giovedì 30 giugno 2016



Diritto di accesso (inapplicabile) al certificato di destinazione urbanistica

Tar Piemonte 18 giugno 2016, n. 887

Il certificato di destinazione urbanistica non è soggetto alle norme in materia di accesso ai documenti amministrativi, non essendo un “documento” già formato e “detenuto” dalla Pubblica Amministrazione – come richiesto dalla normativa di settore - ma implicando lo svolgimento di un’attività ulteriore di carattere accertativo e dichiarativo della P.A., sulla scorta delle risultanze della strumentazione urbanistica: attività inammissibile in sede di accesso agli atti, che presuppone il carattere già formato e precostituito del documento oggetto dell’istanza, suscettibile di essere osteso all’interessato attraverso una semplice attività di ricerca e di rilascio di copia [aggiunge il Collegio, richiamando altra giurisprudenza amministrativa: “Il certificato di destinazione urbanistica rientra nella categoria degli atti di certificazione redatti da pubblico ufficiale aventi carattere dichiarativo o certificativo del contenuto di atti pubblici preesistenti e pertanto esso non può essere sussunto nella categoria del documento amministrativo così come definito dall’art. 22 l. 7 agosto 1990, n. 241, costituendo l’esercizio di una funzione dichiarativa o certificativa sulla base degli atti di strumentazione urbanistica; pertanto, il suo rilascio non può avvenire nelle forme del diritto di accesso, ma secondo le specifiche fonti normative, legislative e regolamentari, che precipuamente riguardano tali tipi di atti amministrativi”]


FATTO e DIRITTO
1. Con ricorso notificato il 18-22 marzo 2016 e depositato il 1° aprile successivo, la signora F.G., agendo in proprio ai sensi dell’art. 23 cod. proc. amm., ha premesso di aver presentato in data 21 gennaio 2016 al Segretario Comunale del Comune di M. un’istanza concernente il rilascio del certificato di destinazione urbanistica (storicizzato dal 10 gennaio 2012), relativo alle seguenti particelle catastali: OMISSIS, autocertificandone la comproprietà con i signori F.G. e G.G., a dimostrazione della titolarità di una situazione soggettiva giuridicamente rilevante all’accesso; tuttavia, l’istanza in questione sarebbe stata respinta dall’Amministrazione.
Attraverso una serie di considerazioni di carattere generale, non sempre di agevole percezione, la ricorrente ha chiesto a questo Tribunale di dichiarare il suo diritto di accedere al predetto documento, con conseguente condanna dell’amministrazione comunale a rilasciarne copia alla ricorrente.
2. Il Comune di M. non si è costituito in giudizio.
3. All’udienza in camera di consiglio dell’8 giugno 2016, nessuna delle parti presente, la causa è stata trattenuta per la decisione.
4. Il ricorso va dichiarato inammissibile, non essendo stati prodotti in giudizio né l’asserito provvedimento di diniego di accesso adottato dall’amministrazione comunale, né l’istanza di accesso asseritamente presentata dalla ricorrente in data 21 gennaio 2016, rispetto alla quale valutare l’eventuale formazione del silenzio rigetto di cui all’art. 25 L. n. 241/90.
5. Solo per completezza – e fermo il rilievo dell’inammissibilità – il ricorso è pure infondato nel merito.
La giurisprudenza ha infatti affermato che “Il certificato di destinazione urbanistica rientra nella categoria degli atti di certificazione redatti da pubblico ufficiale aventi carattere dichiarativo o certificativo del contenuto di atti pubblici preesistenti e pertanto esso non può essere sussunto nella categoria del documento amministrativo così come definito dall’art. 22 l. 7 agosto 1990, n. 241, costituendo l’esercizio di una funzione dichiarativa o certificativa sulla base degli atti di strumentazione urbanistica; pertanto, il suo rilascio non può avvenire nelle forme del diritto di accesso, ma secondo le specifiche fonti normative, legislative e regolamentari, che precipuamente riguardano tali tipi di atti amministrativi” (T.A.R. Potenza, sez. I  29 gennaio 2016 n. 55; T.A.R. Lecce, sez. II  17 settembre 2009 n. 2121  
In sostanza, il certificato di destinazione urbanistica non è soggetto alle norme in materia di accesso ai documenti amministrativi, non essendo un “documento” già formato e “detenuto” dalla Pubblica Amministrazione – come richiesto dalla normativa di settore - ma implicando lo svolgimento di un’attività ulteriore di carattere accertativo e dichiarativo della P.A., sulla scorta delle risultanze della strumentazione urbanistica: attività inammissibile in sede di accesso agli atti, che presuppone il carattere già formato e precostituito del documento oggetto dell’istanza, suscettibile di essere osteso all’interessato attraverso una semplice attività di ricerca e di rilascio di copia.
6. Alla luce di tali considerazioni, il ricorso va dichiarato inammissibile.
7. Non vi è luogo per provvedere sulle spese di lite, attesa la mancata costituzione in giudizio dell’amministrazione intimata.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile, nei sensi precisati in motivazione.
Nulla sulle spese di lite.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

mercoledì 29 giugno 2016




Regolamenti amministrativi – Impugnabilità e sindacato giurisdizionale

Cons. di Stato, V, 13 giugno 2016, n. 2518

Il valore e forza di atto normativo riconosciute ai regolamenti amministrativi, nel sistema gerarchico vigente nel nostro ordinamento, non li sottrae al sindacato giurisdizionale previsto dall’art. 113 Cost., in ragione della loro natura di atti formalmente amministrativi, e più precisamente di «atti amministrativi generali a contenuto normativo» (art. 14, comma 2, d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199 - Semplificazione dei procedimenti in materia di ricorsi amministrativi, che appunto presuppone l’annullabilità di questa tipologia di atti). In contrario non giova nemmeno richiamare la norma di riparto della potestà regolamentare tra i diversi livelli di governo in cui ai sensi dell’art. 114 della Costituzione si articola la Repubblica italiana, e cioè il citato art. 117, comma 6, recante l’attribuzione ai Comuni del potere regolamentare «in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite». Infatti, nel definire i rapporti tra tali livelli di governo la norma di riparto in esame non svolge alcuna funzione di eccettuare i regolamenti comunali dalla garanzia enunciata nel poc’anzi richiamato art. 113, valevole del resto anche nei confronti dei regolamenti governativi, anch’essi riconosciuti dalla Costituzione (art. 87, comma 5).

La consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato esclude l’impugnabilità di atti regolamentari o di provvedimenti amministrativi a carattere generale quando la lesione non derivi direttamente dagli stessi, ma solo dai successivi atti esecutivi, i cui contenuti non siano già preordinati e vincolati dalla fonte regolamentare, ammettendola, a contrario, quando invece tale vincolo sia configurabile e gli atti da emanare in base al regolamento assumano quindi carattere di mera applicazione delle norme in esso contenute

sabato 25 giugno 2016





Cons. di Stato, I, 24 giugno 2016, n. 1504/2016 (adunanza del 8 giugno 2016, n. 194/2015), Quesito relativo al trattamento giuridico ed economico dei dipendenti pubblici nominati alla carica di Assessore regionale

L’art. 68 del d. lgs. 165/2001 non è applicabile al caso dei dipendenti pubblici nominati alla carica di Assessore regionale senza essere membri del Consiglio regionale [in merito all’istituto dell’analogia, suggerito dalla presidenza del Consiglio, il Collegio osserva che: a)l’’analogia interviene nei casi in cui manca una disposizione, ma esiste una norma, quella appunto ricavabile dall’analogia, che attinge ad altre disposizioni di legge (analogia legis), o ai principi generali dell’ordinamento (analogia iuris), configurandosi quale figura di collegamento tra il caso e la disposizione che non lo regola, ma alla cui norma può essere riportato; b)diversamente dall’interpretazione e dalle altre forme di estensione dell’ordinamento, l’analogia risolve il problema insorgente dalla lacuna mediante ricorso ad una o più norme vigenti la cui ratio sia tale da comprendere anche il caso non regolato; c)il procedimento per analogia è più complesso dell’interpretazione, perché occorre non solo interpretare la disposizione da applicare al caso non previsto dalla legge, ma anche accertare l’affinità del caso a tale disposizione, analizzando gli indicatori della ratio che lo accomuna al caso contemplato, nel duplice senso di principio superiore di diritto da cui la disposizione è derivata e di scopo pratico che la legge persegue; d)benché abbia il medesimo contenuto della norma che ha una disposizione, la norma creata con l’analogia è nuova. La norma è costituita da tre componenti: il fatto, la regola, l’effetto; la norma desunta per analogia condivide con quella da cui è ricavata la regola e l’effetto, ma non il fatto]


