giovedì 31 maggio 2018


Cass. 29 maggio 2018, n. 13362

 

Con riguardo agli atti che richiedano la certezza del notaio in ordine all'identità personale delle parti, in difetto di conoscenza personale la norma di cui all'art. 49 L. n. 89 del 1913 sull'ordinamento del notariato (nel testo fissato dall'art. 1 L. n. 333 del 1976), in base alla quale il notaio deve essere certo della identità personale delle parti e può raggiungere tale certezza anche al momento dell'attestazione, con la valutazione di "tutti gli elementi" atti a formare il suo convincimento, rendendosi in caso contrario necessario il ricorso a due fidefacienti da lui conosciuti, va interpretata nel senso che, nell'attestare l'identità personale delle parti il professionista deve trovarsi in uno stato soggettivo di certezza intorno a tale identità, conseguibile, senza la necessaria pregressa conoscenza personale delle parti stesse, attraverso le regole di diligenza, prudenza e perizia professionale e sulla base di qualsiasi elemento astrattamente idoneo a formare tale convincimento, anche di natura presuntiva, purché in quest'ultimo caso si tratti di presunzioni gravi, precise e concordanti ( v. Cass., 7/12/2017, n. 29321; Cass., 10/5/2005, n. 9757 ). Si è al riguardo precisato che il notaio deve accertare l'identità personale delle parti ed è tenuto a raggiungere tale certezza anche al momento dell'attestazione, secondo regole di diligenza qualificata, prudenza e perizia professionale, rispetto alle quali l'esibizione di una carta d'identità o di altro documento equipollente può non risultare, da sola, sufficiente alla corretta identificazione della persona fisica ( v. Cass., 12/5/2017, n. 11767 ). A tale stregua, l'identificazione non può essere fondata sul solo esame della carta d'identità (o altro documento equipollente), ancorché formalmente ineccepibile in quanto privo di segni esteriori che ne evidenzino la falsità, l'esame di quest'ultima non potendo ritenersi sufficiente all'osservanza del suddetto obbligo professionale, trattandosi di documento d'identificazione a fini di polizia, privo di forza certificatrice generale (v. Cass., 17/5/1986, n. 3274)

 

mercoledì 30 maggio 2018




Non è ammissibile in appello la difesa in proprio nei giudizi elettorali


Processo amministrativo – Appello – Giudizi elettorali – Difesa in proprio – Inammissibilità.

        E’ inammissibile il ricorso in appello avente ad oggetto l’esclusione di una lista dalle competizioni amministrative proposto dalla parte personalmente, senza l’assistenza del difensore (1).

  
(1) Ha chiarito la Sezione che ai sensi dell’art. 95, comma 6, c.p.a., ai giudizi di impugnazione non si estende la possibilità, prevista dal combinato disposto degli artt. 22, comma 1, e 23 per i giudizi dinanzi al giudice di primo grado, di difendersi personalmente (Cons. St., sez. V, 12 maggio 2015, n. 2371), con la conseguenza che non è applicabile nel giudizio innanzi al Consiglio di Stato l’art. 23, comma 1, dello stesso c.p.a., nella parte in cui prevede la possibilità di difesa personale delle parti nei giudizi in materia elettorale (Cons. St., sez. V, 31 ottobre 2013, n. 5244; id. 16 febbraio 2011, n. 999).    

Per completezza, giova aggiungere che il Consiglio d Stato, sez. IV, 28 febbraio 2012, n. 1162 ha escluso che l’impossibilità di difendersi personalmente nel giudizio di appello violi il diritto di difesa costituzionalmente garantito. Ha chiarito che ai sensi dell’art. 24, comma 2, Cost., l’inviolabilità del diritto di difesa si caratterizza in primo luogo come diritto alla difesa tecnica, che si realizza mediante la presenza di un difensore dotato dei necessari requisiti di preparazione tecnico-giuridica, in grado di interloquire con le controparti e con il giudice, di modo che le ipotesi di difesa «personale» devono essere considerate, nel nostro ordinamento, eccezioni, proprio in considerazione della natura inviolabile del diritto di difesa e del principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge.  

https://www.giustizia-amministrativa.it/cdsintra/cdsintra/Approfondimenti/Processoamministrativo/Appello/ConsigliodiStato29maggio2018n.3232/index.html


Trib. Torino 9 maggio 2018

L’accertamento dello stato di cittadinanza (nella specie: la decisione sul ricorso contro il diniego ministeriale di concessione della cittadinanza italiana per residenza decennale) è disciplinata dal rito sommario di cognizione, e rientra nella competenza per materia delle sezioni specializzate, in composizione monocratica, secondo quanto disposto dall'art. 19 bis d.lgs. 150/2011  e dall'art. 3 comma 2 d.l.  13/2017, convertito con l. 46/2017.


Con ricorso depositato il 13.10.2017 la Sig.ra X ha avanzato domanda volta ad ottenere, previa disapplicazione/annullamento del provvedimento di rigetto pronunciato dal Ministero dell'Interno 30.6.2017 (notificato il 15.9.17), la declaratoria di acquisto della cittadinanza italiana.
A sostegno della domanda, sostiene la ricorrente:
-di essere radicata sul territorio italiano, avendovi fatto ingresso nel 2002, ed avendo da allora ottenuto dapprima il permesso di soggiorno per motivi di lavoro e poi il permesso UE per soggiornanti di lungo periodo;

-di essere unita in matrimonio dal 2007 con il connazionale Sig. dal quale ha avuto tre figli, OMISSIS

- di aver altresì ottenuto il ricongiungimento della propria madre, OMISSIS;

-di prestare attività lavorativa dal 2008 presso la OMISSIS, mentre il marito, dopo aver subito un infortunio sul lavoro, non poteva più lavorare;

-che il diniego della cittadinanza è fondato esclusivamente sui 'pregiudizi penali' a carico del marito, consistenti in guida senza patente e falsità materiale commessa dal privato, fatti dai quali non conseguiva alcuna condanna, né risultava alcuna iscrizione di notizia di reato.

Si è costituito in giudizio il Ministero dell'Interno, che ha eccepito:

-l'incompetenza del Tribunale adito, in favore del Tribunale di Roma;

-l'irritualità del ricorso, per erronea applicazione del rito di cui all’artt. 702bis cpc;

-nel merito, l'infondatezza della domanda.

La presente controversia, avente ad oggetto l'accertamento dello stato di cittadinanza, è disciplinata dal rito sommario di cognizione, e rientra nella competenza per materia delle sezioni specializzate, in composizione monocratica, secondo quanto disposto dall'art. 19 bis d.lgs. 150/2011 (il quale prescrive che le controversie in materia di accertamento dello stato di apolidia e di cittadinanza italiana sono regolate dal rito sommario di cognizione) e dall'art. 3 comma 2 D.L. 13/2017, convertito con L. n. 46 del 2017.

La competenza territoriale è fissata, ai sensi dell'art. 4 c. 5 L. 46/2017, in base al luogo in cui I 'attore ha la dimora.

Le eccezioni sollevate dalla parte resistente sono, pertanto, infondate.

OMISSIS

Ciò posto, il Ministero dell'Interno così ha motivato il rigetto della domanda: nel preavviso di rigetto si comunicava all'istante che "dal rapporto informativo della Questura di Torino risultano a carico del coniuge precedenti per guida senza patente, falsità materiale commessa dal privato (2014), guida senza patente (2010) '”.
Il decreto impugnato, poi, ribadisce che il coniuge dell’istante nato il OMISSIS risulta gravato da pregiudizi penali. Osserva, in proposito, la motivazione del provvedimento, che l'inserimento dello straniero deve essere valutato non solo sulla base dei dati formali, ma anche rispetto a valutazioni di opportunità, da estendersi alla condotta del nucleo familiare; inoltre, trattandosi di esercitare un potere altamente discrezionale, l' Amministrazione è tenuta ad accertare la coincidenza dell'interesse pubblico e quello del Richiedente, accertamento finalizzato ad escludere che l'inserimento stabile del Richiedente possa arrecare danno alla collettività.
Ora, premesso che la decisione impugnata (né, in questa sede, la difesa della parte resistente) mette in dubbio la sussistenza in capo alla ricorrente dei requisiti formali (regolare residenza in Italia da oltre dieci anni), si rileva che ella ha documentato e dimostrato:
-di vivere con i propri familiari in OMISSIS;

-di prestare attività lavorativa part time presso il magazzino OMISSIS;

- di essere incensurata.

