mercoledì 29 novembre 2017







Cass. pen.  27 novembre 2017 (ud. 8 novembre 2017)  n. 53557



Nel caso in cui l'interessato, cittadino di uno Stato non appartenente all'Unione Europea, abbia allegato all'istanza l'autocertificazione prevista dall'art. 94 comma 2 d.P.R. 115/2002, egli si trova già nelle condizioni di godere del beneficio (fatti salvi i poteri istruttori e di verifica di cui agli artt. 96 e ss., stesso d.P.R.), senza che occorra una ulteriore produzione documentale. La eventuale tardiva presentazione della certificazione consolare, peraltro, non potrà inficiare la validità e l'efficacia delle autocertificazioni tempestivamente prodotte, la stessa non essendo più necessaria perché legittimamente sostituita dalla dichiarazione sostituiva


Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza in data 23/11/2016, il Presidente delegato presso la Corte d'appello di Genova ha rigettato l'opposizione ex art. 99 del d.P.R. 115/2002, proposta avverso il provvedimento di revoca dell'ammissione del cittadino extra comunitario K.M., detenuto per questa causa, al beneficio del patrocinio a spese dello Stato nel giudizio d'appello avverso la sentenza di condanna dello stesso nel procedimento n. 1509/2016 R.C.A., adottata dal giudice al quale era stata avanzata richiesta di liquidazione degli onorari da parte del difensore.

2. Avverso detta ordinanza, ha proposto ricorso il difensore del K., avv. Giovanni Stagnaro, deducendo violazione dell'art. 79 co. 2 d.P.R 115/2002, anche con riferimento agli artt. 3 e 24 della Cost. e all'art. 6 della Convenzione E.D.U. In particolare, parte ricorrente contesta la lettura della norma operata dal giudicante, rilevando che la revoca del beneficio era conseguente al mancato deposito della certificazione dell'autorità consolare di cui all'articolo citato, laddove l'ammissione era avvenuta sulla scorta della sola autocertificazione rilevando che l'art. citato non prevede alcuna causa di inammissibilità dell'istanza a causa della mancata produzione della certificazione consolare circa il reddito del cittadino extra comunitario richiedente, altresì osservando che, nel caso di specie, non era stata richiesta alcuna documentazione, cosicché l'omessa produzione non poteva comportare la revoca del beneficio.


Considerato in diritto


1. Il ricorso va accolto nei termini che si vanno ad esporre.

2. Con l'ordinanza di rigetto dell'opposizione proposta avverso il decreto, con il quale la Corte d'appello di Genova aveva revocato, in sede di liquidazione dei compensi, l'ammissione al beneficio già concesso al K. in virtù della sola autocertificazione e senza la produzione della certificazione consolare prevista dall'art. 79 co. 2 d.P.R. 115/2002, il giudice ha avallato la decisione adottata, rilevando che la parte interessata non aveva provveduto a depositare, nel termine di cui all'art. 94 co. 3 stesso d.P.R., la certificazione di cui al citato art. 79 co. 2, potendo il beneficio essere revocato anche in caso di accertamento successivo della mancanza originaria dei requisiti.

3. Il motivo è fondato.

3.1. Devono preliminarmente chiarirsi i termini normativi in cui va inquadrata la fattispecie all'esame.
L'art. 79 comma 2 d.P.R. 115/2002 stabilisce che l'istanza di ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello stato è inammissibile in tutti i casi in cui difettino i requisiti elencati alle lett. a), b), c) e d) del co. 1 della stessa norma, laddove il comma 2 prevede, per i redditi prodotti all'estero, che «il cittadino di Stati non appartenenti all'Unione europea correda l'istanza con una certificazione dell'autorità consolare competente, che attesta la veridicità di quanto in essa indicato». Il successivo comma 3, inoltre, stabilisce per tutti gli interessati che essi, nel caso in cui il giudice procedente o il consiglio dell'ordine degli avvocati competente a provvedere in via anticipata lo richiedano «...sono tenuti, a pena d'inammissibilità dell'istanza, a produrre la documentazione necessaria ad accertare la veridicità di quanto in essa indicato».
L'art. 94 dello stesso d.P.R., poi, disciplina le ipotesi di impossibilità per tutti gli interessati (comma 1, con riferimento all'art. 79 co. 3) e per i cittadini di Stato non appartenente all'Unione Europea (comma 2, con riferimento all'art. 79 co. 2), a presentare la documentazione necessaria ai fine della verifica della veridicità, prevedendo uno strumento equipollente, vale a dire, la dichiarazione sostitutiva della certificazione da parte dell'interessato, stabilendo al comma 3, per il caso di cittadini non appartenenti ad uno stato dell'Unione Europea che siano detenuti o custoditi in luogo di cura, che la certificazione consolare possa essere prodotta, entro il termine di giorni venti dalla presentazione dell'istanza, anche dal difensore o da un componente della famiglia dell'interessato.
Quanto alla decisione dell'istanza di ammissione e al relativo procedimento, ivi compresi i connessi poteri istruttori del giudice, gli stessi sono disciplinati dagli artt. 95 e ss., d.P.R. 115/2002, laddove la revoca del beneficio già concesso è disciplinata dall'art. 112 del d.P.R. 115/2002 che, ai fini qui d'interesse, prevede alla lett. c) il caso in cui, nei termini di cui all'art. 94 co. 3 or ora richiamato, non sia stata prodotta la certificazione consolare; alla lett. d) l'ipotesi in cui, d'ufficio o su richiesta dell'ufficio finanziario, in ogni momento e, comunque, non oltre cinque anni dalla definizione del processo, risulti provata la mancanza, originaria o sopravvenuta, delle condizioni di reddito di cui agli artt. 76 e 92.

3.2. Ciò premesso, deve chiarirsi che, nel caso di specie, la revoca del beneficio è intervenuta per mancata produzione della sola certificazione consolare, poichè l'ammissione, secondo quanto affermato dal giudice nel provvedimento impugnato, era stata disposta in base alla autocertificazione sostitutiva contenuta nella stessa istanza. Parimenti, deve ritenersi che tale autocertificazione fosse stata tempestivamente prodotta dalla parte in conseguenza di un'allegata impossibilità di produrre la certificazione consolare, debitamente scrutinata dal giudice competente (circostanza sulla quale, invero, nulla è specificato nell'ordinanza impugnata).

3.3. Ciò premesso, questa sezione ha già affermato che l'istanza presentata dall'imputato straniero detenuto non può essere dichiarata inammissibile per la mancata produzione della certificazione consolare relativa ai redditi eventualmente prodotti all'estero, ma il decreto di ammissione al beneficio può essere successivamente revocato se entro i termini di legge tale certificazione non venga prodotta (cfr. sez. 4 n. 17003 del 15/01/2009, Rv. 243477). In quella sede, peraltro, questa Corte ha precisato che ove il giudice non abbia provveduto alla revoca, il decreto non può essere successivamente revocato da altro giudice se la certificazione sia stata poi prodotta, tale tardiva produzione non avendo carattere invalidante della dichiarazione sostitutiva (cfr. sez. 4 n. 43312 del 28/10/2008, Rv. 242035).
Peraltro, nei precedenti testè richiamati, la S.C. ha puntualmente ricostruito i termini della questione, partendo da un rinvio a quanto incidentalmente affermato anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 369 del 2007, a proposito della mancata produzione della certificazione consolare, che comporta l'inammissibilità della domanda soltanto in difetto (non anche in presenza) della dichiarazione sostitutiva di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 94, comma 2.
Né può ritenersi previsto, a pena di inammissibilità della domanda, il rispetto del termine, decorrente dalla data di presentazione della stessa, entro il quale, a norma dell'art. 94, comma 3, il detenuto può produrre la certificazione, atteso che, in caso di omessa produzione, il decreto di ammissione va revocato, a norma dell'art. 112, comma 1, lett. c), del citato d.P.R., a cura del giudice che procede al momento della scadenza dei termini (art.112, comma 3 d.P.R. 115/2002).
Inoltre, la revoca intervenuta nel caso in esame non va confusa con quella disciplinata dall'art. 112, comma 1, lett. d) che va disposta, anche se il processo è ormai definito (purché non oltre cinque anni dalla sua definizione), qualora risulti provata la mancanza, originaria o sopravvenuta, delle condizioni di reddito di cui agli artt. 76 e 92. Nel caso di specie, infatti, non risulta tale presupposto di fatto (vale a dire l'accertato difetto, originario o sopravvenuto, delle condizioni di reddito), ma unicamente la mancata produzione della certificazione consolare, necessaria al fine di consentire al giudice di verificare la veridicità della dichiarazione sostitutiva, situazione che rileva esclusivamente con riguardo al caso di revoca di cui all'art. 112, comma 1, lett. c), nel caso in cui, cioè, nei termini previsti dall'art. 94 comma 3, non sia stata prodotta la certificazione consolare.
Va, peraltro, considerato che il giudice aveva la possibilità, attribuita dall'art. 96, comma 2, in presenza di fondati motivi per ritenere che l'interessato non versasse nelle indicate condizioni di reddito, di respingere l'istanza, ciò che non risulta esser stato disposto, non essendo neppure emerso che, prima di provvedere, l'istanza sia stata trasmessa, unitamente alla relativa dichiarazione sostitutiva, alla Guardia di Finanza per le necessarie verifiche.

3.4. Deve, dunque, ritenersi che, nel caso all'esame, la Corte d'appello abbia ammesso il K. al patrocinio dei non abbienti sulla base della sola dichiarazione sostitutiva della certificazione - il che sposta l'attenzione sull'art. 94, comma 2, che consente detta sostituzione in caso di impossibilità a produrre la documentazione richiesta ai sensi dell'art. 79, comma 2 - e che abbia, pertanto, accertato la sussistenza di detta impossibilità.
Sul punto specifico, questa stessa sezione ha già precisato che, nel caso in cui l'interessato, cittadino di uno Stato non appartenente all'Unione Europea, abbia allegato all'istanza l'autocertificazione prevista dall'art. 94 comma 2 d.P.R. 115/2002, egli si trova già nelle condizioni di godere del beneficio (fatti salvi, si aggiunge in questa sede, i poteri istruttori e di verifica di cui agli artt. 96 e ss., stesso d.P.R.), senza che occorra una ulteriore produzione documentale. La eventuale tardiva presentazione della certificazione consolare, peraltro, non potrà inficiare la validità e l'efficacia delle autocertificazioni tempestivamente prodotte, la stessa non essendo più necessaria perché legittimamente sostituita dalla dichiarazione sostituiva (cfr. in motivazione sez. 4 n. 21999 del 26/02/2009).
Peraltro, dall'ordinanza impugnata non è neppure emerso che la produzione della certificazione sia stata sollecitata dal giudice che ha disposto l'ammissione del K. al beneficio e, se si considera che non risulta che il provvedimento ammissivo sia stato impugnato, non può che ritenersi preclusa ogni ulteriore valutazione in merito, anche se incidentale, da parte del giudice chiamato a decidere sull'istanza di liquidazione del compenso al difensore.

