lunedì 30 novembre 2015






In tema di voto c.d. ‘disgiunto’

Cons. di Stato, V, 27 novembre 2015, n. 5384

E’ tuttora vigente l’art. 57, c. 7, del T.U. 570/1960 (secondo cui “sono inefficaci le preferenze per candidati compresi in una lista diversa da quella votata”), per effetto del quale le schede recanti il voto per il candidato alla carica di sindaco e il voto di preferenza per un candidato alla carica di consigliere comunale di altra lista devono essere considerate valide per il sindaco e la lista a lui collegata ed inefficaci relativamente al voto di preferenza.

Il criterio del c.d. voto disgiunto rileva unicamente al fine dell'elezione del sindaco, ai sensi  dell'art. 72, c. 3, del d.lgs. 267/2000, norma che regola, appunto, l'elezione del sindaco e non quella del consiglio comunale, mentre non ha attinenza con il voto di preferenza, disciplinato dal citato art. 57 T.U. e dall'art. 73, c. 3, del citato d.Lgs., ai sensi del quale “ciascun elettore può esprimere ... un voto di preferenza per un candidato della lista da lui votata, scrivendone il nome sull'apposita riga posta a fianco del contrassegno”


FATTO
1.- In data 25 maggio 2014 si svolgevano nel comune di P. le elezioni per il rinnovo del sindaco e del consiglio comunale.
Alla competizione elettorale partecipava il sig. G.D.F. in qualità di candidato consigliere, nell'ambito della lista n. 8 denominata "Persone comuni per P.".
All'esito dello spoglio delle schede elettorali, al sig. G.D.F. venivano assegnati n. 267 voti e al sig. A.S. voti n. 270, che risultava, pertanto, unico eletto della citata lista n. 8, collegata al sindaco vincente.
1b.- Avverso l'atto di proclamazione degli eletti alla carica di consigliere comunale, il signor G.D.F. proponeva ricorso al T.A.R. …, nella parte in cui il seggio era stato attribuito al sig A.S..
Il ricorrente lamentava la mancata assegnazione di n. 3 voti nella sezione n. 97, in quanto il suo nominativo era stato scritto nel rigo corrispondente alla lista "Persone comuni per P." ma il crocesegno risultava apposto sul simbolo della lista n. .. "Movimento 5 stelle".
Analoga situazione, a suo avviso, si sarebbe verificata nella sezione n. …, per “almeno uno o due voti disgiunti”, e nella sezione .. per cinque schede, dove il crocesegno risulterebbe apposto sul simbolo di liste collegate a candidati alla carica di sindaco diversi da quello collegato alla lista n. 8.
Il T.A.R., con ordinanza 419/2014, incaricava la Prefettura di P. di procedere alla verificazione delle schede in questione nell’ambito delle sezioni indicate.
All'esito delle operazioni di verificazione nella sezione n. .. venivano rinvenute tre schede “due delle quali riportano il nome D.F. sul rigo corrispondente alla lista n. .., Persone comuni per P., e con segno di croce sul contrassegno della lista n. .., Movimento 5 Stelle, e la terza che riporta il nome D.F. sul rigo corrispondente alla lista n. .., Persone comuni per P., e con segno di croce sul contrassegno della lista n. .., Movimento 5 Stelle, e sul nome del candidato sindaco E.S.”, tutto posto all’interno della busta n. 6, contenente le schede valide votate.
Il T.A.R., con sentenza n. 4, depositata il 2 gennaio 2015, ha rigettato il ricorso, ritenendo che l’attribuzione delle preferenze in favore del ricorrente avrebbe comportato la sottrazione dei voti dalla lista n. … "Movimento 5 stelle" per assegnarli alla lista n. … "Persone comuni per P.", nonostante che il relativo simbolo non fosse stato barrato e, comunque, che l’espressione di voto per una lista diversa da quella a cui appartiene il sig. G.D.F. non avrebbe reso possibile l’assegnazione della preferenza in suo favore.
Avverso la sentenza ha proposto appello il sig. G.D.F..
Si è costituito in giudizio il sig. A.S. che ha chiesto di rigettare l'appello e, contestualmente, ha spiegato appello incidentale.
La causa è stata assunta in decisione all'udienza pubblica del 5 novembre 2015.
DIRITTO
2.- Il Collegio ritiene che, preliminarmente, vadano esaminate le eccezioni sollevate nell'appello incidentale dal sig. A.S., che sostiene che l'appello principale sia inammissibile per violazione dell'art. 104 c.p.a., avendo l'appellante fondato il proprio ricorso su motivi diversi da quelli introdotti in primo grado.
La doglianza non è condivisibile.
Il divieto dei “nova” sancito dall'art. 104, comma 1, del c.p.a. presuppone, infatti, la produzione di censure ulteriori rispetto a quelle proposte, con atti ritualmente notificati, che hanno delimitato il perimetro del thema decidendum in prime cure.
Tale ipotesi non ricorre nel caso di specie, essendosi l'appellante limitato a confutare le argomentazioni presenti nella sentenza impugnata, per cui l'impugnazione proposta non può essere ritenuta inammissibile.
2b.- Parimenti infondata è la censura avanzata dall'appellante incidentale avverso la decisione del T.A.R., che ha ritenuto ammissibile il ricorso proposto in primo grado dal sig. D.F., malgrado egli abbia sostenuto che il ricorso fosse generico e sfornito di prova a sostegno delle doglianze mosse nei confronti dell'operato dell'ufficio elettorale.
Il signor D.F., invero, ha precisato la natura del vizio denunziato e cioè l'illegittima sottrazione di "almeno" quattro voti di preferenza espressi in suo favore, quale candidato consigliere della lista "Persone comuni per P.", indicando le schede in contestazione e, come evidenziato dal T.A.R., ha fornito elementi concreti per individuare le 4 schede, mentre l'avverbio "almeno" sarebbe da considerare espressione prudenziale, al fine di individuare un numero minimo di schede di cui veniva richiesta la verifica.
Resta fermo, peraltro, che nei giudizi elettorali è consolidato il principio secondo il quale, la specificità dei motivi e l'onere della prova dei fatti contestati sono da considerasi "attenuati in considerazione della obiettiva difficoltà in cui versa chi ha interesse a contestare le operazioni elettorali".
