martedì 20 agosto 2019


Trib. Ancona 29 luglio 2019 (ord.)

E’ rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento gli artt. 2 Cost., 3 Cost., 117 Cost. in riferimento all’art. 2 protocollo addizionale alla C.E.D.U. n. 4, 117 Cost. in riferimento all’art. 12 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 comma 1 lett. a) n. 2) d.l. 113/2018 convertito in legge n. 132/2018

Trib. Milano 1 agosto 2019


E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità dell’art. 4, comma 1 bis, d.lgs. 142/2015, come introdotto dall'art. 13, comma 1, lett. a), n. 2, d.l. 113/2018, convertito nella legge 132/2018, perché, negando il diritto di iscrizione anagrafica al richiedente asilo, si pone in contrasto con gli articoli 2, 3, 10, 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 2, S 1, del Protocollo n. 4 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali nonché in riferimento agli artt. 14 Cedu e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici. L'art. 13, co. 1, lett. a), n. 2 d.l. n. 113/2018, convertito nella legge n. 132/2018, inoltre, si pone in contrasto con l'art. 77, secondo comma, Cost. per difetto dei requisiti dei casi di straordinaria necessità e urgenza, nonché del requisito di omogeneità, così come interpretati dalla giurisprudenza costituzionale.

lunedì 19 agosto 2019




E’ del giudice ordinario la competenza a decidere la controversia sulla spettanza del diritto all’elettorato attivo


Giurisdizione – Elezioni - Elettorato attivo – Diritto al voto – Controversia - Giurisdizione giudice ordinario
     La tutela del diritto fondamentale di elettorato attivo deve essere esercitata dinanzi al giudice ordinario quale giudice naturale dei diritti fondamentali e, tra questi, dei diritti politici (1).

(1) Ha chiarito la Sezione che la controversia promossa da soggetti che si ritengono lesi nel proprio diritto ad esercitare il diritto di voto (nella specie, si trattava di degenti ai quali non era stato consentito di votare in un cd. seggio volante, che avrebbe dovuto essere costituito all’interno del nosocomio) non ricade nell'ambito della giurisdizione amministrativa sul contenzioso elettorale, di cui agli artt. 126, 129 e 130 c.p.a..
Infatti, la giurisdizione che tali disposizioni assegnano al giudice amministrativo ha ad oggetto le sole “operazioni elettorali”, ossia la regolarità delle forme procedimentali di svolgimento delle elezioni, alle quali fanno capo nei singoli posizioni che hanno la consistenza dell'interesse legittimo, non del diritto soggettivo.
E benché tali operazioni non si esauriscano nelle attività di votazione, ma si estendano al procedimento elettorale preparatorio per le elezioni regionali e comprendano tutti gli atti del complesso procedimento, dall'emanazione dei comizi elettorali sino alla proclamazione degli eletti, resta tuttavia attribuita all'autorità giudiziaria ordinaria la cognizione delle controversie nelle quali si fanno valere posizioni di diritto soggettivo, quali quelle che si riconnettono al diritto di elettorato attivo (Cass. civ., S.U., ord., 20 ottobre 2016, n. 21262).
Dal sito del Consiglio di Stato

mercoledì 14 agosto 2019


Divieto di ingresso (transito e sosta) Open Arms – Il decreto cautelare del Tar


Tar Lazio, Roma, 14 agosto 2019 (decr. caut.)


Il Presidente
ha pronunciato il presente
DECRETO
sul ricorso numero di registro generale 10780 del 2019, proposto da
Foundacion Proa (Pro - Activa Open Arms), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati OMISSIS;
contro
Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro tempore, Ministero della Difesa, in persona del Ministro pro tempore, Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, in persona del Ministro pro tempore, Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente pro tempore non costituiti in giudizio;
per l'annullamento
previa sospensione dell'efficacia, anche monocratica
- del provvedimento reso dal Ministro dell’Interno, di concerto con il Ministro della Difesa e con il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, dell’1 agosto 2019, comunicato a mezzo e mail, con cui si dispone “sin da ora” il divieto di ingresso, transito e sosta della nave Open Arms “nel mare territoriale nazionale”, e di ogni altro comunque connesso, anche se non conosciuto dalla ricorrente.

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Vista l'istanza di misure cautelari monocratiche proposta dalla parte ricorrente, ai sensi dell'art. 56 cod. proc. amm.;
Considerato, quanto al fumus, che il ricorso in esame non appare del tutto sfornito di fondamento giuridico in relazione al dedotto vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti e di violazione delle norme di diritto internazionale del mare in materia di soccorso, nella misura in cui la stessa amministrazione intimata riconosce, nelle premesse del provvedimento impugnato, che il natante soccorso da Open Arms in area SAR libica – quanto meno per l’ingente numero di persone a bordo - era in “distress”, cioè in situazione di evidente difficoltà (per cui appare, altresì, contraddittoria la conseguente valutazione effettuata nel medesimo provvedimento, dell’esistenza, nella specie, della peculiare ipotesi di “passaggio non inoffensivo” di cui all’art. 19, comma 1 [recte, comma 2], lett. g), della legge n. 689/1994);
Ritenuto, quanto al periculum in mora, che sicuramente sussiste, alla luce della documentazione prodotta (medical report, relazione psicologica, dichiarazione capo missione), la prospettata situazione di eccezionale gravità ed urgenza, tale da giustificare la concessione - nelle more della trattazione dell’istanza cautelare nei modi ordinari - della richiesta tutela cautelare monocratica, al fine di consentire l’ingresso della nave Open Arms in acque territoriali italiane (e quindi di prestare l’immediata assistenza alle persone soccorse maggiormente bisognevoli, come del resto sembra sia già avvenuto per i casi più critici);