4. La decisione impugnata, siccome affetta dal vizio denunciato, va quindi annullata con rinvio per nuovo esame al Presidente della Corte d'appello di Genova che si atterrà ai principi enunciati.

P.Q.M.


Annulla l'impugnato provvedimento e rinvia per nuovo esame al Presidente della Corte d'Appello di Genova.
Così deciso in Roma il giorno 08 novembre 2017.

martedì 28 novembre 2017




Cass. xx novembre 2017


Nei giudizi aventi ad oggetto l'accertamento dello status di apolide, il richiedente è tenuto ad allegare specificamente di non possedere la cittadinanza dello Stato o degli Stati con cui intrattenga o abbia intrattenuto legami significativi, e di non essere nelle condizioni giuridiche ejo fattuali di attenerne il riconoscimento alla luce dei sistemi normativi applicabili, operando il principio dell'attenuazione dell'onere della prova ed il conseguente obbligo di cooperazione istruttoria officiosa del giudice del merito soltanto aJ fine di colmare lacune probatorie derivanti dalla necessità di conoscere specificamente i sistemi normativi e procedimentali riguardanti la cittadinanza negli Stati di riferimento e di assumere informazioni o svolgere approfondimenti istruttori presso le autorità competenti

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 679/2013 il Tribunale di Roma ha riconosciuto lo status di apolide a G.S., nata il 05/06/1986 a L. (nella ex Iugoslavia, oggi ricadente in territorio oggetto di contestazione tra la Repubblica di Serbia e la Repubblica del Kosovo) da genitori di etnia rom e residente in Italia dal 1989.

La Corte d'appello di Roma, investita dell'impugnazione proposta dal Ministero dell'interno, ha rigettato il gravame con sentenza n. 7416/2016; confermando la decisione di primo grado. A sostegno della decisione la Corte territoriale ha ritenuto che G.S. avesse adempiuto all'onere probatorio su dì essa incombente, in quanto aveva dimostrato di non possedere e di non poter conseguire la cittadinanza della Repubblica di Serbia, avendo prodotto in giudizio il certificato attestante la sua mancata registrazione nell'anagrafe del Comune di nascita. Pertanto, secondo il giudizio del Collegio, poteva ritenersi che la richiedente non avrebbe potuto conseguire, se lo avesse richiesto, il riconoscimento della cittadinanza della Serbia.

Avverso questa pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il Ministero dell'interno sulla base di due motivi, cui resiste con controricorso G.S..

In esito all'adunanza camerale del 09/12/2016, tenutasi presso la Sesta sezione, la trattazione del presente ricorso è stata rimessa alla pubblica udienza della Prima sezione civile.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell'art. 378 c.p.c.


RAGIONI DELLA DECISIONE


Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell'art. l, comma 11 della Convenzione di New York del 1954, resa esecutiva in Italia con L 306/1962, in quanto la corretta interpretazione di tale norma impone di considerare "apolide" esclusivamente il soggetto che non sia mai stato cittadino di uno Stato né possa in concreto acquistarne la cittadinanza in base al proprio ordinamento giuridico. Ciò si traduce, sul piano dell'onere della prova, nella necessità che il richiedente provi la mancanza di cittadinanza in relazione agli Stati con cui intrattenga o abbia intrattenuto rapporti significativi, e l'impossibilità di attenerla secondo l'ordinamento di quegli Stati, non essendo a tal fine sufficiente la mera attestazione della mancata iscrizione nei registri anagrafici.

Con il secondo motivo viene lamentata la violazione dell'art. 23, comma l, della legge sulla cittadinanza della repubblica di Serbia, secondo cui «il cittadino di nazionalità serba o di altra nazionalità presente nella repubblica di Serbia e che non risiede nella repubblica di Serbia, acquista la cittadinanza della repubblica di Serbia se ha compiuto 18 anni, è abile al lavoro e presenta dichiarazione scritta di considerare la repubblica di Serbia come Paese di appartenenza». Non risulta che G.S. si sia mai attivata al fine del riconoscimento della cittadinanza da parte della repubblica di Serbia.

Norma fondamentale in materia di accertamento dello status di apolidia è, in assenza di un'organica disciplina interna, l'art. 1 della Convenzione di New York del 28/09/1954 (resa esecutiva in Italia con L. 1 o febbraio 1962, n. 306), che definisce "apolide'' la persona che nessuno Stato considera come proprio cittadino alla stregua della sua legislazione ( «AUX fins de la prèsente Convention, le terme napatride" dèsigne une persone qu'aucun Etat ne considère comme son ressortisant par application de sa Regislation» ). Ai sensi della presente norma assumono rilievo due distinte situazioni di apolidia: l'apolidia originaria, che è una condizione in cui il soggetto si trova fin dalla nascita; oppure, come viene dedotto nel caso di specie dalla controricorrente, l'apolidia successiva (o ''derivata"), consistente nella perdita della cittadinanza originaria cui non segua l'acquisto di alcuna nuova cittadinanza.

Va ulteriormente premesso, prima di affrontare il profilo specifico oggetto del presente giudizio, che i fatti costitutivi del diritto al riconoscimento dello status di apolide sono, da un lato, la condizione di soggetto privo di qualsiasi cittadinanza, dall'altro, la residenza nel territorio dello Stato italiano. Quanto al primo elemento, è del tutto pacifico, sia nella giurisprudenza di legittimità che in quella di merito, che l'onere della prova gravante sul soggetto istante è riferito esclusivamente allo Stato o agli Stati con cui egli intrattenga o abbia intrattenuto rapporti significativi (ovvero, per meglio dire, rapporti produttivi dell'effetto di acquisizione automatica o a domanda dello status civitatis, ad esempio perché vi è nato o vi ha risieduto). Se, infatti, fosse riferito a tutti gli Stati del mondo, determinerebbe una probatio diabolica, trattandosi di un fatto negativo assolutamente indeterminato (Cass. n. 15679 del 2013). È altrettanto pacifico che, ai fini dell'accertamento in discorso, non occorre che venga allegato un atto formale privative dello status civitatis, ben potendo la condizione di apolidia desumersi, sul piano sostanziale, da atti di rifiuto di protezione o prerogative normalmente garantite al cittadino alla stregua dell'ordinamento interno dello Stato di riferimento {Cass. n. 14918 del 2007). Invero, le Sezioni Unite di questa Corte, con la pronuncia n. 28873 del 2008, hanno definito, sulla base della norma convenzionale, l'apolide come «colui che si trova in un Paese di cui non è cittadino, provenendo da altro Paese del quale ha formalmente o sostanzialmente perso la cittadinanza», ponendo in luce la necessità che, ai fini dell'accertamento di tale status, sia valutata la complessiva situazione sostanziale del soggetto rispetto allo Stato o agli Stati di riferimento, senza arrestarsi a un esame formalistico dei riscontri documentali e, più in generale, probatori acquisiti.  

Questa Corte ha ulteriormente chiarito che, stante la natura dei diritti da proteggere e l'assimilabilità della condizione del richiedente i lo status di apolide a quella dello straniero richiedente la protezione internazionale, l'onus probandi ricadente sul primo deve ritenersi parimenti attenuato, nel senso che eventuali lacune o necessità d'integrazione istruttoria devono essere colmate con l'esercizio di poteri-doveri istruttori offìciosi da parte del giudice, realizzabili mediante la richiesta d'informazioni o di documentazione alle Autorità pubbliche competenti dello Stato italiano o dello Stato di origine o dello Stato verso il quale può ravvisarsi un collegamento significativo con il richiedente medesimo (Cass. n. 4262 del 2015).

Venendo all'odierno thema decidendum, la prima questione posta dall'Amministrazione ricorrente concerne l'effettivo contenuto dell'onus probandi gravante sull'istante, nonché l'idoneità del mero dato formale della mancata iscrizione del soggetto nei registri anagrafici di un dato Paese a dimostrare il non possesso della cittadinanza del Paese medesimo. Sul punto la sentenza impugnata ha accertato che G.S. non è registrata nel Comune di nascita, da ciò desumendone l'impossibilità per la stessa di conseguire, ove lo richiedesse, il riconoscimento della cittadinanza della Serbia.

Deve rilevarsi che la pronuncia impugnata non è conforme ai principi enunciati da questa Corte, avendo il giudice di merito omesso di verificare - sia sotto il profilo del parametro normativo (legge sulla cittadinanza applicabile alla fattispecie), sia sotto il profilo dei requisiti e degli impedimenti effettivi (mediante richiesta officiosa d'informazioni alle autorità diplomatiche o consolari competenti) - se la dedotta impossibilità di ottenere la cittadinanza verso lo Stato "più prossimo" fosse reale ed effettiva, tenuto conto dell'onere di allegare e dimostrare, per quanto possibile, tale condizione da parte della richiedente, anche se non necessariamente o esclusivamente mediante la richiesta inevasa di ottenere tale status.

Deve ulteriormente premettersi che, riguardo al valore probatorio delle certificazioni attestanti l'assenza di iscrizione nei registri anagrafici, questa Corte ha già avuto occasione di esprimersi, pervenendo alla conclusione che esse non costituiscono, di per se stesse, prova sufficiente della mancanza dello status civitatis, laddove non venga dedotta alcuna precedente richiesta di iscrizione in tali registri (Cass. n. 12643 del 2016). Invero, pur dovendosi dare rilievo a situazioni di apolidia "di fatto", è necessario che l'istante fornisca la prova, anche indiziaria, di atti di rifiuto, da parte dello Stato con cui il richiedente ha un legame, di prerogative normalmente connesse al possesso della cittadinanza. In un caso analogo questa Corte, con la pronuncia n. 15679 del 2013, ha cassato la decisione resa dal giudice di merito che aveva riconosciuto lo status di apolide a un soggetto nato in Macedonia sulla base dell'attestazione negativa circa il possesso della cittadinanza macedone rilasciata dall'Autorità consolare: ciò in quanto, secondo la legge macedone sulla cittadinanza, l'iscrizione nei registri anagrafici di tale Stato assume natura essenzialmente dichiarativa, ragion per cui l/omessa registrazione, da attribuirsi all'inerzia del soggetto interessato, non assume valore decisivo in merito al (mancato) possesso della cittadinanza.

Al fine di stabilire in quali casi, a livello concreto, uno Stato non considera una persona come suo cittadino nell'applicazione della sua legislazione (art. l, Convenzione di New York del 28/09/1954), possono fornire supporto le "Linee guida in materia di apolidia" elaborate dall'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ; (United Nations High Commissioner for Refugees, UNHCR). Viene chiarito, in primo luogo, che il giudizio sull'apolidia è sempre un giudizio in fatto e in diritto: è necessario verificare, da un lato, cosa preveda la legge straniera nel caso concreto, dall'altro, quale sia l'atteggiamento dello Stato nei confronti di quel concreto individuo o, se ciò non sia possibile, nei confronti delle persone nella sua stessa posizione (doc. n r. 1, punti 16 e ss. ). Laddove fatto e diritto non coincidano, in quanto le autorità competenti trattano un individuo come "non-cittadino" nonostante appaia integrare i requisiti per l/acquisizione automatica della cittadinanza (ad es., iure soli o iure sanguinis), è la posizione di tali autorità che deve pesare, più che la lettera della legge, al fine di valutare se questa persona sia o meno cittadina di un determinato Stato (doc. 1, pt. 30).

