti asilo – che, peraltro, non saranno più
iscritti all’anagrafe dei residenti (articolo 13) – vengono dedicate le
strutture di prima accoglienza (CARA e CAS), all’interno delle quali
permangono, come nel passato, fino alla definizione del loro status».
È inoltre significativo il dato letterale delle disposizioni
introdotte con l’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018, che puntano a sostituire il
riferimento al luogo di residenza con quello al luogo di domicilio e di
conseguenza abrogano non solo la disposizione che regola la speciale modalità
di iscrizione anagrafica, ma la stessa previsione dell’iscrizione anagrafica
(art. 5-bis, comma 1, del d.lgs. n. 142 del 2015); modifica, quest’ultima in
particolare, che sarebbe priva di senso se la disposizione censurata intendesse
solo abrogare la modalità semplificata di iscrizione anagrafica, facendo
“riespandere” la modalità ordinaria.
Anche la lettura sistematica della disposizione censurata conferma
questa interpretazione. In particolare, il riferimento, in essa contenuto,
all’art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998 (che, come detto, prevede
l’iscrizione anagrafica dello straniero regolarmente soggiornante «alle
medesime condizioni dei cittadini italiani») deve ritenersi operato al fine di
dare atto della deroga così introdotta alla previsione della disposizione
richiamata. Inoltre, avere previsto che «[i]l permesso di soggiorno costituisce
documento di riconoscimento […]» (art. 13, comma 1, lettera a, numero 1) si
spiega solo considerando che i richiedenti asilo non possono ottenere la carta
d’identità che presuppone la residenza anagrafica. Analogamente, le
disposizioni di cui all’art. 13, comma 1, lettera b), numeri 1) e 2), del d.l.
n. 113 del 2018, sostituendo il «luogo di residenza» con quello di domicilio
come luogo di erogazione dei servizi, confermano l’intento del legislatore di
escludere i richiedenti asilo dal riconoscimento giuridico della dimora
abituale operato per il tramite dell’iscrizione anagrafica.
In definitiva, l’opzione interpretativa seguita dai Tribunali
rimettenti appare confermata dalle considerazioni appena esposte. Si può quindi
procedere all’esame delle singole censure prospettate.
3.– Per ragioni di ordine logico, va considerata per prima la
questione sollevata dal Tribunale ordinario di Milano, prima sezione civile,
con riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost., in quanto attiene ai
presupposti del corretto esercizio della funzione legislativa (sentenze n. 288
e n. 247 del 2019, n. 189 del 2018 e n. 169 del 2017).
Nel proprio atto di intervento, il Presidente del Consiglio dei
ministri ha eccepito l’inammissibilità della questione, «in quanto già decisa
dalla Corte nel senso dell’infondatezza» con la sentenza n. 194 del 2019.
Tale eccezione non è fondata, per due ragioni: in primo luogo, la
sentenza n. 194 del 2019 ha, sì, deciso varie questioni proposte in via
principale contro il d.l. n. 113 del 2018, ma non è entrata nel merito,
dichiarando l’inammissibilità di tutte le questioni; in secondo luogo, è
pacifico che una precedente dichiarazione di infondatezza non è causa di
inammissibilità della questione riproposta ma può, eventualmente, condurre a
una dichiarazione di manifesta infondatezza (ex multis, sentenze n. 44 del 2020
e n. 99 del 2017).
3.1.– Nel merito, la questione non è fondata.
Secondo questa Corte, «il sindacato sulla legittimità
dell’adozione, da parte del Governo, di un decreto-legge va limitato ai casi di
evidente mancanza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza
richiesti dall’art. 77, secondo comma, Cost., o di manifesta irragionevolezza o
arbitrarietà della loro valutazione» (sentenza n. 97 del 2019; in senso simile,
sentenze n. 288 e n. 33 del 2019 e n. 137, n. 99 e n. 5 del 2018): ciò al fine
di evitare la sovrapposizione tra la valutazione politica del Governo e delle
Camere (in sede di conversione) e il controllo di legittimità costituzionale
della Corte.