LA SEZIONE
Vista la nota di trasmissione della relazione prot. n. 857 in data 05/02/2015 con la quale il Presidenza del consiglio dei ministri - segretariato generale ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto;
Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Francesco Bellomo;

PREMESSO:
La Presidenza del Consiglio dei ministri chiede un parere sull’applicabilità dell’art. 68 del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165 al caso dei dipendenti pubblici nominati alla carica di Assessore regionale senza essere membri del Consiglio regionale.
La disposizione prevede che “I dipendenti delle pubbliche amministrazioni eletti al Parlamento nazionale, al Parlamento europeo e nei Consigli regionali sono collocati in aspettativa senza assegni per la durata del mandato. Essi possono optare per la conservazione, in luogo dell'indennità parlamentare e dell'analoga indennità corrisposta ai consiglieri regionali, del trattamento economico in godimento presso l'amministrazione di appartenenza, che resta a carica della medesima. II periodo di aspettativa e utile ai fini dell'anzianità di servizio e del trattamento di quiescenza e di previdenza. II collocamento in aspettativa ha luogo all'atto della proclamazione degli eletti: di questa le Camere ed i Consigli regionali danno comunicazione alle amministrazioni di appartenenza degli eletti per i conseguenti provvedimenti. Le regioni adeguano i propri ordinamenti ai principi di cui ai commi 1, 2 e 3”.
Ad avviso Presidenza del Consiglio dei ministri, poichè l’ipotesi del dipendente pubblico chiamato a ricoprire la carica di Assessore regionale, senza rivestire lo status di consigliere (c.d. Assessore per nomina diretta o Assessore esterno), è priva di una regolamentazione ad hoc, il citato articolo potrebbe trovare applicazione.
Si evidenzia, al riguardo, che nel modello regionale delineato dalla riforma costituzionale, la figura dell'Assessore regionale esterno nominato dal Presidente della Giunta concorre all'interno della Giunta regionale, alla direzione collegiale delle funzioni amministrative regionali in modo assolutamente identico agli assessori scelti all'interno del Consiglio regionale.
Per motivi di coerenza logico-sistematica e, in particolare, per evitare disparita nei trattamenti, si dovrebbe ritenere che la disciplina di cui al citato art. 68 del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165 possa trovare integrale applicazione anche nei confronti degli Assessori estranei alla compagine consiliare. Il mancato riferimento, nel testo dell'art. 68 alla figura degli Assessori “non eletti” non impedirebbe l’ampliamento dell'ambito soggettivo della fattispecie, poiché, in presenza di una lacuna del sistema, al criterio letterale dovrebbero subentrare i criteri ermeneutici estensivo-analogici.
La Sezione ha disposto istruttoria per acquisire il parere del Dipartimento della funzione pubblica e del Dipartimento degli affari regionali, il quale ultimo potrà anche riferire sulle soluzioni adottate nelle Regioni che hanno legiferato in materia.
L’istruttoria non è stata adempiuta, nonostante un sollecito, con l’avvertenza che, in mancanza, si sarebbe risposto al quesito in assenza del parere delle Autorità interessate.
CONSIDERATO:
A fronte dell’univoco tenore letterale della disposizione, che si riferisce solo alle cariche elettive, della stessa è in astratto configurabile solo un’applicazione a titolo di analogia al caso dell’assessore esterno.
L’analogia interviene nei casi in cui manca una disposizione, ma esiste una norma, quella appunto ricavabile dall’analogia, che attinge ad altre disposizioni di legge (analogia legis), o ai principi generali dell’ordinamento (analogia iuris). L’analogia è, dunque, una figura di collegamento tra il caso e la disposizione che non lo regola, ma alla cui norma può essere riportato.
Da qui emerge la differenza con l’interpretazione e con altre forme di estensione dell’ordinamento: diversamente da tali procedimenti l’analogia risolve il problema insorgente dalla lacuna mediante ricorso ad una o più norme vigenti la cui ratio sia tale da comprendere anche il caso non regolato.
Il procedimento per analogia è dunque più complesso dell’interpretazione, perché occorre non solo interpretare la disposizione da applicare al caso non previsto dalla legge, ma anche accertare l’affinità del caso a tale disposizione, analizzando gli indicatori della ratio che lo accomuna al caso contemplato, nel duplice senso di principio superiore di diritto da cui la disposizione è derivata e di scopo pratico che la legge persegue.
Benché abbia il medesimo contenuto della norma che ha una disposizione, la norma creata con l’analogia è nuova. La norma è costituita da tre componenti: il fatto, la regola, l’effetto; la norma desunta per analogia condivide con quella da cui è ricavata la regola e l’effetto, ma non il fatto. A regolare il caso non previsto è la disposizione che prevede il caso simile, ma una diversa norma, costruita utilizzando detta disposizione.
Tale meccanismo non sembra poter operare nell’ipotesi in esame, poiché tra il caso regolato e quello non espressamente previsto non vi è la necessaria simmetria: la situazione del dipendente pubblico eletto in un’assemblea (europea, nazionale o) regionale è ben diversa da quello del dipendente pubblico nominato in una giunta regionale.
Né si può accostare il caso dell’Assessore regionale che è anche Consigliere regionale a quello dell’Assessore esterno: l’art. 68 del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165 non si occupa dell’Assessore regionale che è anche Consigliere regionale, ma del Consigliere regionale, e ciò sul presupposto che si tratta di carica elettiva, come le altre due contemplate dalla disposizione.
In sostanza, la legge disciplina la posizione del dipendente pubblico chiamato a funzioni legislative in forza di un’elezione popolare, ed è in virtù di questa posizione – non già dell’ingresso nell’organo esecutivo – che il trattamento giuridico ed economico speciale è previsto.
Occorre considerare, altresì, che la citata disposizione prevede obbligatoriamente il collocamento in aspettativa del dipendente pubblico, soluzione poco appropriata nell’ipotesi in cui il dipendente sia chiamato a ricoprire una carica non elettiva.
In tal senso, sarebbe più congrua l’applicazione al caso in esame dell’art. 81 Testo Unico sugli enti locali, secondo il quale “I sindaci, i presidenti delle province, i presidenti dei consigli comunali e provinciali, i presidenti dei consigli circoscrizionali dei comuni di cui all'articolo 22, comma 1, i presidenti delle comunità montane e delle unioni di comuni, nonché i membri delle giunte di comuni e province, che siano lavoratori dipendenti possono essere collocati a richiesta in aspettativa non retribuita per tutto il periodo di espletamento del mandato. Il periodo di aspettativa è considerato come servizio effettivamente prestato, nonché come legittimo impedimento per il compimento del periodo di prova […]”.
In conclusione, al quesito sull’applicabilità dell’art. 68 del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165 al caso dei dipendenti pubblici nominati alla carica di Assessore regionale senza essere membri del Consiglio regionale, deve darsi risposta negativa.
P.Q.M.
Nei sensi di cui sopra è il parere della Sezione.

venerdì 24 giugno 2016




Collaboratori volontari (dei patronati) e accesso alle banche dati (degli enti previdenziali)

Cons. di Stato, VI, 23 giugno 2016, n. 2798

L’accesso dei collaboratori volontari dei patronati alle banche dati degli enti previdenziali è necessario per  consentire la collaborazione istruttoria


DECISIONE
ex artt. 38 e 60 cod. proc. amm. sul ricorso numero di registro generale 683 del 2016 proposto dal
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12;
per la riforma
della sentenza breve del T.A.R. LAZIO -ROMA -SEZIONE III BIS, n. 13764/2015, resa tra le parti, concernente “vademecum per lo svolgimento dell'attività di vigilanza sugli istituti di patronato e di assistenza sociale nella parte in cui non consente al collaboratore del patronato di accedere alle banche dati degli enti previdenziali”;

Visto il ricorso in appello, con i relativi allegati;
Vista la memoria di costituzione in giudizio del Patronato INCA CGIL e del Patronato ITAL UIL;
Visto l’atto di intervento “ad adiuvandum” ex art. 97 del cod. proc. amm. dei patronati EPACA, EPASA –ITACO, 50 E PIU’ ENASCO, ENAPA e INAPA, con i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del 21 aprile 2016 il cons. Marco Buricelli e uditi per le parti gli avvocati Bruno Dettori per il Ministero appellante, Mario Sanino per gli appellati e Raffaele Bifulco per gli intervenienti;
Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue.