Nel merito, tuttavia, l'appello è infondato e va respinto.
3.- Con il primo motivo di censura l'appellante lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 57 e 64 del D.P.R. n. 570 del 1960, dell'art. 72, comma 3, del D. Lgs. n. 267/2000 e del principio del così detto "favor voti" e del voto disgiunto.
L'appellante contesta che la preferenza espressa per una lista condizioni la possibilità di esprimere anche la preferenza per un candidato di altra lista.
La tesi non può essere condivisa.
Come rappresentato nelle premesse, dall'esame delle tre schede votate nella sezione n. 97, è dato rilevare che due riportano il nome D.F. sul rigo corrispondente alla lista n. .. (Persone comuni per P.), con segno di croce sul contrassegno della lista n.  …(Movimento 5 Stelle) e la terza riporta il nome Di Federico sul rigo corrispondente alla lista n. .. (Persone comuni per P.) con segno di croce sul contrassegno della lista n…. (Movimento 5 Stelle), e sul nome del candidato sindaco E.S..
Gli elettori hanno, quindi, dato il proprio voto alla lista "Movimento 5 stelle" e nel contempo hanno dato il voto di preferenza ad un candidato di una diversa lista (cioè al sig. G.D.F. della lista "Persone comuni per P.").
La casistica in parola è prevista e regolata dall'art. 57, comma 7, del T.U. 16 maggio 1960 n. 570, secondo cui "sono inefficaci le preferenze per candidati compresi in una lista diversa da quella votata", per cui le schede recanti il voto per il candidato alla carica di sindaco e il voto di preferenza per un candidato alla carica di consigliere comunale di altra lista devono essere considerate valide per il sindaco e la lista a lui collegata ed inefficaci relativamente al voto di preferenza.
Si tratta di norma tuttora vigente, perché non abrogata (a differenza dei primi tre commi delle stesso articolo del Testo unico) dal sopravvenuto articolo 34 della legge 25 marzo 1993, n. 81.
Priva di riscontro è la tesi dell'appellante, che il voto di preferenza avrebbe un "maggior peso" rispetto al voto di lista, nell'assunto che la preferenza espressa sarebbe valevole non solo come voto al candidato ma anche come voto per la lista.
Come già evidenziato da questa Sezione (cfr. sentenza n. 4069 del 28 luglio 2005) il criterio del così detto "voto disgiunto" rileva unicamente al fine dell'elezione del sindaco, a termini dell'art. 72, comma 3, del D.lgs. n. 267/2000 che regola, appunto, l'elezione del sindaco e non quella del consiglio comunale.
Secondo tale norma l'elettore, una volta scelto il candidato sindaco, può validamente attribuire il voto ad una delle liste collegate al medesimo candidato (in tal caso l'unico voto apposto su una qualunque delle liste implica anche la scelta del candidato sindaco) oppure ad altra che sostenga un diverso candidato sindaco (e in questa diversa evenienza l'elettore apporrà un segno sul rettangolo del candidato sindaco ed un secondo sul simbolo di lista, non collegata, prescelta).
Il voto disgiunto non ha attinenza, invece, con il voto di preferenza, regolamentato, come già accennato, dall'art. 57 del D.P.R. 16. 5. 1960, n. 570 e dall'art. 73 del D.Lgs. n. 267/2000 che, al comma 3, dispone che «ciascun elettore può esprimere ... un voto di preferenza per un candidato della lista da lui votata, scrivendone il nome sull'apposita riga posta a fianco del contrassegno».
Orbene, alla luce delle suddette regole, si può concludere che, nel caso di specie, pur sussistendo un valido voto di lista, non sussiste alcun valido voto di preferenza.
3b.- Come ritenuto dal T.A.R., inconferente è la censura avanzata in primo grado e riproposta in sede di appello, con cui il signor G.D.F. sostiene la "scarsa comprensibilità della scheda riguardo alla possibilità per l'elettore di esprimere validamente il voto disgiunto".
La problematica, infatti, coinvolgendo l'intero procedimento elettorale, non è suscettibile di esame nell'instaurato giudizio, anche in relazione al petitum.
4.- Con un ulteriore motivo di censura l'appellante lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 57 e 64 del D.P.R. n. 570 del 1960, dell'art. 72, comma 3, del D.Lgs. n. 267/2000 e del principio così detto "favor voti".
L'appellante sostiene che la sentenza del Tribunale sarebbe errata laddove, a seguito della verificazione effettuata dalla Prefettura, non sarebbe stato a lui assegnato un voto di preferenza, espresso con una scheda rinvenuta nella sezione n. …, che presenta una croce sul contrassegno della lista n. 5 "P. D. Partito Democratico per P." e una croce sul contrassegno della lista n. .. "Persone comuni per P." con a fianco la scritta D.F..
A prescindere dalla non incidenza di detto singolo voto sul risultato elettorale, tenuto conto di quanto già rappresentato in tema di voto disgiunto non può che osservarsi che il voto espresso è nullo, non essendo possibile comprendere in quali termini l’elettore si sia voluto determinare, avendo espresso la preferenza per un candidato, ma contrassegnando i simboli di due liste diverse.
5.- L'eccezione di nullità ex art. 101 c.p.a. avanzata dal sig. A.S., in ordine alla operazioni di verifica delle schede elettorali che, a suo dire, si sarebbero svolte in difetto di contraddittorio, è da ritenersi assorbita per carenza di interesse, a seguito della ritenuta infondatezza dell'appello principale.
6.- Le spese del presente grado di giudizio, per la complessità interpretativa propria della materia del contendere, vanno giustificatamente, compensate tra le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese del presente grado di giudizio compensate tra le parti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