In particolare, nei casi in cui questa Corte è stata chiamata a
valutare la conformità di una delle norme del decreto-legge (come nel caso di
specie) all’art. 77, secondo comma, Cost., essa ha svolto il proprio giudizio
in base a diversi criteri, quali: a) coerenza della norma rispetto al titolo
del decreto e al suo preambolo (ad esempio, sentenze n. 288 e n. 33 del 2019,
n. 137 del 2018); b) omogeneità contenutistica o funzionale della norma
rispetto al resto del decreto-legge (ex plurimis, sentenze n. 149 del 2020, n.
97 del 2019 e n. 137 del 2018); c) utilizzo dei lavori preparatori (ad esempio,
sentenze n. 288 del 2019, n. 99 e n. 5 del 2018); d) carattere ordinamentale o
di riforma della norma (ad esempio, sentenze n. 33 del 2019, n. 99 del 2018 e
n. 220 del 2013).
Il d.l. n. 113 del 2018, intitolato «Disposizioni urgenti in
materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché
misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il
funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione
dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata», si articola in
quattro titoli: il primo (nel quale è inserito l’art. 13) contiene
«Disposizioni in materia di rilascio di speciali permessi di soggiorno temporanei
per esigenze di carattere umanitario nonché in materia di protezione
internazionale e di immigrazione» ed è articolato a sua volta in quattro Capi,
il secondo dei quali comprende le «Disposizioni in materia di protezione
internazionale», fra le quali l’art. 13. Tale Capo, fra l’altro, modifica la
disciplina relativa al diniego, alla revoca e alla cessazione della protezione
internazionale, regola i casi di reiterazione della domanda di protezione
internazionale, novella le disposizioni relative all’accoglienza dei
richiedenti asilo.
La relazione illustrativa del disegno di legge di conversione (A.S.
n. 840, comunicato alla Presidenza del Senato il 4 ottobre 2018) fa riferimento
all’urgenza di intervenire «nell’ambito di una complessa azione riorganizzativa,
concernente il sistema di riconoscimento della protezione internazionale e le
forme di tutela complementare, finalizzata in ultima istanza a una più
efficiente ed efficace gestione del fenomeno migratorio nonché ad introdurre
misure di contrasto al possibile ricorso strumentale alla domanda di protezione
internazionale». Con specifico riferimento all’art. 13, nella stessa relazione
si legge che «[l]’esclusione dall’iscrizione anagrafica si giustifica per la
precarietà del permesso per richiesta asilo e risponde alla necessità di
definire preventivamente la condizione giuridica del richiedente».
Rinviando al punto successivo ogni valutazione sul contenuto della
norma censurata, si deve ritenere che con riferimento ad essa non sia
riscontrabile un’evidente mancanza dei presupposti di straordinaria necessità e
urgenza. L’art. 13 si inserisce in modo omogeneo nel capo contenente le norme
in materia di protezione internazionale, riguardando un aspetto dello status
dei richiedenti asilo: questa Corte, nella sentenza n. 194 del 2019, ha già
ricondotto la norma sul divieto di iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo
alle materie del «diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di
Stati non appartenenti all’Unione europea», oltre che delle «anagrafi» (art.
117, secondo comma, lettere a e i, Cost.). Non a caso, nel suo parere del 14
novembre 2018 il Comitato per la legislazione, pur esprimendo dubbi
sull’omogeneità di alcune delle norme inserite nel d.l. n. 113 del 2018, non
formulava rilievi sull’art. 13.
Né si può affermare che il Governo abbia deciso di modificare con
decreto-legge il sistema di riconoscimento della protezione internazionale, al
fine di una più efficiente ed efficace gestione del fenomeno migratorio,
nonostante un’evidente assenza di necessità e urgenza: di fronte al massiccio
afflusso dei richiedenti asilo e ai complessi problemi inerenti alla sua
gestione, non si può considerare manifestamente arbitraria la valutazione del
Governo sull’esistenza dei presupposti del decreto-legge. Se è vero che l’art.
13 e le norme collegate non affrontano una nuova emergenza, è anche vero che la
persistenza di un problema può concretare le ragioni di urgenza e che,
«ricorrendone i presupposti, il programma di Governo ben può essere attuato
anche mediante la decretazione d’urgenza» (sentenza n. 288 del 2019).
Per il tipo di sindacato che questa Corte svolge sul rispetto
dell’art. 77, secondo comma, Cost., la norma censurata supera dunque indenne il
vaglio di costituzionalità, sotto questo profilo.