1.Gli istituti di patronato Inca Cgil e Ital Uil hanno impugnato davanti al Tar del Lazio il provvedimento del Ministero del Lavoro del 7.8.2015 avente a oggetto il “Vademecum per lo svolgimento della attività di vigilanza sugli Istituti di patronato e di assistenza sociale”, nella parte in cui non consente al collaboratore volontario del patronato di accedere alle banche dati degli enti previdenziali.
Con la sentenza in epigrafe il giudice di primo grado, dopo avere rilevato in via preliminare che con la sentenza n. 523 del 2015 il Tar del Friuli –Venezia Giulia aveva definito, accogliendolo, un ricorso che riguardava “una questione assolutamente analoga a quella in trattazione nel presente giudizio” (la questione decisa dal Tar di Trieste concerneva la conformità, o meno, alla normativa, della circostanza che i collaboratori volontari dell’istituto di patronato ricorrente avessero il possesso delle password di accesso ai sistemi informatici di INPS e INPDAP), ha trascritto argomentazioni e conclusioni della citata sentenza n. 523 del 2015, condividendole e recependole e, per l’effetto, ha annullato l’atto impugnato “siccome affetto dalla dedotta illegittimità”, compensando le spese del giudizio tra le parti trattandosi di questione nuova.
In particolare la sentenza:
- ha osservato che, ferma la distinzione tra operatore dipendente dall'istituto di patronato e collaboratore volontario, tale per cui solamente il primo è responsabile anche verso l'esterno e firma gli atti del patronato stesso, mentre il collaboratore svolge solo compiti di informazione, istruzione, raccolta e consegna delle pratiche, la disciplina sui patronati e, in particolare, l'art. 6 della l. n. 152 del 2010, va interpretata alla luce del d. lgs n. 82 del 2005 sulla digitalizzazione dell’Amministrazione e della l. n. 122 del 2010 sull'uso esclusivo dei sistemi telematici nei rapporti con la P. A. , vale a dire “nell’ottica del nuovo quadro normativo”;
- ha statuito che l’attività di “istruzione delle pratiche” attribuita ai collaboratori volontari “implica per sua stessa natura l'accesso alle banche dati pubbliche, il che equivale nell'attuale situazione all'accesso ai documenti cartacei nel precedente sistema. Fermo restando quindi che spetta solo all'operatore la stesura e la validazione finale di ogni tipo di documento, oltre che la responsabilità dei suoi contenuti, non si vede per quale ragione un collaboratore volontario non possa accedere alle banche dati per acquisire informazioni e dati, istruire la pratica e predisporre un testo che naturalmente non può che essere valorizzato e utilizzato dall'operato responsabile;
- ha specificato che quanto poi alla consegna del documento finale redato dal patronato essa può avvenire ad opera del collaboratore anche utilizzando la via informatica, naturalmente anche in tal caso sotto la responsabilità dell’operatore cui va imputata la redazione del documento stesso. Attualizzando e “traducendo” il testo della legge numero 152 del 2001 nell’ambito della digitalizzazione della pubblica amministrazione, “l’accesso alle banche dati da parte dei collaboratori risulta non solo facoltativo ma necessitato” al fine di rendere effettiva la collaborazione con gli operatori nell'ambito dell’istruzione delle pratiche;
- ha soggiunto che eventuali istruzioni interne contrarie alla ricostruzione normativa fornita sono irrilevanti, tenuto conto dell'usuale canone di gerarchia delle fonti, e che ogni uso improprio delle banche dati sarà sanzionato sia in via diretta dal patronato e sia dal Ministero in sede di controllo.
2.Ministero, che ha proposto appello con istanza di sospensiva. Dopo un inquadramento normativo generale sugli enti di patronato, e dopo avere evidenziato che il Vademecum “segnala che (ai collaboratori che operino in modo volontario e gratuito) non può essere consentito l’accesso alle banche dati degli Enti previdenziali, di esclusiva competenza degli operatori di Patronato. I compiti a essi attribuiti sono quelli tassativamente individuati nell’art. 6 della legge n. 152/2001 e contenuti nel modello di convenzione approvato dal Ministero del Lavoro e allegato alla circolare n. 10/2010…ciò in quanto una confusione tra i due ruoli porrebbe problemi di compatibilità con la normativa sulla tutela della riservatezza dei dati personali, nonché sulla diversa responsabilità dell’operatore di Patronato e del collaboratore volontario”, l’appellante:
2.1. in primo luogo deduce l'inammissibilità del ricorso introduttivo di primo grado, essendo stato impugnato un atto interno non lesivo di alcuna posizione di diritto soggettivo o di interesse legittimo;
2.2. in secondo luogo rileva che la sentenza sarebbe incorsa in ultrapetizione in quanto il Tar avrebbe annullato l'intero vademecum, quantunque nel ricorso introduttivo le parti ricorrenti avessero chiesto al giudice di annullare il provvedimento ministeriale del 7 agosto 2015 esclusivamente “nella parte in cui non consente al collaboratore del patronato di accedere alle banche dati degli enti previdenziali”;
2.3. con il terzo motivo di appello la sentenza è contestata nel merito per avere il Tar del Lazio ritenuto che la questione risolta dal Tar Friuli Venezia Giulia con la sentenza n. 523 del 2015 fosse analoga a quella sottoposta al giudizio del primo Tar;
2.4. infine il Ministero rimarca che la sentenza di primo grado avrebbe errato nel ritenere possibile e legittimo l'accesso alle banche dati degli enti previdenziali anche da parte dei collaboratori volontari dato che così facendo si determina una sostanziale parificazione di ruoli tra collaboratori volontari e operatori professionali dei patronati, e ciò in violazione dell'art. 17 del d. lgs. n. 152 del 2001. La parificazione suddetta è sempre stata negata dalla normativa in materia, diretta a ribadire la distinzione e la separazione di compiti tra l’operatore dipendente dall’istituto di patronato e il collaboratore volontario. Del resto, in base a quanto dispone il citato art. 6, ai collaboratori volontari non possono essere attribuiti poteri di rappresentanza degli assistiti. Il mandato di assistenza conferito all’istituto di patronato deve essere firmato dal mandante e dall’operatore autorizzato a riceverlo dall’istituto di patronato. L’attribuzione, ai collaboratori volontari, delle credenziali di accesso alle banche dati degli enti previdenziali conferirebbe la possibilità, ai collaboratori medesimi, di compiere, per conto dell’utente, tutte le attività previste, senza limiti, pur in assenza della qualifica e della preparazione professionale proprie degli operatori. Inoltre, la ricostruzione interpretativa seguita in sentenza comporta il rischio di favorire la costituzione di fatto di un vincolo sinallagmatico del collaboratore volontario con il patronato, e ciò in violazione dell'art. 6 della l. n. 152 del 2001 che prevede il carattere solo occasionale della collaborazione volontaria e gratuita.
3. Il patronato EPACA e gli altri meglio specificati in epigrafe hanno svolto intervento “ad adiuvandum” della posizione del Ministero, premettendo di essersi sempre attenuti alla lettera della legge e della prassi amministrativa e di avere tenuto ben distinta la figura dell’operatore da quella del collaboratore volontario.
Nell'atto di intervento si è osservato tra l’altro che la sentenza di primo grado, consentendo al patronato di svolgere attività di assistenza mediante personale privo di un’adeguata formazione, responsabilità e controllo, finisce con l’attribuire poteri di rappresentanza ai collaboratori volontari, con ricadute pesanti sulla qualità del servizio reso dai patronati.
INCA CGIL e ITAL UIL si sono costituiti per resistere, concludendo per il rigetto dell'appello che nella camera di consiglio del 21 aprile 2016, sentite le parti, è stato trattenuto in decisione.
4. L’appello è infondato e va respinto. La sentenza va confermata.
4.1. In rito (v. sopra, punti 2.1. e 2.2.), in primo luogo, diversamente da quanto afferma l’Amministrazione appellante, il provvedimento ministeriale in epigrafe, nella parte in cui non consente ai collaboratori volontari di patronato di ottenere la password per poter accedere alle banche dati degli enti previdenziali, è lesivo in via immediata e diretta della posizione giuridica degli istituti di patronato ricorrenti e odierni appellati, posto che il vademecum stesso non si limita a chiarire il significato di norme destinate a essere applicate dagli uffici territoriali del lavoro ma, come si dirà più avanti, al p. 4.2. , mira a innovare la normativa “comprimendo il ruolo” dei collaboratori volontari previsti dall’art. 6 della l. n. 152 del 2001.
Il carattere lesivo della indicazione del Vademecum è strettamente correlato alla diminuzione della funzione effettiva di collaborazione nell’attività di patronato, con riguardo, in particolare, ai compiti di istruzione delle pratiche.
Il Vademecum ha dunque un contenuto provvedimentale lesivo della situazione giuridica fatta valere dagli istituti di patronato.
Di qui l’interesse alla impugnazione del Vademecum “in parte qua”.
In secondo luogo, il Tar non è incorso in nessuna “ultrapetizione”.
Poiché i motivi di censura “segnano” l’ambito del potere giurisdizionale di annullamento, dato che nel ricorso di primo grado gli istituti di patronato –come gli stessi appellati riconoscono- avevano domandato al giudice di annullare il provvedimento ministeriale del 7 agosto 2015 nella sola parte in cui non è consentito al collaboratore volontario di accedere alle banche dati degli enti previdenziali, deducendo una limitazione illegittima dei compiti del collaboratore medesimo, ne consegue che l’accoglimento e l’annullamento giurisdizionali, qui confermati, si riferiscono e, ove occorra, per esigenze di chiarezza, vanno circoscritti a quella prescrizione del Vademecum con la quale si vieta ai collaboratori volontari di accedere alle banche dati e si afferma che l’accesso anzidetto rientra nella competenza esclusiva degli operatori di patronato.
4.2. Quanto al merito (v. sopra, punti 2.3. e 2.4.), occorre rilevare preliminarmente che la controversia dinanzi al Tar di Trieste, pur traendo origine da una istanza di rettifica, inutilmente avanzata al Ministero, da un istituto di patronato, avverso un verbale di accertamento ispettivo, nella parte in cui tale verbale aveva disconosciuto le convenzioni di alcuni collaboratori volontari trovati in possesso di password per accedere ai servizi informatici al fine di raccogliere le pratiche e di rilevare i dati da consegnare poi all’operatore di patronato; la causa riguardava, effettivamente, una questione “assolutamente analoga a quella in trattazione” nel giudizio dinanzi al Tar del Lazio. Di qui la correttezza del richiamo, operato nella sentenza impugnata, alle argomentazioni e alle conclusioni della decisione del Tar Friuli –Venezia Giulia.
Sempre in via preliminare pare il caso di rammentare che l'art. 6 della citata l. n. 152 del 2001, recante la nuova “disciplina per gli istituti di patronato ed assistenza sociale", regolamenta in dettaglio i compiti del personale presente all'interno del Patronato.