Ciò, tuttavia, lascia aperta la seconda questione, esposta dall'Amministrazione ricorrente, circa l'onere di dimostrazione, in capo al richiedente, non solo di non essere cittadino dello Stato con cui ha un collegamento, ma anche dell'impossibilità di acquisire la cittadinanza in base alla legislazione di quello Stato, ovvero del rifiuto opposto dalle Autorità competenti a una specifica richiesta diretta a tal fine.

Tale posizione può essere condivisa nei limiti che si esporranno.

Merita innanzitutto di essere ribadito il principio, espresso dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 28873 del 2008, secondo cui l'esame della domanda avente ad oggetto l'accertamento dello status di apolide deve essere condotto alla luce della legislazione in materia dello Stato di riferimento, presupponendo la valutazione delle norme che regolano tale aspetto nello Stato con il quale il soggetto ha avuto un legame giuridicamente rilevante. Proprio come chiariscono le Linee guida dell’UNHCR, il "fatto" (ad es., una certificazione anagrafica) deve essere illuminato dal "diritto" (la legge straniera sulla cittadinanza): ciò al fine di verificare quali siano, a livello normativa, le condizioni cui lo Stato con cui il richiedente ha un collegamento (ad es., perché vi è nato, vi ha risieduto per un certo periodo di tempo, o perché uno o entrambi i genitori sono cittadini di quello Stato) subordina l'acquisizione dello status civitatis.

Dalle Linee guida dell’UNHCR (doc. nr. 3, pt. 34-38) può ulteriormente trarsi la distinzione tra il soggetto che, pur essendo privo di qualsiasi cittadinanza, potrebbe ottenere lo status di cittadino da parte dello Stato cui è legato attraverso semplici adempimenti di carattere burocratico o amministrativo; e il soggetto che, nella medesima condizione, potrebbe tuttavia ottenere tale status soltanto attraverso l'integrazione di condizioni più onerose (ad es., la residenza stabile, per un certo periodo di tempo, in quel determinato Stato).

Criterio non dissimile appare essere stato adottato, nella nostra legislazione, dall'art. 2 del D.P.R. 572/1993 ("Regolamento di esecuzione della legge 5 febbraio 1992, n. 91"), che così dispone: «Il figlio, nato in Italia da genitori stranieri, non acquista la cittadinanza italiana per nascita ai sensi dell'art. l, comma l, lettera b) , della legge, qualora l'ordinamento del Paese di origine dei genitori preveda la trasmissione della cittadinanza al figlio nato all'estero, eventualmente anche subordinando/a ad una dichiarazione di volontà da parte dei genitori o legali rappresentanti del minore, ovvero all'adempimento di formalità amministrative da parte degli stessi». Ciò significa - sulla scorta dell'interpretazione data dal Consiglio di Stato con il parere 2482/1992 - che il figlio di genitori stranieri non acquista la cittadinanza italiana iure soli qualora, secondo l'ordinamento del Paese dei genitori, potrebbe ottenere la cittadinanza di tale Paese attraverso delle mere dichiarazioni di volontà presso le autorità consolari o altre formalità di carattere amministrativo. Al contrario, viene acquisita la cittadinanza italiana qualora siano richieste condizioni di carattere sostanziale, quali il riassumere la residenza di tale Paese, prestarvi servizio militare, e simili.

Tale criterio discretivo deve essere applicato anche nei giudizi aventi ad oggetto l'accertamento in questione, con la conseguenza che non può essere riconosciuto lo status di apolidia sulla base della mera allegazione della mancanza d'iscrizione nei registri anagrafici del Paese più prossimo. Come posto in luce da alcuni orientamenti della giurisprudenza di merito, ragionando diversamente si farebbe dipendere lo status di apolidia non da una condizione oggettiva, indipendente dalla volontà dell'interessato, ma proprio dalla scelta del soggetto che rifiuta una cittadinanza che potrebbe facilmente acquisire.

Il dovere di cooperazione istruttoria officiosa del giudice del merito, da realizzarsi non soltanto sulla base di una rigorosa conoscenza della legge sulla cittadinanza del Paese più prossimo, ma anche con eventuale richiesta d'informazioni presso le autorità competenti relativamente ai requisiti ed alle condizioni effettive per il riconoscimento dello status civitatis, non esclude che sul richiedente incomba l'onere di allegare non solo di non essere cittadino degli Stati di prossimità, ma anche di fornire indicazioni sugli elementi impeditivi al riconoscimento dello status in questione. Come per il riconoscimento della protezione internazionale, l'onere di allegazione è specifico e il potere dovere-istruttorio officioso del giudice ha una funzione integrativa volta a colmare lacune probatorie dovute ad esigenze informative specifiche provenienti dalle autorità competenti.

Ebbene, proprio nella necessità che il giudizio sull'apolidia sia condotto alla luce dell'effettiva possibilità da parte del richiedente di ottenere la cittadinanza del Paese di riferimento si annida l'error in iudicando della Corte d'appello, che contraddice la sua stessa enunciazione di principio («Su G.S. gravava l'onere di dimostrare la mancanza della cittadinanza di tale Stato e l'impossibilità di ottener/a») desumendo, con giudizio prognostico, tale impossibilità semplicemente dalla certificazione anagrafica del Comune di L., e dal dedotto e non dimostrato rifiuto di rilasciare il passaporto alla richiedente, dunque in assenza di specifica allegazione, senza, peraltro, svolgere alcuna indagine (anche d'ufficio, secondo i principi espressi della sopra richiamata Cass. 4262 del 2015) sugli effettivi requisiti di acquisto della cittadinanza nello Stato (oltre quello italiano) con il quale la richiedente ha un collegamento più stretto. La decisione della Corte d'Appello è stata erroneamente fondata soltanto sulla generica deduzione ed allegazione della mancanza della cittadinanza nei paesi di riferimento, così disattende i principi regolatori dell'onus probandi in questo specifico settore, così come elaborati da questa Corte.

In conclusione, il primo motivo di ricorso deve essere accolto per quanto di ragione, con assorbimento del secondo; la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte d'appello di Roma, in diversa composizione, che dovrà attenersi al seguente principio di diritto, oltre a provvedere alle spese del presente giudizio di legittimità:
"nei giudizi aventi ad oggetto l'accertamento dello status di apolide, il richiedente è tenuto ad allegare specificamente di non possedere la cittadinanza dello Stato o degli Stati con cui intrattenga o abbia intrattenuto legami significativi, e di non essere nelle condizioni giuridiche ejo fattuali di attenerne il riconoscimento alla luce dei sistemi normativi applicabili, operando il principio dell'attenuazione dell'onere della prova ed il conseguente obbligo di cooperazione istruttoria officiosa del giudice del merito soltanto aJ fine di colmare lacune probatorie derivanti dalla necessità di conoscere specificamente i sistemi normativi e procedimentali riguardanti la cittadinanza negli Stati di riferimento e di assumere informazioni o svolgere approfondimenti istruttori presso le autorità competenti".


P.Q.M.


La Corte accoglie il primo motivo di ricorso per quanto di ragione e dichiara assorbito il secondo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così è deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 23 giugno 2017 .

mercoledì 22 novembre 2017






Corte di Giustizia UE 14 novembre 2017, n. C-165/16

Rinvio pregiudiziale – Cittadinanza dell’Unione – Articolo 21 TFUE – Direttiva 2004/38/CE – Aventi diritto – Doppia cittadinanza – Cittadino dell’Unione che ha acquisito la cittadinanza dello Stato membro ospitante conservando al contempo la propria cittadinanza d’origine – Diritto di soggiorno, in tale Stato membro, di un cittadino di uno Stato terzo, familiare del cittadino dell’Unione










La direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE, deve essere interpretata nel senso che, in una situazione in cui un cittadino dell’Unione europea abbia esercitato la propria libertà di circolazione recandosi e soggiornando in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza in forza dell’articolo 7, paragrafo 1, o dell’articolo 16, paragrafo 1, di tale direttiva, abbia successivamente acquisito la cittadinanza di tale Stato membro, conservando al contempo anche la propria cittadinanza d’origine, e, alcuni anni dopo, abbia contratto matrimonio con un cittadino di uno Stato terzo con il quale continui a risiedere nel territorio di detto Stato membro, quest’ultimo cittadino non beneficia di un diritto di soggiorno derivato nello Stato membro in questione sulla base delle disposizioni di detta direttiva. Egli può tuttavia beneficiare di tale diritto di soggiorno in forza dell’articolo 21, paragrafo 1, TFUE, a condizioni che non devono essere più rigorose di quelle previste dalla direttiva 2004/38 per la concessione di detto diritto a un cittadino di uno Stato terzo, familiare di un cittadino dell’Unione che ha esercitato il proprio diritto di libera circolazione stabilendosi in uno Stato membro diverso da quello di cui possiede la cittadinanza.