4.– Passando agli altri parametri costituzionali asseritamente
violati, i giudici a quibus ritengono innanzitutto che la norma censurata si
ponga in contrasto con l’art. 3 Cost. sotto molteplici profili, sostanzialmente
perché introdurrebbe una deroga, priva dei «requisiti di razionalità e
ragionevolezza», alla disciplina più volte richiamata dell’art. 6, comma 7, del
d.lgs. n. 286 del 1998.
Le questioni di legittimità costituzionale sollevate da tutti i
rimettenti in riferimento all’art. 3 Cost. sono fondate.
4.1.– Sono innanzitutto meritevoli di accoglimento le censure
prospettate per l’irrazionalità intrinseca della disposizione censurata, in
ragione della sua incoerenza rispetto alle finalità perseguite dal d.l. n. 113
del 2018.
Come si è visto dalla ricostruzione della ratio della norma in
esame, il legislatore avrebbe inteso liberare le amministrazioni comunali, sul
cui territorio sono situati i centri di accoglienza degli stranieri richiedenti
asilo, dall’onere di far fronte agli adempimenti in materia di iscrizione
anagrafica degli stessi. Da questo punto di vista, la precarietà della loro
permanenza sul territorio è stata ritenuta argomento idoneo a giustificare
l’esclusione dell’iscrizione anagrafica.
Così provvedendo, tuttavia, il legislatore contraddice la ratio
complessiva del decreto-legge al cui interno si colloca la disposizione
denunciata. Infatti, a dispetto del dichiarato obiettivo dell’intervento
normativo di aumentare il livello di sicurezza pubblica, la norma in esame,
impedendo l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, finisce con il
limitare le capacità di controllo e monitoraggio dell’autorità pubblica sulla
popolazione effettivamente residente sul suo territorio, escludendo da essa una
categoria di persone, gli stranieri richiedenti asilo, regolarmente
soggiornanti nel territorio italiano. E ciò senza che questa esclusione possa
ragionevolmente giustificarsi alla luce degli obblighi di registrazione della
popolazione residente.
Pur non potendosi negare che sui comuni interessati gravi un onere
ulteriore (rispetto a quello gravante sugli altri comuni) connesso al disbrigo
delle pratiche relative alla registrazione anagrafica dei richiedenti asilo,
questa considerazione non può giustificare la “sottrazione” di una categoria di
soggetti alla “presa d’atto” formale della presenza (qualificata in termini di
dimora abituale) di una persona; “presa d’atto” nella quale si sostanzia
l’iscrizione anagrafica. In tal senso, non si può sottacere che i moderni
sistemi di anagrafe trovano fondamento proprio in un’esigenza di registrazione
amministrativa della popolazione residente. Tale registrazione della situazione
effettiva dei residenti nel territorio comunale costituisce il presupposto
necessario per l’adeguato esercizio di tutte le funzioni affidate alla pubblica
amministrazione, da quelle di sicurezza e ordine pubblico, appunto, a quelle
sanitarie, da quelle di regolazione e controllo degli insediamenti abitativi
all’erogazione di servizi pubblici, e via dicendo.
Escludendo dalla registrazione anagrafica persone che invece
risiedono sul territorio comunale, la norma censurata accresce, anziché
ridurre, i problemi connessi al monitoraggio degli stranieri che soggiornano
regolarmente nel territorio statale anche per lungo tempo, in attesa della
decisione sulla loro richiesta di asilo, finendo per questo verso col rendere
problematica, anziché semplificare, la loro stessa individuazione a tutti i
fini, compresi quelli che attengono alle vicende connesse alla procedura di
asilo. Si deve considerare inoltre che il diniego di iscrizione anagrafica
sottrae i richiedenti asilo alla diretta conoscibilità da parte dei comuni –
con conseguenze tanto più gravi a seguito dell’informatizzazione di dati e
procedure – della loro permanenza sul territorio, stante l’obbligo di
comunicare il proprio domicilio solo alla questura competente (art. 5, comma 1,
d.lgs. n. 142 del 2015).