P.Q.M.
Accoglie, nei sensi di cui in motivazione, la suindicata istanza di misure cautelari monocratiche.
Fissa per la trattazione collegiale la camera di consiglio del 9 settembre 2019.
Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti.
Così deciso in Roma il giorno 14 agosto 2019.


venerdì 9 agosto 2019



Conversione del decreto legge c.d. ‘Sicurezza bis’. Le osservazioni del Presidente della Repubblica


Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha promulgato la legge di conversione
del decreto legge 14 giugno 2019, n. 53 recante «Disposizioni urgenti in materia di
ordine e sicurezza pubblica”, ed ha contestualmente inviato una lettera ai Presidenti del
Senato della Repubblica, Maria Elisabetta Alberti Casellati, della Camera dei Deputati,
Roberto Fico, e al Presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte.
Qui di seguito il testo:
«Signor Presidente,
ho promulgato in data odierna la legge di conversione del decreto legge 14 giugno 2019,
n. 53 recante «Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica”, approvata
in via definitiva lo scorso 5 agosto e che interviene, a breve distanza di tempo, su ambiti
normativi già oggetto di modifiche da parte del Decreto legge n. 113 dell’ottobre 2018.
I contenuti del provvedimento appena promulgato sono stati, in sede di conversione,
ampiamente modificati dal Parlamento e non sempre in modo del tutto omogeneo
rispetto a quelli originari del decreto legge presentato dal Governo.
Al di là delle valutazioni nel merito delle norme, che non competono al Presidente della
Repubblica, non posso fare a meno di segnalare due profili che suscitano rilevanti
perplessità.
Per effetto di un emendamento, nel caso di violazione del divieto di ingresso nelle acque
territoriali - per motivi di ordine e sicurezza pubblica o per violazione alle norme
sull’immigrazione - la sanzione amministrativa pecuniaria applicabile è stata aumentata
di 15 volte nel minimo e di 20 volte nel massimo, determinato in un milione di euro,
mentre la sanzione amministrativa della confisca obbligatoria della nave non risulta più
subordinata alla reiterazione della condotta.
Osservo che, con riferimento alla violazione delle norme sulla immigrazione non è stato
introdotto alcun criterio che distingua quanto alla tipologia delle navi, alla condotta
concretamente posta in essere, alle ragioni della presenza di persone accolte a bordo e
trasportate. Non appare ragionevole ai fini della sicurezza dei nostri cittadini e della
certezza del diritto fare a meno di queste indicazioni e affidare alla discrezionalità di
un atto amministrativo la valutazione di un comportamento che conduce a sanzioni di
tale gravità.
Devo inoltre sottolineare che la Corte Costituzionale, con la recente sentenza n. 112 del
2019, ha ribadito la necessaria proporzionalità tra sanzioni e comportamenti.
Va anche ricordato che, come correttamente indicato all’articolo 1 del decreto
convertito, la limitazione o il divieto di ingresso può essere disposto “nel rispetto degli
obblighi internazionali dell’Italia”, così come ai sensi dell’art. 2 “il comandante della
nave è tenuto ad osservare la normativa internazionale”. Nell’ambito di questa la
Convenzione di Montego Bay, richiamata dallo stesso articolo 1 del decreto, prescrive
che “ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batta la sua bandiera,
nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave,
l’equipaggio e i passeggeri, presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni
di pericolo”.
Il secondo profilo riguarda la previsione contenuta nell’articolo 16 lettera b), che
modifica l’art. 131 bis del codice penale, rendendo inapplicabile la causa di non
punibilità per la “particolare tenuità del fatto” alle ipotesi di resistenza, violenza e
minaccia a pubblico ufficiale e oltraggio a pubblico ufficiale “quando il reato è
commesso nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni”.
Non posso omettere di rilevare che questa norma assente nel decreto legge predisposto
dal Governo - non riguarda soltanto gli appartenenti alle Forze dell’ordine ma include un
ampio numero di funzionari pubblici, statali, regionali, provinciali e comunali nonché
soggetti privati che svolgono pubbliche funzioni, rientranti in varie e articolate categorie,
tutti qualificati secondo la giurisprudenza - pubblici ufficiali, sempre o in determinate
circostanze. Tra questi i vigili urbani e gli addetti alla viabilità, i dipendenti dell’Agenzia
delle entrate, gli impiegati degli uffici provinciali del lavoro addetti alle graduatorie del
collocamento obbligatorio, gli ufficiali giudiziari, i controllori dei biglietti di Trenitalia, i
controllori dei mezzi pubblici comunali, i titolari di delegazione dell’ACI allo sportello
telematico, i direttori di ufficio postale, gli insegnanti delle scuole, le guardie ecologiche
regionali, i dirigenti di uffici tecnici comunali, i parlamentari.
Questa scelta legislativa impedisce al giudice di valutare la concreta offensività delle
condotte poste in essere, il che, specialmente per l’ipotesi di oltraggio a pubblico
ufficiale, solleva dubbi sulla sua conformità al nostro ordinamento e sulla sua
ragionevolezza nel perseguire in termini così rigorosi condotte di scarsa rilevanza e che,
come ricordato, possono riguardare una casistica assai ampia e tale da non generare
“allarme sociale”.
In ogni caso, una volta stabilito, da parte del Parlamento, di introdurre singole
limitazioni alla portata generale della tenuità della condotta, non sembra ragionevole che
questo non avvenga anche per l’oltraggio a magistrato in udienza (di cui all’articolo 343
del codice penale): anche questo è un reato “commesso nei confronti di un pubblico
ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni” ma la formulazione della norma approvata
dal Parlamento lo esclude dalla innovazione introdotta, mantenendo in questo caso
l’esimente della tenuità del fatto.
Tanto Le rappresento, rimettendo alla valutazione del Parlamento e del Governo
l'individuazione dei modi e dei tempi di un intervento normativo sulla disciplina in
questione».
Roma, 08/08/2019

mercoledì 7 agosto 2019


In tema di (negata) iscrizione anagrafica del richiedente 'protezione internazionale'



Trib. Trento 11 giugno 2019 (ord.)