domenica 29 novembre 2015





Diritto di accesso alla cartella clinica del coniuge

Tar Sicilia, Catania, 27 novembre 2015, n. 2785

Rientra tra i soggetti passivi del diritto di accesso la Casa di cura, concessionaria accreditata al servizio sanitario nazionale

Sussiste il diritto di accesso alla cartella clinica relativa ai ricoveri del coniuge, motivata dall’intenzione di introdurre giudizio di nullità del matrimonio in sede canonica, davanti al competente Tribunale Ecclesiastico Regionale [il Collegio a) ricorda l’insegnamento del giudice – amministrativo – di appello, secondo il quale il fine dello scioglimento del vincolo matrimoniale (religioso) costituisce “una situazione giuridica di rango almeno pari alla tutela del diritto alla riservatezza dei dati sensibili relativi alla salute, in quanto involgente un significativo diritto della personalità, con la conseguenza che in presenza di tale situazione deve ritenersi sussistente l'interesse personale idoneo a legittimare la proposizione della domanda di accesso alla cartella clinica, senza che sia necessaria alcuna penetrante indagine in merito alla essenzialità o meno della documentazione richiesta, né circa le prospettive di buon esito del rito processuale concordatario”; rileva che l’arresto va ancor più condiviso,  nel caso oggetto di giudizio, nel quale l’interessato  “ ha manifestato di avere anche già introdotto presso il competente Tribunale ordinario un giudizio di separazione”]