SENTENZA DELLA CORTE (Grande Sezione)
14 novembre 2017 
Nella causa C‑165/16,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dalla High Court of Justice (England & Wales), Queen’s Bench Division (Administrative Court) [Alta Corte di giustizia (Inghilterra e Galles), divisione del Queen’s Bench (sezione amministrativa), Regno Unito], con decisione dell’8 marzo 2016, pervenuta in cancelleria il 21 marzo 2016, nel procedimento
Toufik Lounes
contro
Secretary of State for the Home Department,
LA CORTE (Grande Sezione),
composta da K. Lenaerts, presidente, A. Tizzano (relatore), vicepresidente, R. Silva de Lapuerta, M. Ilešič, J.L. da Cruz Vilaça, J. Malenovský, E. Levits, C.G. Fernlund e C. Vajda, presidenti di sezione, J.-C. Bonichot, A. Arabadjiev, S. Rodin, F. Biltgen, K. Jürimäe e C. Lycourgos, giudici,
avvocato generale: Y. Bot
cancelliere: I. Illéssy, amministratore
vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 15 maggio 2017,
considerate le osservazioni presentate:
–        per T. Lounes, da P. Saini, barrister, nonché da R. Matharu, solicitor;
–        per il governo del Regno Unito, da M. Holt, C. Crane e C. Brodie, in qualità di agenti, assistiti da D. Blundell, barrister;
–        per il governo spagnolo, da V. Ester Casas, in qualità di agente;
–        per il governo polacco, da B. Majczyna, in qualità di agente;
–        per la Commissione europea, da E. Montaguti e M. Wilderspin, in qualità di agenti,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 30 maggio 2017,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1        La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE (GU 2004, L 158, pag. 77, e rettifica in GU 2004, L 229, pag. 35).
2        Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra il sig. Toufik Lounes ed il Secretary of State for the Home Department (ministro dell’Interno, Regno Unito), in merito al rifiuto di rilasciare una carta di soggiorno all’interessato.
 Contesto normativo
 Diritto dell’Unione
3        I considerando 5 e 18 della direttiva 2004/38 così recitano:
«(5)      Il diritto di ciascun cittadino dell’Unione di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri presuppone, affinché possa essere esercitato in oggettive condizioni di libertà e di dignità, la concessione di un analogo diritto ai familiari, qualunque sia la loro cittadinanza. (...)
(...)
(18)      Per costituire un autentico mezzo di integrazione nella società dello Stato membro ospitante in cui il cittadino dell’Unione soggiorna, il diritto di soggiorno permanente non dovrebbe, una volta ottenuto, essere sottoposto ad alcuna condizione».
4        L’articolo 1 di tale direttiva così dispone:
«La presente direttiva determina:
a)      le modalità d’esercizio del diritto di libera circolazione e soggiorno nel territorio degli Stati membri da parte dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari;
b)      il diritto di soggiorno permanente nel territorio degli Stati membri dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari;
(...)».
5        Ai sensi dell’articolo 2 di detta direttiva:
«Ai fini della presente direttiva, si intende per:
1)      “cittadino dell’Unione”: qualsiasi persona avente la cittadinanza di uno Stato membro;
2)      “familiare”:
a)      il coniuge;
(...)
3)      “Stato membro ospitante”: lo Stato membro nel quale il cittadino dell’Unione si reca al fine di esercitare il diritto di libera circolazione o di soggiorno».
6        L’articolo 3 della direttiva 2004/38, intitolato «Aventi diritto», al paragrafo 1 prevede quanto segue:
«La presente direttiva si applica a qualsiasi cittadino dell’Unione che si rechi o soggiorni in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, nonché ai suoi familiari ai sensi dell’articolo 2, punto 2, che accompagnino o raggiungano il cittadino medesimo».
7        L’articolo 6 di tale direttiva, intitolato «Diritto di soggiorno sino a tre mesi», così dispone:
«1.      I cittadini dell’Unione hanno il diritto di soggiornare nel territorio di un altro Stato membro per un periodo non superiore a tre mesi senza alcuna condizione o formalità, salvo il possesso di una carta d’identità o di un passaporto in corso di validità.
2.      Le disposizioni del paragrafo 1 si applicano anche ai familiari in possesso di un passaporto in corso di validità non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che accompagnino o raggiungano il cittadino dell’Unione».
8        L’articolo 7 di detta direttiva, intitolato «Diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi», prevede quanto segue ai suoi paragrafi 1 e 2:
«1.      Ciascun cittadino dell’Unione ha il diritto di soggiornare per un periodo superiore a tre mesi nel territorio di un altro Stato membro, a condizione:
a)      di essere lavoratore subordinato o autonomo nello Stato membro ospitante; o
b)      di disporre, per se stesso e per i propri familiari, di risorse economiche sufficienti, affinché non divenga un onere a carico dell’assistenza sociale dello Stato membro ospitante durante il periodo di soggiorno, e di un’assicurazione malattia che copra tutti i rischi nello Stato membro ospitante; o
c)      di essere iscritto presso un istituto pubblico o privato, riconosciuto o finanziato dallo Stato membro ospitante in base alla sua legislazione o prassi amministrativa, per seguirvi a titolo principale un corso di studi inclusa una formazione professionale,
–        di disporre di un’assicurazione malattia che copre tutti i rischi nello Stato membro ospitante e di assicurare all’autorità nazionale competente, con una dichiarazione o con altro mezzo di sua scelta equivalente, di disporre, per se stesso e per i propri familiari, di risorse economiche sufficienti, affinché non divenga un onere a carico dell’assistenza sociale dello Stato membro ospitante durante il suo periodo di soggiorno; o
(...)
2.      Il diritto di soggiorno di cui al paragrafo 1 è esteso ai familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro quando accompagnino o raggiungano nello Stato membro ospitante il cittadino dell’Unione, purché questi risponda all[e] condizioni di cui al paragrafo 1, lettere a), b) o c)».
9        L’articolo 16 della stessa direttiva, che figura al capo IV della medesima, intitolato «Diritto di soggiorno permanente», è così formulato:
«1.      Il cittadino dell’Unione che abbia soggiornato legalmente ed in via continuativa per cinque anni nello Stato membro ospitante ha diritto al soggiorno permanente in detto Stato. Tale diritto non è subordinato alle condizioni di cui al capo III.
2.      Le disposizioni del paragrafo 1 si applicano anche ai familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che abbiano soggiornato legalmente in via continuativa per cinque anni assieme al cittadino dell’Unione nello Stato membro ospitante.
(...)
4.      Una volta acquisito, il diritto di soggiorno permanente si perde soltanto a seguito di assenze dallo Stato membro ospitante di durata superiore a due anni consecutivi».
 Diritto del Regno Unito
10      La direttiva 2004/38 è stata recepita nel diritto del Regno Unito dall’Immigration (European Economic Area) Regulations 2006 [regolamento del 2006 sull’immigrazione (Spazio economico europeo); in prosieguo: il «regolamento del 2006»]. Tale regolamento utilizza i termini «cittadino [dello Spazio economico europeo (SEE)]» in luogo dei termini «cittadino dell’Unione».
11      Nella sua versione iniziale, l’articolo 2 di detto regolamento definiva la nozione di «cittadino del SEE» come riguardante «qualsiasi cittadino di uno Stato del SEE», precisando che il Regno Unito era escluso dalla nozione di «Stato del SEE».
12      A seguito di due modifiche successive del medesimo regolamento da parte dell’Immigration (European Economic Area) (Amendment) Regulations 2012 (2012/1547) [regolamento modificativo sull’immigrazione (Spazio economico europeo) del 2012 (2012/1547); in prosieguo: il «regolamento 2012/1547»], ed in un secondo momento dall’Immigration (European Economic Area) (Amendment) (No 2) Regulations 2012 (2012/2560) [secondo regolamento modificativo sull’immigrazione (Spazio economico europeo) del 2012 (2012/2560); in prosieguo: il «regolamento 2012/2560»], tale articolo dispone quanto segue:
«Si intende per “cittadino del SEE” qualsiasi cittadino di uno Stato del SEE che non sia anche cittadino britannico».
13      Gli articoli 6, 7, 14 e 15 del regolamento del 2006 recepiscono, nel diritto del Regno Unito, gli articoli 2, 7 e 16 della direttiva 2004/38.
 Procedimento principale e questione pregiudiziale
14      Nel settembre del 1996 la sig.ra Ormazabal, cittadina spagnola, si è recata nel Regno Unito per seguire un corso di studi. Da allora vi soggiorna e lavora a tempo pieno dal settembre del 2014.
15      Il 12 agosto 2009 ha acquisito la cittadinanza britannica per naturalizzazione e le è stato rilasciato un passaporto britannico, mantenendo al contempo anche la sua cittadinanza spagnola.
16      Nel 2013 ha avviato una relazione con il sig. Lounes, cittadino algerino, che il 20 gennaio 2010 era entrato nel Regno Unito con un visto per scopo di visita valido sei mesi ed ha continuato a restarvi illegalmente oltre tale periodo. La sig.ra Ormazabal e il sig. Lounes hanno contratto matrimonio religioso il 1° gennaio 2014 e successivamente matrimonio civile a Londra (Regno Unito) il 16 maggio 2014. Da allora risiedono nel Regno Unito.
17      Il 15 aprile 2014, il sig. Lounes ha presentato al ministro dell’Interno una domanda di carta di soggiorno in qualità di familiare di un cittadino del SEE, in forza del regolamento del 2006.
18      Il 14 maggio 2014 gli è stato notificato un avviso, indirizzato a persona passibile di allontanamento, accompagnato da una decisione di allontanamento dal Regno Unito, con la motivazione che aveva superato la durata del soggiorno autorizzato in tale Stato membro in violazione dei controlli in materia di immigrazione.
19      Con lettera del 22 maggio 2014, il ministro dell’Interno ha comunicato al sig. Lounes la sua decisione di respingere la domanda di carta di soggiorno da quest’ultimo presentata nonché i motivi di tale rigetto. Tale lettera indicava, in sostanza, che, in seguito alla modifica dell’articolo 2 del regolamento del 2006 ad opera dei regolamenti 2012/1547 e 2012/2560, la sig.ra Ormazabal non era più considerata una «cittadin[a] del SEE» ai sensi di tale primo regolamento in quanto aveva acquisito la cittadinanza britannica il 12 agosto 2009, e ciò nonostante avesse conservato anche la cittadinanza spagnola. Essa pertanto non beneficiava più dei diritti conferiti nel Regno Unito da detto regolamento, nonché dalla direttiva 2004/38. Il sig. Lounes, dunque, non poteva richiedere una carta di soggiorno in qualità di familiare di un cittadino del SEE ai sensi di detto regolamento.
20      Dalla decisione di rinvio risulta, infatti, che, prima di tale modifica, i cittadini britannici che avevano anche la cittadinanza di un altro Stato membro del SEE, come la sig.ra Ormazabal, erano, a differenza di quelli che non erano in possesso di tale doppia cittadinanza, considerati cittadini del SEE ai sensi dell’articolo 2 del regolamento del 2006 e potevano dunque beneficiare dei diritti conferiti da tale regolamento. Tuttavia, dopo detta modifica, tali cittadini non sarebbero più considerati in tal modo e non beneficerebbero pertanto più di tali diritti, cosicché nemmeno i loro familiari cittadini di Stati terzi potrebbero beneficiare, in tale qualità, di un diritto di soggiorno nel Regno Unito.
21      Il sig. Lounes ha presentato ricorso dinanzi al giudice del rinvio avverso la decisione del 22 maggio 2014, di cui al punto 19 della presente sentenza.
22      Tale giudice esprime dubbi sulla compatibilità di tale decisione, nonché dell’articolo 2 del regolamento del 2006, come modificato dai regolamenti 2012/1547 e 2012/2560, con l’articolo 21 TFUE e la direttiva 2004/38.