Rispetto al ricorso – ex art. 700 c.p.c. – contro il diniego di iscrizione anagrafica del richiedente (la) protezione internazionale, legittimato passivo è (anche) il Ministero dell’Interno, considerato che tale dicastero è titolare della funzione anagrafica e dello stato civile, rispondendo delle relative attività espletate, come riconosciuto dalla Corte di Cassazione che ha, al riguardo, statuito che: “in tema di anagrafe della popolazione residente ai sensi della legge 24 dicembre 1954, n. 1228, il Sindaco agisce quale organo dello Stato, ed i relativi atti sono direttamente imputabili allo Stato. Costituendo l'esercizio dei poteri in materia manifestazione di prerogative statali, delle quali il Sindaco è partecipe quale Ufficiale di Governo, dei danni derivanti dal comportamento doloso o colposo del Sindaco (nella specie, per illegittimo diniego della residenza anagrafica), anche come configurabile con riguardo all'operato di organi comunali che allo stesso sono di supporto, risponde il Ministero dell'interno, quale ente preponente, a prescindere dall'individuazione di un comportamento di omissione di vigilanza da parte dello stesso” (Cass. 6.8.2004 n.15199) [precisa il Giudice che “la suddetta legittimazione si va dunque ad aggiungere a quella del Comune resistente cui è rivolta direttamente la domanda cautelare della ricorrente”]

L’interpretazione di una norma, in senso costituzionalmente orientato, può effettuarsi alla condizione che il testo normativo da applicare non venga del tutto stravolto, nel suo significato palese, altrimenti effettuare operazioni di tal fatta, equivarrebbe a rendere non applicabili norme, espungendole di fatto dall’ordinamento giuridico, atto questo vietato all’operatore giuridico, dovendo, semmai, il giudice sollevare questione di legittimità costituzionale, per violazione dei parametri della Carta fondamentale

La norma di cui all’art. 4 comma 1 bis della l. 142/2015, così come modificata dall’art. 13 del d.l. 113/2018 introduce un regime di carattere peculiare per i richiedenti protezione internazionale, permettendo agli stessi di avere un permesso di soggiorno temporaneo, nell’attesa della definizione della loro domanda di protezione internazionale. Lo straniero si trova, così, in una posizione di permanenza sul territorio italiano, in virtù di regolare temporaneo titolo di soggiorno, costituente anche documento di identità, ma al contempo, la situazione di incertezza sulla sua futura condizione di soggetto meritevole di protezione internazionale o meno ha fatto ritenere al legislatore di non farlo iscrivere nel registro anagrafico della popolazione residente, garantendo al medesimo, però, l’accesso ad una serie di diritti, che tutelano la sua persona, nell’attesa dell’esito del procedimento volto al riconoscimento della protezione internazionale. La norma si presenta, pertanto, a carattere speciale, rispetto a quella di cui all’art. 6, c. 7, del T.U. Immigrazione e risulta dettata per far fronte al dilagante fenomeno migratorio, garantendo ai richiedenti protezione la possibilità di soggiornare sul territorio italiano, con la garanzia di avere la possibilità di accesso ad una serie di servizi e prestazioni di natura assistenziale.

ORDINANZA

Con ricorso ex art. 700 c.p.c., D.P.R. adiva il Tribunale di Trento, chiedendo che fosse ordinato al Sindaco del Comune di B., previo accertamento del suo diritto alla residenza, la sua immediata iscrizione nel registro anagrafico della popolazione residente, con l’adozione di ogni altro opportuno provvedimento, affinché fosse impedito ogni ulteriore pregiudizio, chiedendo che il Giudice adito sollevasse, in ogni caso, questione di legittimità costituzionale, della normativa posta a fondamento dell’azione cautelare proposta, ovvero dell’art. 4 comma 1 bis della legge 142/2015, così come modificato dall’art. 13 del d.l. 113/2018, il tutto con vittoria di spese e competenze di causa, in caso di resistenza alla domanda proposta.

A fondamento della relativa azione cautelare, la ricorrente esponeva di essere cittadina venezuelana, di avere formalizzato in data 21.9.2018 la sua domanda di protezione internazionale, risultando la medesima, pertanto, regolarmente soggiornante sul territorio, a titolo di richiedente protezione internazionale, venendo ammessa a godere di particolari misure di accoglienza, vista la sua storia personale, aderendo al progetto A., per le donne vittime di tratta e sfruttamento sessuale.
Riferiva, così, di avere presentato, in data 22.11.2018, dichiarazione di residenza al Comune di B., ai sensi dell’art. 6 comma VII del d.lgs. 286/1998, narrando che, nella medesima data, l’ufficiale dell’anagrafe gli aveva inviato mail, con la quale gli comunicava che, ai sensi dell’art. 4 comma 1 bis della legge 142/2015, così come modificato dall’art. 13 del d.l. 113/2018, il permesso di soggiorno rilasciato per richiesta di asilo non costituiva titolo per l’iscrizione anagrafica.

D.P.R. deduceva, pertanto, l’illegittimità del provvedimento di diniego del riconoscimento del suo diritto all’iscrizione anagrafica nel Comune di B., rilevando che il tenore letterale della normativa, richiamata da parte del Comune, non negava il diritto alla residenza del richiedente la protezione internazionale, posto che la norma andava interpretata, anche alla luce del disposto di cui all’art. 6 comma VII del d.lgs. 286/1998, norma che consente iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero, regolarmente soggiornante, alle stesse condizioni dei cittadini italiani.