FATTO e DIRITTO
I. Il ricorrente asserisce di aver appreso subito dopo il matrimonio che la propria moglie, dopo aver accusato dei malesseri ed essere rientrata nel paese d’origine senza più dare notizie di sé, era stata ricoverata dai parenti presso la Casa di cura V. in C., per essere curata da disturbi di natura psichiatrica, la cui natura e consistenza non gli sarebbero ancora noti.
Detta struttura, appartenente alla società C. srl, è una casa di cura a indirizzo polispecialistico (neurologia, neuropsichiatria e riabilitazione), convenzionata e classificata in fascia A e accreditata dal Servizio Sanitario Nazionale.
Considerato che la convivenza matrimoniale è durata solo un mese e sul presupposto che il disturbo mentale del coniuge del ricorrente possa essere grave, poiché quest’ultimo intende introdurre giudizio di nullità del matrimonio in sede civile e in sede canonica davanti al competente Tribunale Ecclesiastico Regionale Siculo, in data …, ha chiesto formalmente alla Casa di Cura V. di ottenere copia delle cartelle cliniche relative ai ricoveri subiti dal coniuge complete della diagnosi e delle terapie somministrate.
A fronte del silenzio serbato dall’Amministrazione, il ricorrente, con atto passato per la notifica il 25.5.2015 e depositato il 5.6.2015, ha proposto il ricorso in epigrafe, deducendo l’illegittimità di siffatto comportamento, posto che lo scopo di tutelare i propri diritti davanti all’autorità giudiziaria statale e/o canonica avrebbe pari dignità giuridica rispetto all’interesse alla riservatezza vantato dalla controinteressata.
Costituitosi, l’Assessorato intimato ha concluso per la sua estraneità al giudizio e per l’inammissibilità della domanda nei suoi confronti.
Alla Camera di consiglio dell’8.10.2015 la causa è stata trattenuta in decisione.
II. Va accolta la domanda di estromissione dal giudizio dell’intimato Assessorato regionale alla Salute, poiché nessun atto o attività possono essere allo stesso ricondotti.
Ciò posto, premette il Collegio che, coerentemente a quanto ritenuto dal Giudice di seconde cure (cfr. Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 15/10/2009, n. 928) è da ritenersi, intanto, che la Casa di cura rientri, <>.
Ed invero (cfr. T.A.R Lazio, sez. III , 15/12/2014 n. 12583), occorre rilevare che <>.
Tanto chiarito, va verificato se l'accessibilità ai documenti detenuti dalla Casa di cura, almeno in applicazione della disciplina pubblicistica contenuta nella legge 241/90, sia da escludere o meno.
Il Collegio condivide l’orientamento della richiamata decisione 12583/13, con la quale è stato chiarito <
<< Eventuali richieste di presa visione o di rilascio di copia della cartella e dell'acclusa scheda di dimissione ospedaliera da parte di soggetti diversi dall'interessato possono essere accolte, in tutto o in parte, solo se la richiesta è giustificata dalla documentata necessità: a) di far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria ai sensi dell'articolo 26, comma 4, lettera c), di rango pari a quello dell'interessato, ovvero consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile; b) di tutelare, in conformità alla disciplina sull'accesso ai documenti amministrativi, una situazione giuridicamente rilevante di rango pari a quella dell'interessato, ovvero consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile".
<< Come emerge dagli atti di causa, in particolare, l'istanza della ricorrente risulta formulata in rapporto di stretta strumentalità con l'esigenza di utilizzo della cartella clinica nell'ambito del procedimento di scioglimento del matrimonio canonico pendente innanzi al Tribunale ecclesiastico.
<< Sotto tale profilo, dunque, il Collegio ritiene che il fine dello scioglimento del vincolo matrimoniale (religioso) costituisca una situazione giuridica di rango almeno pari alla tutela del diritto alla riservatezza dei dati sensibili relativi alla salute, in quanto involgente un significativo diritto della personalità, con la conseguenza che in presenza di tale situazione deve ritenersi sussistente l'interesse personale idoneo a legittimare la proposizione della domanda di accesso alla cartella clinica, senza che sia necessaria alcuna penetrante indagine in merito alla essenzialità o meno della documentazione richiesta, né circa le prospettive di buon esito del rito processuale concordatario (Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 28 ottobre 2008, n. 5374; T.A.R. Sicilia-Catania, Sez. IV, 7 maggio 2009, n. 878).
<>.
La tesi sopra rappresentata va ancor più condivisa, poiché, nel caso di specie, il ricorrente, nell’istanza non riscontrata, ha manifestato di avere anche già introdotto presso il competente Tribunale ordinario un giudizio di separazione.
Muovendo da tali considerazioni, il silenzio avversato è ingiustificato e va quindi affermato il diritto di accesso del ricorrente alla menzionata cartella clinica relativa ai ricoveri del coniuge, richiesta con l'istanza di cui all'odierno ricorso, essendo la medesima necessaria per la difesa dei propri interessi giuridici ai sensi dell'art. 24, comma 7, L. n. 241/90.
Diversi orientamenti espressi in giurisprudenza e, quindi, la non immediata percettibilità giuridica della questione agitata, consentono di disporre la mancata condanna della Casa di cura intimata alle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia - Sezione staccata di Catania (Sezione Quarta) - definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, previa estromissione dell’Assessorato regionale alla Sanità, lo accoglie nei modi di cui alla parte motiva.
Nulla per le spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

venerdì 27 novembre 2015





PANOZZO, Immigrazione e autocertificazione: il punto sui (ripetuti) rinvii, in





Giurisdizione sulle determinazioni dell’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione


Cons. di Stato, IV, 26 novembre 2015, n. 5369

Il referendum abrogativo costituisce esercizio di funzione legislativa negativa in forma di democrazia diretta, in quanto non è funzionale alla cura di un interesse pubblico concreto e specifico, ma è preordinato alla abrogazione di norme primarie.

Nell’accertare la conformità della richiesta di referendum alle norme della Costituzione ed alla legge, l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione non identifica un organo amministrativo a composizione mista, ma un’unità organizzativa della Corte di Cassazione, deputata allo svolgimento specifico di tali compiti di controllo [aggiunge il Collegio che “le determinazioni assunte dall’Ufficio sono, pertanto, provvedimenti emanati da un organo rigorosamente neutrale, non nell’esplicazione di un potere amministrativo, per concreti scopi particolari di pubblico interesse, ma nella prospettiva della tutela dell’ordinamento generale dello Stato e della realizzazione di esso”, cosicché “si assiste, invero, alla peculiare vicenda per cui funzioni di controllo esterno, esercitate da organi inseriti nell’organizzazione della giurisdizione, vanno legittimamente a concorrere nel procedimento legislativo, nella specie nel procedimento referendario, partecipandone della natura”]

Sussiste il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere della impugnazione degli atti adottati dall’Ufficio Centrale per il Referendum [aggiunge il Collegio: “non vertendosi in tema di atti neppure oggettivamente amministrativi e specificandosi, altresì, il carattere “assoluto” di tale difetto di giurisdizione, trattandosi di atti che partecipano fondamentalmente della funzione legislativa, condividendone, pertanto, la natura”]