23      A tale riguardo, egli rileva che, secondo la nota esplicativa relativa al regolamento 2012/1547, nonché secondo i preamboli di tale regolamento e del regolamento 2012/2560, la modifica di detto articolo 2 fa seguito alla sentenza del 5 maggio 2011, McCarthy (C‑434/09, EU:C:2011:277), nella quale la Corte ha dichiarato che tale direttiva non è applicabile ad un cittadino dell’Unione che non abbia mai esercitato il proprio diritto di libera circolazione, che abbia sempre soggiornato in uno Stato membro del quale possiede la cittadinanza e che goda, inoltre, della cittadinanza di un altro Stato membro.
24      Nel caso di specie sarebbe tuttavia pacifico che, prima di ottenere la cittadinanza britannica, la sig.ra Ormazabal aveva esercitato la propria libertà di circolazione e aveva acquisito un diritto di soggiorno nel Regno Unito in qualità di cittadina spagnola in forza di detta direttiva.
25      In tale contesto, il giudice del rinvio si chiede, in sostanza, se, come sostiene il ministro dell’Interno, la sig.ra Ormazabal abbia perso il beneficio della direttiva 2004/38 nel Regno Unito a partire dalla data della sua naturalizzazione in tale Stato membro, oppure se, come afferma il sig. Lounes, nonostante abbia ottenuto la cittadinanza britannica, la sig.ra Ormazabal debba continuare ad essere considerata un’«avente diritto» di tale direttiva, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della stessa, e possa continuare ad avvalersi in tale Stato membro dei diritti garantiti da detta direttiva avendo conservato la sua cittadinanza spagnola. Infatti, nel primo caso, il sig. Lounes non potrebbe beneficiare di un diritto di soggiorno derivato nel Regno Unito in qualità di familiare di un cittadino dell’Unione in forza della medesima direttiva, mentre, nel secondo caso, potrebbe essergli riconosciuto tale diritto.
26      In tale contesto, tale giudice si chiede anche se la risposta a tale questione differirebbe a seconda che la sig.ra Ormazabal avesse acquisito un diritto di soggiorno permanente nel Regno Unito in forza dell’articolo 16 della direttiva 2004/38, prima di ottenere la cittadinanza britannica, o che disponesse, in tale momento, soltanto di un diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi in forza dell’articolo 7 di tale direttiva. Infatti, il tipo di diritto di soggiorno di cui beneficiava la sig.ra Ormazabal prima della sua naturalizzazione sarebbe oggetto di discussione tra le parti nel procedimento principale e dovrebbe ancora essere determinato.
27      Ciò premesso, la High Court of Justice (England & Wales), Queen’s Bench Division (Administrative Court) [Alta Corte di giustizia (Inghilterra e Galles), divisione del Queen’s Bench (sezione amministrativa), Regno Unito] ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:
«Se, qualora una cittadina spagnola e dell’Unione:
–        si rechi nel Regno Unito, esercitando il proprio diritto di libera circolazione ai sensi della direttiva [2004/38],
–        soggiorni nel Regno Unito, esercitando il proprio diritto ai sensi dell’articolo 7 o dell’articolo 16 della direttiva [2004/38],
–        acquisisca successivamente la cittadinanza britannica, in aggiunta alla cittadinanza spagnola, divenendo così titolare di doppia cittadinanza, e
–        alcuni anni dopo aver acquisito la cittadinanza britannica, contragga matrimonio con un cittadino di uno Stato terzo con il quale risiede nel Regno Unito,
essa – residente nel Regno Unito e in possesso sia della cittadinanza spagnola sia di quella britannica – e il suo coniuge siano entrambi beneficiari della direttiva [2004/38], ai sensi del suo articolo 3, paragrafo 1».
 Sulla questione pregiudiziale
28      In via preliminare, occorre rilevare che, conformemente a una costante giurisprudenza della Corte, anche laddove formalmente il giudice del rinvio abbia limitato la propria questione all’interpretazione dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2004/38, tale circostanza non osta a che la Corte gli fornisca tutti gli elementi interpretativi del diritto dell’Unione che possano essere utili per definire la controversia di cui è investito, a prescindere dal fatto che esso vi abbia fatto o no riferimento nel formulare la suddetta questione (v., per analogia, sentenza del 5 maggio 2011, McCarthy, C‑434/09, EU:C:2011:277, punto 24 e giurisprudenza ivi citata).
29      Nel caso di specie, dalle indicazioni contenute nella domanda di pronuncia pregiudiziale emerge che i dubbi espressi dal giudice del rinvio nel procedimento principale non riguardano soltanto la direttiva 2004/38, ma anche l’articolo 21, paragrafo 1, TFUE.
30      Si deve pertanto ritenere che, con la sua questione, il giudice del rinvio chieda, in sostanza, se la direttiva 2004/38 e l’articolo 21, paragrafo 1, TFUE debbano essere interpretati nel senso che, in una situazione in cui un cittadino dell’Unione abbia esercitato la propria libertà di circolazione recandosi e soggiornando in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza in forza dell’articolo 7, paragrafo 1, o dell’articolo 16, paragrafo 1, di tale direttiva, abbia successivamente acquisito la cittadinanza di tale Stato membro, conservando al contempo anche la propria cittadinanza d’origine, e, alcuni anni dopo, abbia contratto matrimonio con un cittadino di uno Stato terzo con il quale continui a risiedere nel territorio di detto Stato membro, tale cittadino benefici di un diritto di soggiorno in tale Stato membro, sulla base delle disposizioni di detta direttiva o dell’articolo 21, paragrafo 1, TFUE.
 Sull’interpretazione della direttiva 2004/38
31      Conformemente ad una costante giurisprudenza della Corte, la direttiva 2004/38 mira ad agevolare l’esercizio del diritto primario e individuale di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, conferito direttamente ai cittadini dell’Unione dall’articolo 21, paragrafo 1, TFUE, ed a rafforzare tale diritto. Il considerando 5 di tale direttiva sottolinea che detto diritto presuppone, affinché possa essere esercitato in oggettive condizioni di dignità, la concessione di un analogo diritto ai familiari di tali cittadini, qualunque sia la loro cittadinanza (sentenza del 18 dicembre 2014, McCarthy e a., C‑202/13, EU:C:2014:2450, punti 31 e 33 e giurisprudenza ivi citata).
32      Detta direttiva non conferisce tuttavia alcun diritto autonomo ai familiari di un cittadino dell’Unione che siano cittadini di uno Stato terzo. Quindi, gli eventuali diritti conferiti a tali cittadini dalla medesima direttiva sono derivati da quelli di cui gode il cittadino dell’Unione considerato a seguito dell’esercizio della sua libertà di circolazione (v., in tal senso, sentenza del 18 dicembre 2014, McCarthy e a., C‑202/13, EU:C:2014:2450, punto 34 e giurisprudenza ivi citata).
33      Ebbene, come la Corte ha più volte dichiarato, da un’interpretazione letterale, sistematica e teleologica delle disposizioni della direttiva 2004/38 risulta che quest’ultima disciplina unicamente le condizioni di ingresso e di soggiorno di un cittadino dell’Unione negli Stati membri diversi da quello di cui egli ha la cittadinanza e che non consente di fondare un diritto di soggiorno derivato a favore dei cittadini di uno Stato terzo, familiari di un cittadino dell’Unione, nello Stato membro di cui tale cittadino possieda la cittadinanza (v., in tal senso, sentenze del 12 marzo 2014, O. e B., C‑456/12, EU:C:2014:135, punto 37, nonché del 10 maggio 2017, Chavez-Vilchez e a., C‑133/15, EU:C:2017:354, punto 53).
34      Infatti, in primo luogo, dalla formulazione dell’articolo 3, paragrafo 1, di tale direttiva risulta che rientrano nel suo ambito di applicazione e beneficiano dei diritti dalla stessa riconosciuti i cittadini dell’Unione che si recano o soggiornano in uno «Stato membro diverso da quello di cui [hanno] la cittadinanza», nonché i loro familiari, come definiti dall’articolo 2, punto 2, di detta direttiva, che li accompagnino o raggiungano (sentenza del 12 marzo 2014, O. e B., C‑456/12, EU:C:2014:135, punto 38).
35      In secondo luogo, le altre disposizioni della direttiva 2004/38, segnatamente l’articolo 6, l’articolo 7, paragrafi 1 e 2, nonché l’articolo 16, paragrafi 1 e 2, di quest’ultima, riguardano il diritto di soggiorno di un cittadino dell’Unione e il diritto di soggiorno derivato dei suoi familiari o in «un altro Stato membro», o nello «Stato membro ospitante» (sentenza del 12 marzo 2014, O. e B., C‑456/12, EU:C:2014:135, punto 40 e giurisprudenza ivi citata).
36      In terzo luogo, sebbene, come ricordato al punto 31 della presente sentenza, tale direttiva miri ad agevolare e a rafforzare l’esercizio del diritto dei cittadini dell’Unione di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, resta il fatto che l’oggetto di detta direttiva riguarda, come risulta dal suo articolo 1, lettera a), le modalità di esercizio di tale diritto (sentenze del 5 maggio 2011, McCarthy, C‑434/09, EU:C:2011:277, punto 33, nonché del 12 marzo 2014, O. e B., C‑456/12, EU:C:2014:135, punto 41).
37      La Corte ha quindi dichiarato che, dal momento che uno Stato membro, in forza di un principio di diritto internazionale, non può negare ai propri cittadini il diritto di fare ingresso nel suo territorio e di soggiornarvi e che questi ultimi ivi godono pertanto di un diritto di soggiorno incondizionato, detta direttiva non è volta a disciplinare il soggiorno di un cittadino dell’Unione nello Stato membro del quale possiede la cittadinanza. Di conseguenza, alla luce della giurisprudenza richiamata al punto 32 della presente sentenza, la direttiva non è nemmeno volta a conferire, nel territorio del medesimo Stato membro, un diritto di soggiorno derivato ai familiari di tale cittadino, che siano cittadini di uno Stato terzo (v., in tal senso, sentenze del 5 maggio 2011, McCarthy, C‑434/09, EU:C:2011:277, punti 29, 34 e 42, nonché del 12 marzo 2014, O. e B., C‑456/12, EU:C:2014:135, punti 42 e 43).
38      Nel caso di specie, è pacifico che la sig.ra Ormazabal, che è cittadina spagnola, abbia esercitato la propria libertà di circolazione recandosi e soggiornando in uno Stato membro diverso da quello di cui possedeva la cittadinanza quando è partita dalla Spagna per trasferirsi nel Regno Unito nel 1996. È parimenti pacifico che essa fosse qualificabile come un’«avente diritto» della direttiva 2004/38, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della stessa, e che soggiornasse nel Regno Unito in forza dell’articolo 7, paragrafo 1, oppure – come sembra del resto riconoscere il governo del Regno Unito – dell’articolo 16, paragrafo 1, di tale direttiva, almeno sino a quando ha acquisito la cittadinanza britannica mediante naturalizzazione.
39      Tuttavia, come ha rilevato l’avvocato generale ai paragrafi 48 e 63 delle conclusioni, l’acquisizione di tale cittadinanza ha determinato, nei confronti della sig.ra Ormazabal, un cambiamento di regime giuridico alla luce sia del diritto nazionale che di detta direttiva.
40      Infatti, la sig.ra Ormazabal soggiorna, da allora, in uno degli Stati membri di cui possiede la cittadinanza e dove beneficia, di conseguenza, di un diritto di soggiorno incondizionato, conformemente al principio di diritto internazionale di cui al punto 37 della presente sentenza.
41      Ne consegue che, da quando ha acquisito la cittadinanza britannica, da un lato, la sig.ra Ormazabal non soddisfa più la definizione della nozione di «avente diritto» ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2004/38, quale richiamata al punto 34 della presente sentenza. Dall’altro, alla luce delle considerazioni di cui ai punti 36 e 37 della presente sentenza, detta direttiva non può più disciplinare il suo soggiorno nel Regno Unito poiché esso è, per natura, incondizionato.
42      In tali condizioni, occorre ritenere che la direttiva 2004/38 non sia più applicabile alla situazione della sig.ra Ormazabal da quando quest’ultima è stata naturalizzata nel Regno Unito.
43      Tale conclusione non può essere rimessa in discussione dalla circostanza che la sig.ra Ormazabal ha esercitato la propria libertà di circolazione recandosi e soggiornando nel Regno Unito ed ha conservato la sua cittadinanza spagnola in aggiunta a quella britannica. Infatti, malgrado tale doppia circostanza, rimane il fatto che, dall’acquisizione di tale cittadinanza, la sig.ra Ormazabal non soggiorna più in uno «Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, di tale direttiva, e non rientra pertanto più nella nozione di «avente diritto» di tale direttiva, ai sensi di tale disposizione.