In particolare, con il citato art. 6 è stato stabilito che gli istituti di patronato e di assistenza sociale, per lo svolgimento delle proprie attività operative:
a) possono " ... avvalersi esclusivamente di lavoratori subordinati dipendenti degli istituti stessi o dipendenti delle organizzazioni promotrici, se comandati presso gli istituti stessi ..." (comma 1);
b) è comunque ammessa "la possibilità di avvalersi, occasionalmente, di collaboratori che operino in modo volontario e gratuito esclusivamente per lo svolgimento dei compiti di informazione, di istruzione delle pratiche, nonché di raccolta e consegna delle pratiche agli assistiti e agli operatori o, su indicazione di questi ultimi, ai soggetti erogatori delle prestazioni. In ogni caso, ai collaboratori di cui al presente comma non possono essere attribuiti poteri di rappresentanza degli assistiti. Resta fermo il diritto dei collaboratori al rimborso delle spese autorizzate secondo accordo ed effettivamente sostenute e debitamente documentate, per l'esecuzione dei compiti affidati. Le modalità di svolgimento delle suddette collaborazioni devono risultare da accordo scritto vistato dalla competente Direzione provinciale del lavoro e per l'estero dalle autorità consolari e diplomatiche" (comma 2);
c) esclusivamente per determinate attività "... di cui agli articoli 8 e 10 e per periodi limitati di tempo, in corrispondenza di situazioni di particolare necessità ed urgenza, gli istituti di patronato e di assistenza sociale possono stipulare contratti di collaborazione coordinata e continuativa" (art. 6 comma 3).
Per assolvere ai propri compiti istituzionali, quindi, gli istituti di patronato utilizzano i c. d. "operatori di patronato", i quali ai sensi del citato comma 1 sono "lavoratori subordinati dipendenti degli istituti stessi o dipendenti delle organizzazioni promotrici, se comandati presso gli istituti"; e i c. d. "collaboratori volontari", i quali operano in forma volontaria e gratuita (si tratta in genere di delegati sindacali di categoria o dei pensionati) e che in virtù del citato comma 2, pur non avendo poteri di rappresentanza, svolgono "compiti di informazione, di istruzione delle pratiche, nonché di raccolta e consegna delle pratiche agli assistiti e agli operatori o, su indicazione di questi ultimi, ai soggetti erogatori delle prestazioni."; e possono avvalersi altresì di altri soggetti (altri collaboratori) utilizzati esclusivamente per svolgere determinate attività e per limitati periodi di tempo, stipulando contratti di co. co. co. di cui al comma 3 dell'art. 6.
L’attività del patronato viene dunque posta in essere dagli operatori e dai collaboratori volontari, ciascuno in relazione agli ambiti rispettivi assegnati loro dalla legge. I collaboratori volontari, pur non avendo potere di rappresentanza dell'assistito (anche se, come gli appellati non mancano di osservare, il modello di mandato rilasciato dall’assistito, oltre a contenere uno spazio per inserire i dati dell’operatore di patronato, significativamente ne reca anche un altro per indicare anche i dati dell’eventuale collaboratore che ha raccolto e istruito la pratica stessa), in coerenza con quanto previsto dall'art. 6 della l. n. 152 del 2001 informano gli utenti, raccolgono il mandato e la documentazione necessaria al fine di istruire le pratiche e raccolgono e consegnano le pratiche agli assistiti e agli operatori o, su indicazione di questi ultimi, ai soggetti erogatori delle prestazioni. Gli operatori, invece, dotati di potere di rappresentanza dell'assistito, analizzano, valutano, rielaborano, sottoscrivono e dispongono l'invio agli enti previdenziali delle pratiche raccolte e istruite, anche dai collaboratori. Gli operatori costituiscono quindi la “figura professionale” dell’ente di patronato e assumono la responsabilità “finale”, verso l’esterno, dell’attività compiuta.
Va poi soggiunto che l’art. 17 della l. n. 152 del 2001 –divieti e sanzioni, prevede che “è fatto divieto agli istituti di patronato e di assistenza sociale di avvalersi, per lo svolgimento delle proprie attività, di soggetti diversi dagli operatori di cui all'articolo 6. La violazione del suddetto divieto comporta, per la sede in cui si è verificata detta violazione, la decadenza dal diritto ai contributi finanziari di cui all'articolo 13, per le attività svolte dalla sede in cui si è verificata la infrazione”.
Ciò posto, alla luce della normativa di riferimento innanzi riportata il Collegio osserva anzitutto che, diversamente da quanto ritiene l’appellante, e in modo conforme a ciò che si è statuito in sentenza di prime cure, nel consentire ai collaboratori volontari l’accesso alle banche dati degli enti previdenziali non si viene a determinare alcuna parificazione o commistione di ruoli tra operatori di patronato e collaboratori volontari.
Come correttamente rilevato in sentenza, al p. 3.1., la separazione tra le due figure e la distinzione di compiti tra operatore di patronato e collaboratore volontario, ribadita sopra e bene delineata dal Tar, persiste.
La distinzione anzidetta non sbiadisce ove si consenta al collaboratore volontario di accedere munito di password alle banche dati degli enti previdenziali.
La responsabilità “finale”, ed esterna, dell’operatore di patronato, rimane ferma (v. sent. , punti 3.1. e 3.2.).
E’ poi esatto (v. sent. , p. 3.2.) che i compiti di “istruzione delle pratiche” ex art. 6, comma 2, cit. implicano, per loro stessa natura, l’accesso alle banche dati degli enti previdenziali.
Negare ai collaboratori volontari l’accesso alle banche dati degli enti previdenziali vorrebbe dire impedire in concreto, ai collaboratori medesimi, di espletare gran parte dei compiti attribuiti loro dalla disposizione di riferimento e in particolare di istruire e consegnare le pratiche e ciò in un contesto anche di “alleviamento”, specie nei riguardi di alcuni segmenti di utenza, dei disagi legati al c. d. “digital divide” (divario digitale).
In maniera condivisibile quindi la sentenza appellata, al p. 3.4. , ha affermato che “attualizzando e traducendo il testo della l. n. 152 del 2001 nell’ambito della digitalizzazione della P. A. l’accesso alle banche dati da parte dei collaboratori risulta non solo facoltativo ma anche necessitato” allo scopo di rendere possibile la collaborazione istruttoria con gli operatori. E bene gli appellati sottolineano che il divieto di accesso alle banche dati si sostanzia in una illegittima limitazione dei compiti del collaboratore volontario il quale, privato della facoltà di accesso anzidetta, non potrà compiere l'istruttoria necessaria ai fini della predisposizione delle pratiche oggetto dell'attività del patronato.
Del resto, l’avvalimento di collaboratori volontari e gratuiti per lo svolgimento dei compiti indicati all’art. 6 della l. n. 152 del 2001 nel quadro attuale di digitalizzazione e di telematizzazione dei procedimenti nel settore in questione si pone negli stessi termini ed entro il medesimo perimetro che caratterizza(va) l’attività di collaborazione volontaria nella precedente disciplina, contraddistinta dalla “gestione cartacea”, per così dire, dei procedimenti stessi.
Le nuove modalità di conservazione e di gestione digitalizzata dei dati non possono essere di ostacolo a uno svolgimento effettivo ed efficace dei compiti propri del collaboratore volontario: diversamente opinando, risulterebbe illegittimamente “danneggiato” il servizio stesso –si noti, di “pubblica utilità” (cfr. art. 1 della l. n. 152 del 2001)- dell’ente di patronato.
Risulta improprio, quindi, ipotizzare una parificazione sostanziale tra le due figure.
La previsione di accesso alle banche dati non comporta alcun pericolo di commistione di ruoli tra operatore di patronato e collaboratore volontario. L’ “interezza” dell’assunzione di responsabilità in capo all’operatore non viene in alcun modo scalfita dalla previsione della possibilità, per i collaboratori volontari, di accedere ai sistemi informatici di INPS e INPDAP, appunto perché l'accesso di per sé non implica poteri di rappresentanza del patronato: rappresentanza e responsabilità permangono in capo all'operatore, il quale “valida” la pratica istruita dal collaboratore volontario.
La sopravvenuta normativa sulla digitalizzazione non ha abrogato l'art. 6 della l. n. 152 del 2001 e quindi l'attività di “istruzione delle pratiche” deve essere consentita anche con i nuovi sistemi e strumenti.
Inoltre, il divieto di cui all’art. 17 della l. n. 152 del 2001 va armonizzato con la disposizione di cui al citato art. 6 della stessa legge che, come detto, ammette la possibilità di avvalersi in via occasionale di collaboratori che operino in modo volontario e gratuito.
Il fatto poi che l’art. 6, comma 2, della l. n. 152 del 2001, nel fare riferimento all’attività dei collaboratori operanti in modo volontario e gratuito, usi l’avverbio “occasionalmente”, non può sovvertire l’esito della controversia dato che si tratta di un profilo che attiene alle modalità di organizzazione interna dell’attività degli istituti di patronato e non incide sulle modalità di esecuzione dell'attività da parte dei collaboratori. Come specificato poc’anzi, stando alla disciplina di cui alla l. n. 152 del 2001 assume comunque rilievo preminente la responsabilità “finale”, ed esterna, dell’operatore professionale.
Né, infine, possono porsi problemi ostativi di “compatibilità con la normativa sulla tutela della riservatezza dei dati personali”, avuto riguardo alla responsabilità, per la condotta (anche) dei collaboratori volontari, in capo all’istituto di patronato, il quale ben potrà, ove del caso, predisporre strumenti di conservazione e di tutela della riservatezza dei dati; al fatto che il collaboratore volontario a quanto consta può visionare solo la pratica che ha in lavorazione e non altre pratiche; e alla circostanza che l’assistito è invitato a sottoscrivere la dichiarazione di consenso ex d. lgs. n. 196 del 2003.
Senza tralasciare di considerare, come giustamente segnala il Tar al p. 4.1. , che ogni uso improprio delle banche dati verrà sanzionato dall’ente di patronato e dagli organi ministeriali di vigilanza e controllo sull’operato degli istituti di patronato.
Per le ragioni esposte sopra l’appello va respinto e, per l’effetto, la sentenza impugnata va confermata, con il conseguente annullamento del provvedimento impugnato in primo grado nella parte in cui non si consente al collaboratore volontario di accedere alle banche dati degli enti previdenziali.
La novità della questione trattata giustifica tuttavia la compensazione delle spese del grado di giudizio tra le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente decidendo sull’appello in epigrafe (n. R. G. 683 del 2016) lo respinge confermando, per l’effetto, la sentenza impugnata.
Spese del secondo grado di giudizio compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.