Le argomentazioni svolte dalla ricorrente in merito ai 'precedenti' attribuiti al marito non sono state minimamente contestate dalla controparte. Nella specie, la ricorrente ha precisato che essi si riferiscono ad una guida senza patente (illecito amministrativo per il quale il marito aveva pagato l'ammenda, ed ha poi conseguito la patente), e ad una denuncia per il reato di 'falsità materiale commesso da privato', alla quale non era seguita alcuna condanna.
A fronte di tali precisazioni, nulla ha prodotto né obiettato la parte resistente.

Peraltro, l'acquisizione del certificato penale effettuato a cura dell'Ufficio ha confermato che il Sig. OMISSIS       è incensurato.

Alla luce di tali elementi, reputa il Giudicante che la valutazione negativa del Ministero non sia sorretta da congruenti elementi di fatto, nella parte in cui attribuisce efficacia ostativa all'accoglimento della domanda di cittadinanza a 'pregiudizi penali' relativi a fatti che non possono ritenersi rivelatori di una condotta improntata ad effettiva pericolosità sociale, e ciò anche ammettendo (secondo la condivisibile giurisprudenza menzionata nel ricorso) l'indiretta rilevanza della condotta tenuta non solo dalla ricorrente, ma anche dagli stretti congiunti.
Per un verso, infatti, i fatti contestati al marito (ed in realtà risulta ammessa la sola guida senza patente) non sono riconducibili alla sfera di intervento della ricorrente, e per altro verso appaiono invero condotte di significato, obiettivamente di una certa gravità, ma non tali da compromettere la valutazione circa la corretta integrazione della medesima nel contesto nazionale.

Sulla base dei suesposti elementi sussistono i presupposti per il riconoscimento della cittadinanza italiana in favore della ricorrente.          

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Il Tribunale, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando, respinta ogni contraria istanza, in accoglimento del ricorso:



DICHIARA che        X  ha diritto alla cittadinanza italiana;

Condanna il Ministero dell'Interno al pagamento, in favore della ricorrente, delle spese di giudizio che liquida in € 1200,00 per compenso professionale, oltre spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA come per legge e se dovute.

Torino, 9 MGGIO 2018







martedì 29 maggio 2018



Ministero dell’Interno, Dipartimento per gli Affari Interni e Territoriali, Raccolta pareri, pubblicazione on line, 21 luglio 2017, n. 0010873, Surroga consigliere dimissionario

Surroga consigliere. Ai sensi dell’art 45, primo comma, del decreto legislativo n. 267/00 è previsto che “Nei consigli provinciali, comunali e circoscrizionali il seggio che durante il quinquennio rimanga vacante per qualsiasi causa, anche se sopravvenuta, e' attribuito al candidato che nella medesima lista segue immediatamente l'ultimo eletto”. Pertanto, non è consentito dal dettato legislativo surrogare il consigliere venuto a mancare  con  il primo dei non eletti appartenente ad una lista diversa da quella del consigliere da sostituire.

E’ stato posto un quesito in ordine alla surroga di un consigliere deceduto.

In particolare, è stato rappresentato che il consiglio comunale,  composto originariamente da dieci consiglieri più il sindaco, abbia ridotto a nove consiglieri la sua attuale composizione per impossibilità di surroga di uno dei propri membri.

Tanto premesso, il consigliere ha chiesto se sia consentito, al fine di poter reintegrare il plenum dell’organo rappresentativo,   surrogare il consigliere venuto a mancare  con  il primo dei non eletti appartenente ad una lista diversa da quella del consigliere da sostituire.

Al riguardo, si osserva che il ricorso a tale opzione è impedito dal chiaro dettato legislativo. Ai sensi dell’art 45, primo comma, del decreto legislativo n. 267/00 è previsto che “Nei consigli provinciali, comunali e circoscrizionali il seggio che durante il quinquennio rimanga vacante per qualsiasi causa, anche se sopravvenuta, e' attribuito al candidato che nella medesima lista segue immediatamente l'ultimo eletto”. D’altro canto è l’art. 141 delT.U.O.E.L. a prevedere, tra i presupposti per lo  scioglimento del consiglio, la riduzione dell’organo assembleare “per impossibilità di surroga alla metà dei componeni del consigli”.

L’esame della  normativa suprarichiamata porta ad escludere che la prospettata ipotesi della surroga di un consigliere con un candidato di una lista diversa da quella di appartenenza del  surrogando sia opzione consentita dal vigente ordinamento degli enti locali.

http://dait.interno.gov.it/territorio-e-autonomie-locali/pareri/96878


Circolare Ministero della Giustizia 22 maggio 2018, Misure di degiurisdizionalizzazione in materia di famiglia ed emissione del certificato previsto dall’art. 39 del Regolamento CE n. 2201 del 2003
Ministero della Giustizia
DIPARTIMENTO PER GLI AFFARI DI GIUSTIZIA
DIREZIONE GENERALE DELLA GIUSTIZIA CIVILE
UFFICIO I - AFFARI CIVILI INTERNAZIONALI
Ai sig.ri Presidenti delle Corti di appello
ai sig.ri Procuratori generali presso le Corti di appello
e, p.c., al sig. Capo di Gabinetto
e, p.c., al sig. Capo dell’Ispettorato generale
e, p.c., al sig. Capo del Dipartimento per gli affari di giustizia
e, p.c., al sig. Capo del  Dipartimento per gli Affari Interni e territoriali del
Ministero dell’Interno
Oggetto: misure di degiurisdizionalizzazione in materia di famiglia (d.l. n. 132 del 2014) ed emissione del certificato previsto dall’art. 39 del Regolamento CE n. 2201 del 2003.
Come noto, il decreto-legge 12 settembre 2014 n. 132, convertito dalla legge 10 novembre 2014, n. 162, ha – per quanto qui di interesse – introdotto misure di degiurisdizionalizzazione agli articoli 6 e 12.
In particolare, ai sensi dell’art. 6, la convenzione di negoziazione assistita da almeno un avvocato per parte può essere conclusa tra coniugi al fine di raggiungere una soluzione consensuale di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. In mancanza di figli minori, di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero economicamente non autosufficienti, l’accordo raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita è trasmesso al procuratore della Repubblica presso il tribunale competente il quale, quando non ravvisa irregolarità, comunica agli avvocati il nullaosta per gli adempimenti di competenza. Invece, in presenza di figli minori, di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti, l’accordo raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita deve essere trasmesso al procuratore della Repubblica presso il tribunale competente, il quale, quando ritiene che l’accordo risponde all’interesse dei figli, lo autorizza. Quando ritiene che l’accordo non risponde all’interesse dei figli, il procuratore della Repubblica lo trasmette, entro cinque giorni, al presidente del tribunale, che fissa, entro i successivi trenta giorni, la comparizione delle parti e provvede senza ritardo.
Ai sensi del successivo art. 12, in assenza di figli minori, di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti, i coniugi possono altresì concludere innanzi al sindaco, quale ufficiale dello stato civile, un accordo di separazione personale ovvero, nei casi di cui all’articolo 3, primo comma, numero 2), lettera b), della legge 1 dicembre 1970, n. 898, di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nonché di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. L’ufficiale dello stato civile riceve da ciascuna delle parti personalmente, con l’assistenza facoltativa di un avvocato, la dichiarazione che esse vogliono separarsi ovvero far cessare gli effetti civili del matrimonio o ottenerne lo scioglimento secondo condizioni tra di esse concordate. Allo stesso modo si procede per la modifica delle condizioni di separazione o di divorzio.
Le disposizioni degli articoli 6 e 12 si applicano anche agli uniti civilmente (ex art. 1, comma 25, legge n. 76 del 2016).
La normativa del 2014 – così sinteticamente richiamata – nulla ha però previsto per il caso in cui una parte sia interessata a far riconoscere o a far eseguire l’atto contenente l’accordo in un altro Paese dell’Unione Europea.
A tale riguardo, giova premettere che il Regolamento (CE) n. 2201 del 2003 prevede che il richiedente debba produrre, nello Stato in cui vuole ottenere il riconoscimento o l’esecuzione, a seconda del caso, uno dei certificati previsti dall’articolo 39 (allegato I: sulle decisioni in materia matrimoniale; allegato II: sulle decisioni relative alla responsabilità genitoriale). I certificati in parola devono essere rilasciati «dall’autorità giurisdizionale o dall’autorità competente dello Stato membro d’origine». L’autorità competente per l’emissione del certificato è, in linea di principio, quella che ha formato l’atto e ben può essere una autorità non giurisdizionale (ma amministrativa) tenuto conto del campo di applicazione del Regolamento n. 2201 del 2003 (v. art. 2, nn. 1 e 2).
Orbene, in tale contesto è tuttavia accaduto che, nel caso di procedimento concluso davanti all’ufficiale di stato civile o con l’assistenza degli avvocati, in alcuni casi le richieste di certificato siano state presentate ai tribunali o alle procure del luogo in cui l’accordo è stato concluso. Si tratta di questione che ha una incidenza diretta sui servizi di cancelleria e che soprattutto ha già condotto, almeno in un caso, a una segnalazione alla Commissione Europea. Pare dunque opportuno, in attesa di eventuali interventi legislativi specifici, fornire alcune indicazioni in ordine alla corretta individuazione dell’autorità competente al rilascio del certificato in esame.
Nel caso in cui l’accordo sia stato concluso davanti all’ufficiale di stato civile, non è predicabile una competenza del tribunale per il rilascio del certificato in questione, atteso che l’atto destinato a circolare non è stato formato né davanti né con l’intervento dell’ufficio giudiziario.  Come ha chiarito il Ministero dell’interno con la circolare 28 novembre 2014, n. 19, “l’ufficiale non appena ricevute le dichiarazioni degli interessati” deve “procedere a redigere, senza indugio, l’atto destinato a «contenere» l’accordo”, la cui efficacia decorre, per l’appunto, dalla data dell’atto contenente l’accordo di separazione concluso innanzi all’ufficiale dello stato civile (art. 12, comma 4, del decreto-legge in esame). Si tratta, quindi, di atto formato in modo integrale dall’autorità amministrativa. A ciò si aggiunga che, per inferire nella materia in esame la competenza del tribunale, occorrerebbe in sostanza introdurre un criterio di distribuzione della competenza che non è al momento previsto dalla legge, attribuendo la competenza all’ufficio giudiziario che sarebbe stato astrattamente competente se la controversia se non fosse stata degiurisdizionalizzata. Pertanto, nel silenzio della legge, l’adempimento in parola non può certo essere richiesto al tribunale e, applicando i principi generali, dovrebbe essere invece richiesto all’autorità pubblica che ha formato l’atto, ossia, nella specie, all’ufficiale di stato civile. In questo senso è il pensiero della quasi unanime dottrina, secondo la quale, in caso di accordo di fronte all’ufficiale di stato civile, è quest’ultimo ad emettere il certificato previsto dall’art. 39 del Regolamento n. 2201 del 2003.
Con riguardo, invece, agli accordi conclusi in sede di negoziazione assistita da avvocati, deve ritenersi che il certificato ex art. 39 cit. debba essere emesso dalla procura della Repubblica che ha autorizzato l’accordo o ha rilasciato il nullaosta, atteso che l’avvocato non è qualificabile come “autorità” ai fini del Regolamento n. 2201 del 2003, nonché in considerazione del fatto che solo il provvedimento conclusivo del pubblico ministero rende l’accordo valido ed efficace, e dunque riconoscibile ed eseguibile all’estero. Da ciò consegue che, ove il pubblico ministero si sia rifiutato di autorizzare l’accordo e l’autorizzazione sia stata adottata dal presidente del tribunale (ex art. 6, comma 2, del decreto-legge), sarà invece l’ufficio giudiziario giudicante a dover rilasciare il certificato in parola.
Si pregano le SS.LL. di voler assicurare idonea diffusione della presente nota presso gli uffici giudiziari dei distretti di rispettiva competenza.
Roma, 22 maggio 2018
IL DIRETTORE GENERALE
Michele Forziati