44      Tenuto conto della giurisprudenza richiamata ai punti 32 e 37 della presente sentenza, neppure il suo coniuge cittadino di uno Stato terzo, il sig. Lounes, rientra in tale nozione e non può dunque beneficiare di un diritto di soggiorno derivato nel Regno Unito sulla base della medesima direttiva.
 Sull’interpretazione dell’articolo 21, paragrafo 1, TFUE
45      Dal momento che la direttiva 2004/38 non può fondare un diritto di soggiorno derivato in favore di un cittadino di uno Stato terzo in una situazione come quella del sig. Lounes, occorre determinare se tale diritto di soggiorno possa cionondimeno essere desunto dalle disposizioni del Trattato FUE sulla cittadinanza dell’Unione, in particolare dall’articolo 21, paragrafo 1, TFUE, il quale conferisce ad ogni cittadino dell’Unione il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve in particolare le limitazioni e le condizioni previste dai trattati.
46      Occorre infatti ricordare che la Corte ha già riconosciuto, in alcuni casi, che cittadini di Stati terzi, familiari di un cittadino dell’Unione, che non potevano beneficiare, sulla base delle disposizioni della direttiva 2004/38, di un diritto di soggiorno derivato nello Stato membro di cui tale cittadino avesse la cittadinanza, potevano tuttavia vedersi riconosciuto tale diritto sulla base dell’articolo 21, paragrafo 1, TFUE (v., in tal senso, sentenze del 12 marzo 2014, O. e B., C‑456/12, EU:C:2014:135, punti da 44 a 50, nonché del 10 maggio 2017, Chavez-Vilchez e a., C‑133/15, EU:C:2017:354, punto 54).
47      Tuttavia, al pari della direttiva 2004/38, tale ultima disposizione non conferisce alcun diritto di soggiorno autonomo a tale cittadino, ma soltanto un diritto derivato da quelli di cui gode il cittadino dell’Unione considerato (sentenze dell’8 novembre 2012, Iida, C‑40/11, EU:C:2012:691, punti 66 e 67, nonché del 12 marzo 2014, O. e B., C‑456/12, EU:C:2014:135, punto 36).
48      Pertanto, un diritto di soggiorno derivato in favore di un cittadino di uno Stato terzo, familiare di un cittadino dell’Unione, esiste, in linea di principio, solo quando è necessario per assicurare l’effettivo esercizio da parte di tale cittadino della sua libertà di circolazione. La finalità e la ratio di tale diritto derivato si basano quindi sulla constatazione che negarne il riconoscimento pregiudicherebbe, in particolare, tale libertà, nonché l’esercizio e l’effetto utile dei diritti che al cittadino dell’Unione considerato derivano dall’articolo 21, paragrafo 1, TFUE (v., in tal senso, sentenze dell’8 novembre 2012, Iida, C‑40/11, EU:C:2012:691, punto 68; del 12 marzo 2014, O. e B., C‑456/12, EU:C:2014:135, punto 45, nonché del 13 settembre 2016, Rendón Marín, C‑165/14, EU:C:2016:675, punti 36 e 73).
49      Nel caso di specie, occorre rilevare che, contrariamente a quanto sostiene, in sostanza, il governo del Regno Unito, la situazione di un cittadino di uno Stato membro, quale la sig.ra Ormazabal, che ha esercitato la propria libertà di circolazione recandosi e soggiornando legalmente nel territorio di un altro Stato membro, non può essere assimilata ad una situazione puramente interna per il solo fatto che tale cittadino, durante tale soggiorno, abbia acquisito la cittadinanza di tale Stato membro ospitante in aggiunta alla propria cittadinanza d’origine.
50      La Corte ha infatti già riconosciuto che un collegamento con il diritto dell’Unione sussiste nei confronti di persone che sono cittadini di uno Stato membro e che soggiornano legalmente sul territorio di un altro Stato membro di cui parimenti possiedono la cittadinanza (v., in tal senso, sentenza dell’8 giugno 2017, Freitag, C‑541/15, EU:C:2017:432, punto 34).
51      Pertanto, la sig.ra Ormazabal, che è cittadina di due Stati membri ed ha, nella sua qualità di cittadina dell’Unione, esercitato la propria libertà di circolare e di soggiornare in uno Stato membro diverso dal suo Stato membro d’origine, può avvalersi dei diritti connessi a tale qualità, in particolare di quelli previsti all’articolo 21, paragrafo 1, TFUE, anche nei confronti di uno di tali due Stati membri.
52      I diritti riconosciuti da tale disposizione ai cittadini degli Stati membri includono quello di condurre una normale vita familiare nello Stato membro ospitante, beneficiando della vicinanza dei loro familiari (v., per analogia, sentenza del 25 luglio 2008, Metock e a., C‑127/08, EU:C:2008:449, punto 62).
53      La circostanza che un cittadino di uno Stato membro, che si è recato e soggiorna in un altro Stato membro, acquisisca, successivamente, la cittadinanza di tale ultimo Stato membro in aggiunta alla propria cittadinanza d’origine non può comportare che egli sia privato di tale diritto, salvo compromettere l’effetto utile dell’articolo 21, paragrafo 1, TFUE.
54      Infatti, in primo luogo, ciò porterebbe a trattare tale cittadino allo stesso modo di un cittadino dello Stato membro ospitante che non abbia mai lasciato quest’ultimo, senza tenere conto della circostanza che detto cittadino ha esercitato la propria libertà di circolazione stabilendosi nel territorio di detto Stato membro e che ha conservato la propria cittadinanza d’origine.
55      Ebbene, uno Stato membro non può limitare gli effetti derivanti dal possesso della cittadinanza di un altro Stato membro, in particolare i diritti ad essa collegati in forza del diritto dell’Unione, e che risultano dall’esercizio, da parte di un cittadino, della propria libertà di circolazione.
56      In secondo luogo, occorre sottolineare che i diritti conferiti ad un cittadino dell’Unione dall’articolo 21, paragrafo 1, TFUE, compresi i diritti derivati di cui godono i suoi familiari, sono volti, in particolare, a favorire la progressiva integrazione del cittadino dell’Unione interessato nella società dello Stato membro ospitante.
57      Ebbene, un cittadino dell’Unione, come la sig.ra Ormazabal, che, dopo essersi recato, nell’esercizio della propria libertà di circolazione, ed aver soggiornato per diversi anni nel territorio dello Stato membro ospitante in forza e conformemente all’articolo 7, paragrafo 1, ovvero all’articolo 16, paragrafo 1, della direttiva 2004/38, acquisisce la cittadinanza di tale Stato membro, tende ad integrarsi stabilmente nella società di detto Stato.
58      Come sostanzialmente rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 86 delle conclusioni, ritenere che tale cittadino, cui sono stati riconosciuti diritti in forza dell’articolo 21, paragrafo 1, TFUE per aver esercitato la propria libertà di circolazione, debba rinunciare al beneficio di tali diritti, in particolare di quello di condurre una vita familiare nello Stato membro ospitante, per il motivo che ha ricercato, mediante la naturalizzazione in tale Stato membro, un inserimento più approfondito nella società di quest’ultimo, sarebbe contrario alla logica dell’integrazione progressiva che tale disposizione favorisce.
59      Ne conseguirebbe inoltre che un cittadino dell’Unione che abbia esercitato la propria libertà di circolazione e che abbia acquisito la cittadinanza dello Stato membro ospitante in aggiunta alla propria cittadinanza d’origine sarebbe, per quanto riguarda la sua vita familiare, trattato in modo meno favorevole rispetto ad un cittadino dell’Unione che abbia anch’esso esercitato tale libertà ma che possieda soltanto la propria cittadinanza d’origine. In tal modo, i diritti conferiti ad un cittadino dell’Unione nello Stato membro ospitante, in particolare quello di condurre una vita familiare con un cittadino di uno Stato terzo, diminuirebbero a seconda del suo inserimento nella società di tale Stato membro ed in funzione del numero di cittadinanze di cui è in possesso.
60      Da quanto precede risulta che l’effetto utile dei diritti conferiti ai cittadini dell’Unione dall’articolo 21, paragrafo 1, TFUE richiede che un cittadino che si trovi in una situazione come quella della sig.ra Ormazabal possa continuare a godere, nello Stato membro ospitante, dei diritti derivanti da detta disposizione, dopo aver acquisito la cittadinanza di tale Stato membro in aggiunta alla propria cittadinanza d’origine, e, in particolare, possa sviluppare una vita familiare con il proprio coniuge cittadino di uno Stato terzo, mediante il riconoscimento a quest’ultimo di un diritto di soggiorno derivato.
61      Per quanto riguarda le condizioni di concessione di tale diritto di soggiorno derivato, queste non devono essere più rigorose di quelle previste dalla direttiva 2004/38 per la concessione di tale diritto di soggiorno a un cittadino di uno Stato terzo, familiare di un cittadino dell’Unione che ha esercitato il proprio diritto di libera circolazione stabilendosi in uno Stato membro diverso da quello di cui possiede la cittadinanza. Infatti, anche se tale direttiva non ricomprende una situazione come quella di cui al punto precedente della presente sentenza, essa deve essere applicata per analogia a tale situazione (v., per analogia, sentenze del 12 marzo 2014, O. e B., C‑456/12, EU:C:2014:135, punti 50 e 61, nonché del 10 maggio 2017, Chavez-Vilchez e a., C‑133/15, EU:C:2017:354, punti 54 e 55).
62      Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, occorre rispondere alla questione posta dichiarando che la direttiva 2004/38 deve essere interpretata nel senso che, in una situazione in cui un cittadino dell’Unione abbia esercitato la propria libertà di circolazione recandosi e soggiornando in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza in forza dell’articolo 7, paragrafo 1, o dell’articolo 16, paragrafo 1, di tale direttiva, abbia successivamente acquisito la cittadinanza di tale Stato membro, conservando al contempo anche la propria cittadinanza d’origine, e, alcuni anni dopo, abbia contratto matrimonio con un cittadino di uno Stato terzo con il quale continui a risiedere nel territorio di detto Stato membro, quest’ultimo cittadino non beneficia di un diritto di soggiorno derivato nello Stato membro in questione sulla base delle disposizioni di detta direttiva. Egli può tuttavia beneficiare di tale diritto di soggiorno in forza dell’articolo 21, paragrafo 1, TFUE, a condizioni che non devono essere più rigorose di quelle previste dalla direttiva 2004/38 per la concessione di detto diritto a un cittadino di uno Stato terzo, familiare di un cittadino dell’Unione che ha esercitato il proprio diritto di libera circolazione stabilendosi in uno Stato membro diverso da quello di cui possiede la cittadinanza.
 Sulle spese
63      Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
La direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE, deve essere interpretata nel senso che, in una situazione in cui un cittadino dell’Unione europea abbia esercitato la propria libertà di circolazione recandosi e soggiornando in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza in forza dell’articolo 7, paragrafo 1, o dell’articolo 16, paragrafo 1, di tale direttiva, abbia successivamente acquisito la cittadinanza di tale Stato membro, conservando al contempo anche la propria cittadinanza d’origine, e, alcuni anni dopo, abbia contratto matrimonio con un cittadino di uno Stato terzo con il quale continui a risiedere nel territorio di detto Stato membro, quest’ultimo cittadino non beneficia di un diritto di soggiorno derivato nello Stato membro in questione sulla base delle disposizioni di detta direttiva. Egli può tuttavia beneficiare di tale diritto di soggiorno in forza dell’articolo 21, paragrafo 1, TFUE, a condizioni che non devono essere più rigorose di quelle previste dalla direttiva 2004/38 per la concessione di detto diritto a un cittadino di uno Stato terzo, familiare di un cittadino dell’Unione che ha esercitato il proprio diritto di libera circolazione stabilendosi in uno Stato membro diverso da quello di cui possiede la cittadinanza.
Dal sito http://curia.europa.eu