FATTO
Con il ricorso di primo grado i signori OMISSIS  impugnavano: i verbali, di estremi e contenuto sconosciuti, con i quali la Commissione istituita ai sensi dell’articolo 2 del d.l. n. 67 del 1995, convertito nella legge n. 159/1995, ha disposto le operazioni di verifica delle sottoscrizioni, delle indicazioni delle generalità dei sottoscrittori, della vidimazione dei fogli, dell’autentica delle firme e delle certificazioni elettorali, prodromi alla valutazione di legittimità di sei referendum abrogativi (cd. “referendum sulla giustizia”), di cui è stata data notizia, quanto ai quesiti 1-2-4-5-6, nella G.U. n. 124 del 29 maggio 2013, e, quanto al quesito 3, nella G.U. n. 129 del 4 giugno 2013; le schede recanti i “consuntivi” relativi ai sei quesiti referendari, senza timbro né firma, predisposte in data 29 novembre 2013; il conseguente provvedimento dell’Ufficio Centrale per il Referendum, depositato il 2 dicembre 2013, con il quale sono state dichiarate “non legittime” le richieste di referendum per mancato raggiungimento del numero minimo di sottoscrizioni valide e regolari; ogni altro atto collegato e connesso.
Con sentenza in epigrafe il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Bis) dichiarava il ricorso inammissibile per difetto assoluto di giurisdizione.
Avverso detta sentenza i signori in epigrafe specificati hanno proposto appello dinanzi a questo Consiglio di Stato, chiedendone l’integrale riforma e, di conseguenza, l’annullamento degli atti impugnati in primo grado.
Con articolata prospettazione hanno censurato la pronuncia del giudice di prime cure nella parte in cui ha dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione, affermando che nella specie vi è giurisdizione del giudice amministrativo.
Hanno, quindi, riproposto i seguenti motivi di censura, già articolati in primo grado: 1)Vizio del procedimento: irregolare funzionamento degli organi collegiali; 2) Violazione dell’art. 32 legge n. 352/1970; 3) Difetto assoluto di motivazione in ordine alle asserite violazioni degli artt. 7, 8 e 28 della legge n. 352/1970; 4)Violazione degli artt. 28 e 32 della legge n. 352/1970; 5) Violazione dell’art. 8 della legge n. 352/1970 e della Circolare n. 53 del 28 agosto 2013 del Ministero dell’Interno. Difetto di motivazione; 6) Violazione degli artt. 7 e 28 della legge n. 352/70. difetto di motivazione.
Si sono costituiti in giudizio l’Ufficio Centrale per il Referendum, il CED e la Commissione ex art. 2 d.l. n. 67/95, chiedendo il rigetto dell’appello, deducendo in proposito, in via principale, l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione e, in via, gradata, la sua infondatezza.
In corso di causa le parti hanno depositato memorie a sostegno delle rispettive tesi.
La causa è stata discussa e trattenuta per la decisione alla camera di consiglio del 10-11-2015.
DIRITTO
Ritiene preliminarmente la Sezione che l’odierno giudizio sia stato correttamente trattato in camera di consiglio, ai sensi dell’articolo 105, comma 2, del codice del processo amministrativo.
L’appellata sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale ha dichiarato il ricorso di primo grado inammissibile per difetto di giurisdizione, precisandone, peraltro, il carattere assoluto per l’insussistenza di un diverso giudice nazionale cui rivolgersi in quanto titolare di poteri giurisdizionali in materia.
Orbene, la norma codicistica sopra richiamata dispone che “nei giudizi di appello contro i provvedimenti dei tribunali amministrativi regionali che hanno declinato la giurisdizione o la competenza si segue il procedimento in camera di consiglio, di cui all’art. 87, comma 3”.
Il riferimento alla ipotesi in cui i giudici di primo grado “hanno declinato la giurisdizione” assume, nella lettera stessa della legge, una portata generale ed è, di conseguenza, riferibile sia al caso in cui l’affermato difetto di giurisdizione abbia natura relativa (con indicazione di altro giudice cui rivolgersi), sia quando lo stesso abbia carattere assoluto.
Invero, in entrambe le ipotesi il giudice amministrativo ritiene di essere carente di giurisdizione e, dunque, dichiara la conseguente inammissibilità del ricorso.
Né il termine “declinare” può indurre a diversa conclusione, esprimendo esso lessicalmente solo un rifiuto, ma non anche l’affermazione dell’esistenza del potere in capo a diverso ordine giurisdizionale.
Pertanto, esso va correttamente riferito sia alla fattispecie del difetto di giurisdizione in senso relativo (quando, cioè, la ragione del rifiuto risiede nella spettanza della controversia ad altro giudice), sia a quella del difetto assoluto di giurisdizione.
Ciò posto, ritiene il Collegio di non doversi soffermare sulla questione della ricevibilità dell’appello, risultando lo stesso infondato in ordine alla questione sostanziale agitata, relativa alla pretesa sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo in materia.
La Sezione, invero, non può sul punto che condividere e ribadire i principi già in precedenza espressi da questo Consiglio in tema di procedimenti referendari (cfr. Cons. Stato, IV, 4-5-2010, n. 2552; IV, 16-6-2009, n.3834; IV, 2-4-1997, n.333), sia pure con riferimento a modificazioni territoriali delle Regioni, ma comunque applicabili alla fattispecie in esame.
Va, invero, affermato che il referendum abrogativo costituisce esercizio di funzione legislativa negativa in forma di democrazia diretta, in quanto non è funzionale alla cura di un interesse pubblico concreto e specifico, ma è preordinato alla abrogazione di norme primarie.
Orbene, l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione assolve al ruolo di accertare la conformità della richiesta di referendum alle norme della Costituzione ed alla legge.
In tale ruolo esso non identifica un organo amministrativo a composizione mista, ma un’unità organizzativa della Corte di Cassazione, deputata allo svolgimento specifico di tali compiti di controllo.
Le determinazioni assunte dall’Ufficio sono, pertanto, provvedimenti emanati da un organo rigorosamente neutrale, non nell’esplicazione di un potere amministrativo, per concreti scopi particolari di pubblico interesse, ma nella prospettiva della tutela dell’ordinamento generale dello Stato e della realizzazione di esso.
Si assiste, invero, alla peculiare vicenda per cui funzioni di controllo esterno, esercitate da organi inseriti nell’organizzazione della giurisdizione, vanno legittimamente a concorrere nel procedimento legislativo, nella specie nel procedimento referendario, partecipandone della natura.
Va, infatti, riconosciuta, all’interno del nostro sistema ordinamentale, l’esistenza di un corpo di funzioni pubbliche neutrali, ossia di carattere intermedio tra l’amministrazione e la giurisdizione, espletate in posizione di terzietà e di indipendenza, alle quali non si applica la disciplina del provvedimento amministrativo.
La conseguenza di tale impostazione è il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere della impugnazione degli atti adottati dall’Ufficio Centrale per il Referendum, non vertendosi in tema di atti neppure oggettivamente amministrativi e specificandosi,altresì, il carattere “assoluto” di tale difetto di giurisdizione, trattandosi di atti che partecipano fondamentalmente della funzione legislativa, condividendone, pertanto, la natura.