https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_8_1.page?facetNode_1=1_1(2018)&contentId=SDC116080&previsiousPage=mg_1_8



venerdì 25 maggio 2018


Istruzione - Servizi educativi alla prima infanzia - Norme della Regione Veneto - Attribuzione di un titolo di precedenza, per l'ammissione al servizio di asilo nido, ai figli di genitori che risiedono in Veneto o che vi svolgono un'attività lavorativa da almeno quindici anni.


Corte cost. 25 maggio 2018, n. 107


E’ costituzionalmente illegittimo l’art. 1, comma 1, della legge della Regione Veneto 21 febbraio 2017, n. 6 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 23 aprile 1990, n. 32, «Disciplina degli interventi regionali per i servizi educativi alla prima infanzia: asili nido e servizi innovativi»), nella parte in cui modifica l’art. 8, comma 4, della legge della Regione Veneto 23 aprile 1990, n. 32 (Disciplina degli interventi regionali per i servizi educativi alla prima infanzia: asili nido e servizi innovativi), introducendovi la lettera b)


L.r. (Veneto) 23 aprile 1990, n. 32

OMISSIS

Art. 8 - (Ammissione e frequenza al servizio).
1. Sono ammessi all’asilo nido i bambini di età non inferiore a tre mesi e non superiore a tre anni.

2. Al fine di perseguire il pieno utilizzo delle risorse attivate nel servizio, il regolamento di cui all’art. 7, può prevedere, anche in relazione alla presenza media dei bambini, un numero di ammissioni superiore ai posti effettivamente attivati, in misura non superiore al 20%.

3. In caso di gravi necessità possono essere ammessi all’asilo nido bambini di età inferiore a tre mesi o può essere consentita la loro permanenza nell’asilo nido fino all’inserimento nella scuola materna.

4. Hanno titolo di precedenza per l’ammissione all’asilo nido nel seguente ordine di priorità:
a) i bambini portatori di disabilità;
 b) i figli di genitori residenti in Veneto anche in modo non continuativo da almeno quindici anni o che prestino attività lavorativa in Veneto ininterrottamente da almeno quindici anni, compresi eventuali periodi intermedi di cassa integrazione, o di mobilità o di disoccupazione. (1)

(1)Lettera introdotta a seguito della sostituzione del comma, operata dall’art. 1, c. 1, della l.r.  21 febbraio 2017, n. 6, Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 23 aprile 1990, n. 32 "Disciplina degli interventi regionali per i servizi educativi alla prima infanzia: asili nido e servizi innovativi"




OMISSIS




Corte cost. 25 maggio 2018, n. 107


SENTENZA N. 107
ANNO 2018


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ,


ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge della Regione Veneto 21 febbraio 2017, n. 6 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 23 aprile 1990, n. 32, «Disciplina degli interventi regionali per i servizi educativi alla prima infanzia: asili nido e servizi innovativi»), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, spedito per la notificazione il 26 aprile 2017, depositato in cancelleria il 2 maggio 2017, iscritto al n. 37 del registro ricorsi 2017 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di costituzione della Regione Veneto;
udito nell’udienza pubblica del 10 aprile 2018 il Giudice relatore Daria de Pretis;
uditi l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Ezio Zanon e Luigi Manzi per la Regione Veneto.