Né può essere fatto valere in senso contrario – come fa
l’Avvocatura dello Stato e, ancora prima, il Governo in occasione della conversione
in legge del decreto – l’argomento della precarietà della permanenza legale sul
territorio dei richiedenti asilo, in particolare ove si riferisca tale
condizione alla durata della residenza protratta, ossia all’unico aspetto per
cui essa rileva a fini della registrazione anagrafica. All’argomento è agevole
replicare, infatti, che il permesso di soggiorno di cui si discute ha durata di
sei mesi ed è rinnovabile «fino alla decisione della domanda o comunque per il
tempo in cui il suo destinatario è autorizzato a rimanere nel territorio
nazionale» (art. 4 del d.lgs. n. 142 del 2015), e che, nella stragrande
maggioranza dei casi, il periodo complessivo di permanenza dei richiedenti
asilo nel nostro Paese risulta essere di almeno un anno e mezzo (come messo in
evidenza da tutti i soggetti intervenuti o costituiti nel presente giudizio),
soprattutto a causa dei tempi di decisione sulle domande.
La descritta durata, legale e fattuale, del soggiorno dello
straniero richiedente asilo rappresenta, già da sola, un dato espressivo di una
permanenza protratta per un arco temporale rilevante e appare inoltre
particolarmente significativa alla luce di quanto previsto dall’art. 9 del
decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 (Attuazione della direttiva
2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari
di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri),
che fissa in tre mesi il limite di permanenza del cittadino europeo nello Stato
membro diverso da quello di appartenenza, limite oltre il quale sorge l’obbligo
dell’iscrizione anagrafica. La citata disposizione stabilisce in particolare
che «[a]l cittadino dell’Unione che intende soggiornare in Italia, ai sensi
dell’articolo 7 per un periodo superiore a tre mesi, si applica la legge 24
dicembre 1954, n. 1228, ed il nuovo regolamento anagrafico della popolazione
residente, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio
1989, n. 223» (comma 1), e che, «[f]ermo quanto previsto dal comma 1,
l’iscrizione è comunque richiesta trascorsi tre mesi dall’ingresso ed è
rilasciata immediatamente una attestazione contenente l’indicazione del nome e
della dimora del richiedente, nonché la data della richiesta» (comma 2).
Del resto, è lo stesso art. 6, comma 7, del d.lgs. n. 286 del 1998,
che costituisce la previsione generale in materia, a individuare nella
permanenza protratta per tre mesi presso un centro di accoglienza il periodo di
tempo necessario per considerare abituale la dimora dello straniero, presupposto,
questo, per ottenere il riconoscimento giuridico della residenza.
Da ultimo, non è inutile osservare che la necessità di un controllo
e di un monitoraggio della residenza sul territorio degli stranieri richiedenti
asilo rileva, e presenta anzi particolare importanza, anche a fini sanitari,
poiché è sulla base dell’anagrafe dei residenti che il comune può avere
contezza delle effettive presenze sul suo territorio ed essere in condizione di
esercitare in maniera adeguata le funzioni attribuite al sindaco dall’art. 32
della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario
nazionale), soprattutto in caso di emergenze sanitarie circoscritte al
territorio comunale.
Da tutti i punti di vista considerati, dunque, la norma censurata
contraddice le finalità del d.l. n. 113 del 2018, e in particolare incide
negativamente sulla funzionalità delle pubbliche amministrazioni cui è affidata
la cura degli interessi oggetto dell’intervento normativo, perché impedisce di
basare la loro azione su una rappresentazione veritiera nei registri anagrafici
della situazione effettiva della popolazione residente nel loro territorio.
4.2.– Ugualmente meritevoli di accoglimento sono le censure
prospettate per l’irragionevole disparità di trattamento che la norma censurata
determina tra stranieri richiedenti asilo e altre categorie di stranieri
legalmente soggiornanti nel territorio statale, oltre che con i cittadini
italiani.
Questa Corte ha, già da tempo, superato l’apparente ostacolo
frapposto dal dato letterale dell’art. 3 Cost. (che fa riferimento ai
«cittadini»), sottolineando che, «se è vero che l’art. 3 si riferisce
espressamente ai soli cittadini, è anche certo che il principio di eguaglianza
vale pure per lo straniero quando trattisi di rispettare [i] diritti fondamentali»
(sentenza n. 120 del 1967), e ha chiarito inoltre che al legislatore non è
consentito introdurre regimi differenziati circa il trattamento da riservare ai
singoli consociati se non «in presenza di una “causa” normativa non palesemente
irrazionale o, peggio, arbitraria» (sentenza n. 432 del 2005).