Le conclusioni di cui sopra, a giudizio della Sezione, non risultano scalfite dal pur pregevole tentativo di parte appellante di ricondurre le operazioni di verifica ad una natura amministrativa, evidenziata dalle modifiche normative intervenute in materia, che denoterebbero “un progressivo slittamento della competenza ad effettuare le operazioni di verifica dall’Ufficio Centrale, formato da magistrati, ad uffici amministrativi (la commissione delegata e il C.E.D.)”.
Parte appellante richiama in primo luogo l’originaria formulazione dell’articolo 32, comma 2, della legge n. 352/1970, secondo il quale l’Ufficio centrale “esamina tutte le richieste depositate, allo scopo di accertare che esse siano conformi alla legge…”, evidenziando che, a mente del successivo articolo 12, esso è composto esclusivamente da magistrati.
Segnala, poi, una prima modifica ordinamentale, contenuta nell’articolo 6 della legge n. 199/1978, in base alla quale il primo presidente della Corte suprema, in vista delle operazioni di verifica, può aggregare all’Ufficio altri magistrati della Corte, specificando che le funzioni di segreteria sono espletate dai funzionari della cancelleria designati dal primo presidente e che questi dispone, altresì, sulle modalità di utilizzazione del centro elettronico e dell’altro personale della Corte ritenuto necessario.
Evidenzia, infine, la sopravvenienza dell’articolo 2 del d.l. n. 67/1995, convertito nella legge n. 159/1995, il quale stabilisce che “per le operazioni di verifica delle sottoscrizioni, dell’indicazione delle generalità dei sottoscrittori, delle vidimazioni dei fogli, dell’autenticazione delle firme e delle certificazioni elettorali, nonché per le operazioni di conteggio delle firme, l’Ufficio Centrale per il referendum si avvale del personale della segreteria di cui all’articolo 6 della legge 22 maggio 1978, n. 199, con qualifica non inferiore alla settima. detto personale, delegato dal Presidente dell’ufficio centrale per il referendum, è responsabile verso l’ufficio centrale per le operazioni compiute”.
Da tali disposizioni deriverebbe che le operazioni di verifica, in origine svolte dall’Ufficio Centrale, composto da magistrati, sarebbero attualmente delegate al personale amministrativo. Sarebbero ad esso imputate, con la conseguenza che quello che formalmente è un atto della Corte è in realtà un atto di uffici amministrativi, come tale impugnabile.
La tesi di parte appellante non è condivisa dalla Sezione.
Va, invero, in primo luogo evidenziato che le operazioni indicate nel richiamato articolo 2 del d.l. n. 67/1995 appartengono alla più generale attività di “verifica che la richiesta di referendum sia conforme alle norme dell’articolo 138 della costituzione e della legge”, indicata dall’articolo 12 della legge n. 352 del 1970, la quale è attribuita dalla predetta disposizione alla competenza dell’ufficio centrale per il referendum.
Di poi, l’invocato articolo 2 prevede che per le predette attività l’Ufficio centrale per il referendum “ si avvale del personale della segreteria….” e che “detto personale, delegato dal presidente dell’Ufficio centrale per il referendum, è responsabile verso l’Ufficio centrale delle operazioni compiute”.
Come è ben evidente dalla lettera della legge, si è di fronte non ad un trasferimento di funzioni, ma ad un mero “avvalimento”, il quale lascia sussistere l’imputazione delle attività all’Ufficio centrale medesimo.
Invero, il termine che qualifica la fattispecie giuridica nella specie configurabile è il “si avvale” che, letto con riferimento al precedente inciso “per le operazioni di verifica….l’Ufficio centrale per il referendum…”, avvalora la circostanza che l’attività resti in capo all’Ufficio centrale e sia allo stesso riferibile.
Non assume, invece, il valore preteso dall’appellante l’utilizzo del termine “delega”, al fine di supportare nella specie un vero e proprio trasferimento di funzioni.
Va, infatti, evidenziato che la proposizione principale è “l’Ufficio centrale si avvale del personale …”, mentre il termine delega compare con riferimento al momento della individuazione concreta di tale personale (“…delegato dal Presidente dell’Ufficio centrale…”).
Dunque, l’organo titolare della funzione di verifica, che è l’Ufficio centrale, “si avvale” del personale, onde è questo l’istituto che in concreto qualifica il rapporto ai fini della natura delle attività di verifica.
Il termine “delegato”, invece, sia per la circostanza che è posposto all’inciso “si avvale”, sia per il fatto che si riferisce ad un’attività propria del Presidente e non dell’Ufficio centrale, organo collegiale istituzionalmente titolare del potere di verifica, individua non un trasferimento di funzioni, ma sostanzialmente esprime la concreta individuazione del personale di segreteria di cui l’ufficio si avvale.
Né a sostegno della tesi dell’appellante può richiamarsi la circostanza che il citato articolo 2 precisi che tale personale “…è responsabile verso l’Ufficio centrale delle operazioni compiute”.
Tale affermazione di responsabilità è naturale conseguenza dell’avvalimento e, pertanto, conferma che le funzioni non sono trasferite al personale di segreteria, ma continuano ad essere ricomprese nel più ampio potere di controllo di conformità istituzionalmente spettante all’Ufficio Centrale e che a questo continuano ad essere imputate, condividendone pertanto la peculiare natura, come più sopra evidenziata.
Quanto all’ulteriore rilievo formulato nell’atto di appello, relativo alla natura funzionalmente amministrativa delle operazioni di verifica e comunque alla loro natura non legislativa, la Sezione non può, a sostegno della non condivisibilità delle censure in proposito prospettate, che richiamare i principi giurisprudenziali più sopra riportati.
Come si è in precedenza affermato, le operazioni di cui all’articolo 2 citato rientrano nell’attività di controllo e di verifica di conformità della richiesta di referendum a legge, istituzionalmente propria dell’Ufficio centrale e non oggetto di trasferimento di funzioni.
Valgono, pertanto, anche nell’attuale quadro normativo le considerazioni secondo cui si tratta di un corpo di funzioni pubbliche neutrali, espletate in posizione di terzietà e di indipendenza, alle quali non si applica la disciplina del provvedimento amministrativo; e, dunque, di attività svolte non nell’esplicazione di un potere amministrativo, per concreti scopi particolari di pubblico interesse, ma nella prospettiva della tutela dell’ordinamento generale dello Stato e della realizzazione di esso.
Sulla base delle considerazioni tutte sopra svolte, pertanto, la gravata sentenza merita conferma e l’appello deve essere rigettato.
Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22 marzo 1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16 maggio 2012 n. 7663). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
La peculiarità della vicenda, in considerazione delle questioni così come dall’appellante prospettate, giustifica l’integrale compensazione delle spese del giudizio tra le parti costituite.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