Ritenuto in fatto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l’art. 1, comma 1, della legge della Regione Veneto 21 febbraio 2017, n. 6 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 23 aprile 1990, n. 32, «Disciplina degli interventi regionali per i servizi educativi alla prima infanzia: asili nido e servizi innovativi»), nella parte in cui modifica l’art. 8, comma 4, della legge reg. Veneto 23 aprile 1990, n. 32 (Disciplina degli interventi regionali per i servizi educativi alla prima infanzia: asili nido e servizi innovativi), introducendovi la lettera b). La difesa erariale riferisce che, prima della modifica, l’art. 8 della legge reg. Veneto n. 32 del 1990 ammetteva all’asilo nido i bambini di età non inferiore a tre mesi e non superiore a tre anni e, al comma 4, riconosceva «titolo di precedenza all’ammissione» ai «bambini menomati, disabili o in situazioni di rischio e di svantaggio sociale». Dopo la modifica introdotta dalla disposizione impugnata, l’art. 8, comma 4, della legge reg. Veneto n. 32 del 1990 dispone quanto segue: «4. Hanno titolo di precedenza per l’ammissione all’asilo nido nel seguente ordine di priorità: a) i bambini portatori di disabilità; b) i figli di genitori residenti in Veneto anche in modo non continuativo da almeno quindici anni o che prestino attività lavorativa in Veneto ininterrottamente da almeno quindici anni, compresi eventuali periodi intermedi di cassa integrazione, o di mobilità o di disoccupazione».
Il Governo contesta specificamente il criterio di precedenza di cui alla lettera b), denunciando diversi vizi di illegittimità costituzionale.
1.1.– In primo luogo, tale norma violerebbe l’art. 3, primo e secondo comma, della Costituzione. L’Avvocatura generale dello Stato, basandosi sui lavori preparatori, ritiene che la norma abbia lo scopo di “privilegiare” le famiglie in cui entrambi i genitori lavorano in Veneto da almeno quindici anni o ivi risiedano da almeno quindici anni rispetto alle famiglie con reddito più basso, in cui un genitore non lavora, che non siano radicate in Veneto da almeno quindici anni. Il Governo ritiene violato l’art. 3 Cost. perché non si potrebbe differenziare, da un lato, la situazione dei figli di genitori residenti o occupati in Veneto da almeno quindici anni e, dall’altro, le seguenti situazioni: quella dei «figli di genitori di cui uno solo sia residente in Veneto, e magari sia il genitore con cui il figlio convive, o dei figli di genitori di cui uno solo sia occupato in Veneto»; quella «dei figli su cui eserciti la responsabilità genitoriale un solo genitore residente o occupato in Veneto (essendo l’altro genitore ignoto o deceduto o decaduto dalla responsabilità genitoriale)»; quella «dei figli di genitori residenti o occupati in Veneto da meno di quindici anni, ma comunque da un periodo significativo (o dei figli di genitori che non possono accumulare periodi così lunghi di lavoro nella stessa regione perché occupati in attività che comportano frequenti mutamenti di sede)». Il Governo sostiene poi che non si potrebbe differenziare la situazione dei figli di genitori residenti o occupati in Veneto da almeno quindici anni, «quale che sia la loro capacità economica», e quella «dei figli di genitori di capacità economica ridotta, attestata dall’ISEE o da altri indici, come lo stato di disoccupazione», oppure quella «del bambino privo di entrambi i genitori».
Il fatto che lo stato di residenza o di occupazione in Veneto si sia protratto, per entrambi i genitori, per un dato periodo di tempo (quindici anni) non sarebbe idoneo, per l’Avvocatura, «a dimostrare che i figli di tali genitori esprimano una necessità di fruire del servizio degli asili nido pubblici maggiore» rispetto ai figli dei genitori che si trovino in una delle situazioni sopra descritte. Il criterio utilizzato dalla norma, dunque, sarebbe illegittimo perché non presenterebbe «alcun percepibile collegamento logico né con le esigenze formative del bambino, né con le esigenze educative ed economiche dei genitori». La norma determinerebbe una differenziazione arbitraria, in contrasto con l’art. 3 Cost.
In secondo luogo, la norma impugnata violerebbe l’art. 3, primo e secondo comma, Cost. anche «inteso come canone di ragionevolezza e proporzionalità della legislazione, in rapporto agli obiettivi sociali che la legge persegue». Poiché, secondo l’Avvocatura, beneficiario principale del servizio è il bambino, mentre i genitori sono beneficiari “di riflesso”, sarebbe «manifestamente irragionevole subordinare la precedenza nelle graduatorie ad una condizione, come la durata per almeno quindici anni della residenza o dell’occupazione nella regione, che può riguardare soltanto i genitori ed è, ovviamente, del tutto estranea alla condizione specifica del bambino». Comunque, anche a voler considerare il solo interesse “riflesso” dei genitori, sarebbe «manifestamente irragionevole svincolare del tutto la selezione da criteri di natura economica, riferiti al reddito o al patrimonio della famiglia». I criteri della protratta residenza e della protratta occupazione nel territorio regionale possono portare, secondo il Governo, «a privilegiare situazioni familiari economicamente migliori e a discriminare situazioni familiari economicamente più precarie», il che non sarebbe «razionalmente giustificabile, anche in considerazione del fatto […] che con gli asili nido pubblici concorre l’offerta delle strutture private, senz’altro accessibili alle famiglie con redditi più elevati».
L’Avvocatura aggiunge poi che, «anche a voler ammettere, in subordine, che la durata della residenza o dell’occupazione nel territorio regionale possa costituire (il che non è) un criterio selettivo logicamente congruo rispetto all’obiettivo di graduare gli aspiranti al servizio degli asili nido pubblici, appare palese come una durata pari addirittura a quindici anni sia eccessiva e comunque fonte di applicazioni irrazionali». Il requisito della residenza o dell’occupazione per quindici anni sarebbe irragionevole anche perché non sarebbe neppure idoneo a dare una preferenza ai soggetti “radicati” in Veneto. Infatti, nel caso in cui il periodo debba calcolarsi con riferimento a ciascun genitore considerato separatamente, «la norma favorirebbe indebitamente i nati in Veneto, che è plausibile che vi abbiano risieduto per i primi quindici anni di vita, attribuendo loro “de futuro” un “diritto di prelazione” esercitabile anche molti anni dopo, semplicemente tornando a risiedere in Veneto per un breve periodo, una volta divenuti genitori, magari dopo una lunga assenza che non è certo indice di radicamento territoriale». Nel caso in cui, invece, il periodo debba calcolarsi con riferimento ad entrambi i genitori («nel senso che non i singoli componenti bensì la “coppia” in quanto tale deve avere risieduto o essere stata occupata in Veneto per almeno quindici anni»), la norma «si rivelerebbe completamente inutile per tutti i genitori che, come è statisticamente normale, siano divenuti tali prima che siano decorsi quindici anni di residenza comune o di occupazione continuativa». In entrambe le ipotesi (calcolo “separato” o “congiunto” del periodo di quindici anni), il requisito in questione verrebbe poi «a costituire un disincentivo a divenire genitori prima di avere accumulato una anzianità lavorativa di almeno quindici anni», così contraddicendo «una delle finalità proprie del sistema degli asili nido, che è quella di favorire, contemporaneamente, il lavoro e la natalità»: di qui un ulteriore profilo di irragionevolezza della norma impugnata.
L’Avvocatura precisa poi che la violazione dell’art. 3 Cost. sussisterebbe anche qualora si interpretasse la disposizione impugnata nel senso che il titolo di precedenza spetta non solo a chi ha entrambi i genitori residenti o occupati in Veneto da almeno quindici anni, ma anche a chi ha un solo genitore rispondente a tali requisiti. In tal caso, sarebbero comunque discriminati «i bambini privi di entrambi i genitori» e quelli che non hanno neppure un genitore residente o occupato in Veneto da almeno 15 anni. Inoltre, sarebbe pur sempre manifestamente irrazionale un criterio di preferenza «basato sulla durata della residenza o dell’occupazione nella regione del genitore, anziché sulla condizione del bambino, e sulla completa esclusione di qualsiasi rilievo della situazione economica del genitore», e sarebbe pur sempre «eccessiva» la durata del periodo di residenza o di occupazione richiesto. Anzi, qualora fosse sufficiente la residenza o l’occupazione protratta in Veneto in capo a un solo genitore, si «amplierebbe l’area delle situazioni indebitamente privilegiate».
1.2.– Il Governo lamenta poi la violazione dell’art. 31, secondo comma, Cost., in quanto il criterio di precedenza individuato dalla norma impugnata frustrerebbe «i valori costituzionali ivi codificati della tutela dell’infanzia e della promozione dei necessari istituti»: «[u]na disciplina che porta a formare le graduatorie di ammissione agli asili nido basandosi sulle condizioni di residenza e di lavoro dei genitori […], mentre trascura del tutto di considerare la condizione dei bambini», confliggerebbe con i valori suddetti.
1.3.– Ancora, la norma impugnata violerebbe gli articoli 16 e 120, primo comma, Cost., in quanto ostacolerebbe «il trasferimento in Veneto di famiglie che nella propria regione di residenza o di lavoro godano di provvidenze simili, in quanto con il trasferimento in Veneto le perderebbero (non potendole riacquistare prima di quindici anni)», e, reciprocamente, costituirebbe «un incentivo indebito […] a non lasciare il Veneto per coloro che già vi risiedano o vi lavorino».
1.4.– Infine, la norma in questione violerebbe il diritto dell’Unione europea (art. 117, primo comma, Cost.), sotto diversi profili.
In primo luogo, essa contrasterebbe «con la normativa europea in materia di libera circolazione dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari» (art. 21, par. 1, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 137). Il requisito preferenziale, «richiedendo un periodo così prolungato, eccede quanto necessario al raggiungimento del legittimo obiettivo di accertare l’esistenza di un nesso reale tra il richiedente una prestazione e lo Stato membro competente, ovvero di preservare l’equilibrio finanziario del sistema locale di assistenza sociale».
Inoltre, la norma impugnata si porrebbe in contrasto con l’art. 19 del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri), dal momento che l’art. 24 della citata direttiva «garantisce parità di trattamento ai cittadini di Stati membri che risiedano da più di tre mesi in un diverso Stato membro, […] rispetto ai cittadini dello Stato ospitante, senza esigere alcun periodo pregresso di residenza a tal fine». Dunque, la norma in questione discriminerebbe «tutti i cittadini dell’Unione che soggiornino in Veneto da più di tre mesi o comunque che abbiano ottenuto il diritto di soggiorno permanente, non avendo però maturato 15 anni di residenza anche non continuativa o di lavoro continuativo in Veneto».
Ancora, la norma de qua discriminerebbe i cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo, «i quali, secondo quanto previsto dall’art. 11, paragrafo 1, lettere d) e f), della direttiva 2003/109/CE, recepita con decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3, trascorsi cinque anni di soggiorno regolare sull’intero territorio nazionale (non necessariamente tutti in un’unica regione), dovrebbero godere dello stesso trattamento dei cittadini nazionali sia per quanto riguarda “le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale”, sia per quanto riguarda “l’accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico e all’erogazione degli stessi”».
L’Avvocatura ricorda che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 168 del 2014, ha ritenuto contrastante con le citate norme europee una legge valdostana che subordinava ad una residenza minima di otto anni nella regione l’accesso all’edilizia residenziale pubblica.
2.– La Regione Veneto si è costituita in giudizio con memoria depositata il 5 giugno 2017.
Con riferimento alla asserita violazione del principio di uguaglianza, la Regione rileva che la norma impugnata «non prevede un criterio selettivo di accesso al servizio di asilo nido, ma unicamente introduce un canone preferenziale basato sul radicamento familiare e lavorativo nel territorio regionale»; essa, cioè, non preclude ad alcuno l’accesso agli asili nido, ragion per cui non potrebbe produrre alcuna discriminazione. Inoltre, la Regione osserva che l’erogazione del servizio di asilo nido non è obbligatoria. Il legislatore regionale avrebbe esercitato la propria potestà discrezionale, dando precedenza «a coloro che abbiano più a lungo contribuito alla realizzazione del contesto sociale ed economico pubblico da cui ha origine il sistema locale di assistenza alla prima infanzia». La norma non sarebbe affetta da «palese irrazionalità». Inoltre, essa non discriminerebbe il bambino orfano di un genitore o di entrambi perché la locuzione genitori si riferirebbe «ai soggetti esercenti la potestà genitoriale, a qualunque titolo ciò avvenga e pur anche nel caso in cui vi sia un solo “genitore”».
Quanto alla violazione del principio di ragionevolezza, la Regione osserva, da un lato, che «gli asili nido pubblici, per espressa previsione della legge statale [legge 6 dicembre 1971, n. 1044 «Piano quinquennale per l’istituzione di asili-nido comunali con il concorso dello Stato»], non sono teleologicamente diretti a soddisfare in via esclusiva e prioritaria un interesse formativo del bambino, ma invece sono rivolti a garantire una adeguata assistenza familiare e di promozione del lavoro, soprattutto muliebre, cui accede necessariamente un esito di socializzazione e formazione educativa»; dall’altro, che i comuni hanno potestà regolamentare in materia di asili nido pubblici, potendo prevedere criteri reddituali di graduazione delle domande.
Con riferimento alla asserita violazione dell’art. 31 Cost., la Regione ribadisce che la norma impugnata non fissa un criterio di ammissione ma solo di precedenza e che la disciplina degli asili nido serve a tutelare l’infanzia «solo in via indiretta». Inoltre, osserva che l’art. 31 Cost. sarebbe una norma «programmatica», inidonea a incidere sul contenuto di istituti che non tocchino diritti fondamentali dei bambini.
La censura relativa agli artt. 16 e 120 Cost. è giudicata dalla Regione «inverosimile», non potendo un criterio di preferenza nell’accesso agli asili nido condizionare la scelta di trasferirsi in Veneto. L’argomento dell’Avvocatura impedirebbe agli enti territoriali di prevedere qualsiasi forma di agevolazione economica a favore dei residenti.
Infine, con riferimento alla questione concernente l’art. 117, primo comma, Cost., la Regione rileva che la norma impugnata non viola le norme europee invocate perché «il criterio selettivo opera nei confronti sia dei cittadini sia dei non cittadini», per cui «nessuna discriminazione può ipotizzarsi».
3.– La Regione Veneto ha depositato una memoria integrativa il 20 marzo 2018. In essa afferma che la norma impugnata «non prevede un criterio escludente, ma unicamente un criterio suppletivo di preferenza a parità di condizioni per accedere agli asili nido», cioè un criterio «che opera solo secondariamente e unicamente dopo che i soggetti richiedenti siano già stati selezionati secondo i criteri primari diretti a valorizzare il bisogno di accedere al servizio per l’infanzia». Tale interpretazione della disposizione impugnata sarebbe confermata dalla concreta applicazione che ne hanno fatto i comuni veneti.