La ricorrente richiamava anche provvedimenti di merito del Tribunale di Firenze e del Tribunale di Bologna che, in esito a domanda cautelare, avevano riconosciuto il diritto alla iscrizione anagrafica del richiedente protezione internazionale, sollevando la medesima, inoltre, questione di legittimità costituzionale della normativa dell’art. 4 comma 1 bis della legge 142/2015, così come modificato dall’art. 13 del d.l. 113/2018, considerato che la stessa appariva in contrasto con il principio di uguaglianza con i requisiti di necessità ed urgenza posti a fondamento della stessa e con i principi stabiliti dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Si costituiva il Comune di B. eccependo in primis il difetto di competenza del Tribunale di Trento, considerato che la controversia rientrava tra quelle in materia di discriminazione ex art. 28 del d.lgs. 150/2011, nonché rilevando il proprio difetto di legittimazione passiva considerato che era il Ministero dell’Interno che esercita funzioni di vigilanza ed impartisce le disposizioni per la corretta attuazione delle norme previste in materia di iscrizione anagrafica.

Nel merito dell’azione cautelare proposta, il Comune deduceva che il permesso di soggiorno, rilasciato alla ricorrente richiedente protezione internazionale dava alla medesima effetti in tutto e per tuto equipollenti a quelli della residenza anagrafica.

Era così possibile, per il Comune, che la ricorrente accedesse ai servizi afferenti all’istruzione alla formazione professionale ed ai tirocini formativi, alle prestazioni sanitarie, all’apertura di un conto corrente, nonché ad avere libri in prestito dalla biblioteca.

Inoltre, il Comune sottolineava la impossibilità di interpretare in maniera diversa ed estensiva la norma di cui all’art. 4 comma 1 bis della legge 142/2015, così come modificato dall’art. 13 del d.l. 113/2018, posto che fare altrimenti avrebbe portato alla violazione di cui all’art. 14 disp. att. cod. civ.

Il Comune, pertanto, concludeva chiedendo l’integrazione del contraddittorio, nei confronti del Ministero dell’Interno, chiedendo, in ogni caso, che fosse dichiarato il difetto di competenza del Tribunale di Trento e che il ricorso fosse rigettato.

Interveniva volontariamente in giudizio il Ministero dell’Interno, rilevando che sussisteva la competenza del Tribunale di Trento, sezione specializzata in materia di immigrazione, deducendo l’infondatezza del ricorso proposto vista la chiarezza della norma di cui la ricorrente lamentava l’illegittimità costituzionale posta a base del provvedimento di diniego all’iscrizione anagrafica presso il Comune di B., evidenziando altresì l’insussistenza di un periculum in mora.

Il ricorso cautelare proposto è infondato, dovendo il medesimo essere rigettato per le ragioni di seguito esposte.

Anzitutto, deve essere dichiarata la legittimazione passiva del Ministero dell’Interno, considerato che tale dicastero è titolare della funzione anagrafica e dello stato civile, rispondendo delle relative attività espletate, come riconosciuto dalla Corte di Cassazione che ha, al riguardo, statuito che: “in tema di anagrafe della popolazione residente ai sensi della legge 24 dicembre 1954, n. 1228, il Sindaco agisce quale organo dello Stato, ed i relativi atti sono direttamente imputabili allo Stato. Costituendo l'esercizio dei poteri in materia manifestazione di prerogative statali, delle quali il Sindaco è partecipe quale Ufficiale di Governo, dei danni derivanti dal comportamento doloso o colposo del Sindaco (nella specie, per illegittimo diniego della residenza anagrafica), anche come configurabile con riguardo all'operato di organi comunali che allo stesso sono di supporto, risponde il Ministero dell'interno, quale ente preponente, a prescindere dall'individuazione di un comportamento di omissione di vigilanza da parte dello stesso” (Cass. 6.8.2004 n.15199).

La suddetta legittimazione si va dunque ad aggiungere a quella del Comune resistente cui è rivolta direttamente la domanda cautelare della ricorrente.

Preliminarmente, poi, deve essere dichiarata l’infondatezza dell’eccezione di incompetenza, sollevata da parte del Comune di B., considerato che la controversia coinvolge diritti e problematiche che riguardano sostanzialmente i richiedenti protezione internazionale, dunque, la medesima è da attribuire alle relative sezioni specializzate in materia dell’adito Tribunale.

Ciò detto, il giudicante osserva che la norma di cui all’art. 4 comma 1 bis della legge 142/2015, così come modificata dall’art. 13 del d.l. 113/2018 introduce un regime di carattere peculiare per i richiedenti protezione internazionale, permettendo agli stessi di avere un permesso di soggiorno temporaneo, nell’attesa della definizione della loro domanda di protezione internazionale.

Lo straniero si trova, così, in una posizione di permanenza sul territorio italiano, in virtù di regolare temporaneo titolo di soggiorno, costituente anche documento di identità, ma al contempo, la situazione di incertezza sulla sua futura condizione di soggetto meritevole di protezione internazionale o meno ha fatto ritenere al legislatore di non farlo iscrivere nel registro anagrafico della popolazione residente, garantendo al medesimo, però, l’accesso ad una serie di diritti, che tutelano la sua persona, nell’attesa dell’esito del procedimento volto al riconoscimento della protezione internazionale.
La norma si presenta, pertanto, a carattere speciale, rispetto a quella di cui all’art. 6 comma VII del Testo Unico in materia di immigrazione e risulta dettata per far fronte al dilagante fenomeno migratorio, garantendo ai richiedenti protezione la possibilità di soggiornare sul territorio italiano, con la garanzia di avere la possibilità di accesso ad una serie di servizi e prestazioni di natura assistenziale.
In questo senso, si ritiene che il parametro di interpretazione estensiva, proposto da parte della ricorrente, con riferimento al suddetto art. 6 comma VII del Testo Unico in materia di immigrazione, che prevede il diritto degli stranieri ad avere l’iscrizione anagrafica nel Comune di residenza, risulti ultroneo rispetto alla palese chiarezza della relativa normativa richiamata, di cui all’art. 4 comma 1 bis della legge 142/2015, così come modificato dall’art. 13 del d.l. 113/2018, che esclude, per tabulas, la possibilità per il richiedente protezione di ottenere l’iscrizione anagrafica nel comune, ove è di fatto residente.