In tema di cimiteri ‘particolari’

Cons. di Stato, VI, 16 giugno 2016, n. 2667

“…Dalla lettura degli articoli 822 e 824 cod. civ. si desume che i beni demaniali possono essere necessari o eventuali (o accidentali).
I primi, per le loro qualità intrinseche, sono sottratti in assoluto alla proprietà privata e possono appartenere soltanto allo Stato o alle Regioni: si tratta del demanio marittimo, idrico e militare (artt. 822, primo comma, cod. civ.).
I secondi possono, invece, essere oggetto di proprietà privata e soltanto se appartengono ad un ente territoriale fanno parte del relativo demanio: tra questi il terzo comma dell’art. 824 cod. civ. include espressamente anche i «cimiteri».
La normativa di settore è contenuta nelle seguenti disposizioni:
- l’art. 107 del d.r. n. 448 del 1892 prevede che «i cimiteri particolari esistenti o da costruirsi per uso di un gruppo di popolazione, di congregazioni, o di qualsiasi altra associazione civile o religiosa, sono sempre sottoposti alla immediata vigilanza dell'autorità comunale» (tale norma è stata abrogata da regio decreto 21 dicembre 1942, n. 1880);
- l’art. 340 del regio decreto del 27 luglio 1934, n. 1265 (Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie) dispone che: «e’ vietato di seppellire un cadavere in luogo diverso dal cimitero. E' fatta eccezione per la tumulazione di cadaveri nelle cappelle private e gentilizie non aperte al pubblico, poste a una distanza dai centri abitati non minore di quella stabilita per i cimiteri»;
- l’art. 104, comma 4, del d.P.R. 10 agosto 1990, n. 285 (Approvazione del Nuovo Regolamento di Polizia Mortuaria) ha previsto che «le cappelle private costruite fuori dal cimitero, nonché i cimiteri particolari, preesistenti alla data di entrata in vigore del testo unico delle leggi sanitarie, approvato con regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, sono soggetti, come i cimiteri comunali, alla vigilanza dell'autorità comunale».
Dalla ricostruzione del quadro normativo rilevante risulta erronea la prospettazione dell’appellante secondo cui i cimiteri possono essere solo pubblici e quelli “particolari” appartenenti a soggetti diversi dagli enti pubblici sarebbero soltanto quelli creati prima del 1942 e che dopo tale data sarebbe possibile solo la continuazione di quelli precedenti.
Il dato rilevante, ai fini della individuazione della disciplina applicabile, è costituito dalla individuazione del soggetto proprietario del cimitero…”