Considerato in diritto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri censura l’art. 1, comma 1, della legge della Regione Veneto 21 febbraio 2017, n. 6 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 23 aprile 1990, n. 32, «Disciplina degli interventi regionali per i servizi educativi alla prima infanzia: asili nido e servizi innovativi»), nella parte in cui modifica l’art. 8, comma 4, della legge reg. Veneto 23 aprile 1990, n. 32 (Disciplina degli interventi regionali per i servizi educativi alla prima infanzia: asili nido e servizi innovativi), introducendovi la lettera b).
Per effetto della disposizione impugnata, l’art. 8, comma 4, della legge reg. Veneto n. 32 del 1990 dispone quanto segue: «4. Hanno titolo di precedenza per l’ammissione all’asilo nido nel seguente ordine di priorità: a) i bambini portatori di disabilità; b) i figli di genitori residenti in Veneto anche in modo non continuativo da almeno quindici anni o che prestino attività lavorativa in Veneto ininterrottamente da almeno quindici anni, compresi eventuali periodi intermedi di cassa integrazione, o di mobilità o di disoccupazione».
Il ricorrente ritiene che il criterio di precedenza fissato alla lettera b) sia incostituzionale per violazione delle seguenti norme: a) art. 3 della Costituzione, con riferimento sia al principio di uguaglianza sia a quello di ragionevolezza; b) art. 31, secondo comma, Cost., in quanto la norma censurata frustrerebbe il valore costituzionale della tutela dell’infanzia; c) artt. 16 e 120, primo comma, Cost., in quanto la norma impugnata ostacolerebbe la libertà di circolazione; d) art. 117, primo comma, Cost., in quanto la norma censurata violerebbe l’art. 21 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 137, in materia di libertà di circolazione; l’art. 24 della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri; l’art. 11, paragrafo 1, lettere d) e f), della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo.
2.– Prima di esaminare le questioni di costituzionalità sollevate nel ricorso, è opportuno definire l’esatto significato della disposizione impugnata.
In primo luogo, si deve osservare che l’interpretazione proposta dalla Regione nella memoria integrativa non risulta coerente con la portata della disposizione impugnata. Questa non prevede un criterio meramente sussidiario, destinato a operare per i soggetti che si trovino a parità di punti, ma fissa un «titolo di precedenza» che prevale sui criteri fissati dai singoli comuni. Ciò risulta dalla formulazione della disposizione, che non accenna al presunto carattere sussidiario del criterio, e dall’accostamento al titolo di precedenza rappresentato dalla disabilità, che certamente opera in via prevalente e non sussidiaria; trova inoltre conferma nei lavori preparatori della legge, che sono coerenti con l’interpretazione sostenuta dalla Regione nella memoria di costituzione e non offrono alcuno spunto a sostegno dell’interpretazione adeguatrice prospettata nella memoria integrativa.
Il titolo di precedenza previsto dalla norma impugnata opera a favore del complesso dei bambini figli di genitori radicati in Veneto da lungo tempo. Il periodo di quindici anni deve essere calcolato con riferimento a ciascun genitore considerato separatamente, e non alla coppia, e il termine «genitori» è da intendere in modo conforme alla lettera, cioè nel senso che la precedenza non spetta a chi ha due genitori di cui uno solo radicato da lungo tempo in Veneto. Un’interpretazione estensiva si giustificherebbe qualora la lettera della disposizione non esprimesse in modo sufficiente la sua ratio, ma non è questo il caso, dal momento che la ratio della disposizione converge con la sua lettera nel privilegiare le coppie (da lungo tempo) venete. Pur non avendo valore decisivo, i lavori preparatori confermano l’interpretazione letterale, visto che da essi emerge che lo scopo era quello di favorire le giovani coppie venete e le famiglie in cui entrambi i genitori lavorano. L’estensione della precedenza alle famiglie in cui un solo genitore è radicato in Veneto da più di quindici anni amplierebbe i beneficiari del titolo di precedenza, vanificando l’obiettivo del legislatore.
Occorre precisare, peraltro, che, se la disposizione impugnata non intende privilegiare le famiglie in cui un genitore su due possiede i requisiti, ad essa non si può attribuire l’intento di discriminare i bambini orfani (o comunque privi) di un genitore o di entrambi, sicché in base ad essa, nei casi in cui la responsabilità genitoriale è esercitata da una sola persona radicata in Veneto da lungo tempo, il titolo di precedenza spetta.
Da ultimo, è opportuno rilevare che la norma impugnata, benché non disciplini un requisito di accesso, fissa un titolo di precedenza a favore di un’ampia categoria di persone e produce così effetti sostanzialmente escludenti dei soggetti non radicati in Veneto da almeno quindici anni (data la notoria scarsità di asili nido pubblici), essendo dunque paragonabile alle norme che considerano la residenza prolungata come requisito di accesso.
3.– La questione relativa all’art. 3 Cost. è fondata.
Per vagliare la ragionevolezza del titolo di precedenza fissato dalla norma impugnata, è preliminarmente necessario soffermarsi sulla funzione degli asili nido.
La legge 6 dicembre 1971, n. 1044 (Piano quinquennale per l’Istituzione di asili-nido comunali con il concorso dello Stato), ha istituito gli asili nido come «servizio sociale di interesse pubblico» (art. 1, primo comma). All’epoca il servizio era incentrato maggiormente sui bisogni dei genitori, avendo soprattutto il fine di facilitare l’accesso della donna al lavoro (art. 1, secondo comma).
L’art. 6 della legge n. 1044 del 1971 affidava alle regioni il compito di fissare, «con proprie norme legislative, […] i criteri generali per la costruzione, la gestione e il controllo degli asili-nido». Le leggi regionali adottate in sua attuazione hanno attribuito una funzione educativa agli asili nido, nella cui disciplina ha dunque assunto peso crescente l’interesse del bambino. Ciò è attestato, ad esempio, dalla citata legge reg. Veneto n. 32 del 1990 (modificata dalla legge impugnata), che definisce gli asili nido «attività educativo-assistenziale» (art. 1) e nella quale, anzi, è il bambino il destinatario principale del servizio degli asili nido («L’asilo nido è un servizio di interesse pubblico rivolto alla prima infanzia e ha finalità di assistenza, di socializzazione e di educazione nel quadro di una politica di tutela dei diritti dell’infanzia», art. 5, comma 1).
La doppia valenza degli asili nido (sociale ed educativa) si conferma nella successiva legislazione statale: da un lato, la legge 8 novembre 2000, n. 328 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali), dedica l’art. 16 alla «[v]alorizzazione e sostegno delle responsabilità familiari» e dispone, all’art. 22, comma 2, che «gli interventi di seguito indicati costituiscono il livello essenziale delle prestazioni sociali […] d) misure per il sostegno delle responsabilità familiari, ai sensi dell’articolo 16, per favorire l’armonizzazione del tempo di lavoro e di cura familiare […]» (il decreto del Presidente della Repubblica 3 maggio 2001, recante «Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali 2001-2003», considera il sostegno delle responsabilità familiari come il primo fra gli obiettivi prioritari e tratta degli asili nido nel punto 1.2); dall’altro, l’art. 70 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2002)», definisce gli asili nido «strutture dirette a garantire la formazione e la socializzazione delle bambine e dei bambini di età compresa tra i tre mesi ed i tre anni ed a sostenere le famiglie ed i genitori», e la legge 13 luglio 2015, n. 107 (Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti), prevede l’«istituzione del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita fino a sei anni, costituito dai servizi educativi per l’infanzia e dalle scuole dell’infanzia, al fine di garantire ai bambini e alle bambine pari opportunità di educazione, istruzione, cura, relazione e gioco, superando disuguaglianze e barriere territoriali, economiche, etniche e culturali, nonché ai fini della conciliazione tra tempi di vita, di cura e di lavoro dei genitori» (art. 1, comma 181, lettera e), comprendendo in particolare i «servizi educativi per l’infanzia» gli asili nido (art. 2, comma 3, lettera a del decreto legislativo 13 aprile 2017, n. 65, recante «Istituzione del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita sino a sei anni, a norma dell’articolo 1, commi 180 e 181, lettera e, della legge 13 luglio 2015, n. 107»). La doppia valenza degli asili nido emerge anche nella legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)» (art. 1, comma 1259), e nella legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008)» (art. 2, commi 458 e 460), che, con riferimento agli asili nido, parlano di servizi socio-educativi.