Inoltre, si deve osservare che una interpretazione della suddetta norma, in senso costituzionalmente orientato, può effettuarsi alla condizione che il testo normativo da applicare non venga del tutto stravolto, nel suo significato palese, altrimenti effettuare operazioni di tal fatta, equivarrebbe a rendere non applicabili norme, espungendole di fatto dall’ordinamento giuridico, atto questo vietato all’operatore giuridico, dovendo, semmai, il giudice sollevare questione di legittimità costituzionale, per violazione dei parametri della Carta fondamentale.

Sotto tale profilo, non appare sussistere, però, alcuna fondatezza della questione di legittimità costituzionale, prospettata da parte della ricorrente, considerato che il permesso di soggiorno, concesso in favore del richiedente protezione internazionale, permette al medesimo di accedere a tutta una serie di servizi, quali quelli di natura sanitaria, di accoglienza presso apposite strutture, di svolgimento di tirocinio di formazione e di attività di volontariato e lavorativa, nonché di accesso all’apertura di rapporti di credito, che rendono il richiedente equiparato, o più che verosimilmente parificato, ai cittadini residenti.

Non si comprende, peraltro, a fronte delle puntuali allegazioni effettuate da parte del Comune di B., in merito alla possibilità di accesso a tali servizi del richiedente protezione internazionale (docc. 11-12-13 fasc. Comune), quali sono gli specifici diritti violati della ricorrente, di natura irrimediabile tale, da fondare il relativo ricorso cautelare, nonché la relativa questione di costituzionalità proposta, sotto il profilo del rispetto del canone di cui all’art. 3 della Costituzione, risultando il ricorso non fondato sotto il profilo della sussistenza del fumus boni iuris.

Non viene in rilievo, in questo senso, una violazione del principio di uguaglianza, considerato che la situazione del richiedente asilo è sicuramente diversa da quella del cittadino residente anagraficamente presso qualsiasi comune italiano, non potendo le due situazioni giuridiche soggettive essere oggetto di equiparazione sostanziale.

Il legislatore, del resto, con la disciplina introdotta con il decreto legge 113/2018 ha bilanciato l’interesse dei richiedenti protezione internazionale, con quello di garantire agli stessi l’accesso ad una rete di servizi, che possono fargli avere una ordinaria vita all’interno dello Stato italiano, con una gamma di susseguenti diritti, risultando legittima la mancata iscrizione degli stessi all’anagrafe della popolazione residente, dal fatto che si tratta di una situazione in fieri, che può anche portare al mancato riconoscimento del diritto di ottenere la protezione internazionale, con obbligo di lasciare il territorio italiano.


La situazione è, dunque, ben differente da quella del cittadino italiano, residente in qualsiasi Comune, ovvero degli altri stranieri che hanno regolare e stabile permesso di soggiorno a tempo indeterminato in Italia e sono iscritti all’anagrafe della popolazione residente.

La normativa appare, dunque, rispettosa del principio di ragionevolezza, quale corollario dell’art. 3 della Costituzione, come enunciato anche dalla Corte Costituzionale, che ha, al riguardo statuito che: “il giudizio di ragionevolezza, lungi dal comportare il ricorso a criteri di valutazione assoluti e astrattamente prefissati, si svolge attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti”(sentenza 991 del 1988), avendo la medesima Consulta aggiunto che: “uno scrutinio che direttamente investa il merito delle scelte del legislatore, è possibile soltanto ove l’opzione normativa contrasti in modo manifesto con il canone della ragionevolezza, vale a dire si appalesi, in concreto, come espressione di un uso distorto della discrezionalità, che raggiunga una soglia di evidenza tale da atteggiarsi alla stregua di una figura, per così dire, sintomatica di eccesso di potere e, dunque, di sviamento rispetto alle attribuzioni che l’ordinamento assegna alla funzione legislativa” (sentenza n. 313 del 1995).

La ragionevolezza della legge viene, così, di volta in volta, rappresentata dalla medesima Consulta, come coerenza, congruenza, congruità, proporzionalità, necessità, misura, pertinenza, e così via, dovendo anche l’interprete verificare la sussistenza di tali parametri, per controllare la rilevanza e non manifesta infondatezza della questione da sottoporre alla Corte Costituzionale.

Passando all’esame degli altri profili di legittimità costituzionale dedotti, il giudicante rileva che anche la violazione dell’art. 16 della Carta Costituzionale, sotto il profilo della mancata possibilità di circolare liberamente nel territorio dello Stato, da parte dello straniero, si rileva infondata, alla luce del fatto, che la normativa attuale non proibisce a la libera circolazione dello straniero, né tantomeno per la gamma dei diritti garantiti può dirsi sussistente una violazione della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e del relativo Protocollo allegato, così come dell’art. 32 e dell’art. 36 della Costituzione, essendo riconosciuto l’accesso ai servizi sanitari ed a tirocini formativi e a attività di natura lavorativa.

Similmente, anche la violazione dell’art. 77 della Costituzione, per mancanza dei requisiti di necessità ed urgenza del decreto legge adottato si rileva infondata alla luce del fatto che la normativa in questione risulta essere stata adottata con la finalità di contenere gli effetti del dilagante fenomeno migratorio, garantendo al contempo ai richiedenti protezione internazionale l’accesso ad una determinata gamma di diritti.

Passando all’esame del periculum in mora, la ricorrente non ha allegato alcuna circostanza idonea a far ritenere sussistente un irreparabile pregiudizio dalla mancata iscrizione anagrafica, in attesa di decisione su eventuale giudizio di merito non risultando peraltro avere fornito la prova di avere impugnato il provvedimento amministrativo di rigetto della iscrizione anagrafica.