giovedì 23 giugno 2016





Cass. 22 giugno 2016, n. 12962

È sufficiente, per l’adozione in casi particolari ex art. 44, comma 1, lett. d), della l. n. 184 del 1983, l’impossibilità “di diritto” di procedere all’affidamento preadottivo del minore, potendo accedere a tale adozione persone singole e coppie di fatto, senza che l’esame dei requisiti e delle condizioni imposte dalla legge possa svolgersi, anche indirettamente, attribuendo rilievo all’orientamento sessuale del richiedente ed alla natura della relazione da questi stabilita con il proprio “partner”.

Dal sito (anche per la sentenza completa)

sabato 18 giugno 2016





Decisione (Ue) del Consiglio 9 giugno 2016, n. 2016/954 (G.U.U.E. 16 giugno 2016, n. L 59/16) che autorizza una cooperazione rafforzata nel settore della competenza, della legge applicabile, del riconoscimento e dell'esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali delle coppie internazionali, con riferimento ai regimi patrimoniali tra coniugi e agli effetti patrimoniali delle unioni registrate

E’ stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 16 giugno (L 159/16), la decisione n. 2016/954 del Consiglio del 9 giugno 2016 che autorizza una cooperazione rafforzata nel settore della competenza, della legge applicabile, del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali delle coppie internazionali, con riferimento ai regimi patrimoniali tra coniugi e agli effetti patrimoniali delle unioni registrate (2016:954). La scelta di riunire i due ambiti è dovuta all’esigenza di non violare il principio di non discriminazione come specificato dal considerando n. 7 del Preambolo in base al quale è chiarito che “Al fine di coprire l’intero ambito di applicazione della cooperazione rafforzata in materia di regimi patrimoniali delle coppie internazionali e garantire la non discriminazione dei cittadini, i due atti sostanziali di attuazione dovrebbero essere adottati contemporaneamente”. Con la decisione si apre la fase finale dell’iter di adozione dell’atto Ue che sarà vincolante per Belgio, Bulgaria, Repubblica ceca, Germania, Grecia, Spagna, Francia, Croazia, Italia, Cipro, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Austria, Portogallo, Slovenia, Finlandia e Svezia, Paesi autorizzati a instaurare tra loro una cooperazione rafforzata nel settore.

 

 

 

 

 


DECISIONE (UE) 2016/954 DEL CONSIGLIO
del 9 giugno 2016
che autorizza una cooperazione rafforzata nel settore della competenza, della legge applicabile, del riconoscimento e dell'esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali delle coppie internazionali, con riferimento ai regimi patrimoniali tra coniugi e agli effetti patrimoniali delle unioni registrate
IL CONSIGLIO DELL'UNIONE EUROPEA,
visto il trattato sul funzionamento dell'Unione europea, in particolare l'articolo 329, paragrafo 1,
viste le richieste trasmesse dal Regno del Belgio, dalla Repubblica di Bulgaria, dalla Repubblica ceca, dalla Repubblica Federale di Germania, dalla Repubblica ellenica, dal Regno di Spagna, dalla Repubblica francese, dalla Repubblica di Croazia, dalla Repubblica italiana, dalla Repubblica di Cipro, dal Granducato di Lussemburgo, Malta, dal Regno dei Paesi Bassi, dalla Repubblica d'Austria, dalla Repubblica portoghese, dalla Repubblica di Slovenia, dalla Repubblica di Finlandia e dal Regno di Svezia,
vista la proposta della Commissione europea,
vista l'approvazione del Parlamento europeo (1),
considerando quanto segue:
(1)
L'Unione si prefigge di conservare e sviluppare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone. Al fine di una progressiva istituzione di tale spazio, l'Unione deve adottare misure nel settore della cooperazione giudiziaria su questioni di diritto civile che presentino implicazioni transnazionali.

(2)
A norma dell'articolo 81 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), tali misure comprendono la promozione della compatibilità delle regole applicabili negli Stati membri ai conflitti di leggi, incluse le misure relative al diritto di famiglia aventi implicazioni transnazionali.

(3)
Il 16 marzo 2011 la Commissione ha adottato una proposta di regolamento del Consiglio relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all'esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali tra coniugi e una proposta di regolamento del Consiglio relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all'esecuzione delle decisioni in materia di effetti patrimoniali delle unioni registrate.

(4)
Nella sessione del 3 dicembre 2015 il Consiglio è giunto alla conclusione che non sarebbe stato possibile raggiungere un accordo entro un termine ragionevole da parte dell'Unione nel suo insieme per l'adozione dei regolamenti.

(5)
Stanti tali premesse, Malta, la Croazia e il Belgio, con lettere del 14 dicembre 2015, 15 dicembre 2015 e 17 dicembre 2015 rispettivamente, e la Germania, la Grecia, la Spagna, la Francia, l'Italia, il Lussemburgo, il Portogallo, la Slovenia e la Svezia, con lettere del 18 dicembre 2015, hanno trasmesso una richiesta alla Commissione manifestando l'intenzione di instaurare tra loro una cooperazione rafforzata nel settore della competenza, della legge applicabile, del riconoscimento e dell'esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali tra coniugi e di effetti patrimoniali delle unioni registrate, e chiedendo alla Commissione di presentare al Consiglio una proposta al riguardo. La Repubblica ceca, i Paesi Bassi, la Bulgaria, l'Austria e la Finlandia hanno trasmesso analoga richiesta alla Commissione con lettere del 28 gennaio 2016, 2 febbraio 2016, 9 febbraio 2016, 16 febbraio 2016 e 26 febbraio 2016 rispettivamente. Con lettera del 18 marzo 2016, Cipro ha indicato la propria intenzione di partecipare all'instaurazione di una cooperazione rafforzata ed ha successivamente reiterato tale intenzione. In totale, la cooperazione rafforzata è stata richiesta da diciotto Stati membri.

(6)
La cooperazione rafforzata dovrebbe istituire negli Stati membri partecipanti un quadro giuridico chiaro e completo in materia di regimi patrimoniali delle coppie internazionali, con riferimento ai regimi patrimoniali tra coniugi e agli effetti patrimoniali delle unioni registrate, garantire ai cittadini soluzioni adeguate per quanto concerne la certezza del diritto, la prevedibilità e la flessibilità, e facilitare la circolazione delle decisioni e degli atti pubblici tra gli Stati membri partecipanti.

(7)
Conformemente alle richiese degli Stati membri ai fini dell'instaurazione della cooperazione rafforzata, due atti sostanziali dovrebbero attuare la cooperazione rafforzata, uno riguardante i regimi patrimoniali tra coniugi e l'altro gli effetti patrimoniali delle unioni registrate. Al fine di coprire l'intero ambito di applicazione della cooperazione rafforzata in materia di regimi patrimoniali delle coppie internazionali e garantire la non discriminazione dei cittadini, i due atti sostanziali di attuazione dovrebbero essere adottati contemporaneamente.

(8)
Ricorrono le condizioni previste dall'articolo 20 del trattato sull'Unione europea (TUE) e dagli articoli da 326 a 329 TFUE.