In definitiva, gli asili nido hanno una funzione educativa, a vantaggio dei bambini, e una funzione socio-assistenziale, a vantaggio dei genitori che non hanno i mezzi economici per pagare l’asilo nido privato o una baby-sitter; dalla disciplina legislativa emerge soprattutto l’intento di favorire l’accesso delle donne al lavoro, finalità che ha specifica rilevanza costituzionale, garantendo espressamente la Costituzione la possibilità per la donna di conciliare il lavoro con la «funzione familiare» (art. 37, primo comma, Cost.).
3.1.– Chiarita la funzione del servizio degli asili nido, è opportuno ricordare che questa Corte ha affermato «il principio che “se al legislatore, sia statale che regionale (e provinciale), è consentito introdurre una disciplina differenziata per l’accesso alle prestazioni assistenziali al fine di conciliare la massima fruibilità dei benefici previsti con la limitatezza delle risorse finanziarie disponibili” (sentenza n. 133 del 2013), tuttavia “la legittimità di una simile scelta non esclude che i canoni selettivi adottati debbano comunque rispondere al principio di ragionevolezza” (sentenza n. 133 del 2013) e che, quindi, debbano essere in ogni caso coerenti ed adeguati a fronteggiare le situazioni di bisogno o di disagio, riferibili direttamente alla persona in quanto tale, che costituiscono il presupposto principale di fruibilità delle provvidenze in questione (sentenza n. 40 del 2011)”» (sentenza n. 168 del 2014). Ha inoltre affermato che «l’introduzione di regimi differenziati è consentita solo in presenza di una causa normativa non palesemente irrazionale o arbitraria, che sia cioè giustificata da una ragionevole correlazione tra la condizione cui è subordinata l’attribuzione del beneficio e gli altri peculiari requisiti che ne condizionano il riconoscimento e ne definiscono la ratio» (sentenza n. 172 del 2013).
Con particolare riferimento al requisito della residenza protratta, questa Corte ha anche osservato che, «mentre la residenza costituisce, rispetto a una provvidenza regionale, “un criterio non irragionevole per l’attribuzione del beneficio” (sentenza n. 432 del 2005), non altrettanto può dirsi quanto alla residenza protratta per un predeterminato e significativo periodo minimo di tempo (nella specie, quinquennale). La previsione di un simile requisito, infatti, ove di carattere generale e dirimente, non risulta rispettosa dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza, in quanto “introduce nel tessuto normativo elementi di distinzione arbitrari”, non essendovi alcuna ragionevole correlazione tra la durata prolungata della residenza e le situazioni di bisogno o di disagio, riferibili direttamente alla persona in quanto tale, che in linea astratta ben possono connotare la domanda di accesso al sistema di protezione sociale (sentenza n. 40 del 2011)» (sentenza n. 222 del 2013).
3.2.– Tenuto conto di quanto esposto sopra sulla funzione degli asili nido e alla luce della giurisprudenza costituzionale appena rammentata, la norma impugnata risulta lesiva dell’art. 3 Cost.
La configurazione della residenza (o dell’occupazione) protratta come titolo di precedenza per l’accesso agli asili nido, anche per le famiglie economicamente deboli, si pone in frontale contrasto con la vocazione sociale di tali asili. Il relativo servizio risponde direttamente alla finalità di uguaglianza sostanziale fissata dall’art. 3, secondo comma, Cost., in quanto consente ai genitori (in particolare alle madri) privi di adeguati mezzi economici di svolgere un’attività lavorativa; il servizio, pertanto, elimina un ostacolo che limita l’uguaglianza sostanziale e la libertà dei genitori e impedisce il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione dei genitori stessi alla vita economica e sociale del Paese.
Per questa ragione, il servizio degli asili nido dovrebbe essere destinato primariamente alle famiglie in condizioni di disagio economico o sociale, come era previsto dall’art. 8, comma 4, della legge reg. Veneto n. 32 del 1990, nella sua previgente formulazione («Hanno titolo di precedenza all’ammissione i bambini menomati, disabili o in situazioni di rischio e di svantaggio sociale»), in coerenza con la disciplina statale, che sancisce il principio dell’accesso prioritario ai servizi sociali a favore dei soggetti in condizioni di difficoltà economico-sociale (art. 2, comma 3, della legge n. 328 del 2000). La norma impugnata, invece, prescinde totalmente dal fattore economico e, favorendo le persone radicate in Veneto da lungo tempo, adotta un criterio che contraddice anche lo scopo dei servizi sociali di garantire pari opportunità e di evitare discriminazioni (art. 1, comma 1, della legge n. 328 del 2000).
In definitiva, il titolo di precedenza previsto dalla norma impugnata è contrario sia alla funzione sociale degli asili nido sia alla vocazione “universalistica” dei servizi sociali.
Quanto alla funzione educativa degli asili nido, l’estraneità ad essa del “radicamento territoriale” risulta ugualmente evidente, e tanto più risulta tale nella norma impugnata che riferisce il requisito ai genitori e non ai beneficiari dell’attività educativa, essendo ovviamente irragionevole ritenere che i figli di genitori radicati in Veneto da lungo tempo presentino un bisogno educativo maggiore degli altri.
3.3.– Quanto alla vocazione universalistica dei servizi sociali, a differenza del requisito della residenza tout court (che serve a identificare l’ente pubblico competente a erogare una certa prestazione ed è un requisito che ciascun soggetto può soddisfare in ogni momento), quello della residenza protratta integra una condizione che può precludere in concreto a un determinato soggetto l’accesso alle prestazioni pubbliche sia nella regione di attuale residenza sia in quella di provenienza (nella quale non è più residente). Le norme che introducono tale requisito vanno dunque vagliate con particolare attenzione, in quanto implicano il rischio di privare certi soggetti dell’accesso alle prestazioni pubbliche solo per il fatto di aver esercitato il proprio diritto di circolazione o di aver dovuto mutare regione di residenza.
L’argomento utilizzato dalla Regione Veneto a sostegno dell’infondatezza della questione (ossia che la norma impugnata darebbe la precedenza «a coloro che abbiano più a lungo contribuito alla realizzazione del contesto sociale ed economico pubblico da cui ha origine il sistema locale di assistenza alla prima infanzia») non convince. In primo luogo, nessuno dei due criteri utilizzati dalla norma impugnata (residenza prolungata in Veneto o occupazione prolungata in Veneto) assicura che i genitori abbiano pagato tributi in Veneto per un lungo periodo (la residenza può non essere coincisa con un periodo lavorativo e l’occupazione prolungata in Veneto non implica necessariamente la residenza in Veneto). L’argomento si presenta opinabile anche alla luce dell’effettivo assetto delle fonti di finanziamento degli asili nido, dato che le risorse necessarie per la costruzione degli edifici e lo svolgimento del servizio possono essere di origine non regionale (gli artt. 8 e 12 del citato d.lgs. n. 65 del 2017 prevedono finanziamenti statali, e la stessa legge reg. Veneto n. 32 del 1990 menziona «contributi statali» all’art. 32, comma 1), e che, per quanto riguarda le risorse provenienti dai bilanci dei comuni e delle regioni, si dovrebbe distinguere fra finanza “propria” e “derivata”. E ciò senza contare che, sotto un profilo più generale, l’argomento del contributo pregresso tende inammissibilmente ad assegnare al dovere tributario finalità commutative, mentre esso è una manifestazione del dovere di solidarietà sociale, e che applicare un criterio di questo tipo alle prestazioni sociali è di per sé contraddittorio, perché porta a limitare l’accesso proprio di coloro che ne hanno più bisogno.