lunedì 20 novembre 2017



Cons. di Stato, I, 7 novembre 2017, n. 2325/2017 (adunanza del 11 ottobre 2017, n. 1326/2017), Ministero dell'interno - Dipartimento libertà civili. Quesito in materia di approvazione governativa dei ministri di culto di confessioni acattoliche


Fermo restando il principio per cui l’approvazione da parte dal Ministero della nomina a ministro di culto di una confessione religiosa diversa da quella cattolica non limita la professione del culto né la celebrazione del relativo culto né l’assistenza spirituale ai fedeli — spetta all’Amministrazione compiere un’accurata istruttoria per verificare sia i requisiti soggettivi del ministro di culto sia la consistenza quali-quantitativa del culto. Sotto tale ultimo aspetto il riferimento ad un numero minimo di fedeli su base nazionale o locale può fungere da criterio per le determinazioni dell’Amministrazione ma non deve essere letto nel senso dell’esistenza di una rigorosa soglia al di sotto della quale non è possibile approvare la nomina. L’Amministrazione valuterà quindi se, pur essendo esiguo il numero di fedeli su base locale, la confessione religiosa possa contare su un adeguato numero di fedeli a livello nazionale, e potrà valutare la presenza in territori vicini di altri ministri di culto o le specifiche esigenze del caso concreto.

Numero 02325/2017 e data 07/11/2017 Spedizione

REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Prima
Adunanza di Sezione del 11 ottobre 2017

NUMERO AFFARE 01326/2017
OGGETTO:
Ministero dell'interno - Dipartimento libertà civili.

Quesito in materia di approvazione governativa dei ministri di culto di confessioni acattoliche.
LA SEZIONE
Visto il quesito proposto dal Ministero dell'interno con nota 14 luglio 2017, prot. n. 1372;
esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Vincenzo Neri.

1. Premessa. Il Ministero dell’Interno pone al Consiglio di Stato un quesito sulla disciplina relativa all’approvazione governativa della nomina a ministro di culto acattolico. Dopo aver ricordato i diversi pareri espressi dalla prima Sezione, ha chiesto una nuova pronuncia “volta a riconsiderare una riduzione dei limiti numerici dei fedeli per l’approvazione dei ministri di culto, tenendo conto dei diversi criteri di aggregazione delle confessioni religiose sul territorio, e in ogni caso a non porre”, quale criterio minimo, il numero di almeno cinquecento fedeli presenti in ambito locale. Ciò anche perché il Ministero ritiene “indispensabile un’attenzione particolare da riservare alle minoranze religiose”.
Spiega il Ministero che l’esigenza di una nuova pronuncia deriva dalla necessità di chiarire la “divergenza di prospettive evidenziata tra i differenti pareri del Consiglio di Stato sopra citati” e dalla constatazione che vi sono “comunità di fede le quali, per loro parametri organizzativi interni, si presentano alquanto parcellizzate e incapaci di raggiungere una consistenza minima di fedeli indicata nel parere 11 gennaio 2012, n. 1834 – pari ad almeno 500 in ambito locale o 5.000 a livello nazionale – e che quindi non avrebbero la possibilità di avere alcun ministro di culto approvato, in grado di compiere atti valevoli anche per l’ordinamento giuridico dello Stato”. Inoltre, l’Amministrazione rileva che il Consiglio di Stato con parere n. 71/2014, fermo il riferimento di una consistenza minima sul territorio nazionale di almeno 5.000 fedeli, ha individuato un ulteriore criterio per la concessione dell’approvazione nella circostanza che in una Regione, ove è presente una comunità religiosa locale, sia pure esigua, non ci sia nessun altro ministro di culto munito dell’approvazione.

2. La libertà religiosa. Il termine diritto di libertà religiosa può essere variamente inteso sia come libertà di scegliere un credo determinato e aderirvi (libertà di religione) sia come libertà di ciascuno di esternare liberamente il proprio credo religioso (libertà di culto) sia ancora come libertà delle varie confessioni religiose, tutte ugualmente libere rispetto alla legge (libertà di culto).
L’art 19 Cost. riconosce la libertà religiosa sotto il profilo individuale, ovvero il diritto di professare la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto, con il solo limite del divieto di riti contrari al buon costume. All’art 20 Cost. si stabilisce che il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto di un’associazione o istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività. La Corte costituzionale ha individuato nel divieto di manifestazioni di pensiero in materia religiosa di carattere vilipendioso un limite ulteriore rispetto a quello del buon costume (sent. n. 188/75).
La libertà religiosa è un diritto pubblico subiettivo che si differenzia dai diritti sociali in quanto postula la pretesa di ciascuno ad una prestazione negativa dello Stato e degli altri membri della collettività, ovvero l’astensione dal compiere atti che possano impedirne il libero esercizio.
Altro principio fondamentale in materia è presente all’art 8 Cost., che stabilisce l’uguaglianza di tutte le confessioni religiose dinanzi alla legge precisando che le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano.
La Costituzione del 1947 non ha qualificato espressamente lo Stato dal punto di vista confessionale, né in senso laico, né qualificando una religione come religione di Stato; dal combinato disposto dei citati artt. 8, 19 e 20 si ricava il principio fondamentale della laicità dello Stato. Tali princìpi devono poi essere letti alla luce dell’articolo 2 Cost., che riconosce e garantisce i diritti dell’uomo anche nelle formazioni sociali, e dell’articolo 3 Cost. che garantisce l’uguaglianza sostanziale di tutti i cittadini, senza distinzione, tra l’altro, di religione.
La corte costituzionale, con la sentenza 43/1988, ha chiarito che “al riconoscimento da parte dell'art. 8, secondo comma, Cost., della capacità delle confessioni religiose, diverse dalla cattolica, di dotarsi di propri statuti, corrisponde l’abbandono da parte dello Stato della pretesa di fissarne direttamente per legge i contenuti”. La Corte ha quindi affermato il principio secondo cui il limite al diritto riconosciuto alle confessioni religiose dall’art. 8 Cost. di darsi propri statuti, purché non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano, si può intendere riferito “solo ai principi fondamentali dell’ordinamento stesso e non anche a specifiche limitazioni poste da particolari disposizioni normative”.
È altresì previsto che la disciplina dei rapporti con lo Stato italiano debba avvenire sulla base di intese con le relative rappresentanze.
Per le confessioni religiose che non hanno stipulato intese, la principale fonte normativa è la legge 24 giugno 1929 n. 1159, contenente “Disposizioni sull’esercizio dei culti ammessi nello Stato e sul matrimonio celebrato davanti ai ministri dei culti medesimi”, oltre ai relativi decreti d’attuazione.
La legge citata all’art. 3 prevede che “Le nomine dei ministri dei culti diversi dalla religione dello Stato debbono essere notificate al Ministero della giustizia e degli affari di culto (oggi Ministero dell’interno) per l'approvazione. Nessun effetto civile può essere riconosciuto agli atti del proprio ministero compiuti da tali ministri di culto, se la loro nomina non abbia ottenuto l’approvazione governativa”. L'articolo 3, quindi, assoggetta tali nomine ad un provvedimento ministeriale di approvazione. Il successivo art.7 recita: “il matrimonio celebrato davanti ad alcuno dei ministri di culto indicati nel precedente articolo 3 produce dal giorno della celebrazione gli stessi effetti del matrimonio celebrato davanti all'ufficiale dello stato civile”.
Il regio-decreto 28 febbraio 1930 n. 289, contenente norme d’attuazione, all’art. 21, stabilisce che “Gli uffici per gli affari di culto, assunte le altre informazioni necessarie per completare l’istruttoria e sentito il prefetto della provincia in cui il ministro del culto esercita il suo ufficio, trasmettono gli atti al Ministero dell’interno”.
Ai sensi dell’articolo 21, comma 2, l’approvazione della nomina è data con decreto del ministro dell’interno. Il comma successivo precisa poi che nel caso in cui i seguaci del culto, cui appartiene il ministro di culto che chiede l’approvazione della propria nomina, siano nella maggioranza cittadini italiani, oppure nel caso in cui al ministro del culto spetti la facoltà di celebrare matrimoni religiosi dei propri fedeli con effetti civili, il ministro del culto deve avere la cittadinanza italiana e saper parlare la lingua italiana.
Dopo l’entrata in vigore della Costituzione si è dubitato della legittimità costituzionale dell’approvazione governativa, in quanto si riteneva che essa potesse essere in contrasto con il principio di uguaglianza di tutte le confessioni religiose.
Il Consiglio di Stato, con sentenza della quarta sezione 24 aprile 1956, n. 412, si è pronunciato nel senso della compatibilità con la Costituzione, poiché “l’intervento del provvedimento amministrativo, in questa ipotesi, è produttivo di conseguenze giuridiche favorevoli che non potrebbero derivare dalle norme costituzionali” e “... il Ministro di un culto acattolico, in quanto sancito dalla Costituzione, può liberamente esercitare gli atti del suo Ministero senza che occorra, al riguardo, una preventiva autorizzazione governativa, ma se egli intende compiere degli atti che siano produttivi di quelle conseguenze giuridiche previste dalla legge o dal regolamento citati, occorre che chieda ed ottenga l’approvazione della nomina da parte del Ministro, prevista dall’art. 3 della legge predetta.”.
La corte costituzionale, con sentenza n. 59/1958, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge n. 1159/1929.