Nelle singole situazioni concrete, la posizione dello straniero può
certo risultare diversa rispetto a quella del cittadino (sempre sentenza n. 120
del 1967) e quindi non si può per ciò solo escludere la ragionevolezza della
disposizione che ne prevede un trattamento diversificato. Infatti, «la
riconosciuta eguaglianza di situazioni soggettive nel campo della titolarità
dei diritti di libertà non esclude affatto che, nelle situazioni concrete, non
possano presentarsi, fra soggetti uguali, differenze di fatto che il
legislatore può apprezzare e regolare nella sua discrezionalità, la quale non
trova altro limite se non nella razionalità del suo apprezzamento» (sentenza n.
104 del 1969, richiamata dalle pronunce successive, sentenze n. 144 del 1970,
n. 177 e n. 244 del 1974, n. 62 del 1994, n. 245 del 2011, e ordinanze n. 503
del 1987, n. 490 del 1988).
Sulla base di questi argomenti si può così affermare che la
particolarità delle «situazioni concrete» può giustificare un diverso
trattamento tra differenti categorie di stranieri legalmente soggiornanti, in
ragione del motivo e della durata del loro soggiorno, come è, per esempio, nel
caso della normativa che limita ai cosiddetti soggiornanti di lungo periodo il
riconoscimento di determinati diritti, e come, in principio, potrebbe essere
per i richiedenti asilo, in ragione del fatto che la loro permanenza – pur,
come visto, di durata non breve e non di rado anche alquanto lunga – è comunque
destinata a mutare di titolo nel caso di concessione della protezione
internazionale o, diversamente, a cessare.
Negando l’iscrizione anagrafica a coloro che hanno la dimora
abituale nel territorio italiano, tuttavia, la norma censurata riserva un
trattamento differenziato e indubbiamente peggiorativo a una particolare
categoria di stranieri in assenza di una ragionevole giustificazione: se
infatti la registrazione anagrafica è semplicemente la conseguenza del fatto
oggettivo della legittima dimora abituale in un determinato luogo, la
circostanza che si tratti di un cittadino o di uno straniero, o di uno
straniero richiedente asilo, comunque regolarmente insediato, non può
presentare alcun rilievo ai suoi fini.
Come già ricordato, la regola generale in tema di iscrizioni anagrafiche
dello straniero regolarmente soggiornante è contenuta nell’art. 6, comma 7, del
d.lgs. n. 286 del 1998 («Le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero
regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei
cittadini italiani con le modalità previste dal regolamento di attuazione»), al
quale la norma censurata deroga senza alcun ragionevole motivo. Questa Corte ha
già chiarito che qualsiasi scelta legislativa che si discosti dalle norme
generali del d.lgs. n. 286 del 1998 «dovrebbe permettere di rinvenire nella
stessa struttura normativa una specifica, trasparente e razionale “causa
giustificatrice”, idonea a “spiegare”, sul piano costituzionale, le “ragioni”
poste a base della deroga» (sentenza n. 432 del 2005): il che non si può dire
della norma censurata. Infatti, la temporaneità del soggiorno dei richiedenti
asilo non può giustificare il diniego di iscrizione anagrafica, sia per le
ragioni esposte nel punto precedente, sia perché, se la stessa temporaneità
fosse incompatibile con l’iscrizione anagrafica, allora bisognerebbe escludere
dalla registrazione molti altri stranieri regolari, titolari di permessi di
durata limitata, che potrebbero non essere rinnovati (quali, ad esempio, quelli
previsti all’art. 5, comma 3-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998).
Considerazioni analoghe possono essere svolte anche con riferimento
alla deroga irragionevolmente operata dalla norma censurata rispetto a quanto
previsto in via generale dall’art. 2, comma 2, dello stesso decreto
legislativo, in base al quale «[lo straniero regolarmente soggiornante nel
territorio dello Stato gode dei diritti in materia civile attribuiti al
cittadino italiano […]». Essa priva, infatti, i richiedenti asilo del diritto a
iscriversi all’anagrafe dei residenti, senza una causa giustificatrice idonea.