Si può osservare infine che chi si sposta in un’altra regione non ha contribuito al welfare di quella regione ma ha pagato i tributi nella regione di provenienza, e non è costituzionalmente ammissibile sfavorirlo nell’accesso ai servizi pubblici solo per aver esercitato il proprio diritto costituzionale di circolazione (o per essere stato trasferito o assegnato al Veneto per ragioni di lavoro o di altra natura).
In conclusione, poiché il titolo di precedenza previsto dalla norma impugnata non ha alcun collegamento con la funzione degli asili nido né può essere giustificato con l’argomento del contributo pregresso, il suo scopo, che si esaurisce nel riconoscere una preferenza nell’accesso agli asili nido pubblici alle persone radicate in Veneto da lungo tempo, è incompatibile con l’art. 3 Cost.
4.– Anche la questione relativa all’art. 117, primo comma, Cost. e all’art. 21 del TFUE è fondata.
L’art. 21, paragrafo 1, del TFUE dispone che «[o]gni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dai trattati e dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi».
In relazione ai requisiti di residenza prolungata, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha affermato che «[u]na siffatta normativa nazionale, che svantaggia taluni cittadini di uno Stato membro per il solo fatto che essi hanno esercitato la loro libertà di circolare e di soggiornare in un altro Stato membro, costituisce una restrizione alle libertà riconosciute dall’art. 21, n. 1, TFUE ad ogni cittadino dell’Unione», e che «[u]na simile restrizione può essere giustificata, con riferimento al diritto dell’Unione, solo se è basata su considerazioni oggettive indipendenti dalla cittadinanza delle persone interessate ed è proporzionata allo scopo legittimamente perseguito dal diritto nazionale» (sentenza 21 luglio 2011, in causa C-503/09, Stewart, punti 86 e 87; si vedano anche le sentenze 26 febbraio 2015, in causa C-359/13, B. Martens; 24 ottobre 2013, in causa C-220/12, Andreas Ingemar Thiele Meneses (punti 22-29); 15 marzo 2005, in causa C-209/03, The Queen, ex parte di Dany Bidar, punti 51-54; 23 marzo 2004, in causa C-138/02, Brian Francis Collins; 30 settembre 2003, in causa C-224/01, Gerhard Köbler).
La Corte di giustizia non esclude a priori l’ammissibilità di requisiti di residenza per l’accesso a prestazioni erogate dagli Stati membri, ma richiede che la norma persegua uno scopo legittimo, che sia proporzionata e che il criterio adottato non sia «troppo esclusivo», potendo sussistere altri elementi rivelatori del «nesso reale» tra il richiedente e lo Stato (si vedano le citate sentenze Stewart, punti 92 e 95, e Thiele Meneses, punto 36). La norma impugnata è difettosa già in relazione allo scopo perseguito (come visto nel punto precedente) ed è inoltre sicuramente sproporzionata quanto alla durata – eccezionalmente lunga: quindici anni – del legame richiesto. Il fatto che discrimini anche cittadini italiani (non radicati in Veneto da più di quindici anni) non è rilevante ai fini della conformità al diritto europeo (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenze Thiele Meneses, punto 27; 16 gennaio 2003, in causa C-388/01, Commissione, punto 14; 6 giugno 2000, in causa C-281/98, Angonese, punto 41).
Questa Corte ha già censurato, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., e dell’art. 21 TFUE, una norma che annoverava, fra i requisiti di accesso all’edilizia residenziale pubblica, la «residenza nella Regione da almeno otto anni, maturati anche non consecutivamente»: «la norma regionale in esame li pone [i cittadini dell’Unione europea] in una condizione di inevitabile svantaggio in particolare rispetto alla comunità regionale, ma anche rispetto agli stessi cittadini italiani, che potrebbero più agevolmente maturare gli otto anni di residenza in maniera non consecutiva, realizzando una discriminazione vietata dal diritto comunitario […], in particolare dall’art. 18 del TFUE, in quanto determina una compressione ingiustificata della loro libertà di circolazione e soggiorno, garantita dall’art. 21 del TFUE» (sentenza n. 168 del 2014; si vedano anche le sentenze n. 190 del 2014 e n. 264 del 2013).
4.1.– Possono considerarsi assorbite le altre questioni sollevate con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., con cui si lamenta la violazione dell’art. 24 della citata direttiva 2004/38/CE e dell’art. 11, paragrafo 1, lettere d) e f), della citata direttiva 2003/109/CE.
5.– La questione relativa all’art. 120, primo comma, Cost. è anch’essa fondata.
Occorre premettere che la questione concernente l’art. 16 Cost. è da ritenere ricompresa in quella riguardante l’art. 120, primo comma, Cost., che risulta il parametro più pertinente con riferimento al caso di specie («La Regione non può istituire dazi di importazione o esportazione o transito tra le Regioni, né adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni, né limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale»).
La norma impugnata, non incidendo in modo immediato sul diritto di circolazione e di svolgere l’attività lavorativa, non viola direttamente i divieti posti dall’art. 120, primo comma, Cost. Essa pone tuttavia un ostacolo all’esercizio dei diritti ivi previsti, per le stesse ragioni illustrate con riferimento all’art. 21 TFUE. È evidente, infatti, che un genitore che deve trasferirsi in Veneto per ragioni di lavoro può trovarsi in difficoltà a compiere il trasferimento se non ha i mezzi sufficienti per pagare un asilo nido privato, visto che la norma impugnata lo esclude di fatto dagli asili nido pubblici.
Il divieto di cui all’art. 120, primo comma, Cost. è idoneo a colpire quelle discipline che limitano, anche solo in via di fatto, i diritti da esso menzionati, come si può ricavare sia dalla lettera della disposizione costituzionale («in qualsiasi modo»), sia dal suo collegamento con l’art. 3, secondo comma, Cost., che “codifica” il nesso tra libertà e condizioni materiali della libertà, sia ancora dalla giurisprudenza europea che, come visto, ha ravvisato un limite alla libertà di circolazione in certe discipline limitative dell’accesso a prestazioni pubbliche.
Così definita la portata del divieto fissato all’art. 120, primo comma, Cost., occorre verificare se la limitazione prevista dalla norma impugnata sia costituzionalmente tollerabile, stante che il divieto stesso non va inteso in modo “assoluto”, dovendosi invece vagliare la ragionevolezza delle leggi regionali che limitano i diritti con esso garantiti. Questa Corte ha individuato a tale fine i seguenti criteri: «occorre esaminare: a) se si sia in presenza di un valore costituzionale in relazione al quale possano essere posti limiti alla libera circolazione delle cose o degli animali; b) se, nell’ambito del suddetto potere di limitazione, la regione possegga una competenza che la legittimi a stabilire una disciplina differenziata a tutela di interessi costituzionalmente affidati alla sua cura; c) se il provvedimento adottato in attuazione del valore suindicato e nell’esercizio della predetta competenza sia stato emanato nel rispetto dei requisiti di legge e abbia un contenuto dispositivo ragionevolmente commisurato al raggiungimento delle finalità giustificative dell’intervento limitativo della regione, così da non costituire in concreto un ostacolo arbitrario alla libera circolazione delle cose fra regione e regione» (sentenza n. 51 del 1991).
La norma impugnata è inidonea a superare il primo e il terzo passaggio del test, dal momento che, come visto sopra (punto 3), essa non persegue un interesse pubblico meritevole, mirando solo a dare precedenza alle persone radicate in Veneto da lungo tempo (in violazione dell’art. 3 Cost., come visto), e che la durata richiesta (della residenza o dell’occupazione), se può considerarsi proporzionata a tale illegittimo obiettivo, certamente non lo è a quello di garantire un legame tra il richiedente e la Regione.
6.– È fondata infine anche la questione riferita all’art. 31, secondo comma, Cost., in base a cui la Repubblica «[p]rotegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo». La norma impugnata fissa un titolo di precedenza che tradisce il senso dell’art. 31, secondo comma, Cost.: essa, cioè, non incide sul quantum e sul quomodo del servizio degli asili nido ma ne distorce la funzione, indirizzandolo non allo scopo di tutelare le famiglie che ne hanno bisogno ma a quello di privilegiare chi è radicato in Veneto da lungo tempo. La norma impugnata, dunque, persegue un fine opposto a quello della tutela dell’infanzia, perché crea le condizioni per privare del tutto una categoria di bambini del servizio educativo dell’asilo nido.