3. L’approvazione. Il ministro di culto ricopre un ruolo funzionale che lo distingue dai fedeli, in virtù del quale sono riconosciuti particolari diritti, ma sono anche previsti obblighi e incompatibilità.
Occorre distinguere i ministri di culto di confessioni religiose che hanno stipulato intese con lo Stato e quelli appartenenti a confessioni che non hanno stipulato intese e che trovano la loro disciplina nella l. 1159/1929. Per i primi la qualifica è data con la nomina da parte della confessione religiosa, senza alcun tipo di ingerenza da parte dello Stato; per i secondi, invece, affinché gli atti da questi compiuti possano produrre effetti civili, oltre alla nomina occorre il decreto d’approvazione del ministro.
Come più volte la Sezione ha chiarito in precedenti pareri, la mancata approvazione governativa della nomina a ministro di culto acattolico non è di ostacolo all’esercizio del ministero, ma impedisce che gli atti compiuti dai ministri possano avere effetti per l’ordinamento giuridico, così ad esempio non possono celebrare matrimoni con effetti civili, non possono eseguire collette all'interno e all'ingresso degli edifici destinati al proprio culto (art. 4 R.D. 289/30) e non possono essere dispensati dalla chiamata alle armi (art. 7 del regio decreto 289/1930) o prestare assistenza religiosa ai militari acattolici (art. 8 del regio decreto 289/1930) in caso di mobilitazione delle forze armate dello Stato.
Sulla natura dell’approvazione della nomina: “È certo che, nel periodo politico-istituzionale in cui fu emanata la legge sui cd. culti ammessi nello Stato, l’approvazione era qualificabile in termini di atto di controllo di alto contenuto discrezionale rimesso all’apprezzamento degli organi di governo, come si desume dai lavori preparatori. Si trattava di una vera e propria preventiva autorizzazione alla libera attività del culto nello Stato. Il mutato quadro costituzionale ha fatto sì – in ambito dottrinale - che, oltre a coloro che vorrebbero continuare ad ascrivere l’istituto alla categoria della approvazione propriamente intesa, altri lo ascrivono all’autorizzazione, in quanto diretta a rimuovere un limite all’esercizio di un potere già spettante al soggetto interessato, che determinerebbe, in relazione ad alcune funzioni ministeriali, una sorta di delegazione di pubblici poteri; e altri ancora – secondo una prospettazione che appare forse più convincente – lo ascrivono alla concessione (sub specie dell’ammissione), conferendo il provvedimento il particolare status di ministro “approvato”, che non compete alla generalità dei cittadini”(Consiglio di Stato, sez I, parere 22 ottobre 2009 n. 6357/2009.

4. I criteri per l’approvazione. Già in diverse occasioni questa Sezione si è occupata della questione relativa all’approvazione della nomina dei ministri di culto di confessioni diverse da quella cattolica da parte del Ministero dell’Interno.
Con parere 20 febbraio 2008 n. 238 la Sezione ha chiarito che la questione attiene ai limiti e all’incidenza del potere dell’Amministrazione in sede di approvazione governativa della nomina e non inerisce quindi alla tematica della professione e manifestazione della fede religiosa, con l’ulteriore precisazione che detta approvazione non incide sul libero esercizio del credo religioso ma ha il solo effetto di ampliare la legittimazione dei nominati. L’approvazione è diretta, infatti, alla verifica della personalità morale della persona che riveste la carica pastorale e risponde ad una esigenza di prudente accertamento dell’affidabilità, serietà e moralità del soggetto. La mancata approvazione dei ministri non determina dunque alcun impedimento o interferenza dello Stato, ben potendo il ministro continuare ad esercitare l’attività pastorale con l’unico limite dell’impossibilità di celebrare matrimoni con effetti civili nell’ordinamento dello Stato o altri atti produttivi di effetti giuridici nell’ordinamento statale.
Sempre il Consiglio — dopo avere precisato che non possono ipotizzarsi limitazioni al diritto di professare la fede religiosa e di esercitare liberamente il culto, con riguardo sia a chi professa sia a chi amministra il culto — ha stabilito che il potere amministrativo che consegue alla nomina richiede valutazioni sull’affidabilità del richiedente e che “ciò non significa necessariamente nel caso di conclusioni negative da parte del Ministero dell’Interno che la statuizione sia determinata da un giudizio di ridotta integrità morale. Contano e assumono il massimo rilievo: la situazione concreta nella quale dovranno operare i poteri amministrativi così concessi al ministro di culto anche con riguardo al numero di fedeli affidatigli, la comunità religiosa di riferimento e le sue dimensioni, il numero di ministri di quel culto già muniti di approvazione”.
Col già citato parere 22 ottobre 2009 n. 6357/2009 la Sezione ha ribadito che la cd. approvazione non limita la professione del culto né la celebrazione del relativo culto né l’assistenza spirituale ai fedeli e che essa amplia la sfera dei poteri del ministro ricollegando agli atti compiuti da quest’ultimo nell’esercizio del suo ministero effetti diretti nell’ordinamento dello Stato. “Tale soluzione, con tutta evidenza, esprime un punto di equilibrio tra il rispetto dell’autonomia dell’ordinamento (giuridico) confessionale e l’ossequio all’ordinamento generale, tra il riconoscimento dell’ordinamento della confessione e l’esclusività dell’ordinamento dello Stato”. La Sezione ha poi precisato che la valutazione del Ministero si sostanzia in un apprezzamento indubbiamente discrezionale – ovvero il requisito soggettivo dell’affidabilità, serietà e moralità della persona nonché il requisito oggettivo dell’esistenza di una consistente comunità di fedeli e la serietà del fine – per concludere che non v’è ragione per delimitare l’ambito territoriale di svolgimento delle funzioni, non essendoci più alcuna giustificazione logico-giuridica.
Nel successivo parere 11 gennaio 2012 n. 1834/11 si è posta l’attenzione sul valore della soglia quantitativa minima di fedeli necessari per potere procedere alla nomina dei ministri di culto di confessioni religiose che non hanno stipulato intese. Si è precisato che la consistenza numerica è solo uno dei fattori che l’amministrazione deve tenere in considerazione per l’approvazione della nomina indicati dall’art.20 del r.d. 289/30.
Come correttamente ricordato nella formulazione del quesito “l’esiguità del numero sembrerebbe deporre a sfavore della rilevanza quali-quantitativa della comunità religiosa e, conseguentemente, della necessità che il ministro debba compiere atti di culto produttivi di effetti giuridici nel nostro ordinamento". Se l’effetto esclusivo dell'approvazione della nomina del ministro di culto è l'attribuzione agli atti da lui compiuti di effetti non solo per la confessione di appartenenza ma per l'intero ordinamento giuridico generale dello Stato, è necessario che la concessione di una tale prerogativa statale sia giustificata da una effettiva esigenza in questo senso.
Sulla consistenza numerica il Consiglio di Stato ha quindi voluto "individuare un modulo base di fedeli al di sopra del quale può essere giustificata la presenza di un ministro di culto munito di autorizzazione alla celebrazione del matrimonio con effetti civili nell'ordinamento dello Stato". In questo senso la Sezione ha chiarito che come "il gruppo di fedeli del particolare culto per il quale è richiesta l’approvazione della nomina di un ministro dovrebbe tendere al valore orientativo di 500 persone, distribuite nelle varie fasce di età. L’Amministrazione potrà verificare tale valore e prendere in esame modelli riferiti ad altri culti anche non regolati da intese con lo Stato Italiano e modificare ove opportuno il valore del modulo base di 500. Un secondo aspetto da esaminare è individuato nella distribuzione sul territorio dei gruppi di fedeli della stessa confessione religiosa. La dimensione del “modulo base” avrà valore solo se riferita a una comunità di fedeli concentrata in un agglomerato urbano o comunque in un ambito territoriale sufficientemente ristretto. Ove invece la collocazione sul territorio dei fedeli non sia concentrata in un ambito sufficientemente ristretto ma interessi l'intero territorio nazionale il valore di tale modulo (...) dovrà essere di misura nettamente superiore, orientativamente intorno alle cinquemila unità. La nomina del ministro di culto potrà essere approvata al verificarsi in alternativa dei due moduli”.
Più di recente la Sezione, con parere 14 maggio 2014 n. 71, occupandosi di un caso in cui la comunità locale di riferimento era rappresentata da soli 10 fedeli (ben al di sotto dei 500 individuati dalle precedenti pronunce come “soglia quantitativa minima”), pur continuando a richiedere una consistenza minima sul territorio nazionale di almeno 5.000 fedeli, ha individuato un ulteriore criterio per la concessione dell’approvazione, quando in una regione sia presente una comunità locale, sia pure esigua, e non ci sia in essa alcun altro ministro di culto munito dell'approvazione suddetta.

5. La risposta al quesito. Tutto ciò premesso, il Consiglio reputa che vada confermato in via generale il criterio quali-quantitativo indicato con il parere 11 gennaio 2012 n. 1834/2011, con la precisazione che si tratta di criteri orientativi e che l’Amministrazione può valutare di volta in volta se approvare la nomina in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto.
In altri termini — fermo restando il principio per cui l’approvazione da parte dal Ministero della nomina a ministro di culto di una confessione religiosa diversa da quella cattolica non limita la professione del culto né la celebrazione del relativo culto né l’assistenza spirituale ai fedeli — spetta all’Amministrazione compiere un’accurata istruttoria per verificare sia i requisiti soggettivi del ministro di culto sia la consistenza quali-quantitativa del culto. Sotto tale ultimo aspetto il riferimento ad un numero minimo di fedeli su base nazionale o locale può fungere da criterio per le determinazioni dell’Amministrazione ma non deve essere letto nel senso dell’esistenza di una rigorosa soglia al di sotto della quale non è possibile approvare la nomina. L’Amministrazione valuterà quindi se, pur essendo esiguo il numero di fedeli su base locale, la confessione religiosa possa contare su un adeguato numero di fedeli a livello nazionale, e potrà valutare la presenza in territori vicini di altri ministri di culto o le specifiche esigenze del caso concreto.
P.Q.M.
nei termini suesposti è il parere della Sezione.







L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE

Vincenzo Neri
Raffaele Carboni