Per la portata e per le conseguenze anche in termini di stigma
sociale dell’esclusione operata con la norma oggetto del presente giudizio, di
cui è non solo simbolica espressione l’impossibilità di ottenere la carta d’identità,
la prospettata lesione dell’art. 3, primo comma, Cost. assume in questo
contesto – al di là della stessa violazione del principio di eguaglianza – la
specifica valenza di lesione della connessa «pari dignità sociale».
Pur potendo il legislatore valorizzare le esistenti differenze di
fatto tra cittadini e stranieri (sentenza n. 104 del 1969), esso non può porre
gli stranieri (o, come nel caso di specie, una certa categoria di stranieri) in
una condizione di “minorazione” sociale senza idonea giustificazione, e ciò per
la decisiva ragione che lo status di straniero non può essere di per sé
considerato «come causa ammissibile di trattamenti diversificati e
peggiorativi» (in questi termini sentenza n. 249 del 2010; analogamente, tra le
tante, sentenze n. 166 del 2018, n. 230, n. 119 e n. 22 del 2015, n. 309, n.
202, n. 172, n. 40 e n. 2 del 2013, n. 172 del 2012, n. 245 e n. 61 del 2011,
n. 187 del 2010, n. 306 e n. 148 del 2008, n. 324 del 2006, n. 432 del 2005, n.
252 e n. 105 del 2001, n. 203 del 1997, n. 62 del 1994, n. 54 del 1979, n. 244
e n. 177 del 1974, n. 144 del 1970, n. 104 del 1969, n. 120 del 1967).
La norma censurata, privando i richiedenti asilo del riconoscimento
giuridico della loro condizione di residenti, incide quindi irragionevolmente
sulla «pari dignità sociale», riconosciuta dall’art. 3 Cost. alla persona in
quanto tale, a prescindere dal suo status e dal grado di stabilità della sua
permanenza regolare nel territorio italiano.
Da questo punto di vista, in concreto, il diniego di iscrizione
anagrafica presenta effetti pregiudizievoli per i richiedenti asilo quanto
all’accesso ai servizi anche ad essi garantiti. Senza entrare nel merito della
dibattuta questione relativa alla possibilità o meno di ottenere, per ciascun
servizio, l’erogazione da parte delle amministrazioni competenti in assenza
della residenza anagrafica – questione che non viene in rilievo in questa sede
– non si può negare che la previsione della fornitura dei servizi nel luogo di
domicilio, anziché in quello di residenza (art. 13, comma 1, lettera b, numero
1, del d.l. n. 113 del 2018), rende, quantomeno, ingiustificatamente più
difficile l’accesso ai servizi stessi, non fosse altro che per gli ostacoli di
ordine pratico e burocratico connessi alle modalità di richiesta
dell’erogazione – che fanno quasi sempre riferimento alla residenza e alla sua
certificazione a mezzo dell’anagrafe – e per la stessa difficoltà di
individuare il luogo di domicilio, a fronte della certezza offerta invece dal
dato formale della residenza anagrafica.
Si deve pertanto concludere che, anche sotto questo profilo, la
questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 3
Cost. è fondata.
5.– Dall’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1-bis, del
d.lgs. n. 142 del 2015, come introdotto dall’art. 13, comma 1, lettera a),
numero 2), del d.l. n. 113 del 2018, deriva l’illegittimità costituzionale
dell’intero art. 13 citato. Come messo in evidenza nel punto 2.2.2, il
complesso delle disposizioni contenute nello stesso art. 13 costituisce infatti
un insieme organico, espressivo di una logica unitaria, che trova il suo fulcro
nel divieto di iscrizione anagrafica.
Visto l’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), va perciò
dichiarata in via consequenziale l’illegittimità costituzionale delle restanti
disposizioni dell’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018.
6.– Sono assorbite le ulteriori questioni di legittimità
costituzionale prospettate dai Tribunali rimettenti.
LA
CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma
1-bis, del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142 (Attuazione della
direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti
protezione internazionale, nonché della direttiva 2013/32/UE, recante procedure
comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione
internazionale), come introdotto dall’art. 13, comma 1, lettera a), numero 2),
del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di
protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per
la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il
funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione
dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito,
con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132;
2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della
legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della
Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale delle restanti
disposizioni dell’art. 13 del d.l. n. 113 del 2018;
3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 4, comma 1-bis, del d.lgs. n. 142 del 2015, sollevata, in riferimento
all’art. 77, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di
Milano, prima sezione civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2020.