per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge della Regione Veneto 21 febbraio 2017, n. 6 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 23 aprile 1990, n. 32, «Disciplina degli interventi regionali per i servizi educativi alla prima infanzia: asili nido e servizi innovativi»), nella parte in cui modifica l’art. 8, comma 4, della legge della Regione Veneto 23 aprile 1990, n. 32 (Disciplina degli interventi regionali per i servizi educativi alla prima infanzia: asili nido e servizi innovativi), introducendovi la lettera b).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 aprile 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Dal sito https://www.cortecostituzionale.it/default.do



Incandidabilità alle elezioni amministrative se c’è stata sentenza di condanna patteggiata

Elezioni – Incandidabilità - Sentenza di condanna patteggiata – E’ motivo di incandidabilità. 
         Ai sensi dell’art. 12, comma 3, del D.Lgs. n. 235 del 2012 l’unica causa di estinzione della condizione di incandidabilità dovuta a reati commessi è la sentenza di riabilitazione; ad essa non può essere equiparata la causa di estinzione del reato di cui all’art. 445, ultimo comma, c.p.p., giacché è correlata alla condizione oggettiva del mero decorso del tempo, mentre la riabilitazione è preceduta da una valutazione del giudice in ordine al ravvedimento del reo che abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta (1)

Ha chiarito il Tar che le due figure della riabilitazione e dell’estinzione del reato e degli effetti penali possono ritenersi equivalenti sotto il profilo sostanziale, dal momento che l’estinzione del reato e degli effetti penali della condanna di cui all’art. 445 c.p.p. discende dal mero decorso del tempo ove il condannato non commetta altro reato della stessa indole nel termine di cinque anni, mentre nel caso della riabilitazione l’effetto estintivo si verifica solo se il condannato ha dato prove effettive e costanti di buona condotta, rilevando il profilo soggettivo rilevato ex post dal giudice.
Ai fini della riabilitazione non è, difatti, sufficiente la mancata commissione di altri reati, come nel caso dell’estinzione conseguente al patteggiamento ai sensi dell’art. 445 c.p.p., ma occorre l’accertamento del “completo ravvedimento dispiegato nel tempo e mantenuto sino al momento della decisione, e tradotto anche nella eliminazione (ove possibile) delle conseguenze civili del reato” (Cass. pen., sez. I, 18 giugno 2009, n. 31089).
Mentre, infatti, l’estinzione della pena patteggiata si produce con il solo mancato avveramento della condizione risolutiva nel previsto arco temporale, la riabilitazione viene pronunziata all’esito di un effettivo approdo rieducativo del reo, così emergendo la diversità degli istituti dell'estinzione del reato e della riabilitazione per presupposti e modalità di funzionamento atteso che: l'estinzione del reato è istituto che si fonda, ai sensi dell'art. 167, comma 1, c.p., sul decorso dei termini stabiliti unitamente ad ulteriori elementi (il condannato non commetta entro tali termini un delitto, ovvero una contravvenzione della stessa indole, e adempia gli obblighi impostigli); la riabilitazione è un beneficio che può essere concesso solo a seguito di una pronuncia del Tribunale di sorveglianza con cui si riscontri che è decorso il termine fissato dalla legge “ dal giorno in cui la pena principale è stata eseguita o si è in altro modo estinta, e il condannato ha dato prove effettive e costanti di buona condotta ” ex art. 179, comma 1, c.p. (Cons. St., sez. V, 31 gennaio 2017, n. 386).
La Corte di Cassazione ha difatti riconosciuto al condannato, la cui pena sia stata medio tempore estinta ex art. 445, comma 2, c.p.c., l’interesse a chiedere la riabilitazione, in quanto correlato ad una completa valutazione post factum, non irrilevante sul piano dei diritti della persona (Cass. pen., sez. I, 18 giugno 2009, n. 31089).
Ne consegue che sebbene entrambi gli istituti – della riabilitazione e dell’estinzione della pena patteggiata - assicurino al condannato la cessazione degli effetti penali della condanna, non possono ritenersi sovrapponibili ed equiparabili, in quanto solo con la riabilitazione si acquista la certezza dell’effettiva rieducazione del reo, poiché l’estinzione ex art. 445 c.p.p. deriva dal solo dato fattuale del mero decorso del tempo.