Il ricorso deve dunque essere rigettato con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali nei confronti delle parti resistenti che si quantificano per ognuna in complessivi € 3.073,00 per compensi, oltre rimborso forfetario, I.V.A. e c.p.a. se ed in quanto dovute come per legge.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da seguente dispositivo.


P.Q.M.


Il Tribunale di Trento, definitivamente pronunciando, disattesa ogni altra contraria istanza od eccezione, in persona del Giudice Unico dott. Marco Tamburrino, così provvede:
-Rigetta la domanda cautelare proposta da parte di D.P.R.;
-Condanna D.P.R. al pagamento delle spese di causa nei confronti del Comune di B., che liquida in complessivi € 3.073,00 per compensi, oltre rimborso forfetario, I.V.A. e c.p.a., se ed in quanto dovuti come per legge;
-Condanna D.P.R. al pagamento delle spese di causa nei confronti del Ministero dell’Interno, che liquida in complessivi € 3.073,00 per compensi, oltre rimborso forfetario, I.V.A. e c.p.a., se ed in quanto dovuti come per legge;


Trento li 11.6.2019

lunedì 5 agosto 2019


Agenzia delle Entrate 22 luglio 2019, n. 294 (risposta ad interpello),  Interpello articolo 11, comma 1, lettera a), legge 27 luglio 2000, n. 212 – Articolo 2 TUIR – Residenza fiscale di un soggetto che abitualmente vive in Svizzera con famiglia residente in Italia



 QUESITO
Il signor X (di seguito, anche “Istante” o “Contribuente”) dichiara di essere residente in Svizzera e di volersi trasferire con la famiglia, di cui fanno parte la moglie e tre bambini, nella sua casa per le vacanze situata nella frazione Acquaseria di San Siro (CO), precisando che tale trasferimento avverrebbe a partire dal 2020 e per un periodo indefinito.
In particolare, l’Istante evidenzia che la moglie e i figli intendono trasferire la residenza in Italia, con l’iscrizione all’Anagrafe del Comune di San Siro.
Il Contribuente fa presente, inoltre, che nei prossimi anni i figli dovrebbero frequentare l’asilo a Menaggio e che la moglie non intende lavorare per i prossimi due o tre anni.
Tuttavia, l’Istante precisa che resterà in Svizzera come dipendente di un’azienda ivi stabilita e soggiornerà tre giorni lavorativi a settimana (dal mercoledì al venerdì) in Svizzera per motivi di lavoro e di studio.
Il Contribuente dichiara che il suo datore di lavoro svizzero gli consentirà di lavorare a distanza da casa.
In sostanza, l’Istante intende stare dal sabato al martedì con la famiglia e lavorare dalla casa per le vacanze a San Siro, evitando, tuttavia, di soggiornare per più di 183 giorni all’anno in Italia.
Ciò posto, il Contribuente chiede un parere in merito al trattamento fiscale applicabile al proprio reddito prodotto a partire dal 2020
SOLUZIONE INTERPRETATIVA PROSPETTATA DAL CONTRIBUENTE
Sulla base del trattato contro le doppie imposizioni l’Istante ritiene che non diventerà residente fiscale in Italia, ma rimarrà residente fiscale in Svizzera, Stato dove attualmente vive.
PARERE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE
In via preliminare, si evidenzia come l’accertamento dei presupposti per stabilire l’effettiva residenza fiscale costituisca una questione di fatto che non può formare oggetto di istanza di interpello, ai sensi dell’articolo 11 della legge n. 212 del 2000.
Si rammenta, infatti, quanto precisato dall’Agenzia delle Entrate con la Circolare n. 9/E del 1° aprile 2016, con cui sono state commentate le novità introdotte dal decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 156 (di seguito D.lgs. n. 156/2015).
Nel suddetto documento di prassi la scrivente Agenzia, citando la relazione illustrativa al D.lgs. n. 156/2015 nella quale si legge che “l’interpello qualificatorio, al pari dell’interpello ordinario, non può comunque avere ad oggetto accertamenti di tipo tecnico. Non potrà, quindi, correttamente qualificarsi istanza di interpello quella tesa ad ottenere accertamenti di fatto (…) esperibili esclusivamente nelle sedi proprie”, precisa che, con tale passaggio, il legislatore ha inteso escludere dall’area dell’interpello le fattispecie “in cui, più che rilevare l’aspetto qualificatorio, rileva il mero appuramento del fatto (cd. accertamenti di fatto)” tra le quali anche le problematiche collegate alla residenza delle persone fisiche, di cui all’articolo 2 del Testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. del 22 dicembre 1986, n. 917 (di seguito TUIR).
Pertanto, il presente parere è diretto a fornire chiarimenti di carattere generale sugli aspetti giuridici concernenti la fattispecie rappresentata.
Al riguardo, si osserva, in primo luogo, che nell’ordinamento interno italiano, al fine di stabilire la residenza fiscale delle persone fisiche, occorre fare riferimento alla nozione contenuta nell’articolo 2, comma 2, del TUIR, in base al quale si considerano residenti “le persone che per la maggior parte del periodo d'imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile”.
Le tre condizioni sopra citate sono tra loro alternative, essendo sufficiente che sia verificato uno solo dei predetti requisiti affinché una persona fisica venga considerata fiscalmente residente in Italia e, viceversa, solo quando i tre presupposti della residenza sono contestualmente assenti nel periodo d'imposta di riferimento (cioè negli anni solari considerati) una persona fisica può essere ritenuta non residente nel nostro Paese.
Ciò implica che, indipendentemente dalla iscrizione nella anagrafe della popolazione residente, assume fondamentale importanza, ai fini della qualificazione fiscale del medesimo quale soggetto residente in Italia, la verifica della sussistenza di almeno uno dei restanti requisiti (residenza e domicilio).
In tal caso occorre rifarsi alle nozioni civilistiche di residenza e di domicilio.
La residenza è definita dal codice civile come “il luogo in cui la persona ha la dimora abituale”. Essa è determinata dall’abituale volontaria dimora di una persona in un dato luogo, sicché concorrono ad instaurare tale relazione giuridicamente rilevante sia il fatto oggettivo della stabile permanenza in quel luogo sia l’elemento soggettivo della volontà di rimanervi. Cosicché l’abitualità della dimora permane qualora il soggetto lavori o svolga altre attività al di fuori del comune di residenza (del territorio dello Stato), purché conservi in esso l’abitazione, vi ritorni quando possibile e mostri l’intenzione di mantenervi il centro delle proprie relazioni familiari e sociali (cfr. Circ. 14 marzo 1986, n. 1738).
Il domicilio di una persona, invece, coincide con “la sede principale dei suoi affari ed interessi” a prescindere dalla presenza effettiva in tale luogo. La locuzione in esame deve intendersi in senso ampio, comprensivo non solo di rapporti di natura patrimoniale ed economica ma anche morali, sociali e familiari (cfr. Circ. 26 ottobre 1968, n. 3586; Circ. 12 febbraio 1973, n. 435).
In merito ai citati requisiti si rammenta che la giurisprudenza italiana ha inteso dare particolare rilievo, quale criterio di individuazione della residenza fiscale di una persona fisica, al luogo nel quale sono prioritariamente localizzati gli interessi economici ed affettivi della persona, partendo dalla sfera delle relazioni personali, intese come vincoli familiari (cfr. inter alia Sentenze della Corte di Cassazione, Sezione V, n. 9723/2015 e n. 12311/2016).
Per completezza, si osserva che, in caso di contestuale residenza fiscale italiana e svizzera, in virtù dell’applicazione al caso di specie delle vigenti normative interne, si verrebbe a determinare un conflitto di residenza tra i due Paesi che deve essere risolto facendo ricorso alle disposizioni della Convenzione tra Italia e Svizzera per evitare le doppie imposizioni sul reddito, ratificata con legge 23 dicembre 1978, n. 943 (di seguito la Convenzione o il Trattato internazionale) che stabilisce come deve essere ripartito il potere impositivo fra i due Stati contraenti.
Ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 1, della Convenzione l’espressione “residente di uno Stato contraente” “designa ogni persona che, in virtù della legislazione di detto Stato, è assoggettata ad imposta nello stesso Stato, a motivo del suo domicilio, della sua residenza (…) o di ogni altro criterio di natura analoga”. Pertanto, in base alla normativa convenzionale, ciascuno Stato individua i propri residenti fiscali in base alle leggi domestiche.
Ai sensi del successivo paragrafo 2 del citato articolo 4, qualora una persona fisica risulti residente di entrambi gli Stati, la stessa è considerata, innanzitutto, residente nello Stato in cui dispone di un’abitazione permanente e, in subordine (laddove disponga di un’abitazione permanente in entrambi gli Stati), la residenza di una persona fisica è determinata secondo i seguenti criteri residuali disposti in ordine decrescente:
- ubicazione del centro degli interessi vitali (la persona fisica che dispone di un’abitazione principale in entrambi gli Stati sarà considerata residente nel Paese nel quale le sue relazioni personali ed economiche sono più strette);
- dimora abituale (ove non sia possibile individuare la residenza del contribuente in base ai due criteri sopra citati, una persona fisica sarà considerata residente dello Stato in cui soggiorna abitualmente);
- nazionalità della persona fisica (quando i primi tre criteri non sono dirimenti, il contribuente sarà considerato residente dello Stato contraente la Convenzione di cui possiede la nazionalità);
- quando, infine, una persona fisica ha la nazionalità di entrambi i Paesi o di nessuno di essi, gli Stati contraenti la Convenzione risolveranno la questione di comune accordo.