(9)
In base all'articolo 81, paragrafo 2, lettere a) e c), e all'articolo 81, paragrafo 3 TFUE, il pertinente settore della cooperazione rafforzata, vale a dire la competenza, la legge applicabile, il riconoscimento e l'esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali delle coppie internazionali, con riferimento ai regimi patrimoniali tra coniugi e agli effetti patrimoniali delle unioni registrate, costituisce uno dei settori previsti dai trattati. Non si tratta di un settore di competenza esclusiva dell'Unione.

(10)
Il requisito dell'ultima istanza di cui all'articolo 20, paragrafo 2 TUE è soddisfatto in quanto il Consiglio, il 3 dicembre 2015, ha concluso che gli obiettivi della proposta di regolamento non potevano essere conseguiti entro un termine ragionevole dall'Unione nel suo insieme.

(11)
La cooperazione rafforzata nel settore della competenza, della legge applicabile, del riconoscimento e dell'esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali delle coppie internazionali, con riferimento ai regimi patrimoniali tra coniugi e agli effetti patrimoniali delle unioni registrate, mira a sviluppare la cooperazione giudiziaria nelle materie civili con implicazioni transnazionali in base al principio del riconoscimento reciproco delle sentenze e ad assicurare la compatibilità delle regole applicabili negli Stati membri ai conflitti di leggi. Pertanto, tale cooperazione promuove gli obiettivi dell'Unione, protegge i suoi interessi e rafforza il suo processo di integrazione, secondo quanto disposto dall'articolo 20, paragrafo 1 TUE.

(12)
La cooperazione rafforzata nel settore della competenza, della legge applicabile, del riconoscimento e dell'esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali delle coppie internazionali, con riferimento ai regimi patrimoniali tra coniugi e agli effetti patrimoniali delle unioni registrate, rispetta i trattati e il diritto dell'Unione e non reca pregiudizio al mercato interno né alla coesione economica, sociale e territoriale. Essa non costituisce un ostacolo né una discriminazione per gli scambi tra gli Stati membri, né provoca distorsioni di concorrenza tra questi ultimi.

(13)
In particolare, la cooperazione rafforzata nel settore della competenza, della legge applicabile, del riconoscimento e dell'esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali delle coppie internazionali, con riferimento ai regimi patrimoniali tra coniugi e agli effetti patrimoniali delle unioni registrate, rispetta il diritto dell'Unione relativo alla cooperazione giudiziaria in materia civile, in quanto non pregiudica l'acquis in questo settore.

(14)
La cooperazione rafforzata nel settore della competenza, della legge applicabile, del riconoscimento e dell'esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali delle coppie internazionali, con riferimento ai regimi patrimoniali tra coniugi e agli effetti patrimoniali delle unioni registrate, rispetta le competenze, i diritti e gli obblighi degli Stati membri che non vi partecipano. Le norme comuni sulla competenza, sui conflitti di leggi e sul riconoscimento e l'esecuzione negli Stati membri partecipanti non pregiudicano le norme degli Stati membri non partecipanti. Le autorità giurisdizionali degli Stati membri non partecipanti continueranno ad applicare le proprie norme interne per determinare la competenza e la legge applicabile e ai fini del riconoscimento e dell'esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali delle coppie internazionali, con riferimento ai regimi patrimoniali tra coniugi e agli effetti patrimoniali delle unioni registrate.

(15)
La presente decisione rispetta i principi sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, in particolare dagli articoli 9 e 21.

(16)
La cooperazione rafforzata nel settore della competenza, della legge applicabile, del riconoscimento e dell'esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali delle coppie internazionali, con riferimento ai regimi patrimoniali tra coniugi e agli effetti patrimoniali delle unioni registrate, è aperta in qualsiasi momento a tutti gli Stati membri, in conformità dell'articolo 328 TFUE,
HA ADOTTATO LA PRESENTE DECISIONE:
Articolo 1
Il Regno del Belgio, la Repubblica di Bulgaria, la Repubblica ceca, la Repubblica federale di Germania, la Repubblica ellenica, il Regno di Spagna, la Repubblica francese, la Repubblica di Croazia, la Repubblica italiana, la Repubblica di Cipro, il Granducato di Lussemburgo, Malta, il Regno dei Paesi Bassi, la Repubblica d'Austria, la Repubblica portoghese, la Repubblica di Slovenia, la Repubblica di Finlandia e il Regno di Svezia sono autorizzati a instaurare tra loro una cooperazione rafforzata nel settore della competenza, della legge applicabile, del riconoscimento e dell'esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali delle coppie internazionali, con riferimento ai regimi patrimoniali tra coniugi e agli effetti patrimoniali delle unioni registrate, applicando le pertinenti disposizioni dei trattati.
Articolo 2
La presente decisione entra in vigore il giorno dell'adozione.
Fatto a Lussemburgo, il 9 giugno 2016





Interna corporis parlamentari (in relazione all’approvazione della legge Cirinnà)


Corte cost. 16 giugno 2016, n. 149 (ord.)


Norme impugnate: Decisione del Vice Presidente della Commissione Giustizia del Senato della Repubblica del 12/10/2015 e della decisione della Conferenza dei Presidenti dei Gruppi parlamentari del Senato della Repubblica del 13/10/2015.

Oggetto: Legge - Procedimento legislativo - Disegno di legge n. 2081 a firma della Senatrice Cirinnà - Sottoposizione all'esame e alla deliberazione dell'Assemblea senza il preventivo parere della Commissione Giustizia del Senato - Abbinamento del d.d.l. n. 2081 al testo unificato già adottato dalla Commissione e, comunque, ai disegni di legge oggetto di unificazione, senza aver consentito al collegio l'esame e la conseguente deliberazione sul punto.