IL DIRETTORE CENTRALE
Firmato digitalmente


giovedì 1 agosto 2019





Sanzioni disciplinari (nella P.A.) e (sentenza di) ‘patteggiamento’

Cass. (Sez. Lav.) 31 luglio 2019, n. 20721

A norma degli artt. 445 e 653 cod. proc. pen., come modificati dalla legge 27 marzo 2001, n. 97, la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ha efficacia di giudicato - nei giudizi disciplinari che si svolgono davanti alle pubbliche autorità, e quindi anche in quelli che riguardano i dipendenti della P.A. - quanto all'accertamento del fatto, alla sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso

Allorquando la contrattazione collettiva fa riferimento, per la graduazione delle sanzioni disciplinari a carico del pubblico dipendente, alla sussistenza, per i medesimi fatti, di sentenza di condanna penale, quest'ultima, in ragione del disposto dell'art. 653 c.p.p., come modificato dalla legge 27 marzo 2001, n. 97, deve presumersi riguardare anche il caso di sentenza di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'art. 444 c.p.p.




OMISSIS

 5. Con l'ultimo motivo di ricorso, destinato dal ricorrente a profili diversi da quelli finora esaminati, è affermata (art. 360 n. 3 c.p.c.) la violazione e falsa applicazione dell'art. 445, co. 1-bis, c.p.c., in relazione agli artt. 5 L. 604/1966 e 3 C.C.N.L. del personale non dirigente del comparto regioni ed autonomie locali, nonché dell'art. 1362 c.c..

La Corte distrettuale ha ritenuto, sulla base di un più recente orientamento giurisprudenziale da essa richiamato, che la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti avesse efficacia di giudicato, nei giudizi disciplinari che si svolgono davanti alla pubblica autorità, quanto all'accertamento del fatto, alla sua illiceità penale ed alla affermazione che l'imputato lo ha commesso, ritenendo altresì che l'art. 3 del C.C.N.L. di settore, secondo cui era causa di licenziamento la condanna passata in giudicato per gravi delitti commessi in servizio, andasse inteso nel senso che per sentenza di condanna, per comune sentire, dovessero intendersi anche le sentenze di patteggia mento.

Il ricorrente, oltre a contestare la tesi in ordine alla summenzionata efficacia di giudicato della sentenza di patteggiamento, sottolinea come l'affermazione di un rilievo indiziario della pronuncia, con relevatio ab onere probandi della P.A., si ponesse in frontale contrasto con la disciplina della confessione, per l'impossibilità di ravvisare, nel consenso all'applicazione della pena su richiesta delle parti, un animus confitendi.

Apodittica, oltre che meramente possibilistica e come tale inidonea dal punto di vista interpretativo, era poi, secondo il Tasso, l'affermazione della Corte aquilana in ordine al fatto che la sentenza di patteggiamento fosse per "comune sentire" da associare ad una sentenza di condanna e che dunque in tal senso dovesse ad essa estendersi la norma del C.C.N.L. che prevedeva, appunto a fronte di una sentenza di condanna, il licenziamento: dovendosi viceversa procedere ad un'interpretazione dell,. norma nel contesto contrattuale e della volontà quale obiettivata nel testo collettivo.

Meramente di stile - proseguiva il motivo - era infine da considerare la motivazione con cui la Corte affermava che le prove testimoniali e le allegazioni del ricorrente sarebbero state del tutto inidonee a scalfire il quadro indiziario emergente dagli atti del procedimento penale, finendosi così per onerare indebitamente il lavoratore della prova dell'insussistenza della giusta causa.

5.1 La Corte territoriale ha sviluppato, sul punto della responsabilità del ricorrente, una duplice motivazione, di cui la prima incentrata sul valore di giudicato da attribuire alla sentenza di c.d. patteggiamento e la seconda attribuendo alla pronuncia penale valore indiziario, ritenuto non superato dalle contrari allegazioni del lavoratore.

5.2 La questione sul giudicato è in realtà decisiva ed assorbente.

L'assetto normativo è del tutto chiaro nello stabilire che, rispetto ai giudizi disciplinari presso le pubbliche autorità, la sentenza penale di condanna abbia efficacia di giudicato «quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso» (art. 653, co. 1-bis, c.p.p.).

Il riferimento generico della norma ad una «sentenza di condanna» ed il fatto che l'art. 445, co. 1-bis, c.p.p. stabilisca che «salve diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna», rende testualmente ineludibile il riconoscimento del predetto effetto di giudicato.

A fronte di tale chiaro orientamento normativo non vi è ragione di trasporre, sul piano disciplinare, distinguo e varianti fondate sulle caratteristiche intrinseche della sentenza di c.d. patteggiamento che sono proprie dell'ambito penale inteso in senso stretto.

Infatti, nulla esclude che, a fini diversi da quelli penali in senso stretto, sia dato rilievo di giudicato all'applicazione della pena su richiesta.

Va quindi ribadito il principio già espresso da Cass., S.U., 31 ottobre 2012, n. 18701 e poi confermato da Cass. 20 luglio 2016, n. 14949 e Cass. 2 marzo 2017, n. 5313.

5.3 Quanto alla proporzionalità della sanzione espulsiva, la Corte territoriale ha ritenuto di desumerla dalla norma del C.C.N.L. che appunto la prevede rispetto ai casi di «sentenza passata in giudicato (...) per gravi delitti commessi in servizio».

La Corte ha fatto in proposito riferimento alla pregressa giurisprudenza di questa Corte secondo cui nell'interpretare il riferimento della contrattazione alla sentenza di condanna penale, si poteva ritenere che le parti collettive si fossero ispirate al comune sentire che a questa associa la sentenza di patteggiamento.

In realtà, va detto che, stante il disposto attuale dell'art. 445, co. 1-bis, ultima parte, secondo cui «salve diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna», qualora, come nel caso di specie, la contrattazione collettiva successiva all'introduzione del co. 1-bis cit. rinvii alla sentenza di condanna penale, deve presumersi che essa comprenda in tale dizione anche l'ipotesi dell'applicazione della pena su richiesta delle parti, non potendosi ipotizzare che la contrattazione collettiva, di regola e salvo espresse affermazioni contrarie, utilizzi la terminologia giuridica secondo significati diversi da quelli che secondo legge le sono propri.

Ciò, consolidando in punto di diritto il ragionamento già svolto dalla Corte territoriale, supera ogni questione sollecitata con il ricorso per cassazione, nel quale non risulta indicata, se non sulla base di una lettura diametralmente opposta a quella fornita dalla Corte territoriale rispetto al "comune sentire", una qualche ragione idonea ad inficiare non solo la diversa e non implausibile valutazione sul punto da parte del giudice del merito, ma anche il sostegno giuridico che essa trova nella regola interpretativa sopra delineata.

5.4 Da quanto sopra risulta assorbito ogni altro aspetto sollecitato con il motivo in esame.

5.5 Va dunque ribadito e stabilito che «a norma degli artt. 445 e 653 cod. proc. pen., come modificati dalla legge 27 marzo 2001, n. 97, la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ha efficacia di giudicato - nei giudizi disciplinari che si svolgono davanti alle pubbliche autorità, e quindi anche in quelli che riguardano i dipendenti della P.A. - quanto all'accertamento del fatto, alla sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso» ed altresì che «allorquando la contrattazione collettiva fa riferimento, per la graduazione delle sanzioni disciplinari a carico del pubblico dipendente, alla sussistenza, per i medesimi fatti, di sentenza di condanna penale, quest'ultima, in ragione del disposto dell'art. 653 c.p.p., come modificato dalla legge 27 marzo 2001, n. 97, deve presumersi riguardare anche il caso di sentenza di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'art. 444 c.p.p.»

6. Alla reiezione dei ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità.


P.Q.M.


La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore delle controparti delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.500,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge.

OMISSIS