Ritenuto che, con ricorso depositato nella cancelleria della Corte costituzionale in data 11 febbraio 2016, alcuni senatori della Repubblica hanno sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, ai sensi dell’art. 134 della Costituzione, nei confronti del Presidente del Senato della Repubblica, della Conferenza dei Presidenti dei Gruppi parlamentari del Senato e del Vice Presidente della Commissione giustizia del Senato;
che i ricorrenti impugnano il provvedimento con cui il Vice Presidente della Commissione giustizia del Senato ha disposto l’abbinamento del disegno di legge n. 2081, recante «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze», ad altri disegni di legge (n. 2069 e n. 2084) in materia di unioni civili già all’esame dell’Assemblea (come risulta dal resoconto sommario della seduta della Commissione giustizia n. 243 del 12 ottobre 2015); nonché il provvedimento con cui la Conferenza dei Presidenti dei Gruppi parlamentari ha inserito l’esame del d.d.l. n. 2081 nel calendario dei lavori dell’Assemblea (come risulta dalla riunione n. 132 della Conferenza relativamente al calendario dei lavori dal 14 al 22 ottobre 2015), e quello con cui il Presidente del Senato ha sottoposto il medesimo disegno di legge all’esame e al voto dell’Assemblea (come risulta dai resoconti stenografici delle sedute pubbliche n. 522 e n. 523 dell’Assemblea del Senato rispettivamente del 13 e del 14 ottobre 2015);
che, secondo quanto affermato nel ricorso, per effetto dei suddetti atti sarebbe stato menomato l’esercizio delle prerogative spettanti a ciascun parlamentare e sarebbero stati conseguentemente violati gli artt. 1, secondo comma, 67, 71, 72, primo e quarto comma, Cost.;
che, quanto al profilo soggettivo, i ricorrenti affermano la loro piena legittimazione, muovendo dalla considerazione che la giurisprudenza costituzionale in materia non esclude esplicitamente che i singoli parlamentari possano essere qualificati poteri dello Stato ai fini del conflitto di attribuzione ex art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), salvo il caso in cui il rimedio non abbia carattere di residualità;
che la legittimazione del singolo parlamentare deriverebbe dall’essere titolare di specifici poteri riconosciutigli direttamente dalla Costituzione, quale rappresentante della Nazione (art. 67 Cost.), «prima forma organica attraverso la quale, a livello di Stato-apparato, si esprime la sovranità popolare» (art. 1, secondo comma, Cost.), e partecipe della funzione legislativa delle Camere (art. 71 Cost.), poteri che si estrinsecano sia tramite la presentazione di progetti di legge e di proposte emendative, sia tramite la partecipazione ai lavori delle commissioni, anche se di esse non si faccia parte;
che corollario di tali prerogative sarebbe la sussistenza, in capo al singolo parlamentare, del «diritto di esigere che i Regolamenti (espressamente richiamati dall’art. 72, co. 1, Cost.) siano formulati e, comunque, interpretati ed applicati conformemente a Costituzione […], a tutela proprio delle attribuzioni che a lui competono in virtù del potere di cui è uti singulus portatore»;
che, quanto al profilo oggettivo, è lamentata la violazione di una serie di norme regolamentari relative all’iter di formazione della legge (particolarmente, degli artt. 31, 43, 44 e 51 del Regolamento del Senato della Repubblica) e, per il loro tramite, dell’art. 72, primo e quarto comma, Cost.;
che i ricorrenti ricostruiscono analiticamente le vicende dei lavori parlamentari dalle quali discenderebbero le lamentate violazioni, esponendo che il disegno di legge n. 2081, presentato il 6 ottobre 2015 e assegnato il successivo 7 ottobre all’esame della Commissione giustizia del Senato, è stato illustrato da parte della relatrice della Commissione, unitamente ad altri due disegni di legge in materia (n. 2069 e n. 2084), nella seduta notturna del 12 ottobre 2015, mentre la sua trattazione rinviata alla seduta del 13 ottobre 2015;
che tale trattazione è stata poi ulteriormente rinviata alla seduta pomeridiana del giorno successivo, ma non ha avuto luogo, essendo stato nel frattempo disposto, da parte del Vice Presidente della Commissione giustizia, l’abbinamento del d.d.l. n. 2081 ad altri disegni di legge in materia di unioni civili già all’esame dell’Assemblea, senza che, ad avviso dei ricorrenti, la Commissione si sia espressa sul punto, come invece previsto dall’art. 51 del Regolamento del Senato della Repubblica;
che la Conferenza dei Presidenti dei Gruppi parlamentari ha inserito l’esame del d.d.l. n. 2081 nel calendario dell’Assemblea, senza il previo esame in Commissione e senza rispettare i termini indicati dalle norme regolamentari (art. 44);
che, ad avviso dei ricorrenti, il Presidente del Senato ha sottoposto il disegno di legge all’esame e al voto dell’Assemblea, in contrasto con le norme regolamentari sulla programmazione dei lavori (artt. 53 e 55);
che il mancato esame in Commissione del testo normativo, ridotti i lavori alla sua mera illustrazione, avrebbe determinato «un caso di grave menomazione delle funzioni e delle prerogative dei Senatori facenti parte della Commissione, della minoranza parlamentare e, più ampiamente, di tutti i membri della Camera Alta».
Considerato che, in questa fase del giudizio, la Corte è chiamata a deliberare, ai sensi dell’art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’ammissibilità del ricorso, valutando, senza contraddittorio, se sussistano i requisiti soggettivo e oggettivo di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato;
che la Corte costituzionale è chiamata a verificare, in camera di consiglio, l’esistenza o meno della «materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua competenza»;
che il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato è risolto dalla Corte costituzionale «per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali» (art. 37, primo comma, della l. n. 87 del 1953);
che occorre, quindi, affinché vi sia materia del conflitto, che si lamenti la violazione di norme costituzionali attributive di potere al soggetto ricorrente;
che, a questo proposito, vero è che i senatori ricorrenti invocano gli artt. 1, secondo comma, 67, 71 e 72, primo e quarto comma, della Costituzione, ritenendo che da tali disposizioni costituzionali derivi la titolarità, in capo a ciascun parlamentare, del potere di iniziativa legislativa, che si estrinseca non solo con la presentazione di proposte di legge, ma altresì con la formalizzazione di emendamenti ai progetti di legge in discussione e con la partecipazione ai lavori delle Commissioni parlamentari, anche se di esse non si faccia parte;
che, tuttavia, è altresì vero che i ricorrenti, dopo aver invocato le suddette disposizioni costituzionali, sviluppano le censure lamentando una serie di violazioni dei regolamenti e della prassi parlamentare dovute a uno scorretto andamento dei lavori parlamentari relativi al disegno di legge n. 2081;
che, in particolare, i ricorrenti si dolgono del fatto che il Vice Presidente della Commissione giustizia abbia disposto l’abbinamento del d.d.l. n. 2081 agli altri disegni di legge in materia di unioni civili già all’esame dell’Assemblea, senza richiedere sul punto una deliberazione dell’intera Commissione, in violazione dell’art. 51 del Regolamento del Senato della Repubblica;
che, inoltre, i ricorrenti lamentano il mancato rispetto delle varie fasi della programmazione dei lavori come descritte dagli artt. 53 e 55 del Regolamento del Senato della Repubblica da parte del Presidente del Senato e della Conferenza dei Presidenti dei Gruppi parlamentari, che avrebbero disposto l’inserimento dell’esame del d.d.l. n. 2081 direttamente nel calendario dell’Assemblea, senza preventivamente ricomprenderlo nel programma;
che, infine, i ricorrenti ritengono che tali violazioni dei procedimenti parlamentari abbiano indebitamente ridotto l’esame del d.d.l. n. 2081 in Commissione giustizia, dove il suddetto disegno di legge è pervenuto poco più di una settimana prima della sua “calendarizzazione” all’esame in Assemblea, in virtù di una erronea applicazione dell’art. 44 del Regolamento del Senato della Repubblica;
che, dunque, alla luce della ricostruzione della vicenda, la menomazione lamentata dai ricorrenti inerisce tutta alle modalità di svolgimento dei lavori parlamentari come disciplinati da norme e prassi regolamentari, che scandiscono e regolano i “momenti” del procedimento di formazione delle leggi, quali sono sia l’abbinamento dei disegni di legge attinenti a materie identiche o strettamente connesse, sia la “calendarizzazione” dei lavori in Assemblea, con conseguente discussione, esame, modifica e votazione dei disegni di legge in tale sede;
che, come questa Corte ha già avuto modo di chiarire, a ciascuna Camera è riconosciuta e riservata la potestà di disciplinare, tramite il proprio Regolamento, il procedimento legislativo «in tutto ciò che non sia direttamente ed espressamente già disciplinato dalla Costituzione» (sentenza n. 78 del 1984);
che, entro questi limiti, le vicende e i rapporti attinenti alla disciplina del procedimento legislativo «ineriscono alle funzioni primarie delle Camere» (sentenza n. 120 del 2014) e sono, per ciò stesso, coperte dall’autonomia che a queste compete e che si estrinseca non solo nella determinazione di cosa approvare, ma anche nella determinazione di quando approvare;
che, dunque, il presente conflitto, nei termini in cui è stato articolato, «non attinge al livello del conflitto tra poteri dello Stato, la cui risoluzione spetta alla Corte costituzionale» (ordinanze n. 366 del 2008 e n. 90 del 1996), inerendo le argomentazioni addotte nel ricorso esclusivamente alla lesione di norme del Regolamento del Senato e della prassi parlamentare, senza che sia validamente dimostrata l’idoneità di queste ultime a integrare i parametri costituzionali invocati;
che le eventuali violazioni di mere norme regolamentari e della prassi parlamentare lamentate dai ricorrenti debbono trovare all’interno delle stesse Camere gli strumenti intesi a garantire il corretto svolgimento dei lavori, nonché il rispetto del diritto parlamentare, dei diritti delle minoranze e dei singoli componenti (sentenza n. 379 del 1996);
che, pertanto, il ricorso deve ritenersi inammissibile, restando assorbito l’esame di ogni altro profilo e requisito, anche soggettivo.


per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dal senatore Giovanardi Carlo Amedeo e da altri senatori nei confronti del Presidente del Senato della Repubblica, della Conferenza dei Presidenti dei Gruppi parlamentari del Senato e del Vice Presidente della Commissione Giustizia del Senato, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 maggio 2016.