giovedì 26 novembre 2015





Istanza di accesso ‘irregolare’ e doveri dell’Amministrazione

Cons. di Stato, V, 20 novembre 2015, n. 5297

In tema di accesso, l’art. 6, c. 1, del d.P.R. 184/2006 (ai sensi del quale “qualora non sia possibile l'accoglimento immediato della richiesta in via informale, ovvero sorgano dubbi sulla legittimazione del richiedente, sulla sua identità, sui suoi poteri rappresentativi, sulla sussistenza dell'interesse alla stregua delle informazioni e delle documentazioni fornite, sull'accessibilità del documento o sull'esistenza di controinteressati, l'amministrazione invita l'interessato a presentare richiesta d'accesso formale, di cui l'ufficio rilascia ricevuta”) non ha contenuto propriamente innovativo, limitandosi ad esplicitare il principio di leale collaborazione fra Amministrazione e cittadini, in base al quale questa non può frapporre ostacoli privi di significato sostanziale alle istanze degli associati.

A fronte di un’istanza di accesso irregolare (nel caso deciso: per essere stata presentata dall’avvocato del richiedente, in difetto di procura espressa), l’Amministrazione non può limitarsi a prendere atto dell’irregolarità della prima istanza, restando conseguentemente inerte, ma ha l’obbligo di rappresentare al richiedente i motivi ostativi all’accoglimento della richiesta, in modo da indirizzarla nei termini ritenuti corretti.


FATTO e DIRITTO
1. Con ricorso al Tribunale amministrativo della Puglia, sede di Lecce, rubricato al n. 3100/2014, la signora C.B. chiedeva l’annullamento del silenzio - diniego opposto dal Comune di M.sull'istanza di accesso agli atti, formulata nel suo interesse dall'avvocato M.C.Z. con nota protocollata in data 4 novembre 2014 e l'accertamento del proprio diritto ad estrarre copia della documentazione richiesta, con contestuale ordine di esibizione alla parte resistente.
La ricorrente riferiva di avere lavorato alle dipendenze dell’Associazione ricreativa culturale “X” sita in M..
A seguito delle sue dimissioni per giusta causa ha azionato il procedimento per il riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato mai formalizzato.
Poiché è venuta a conoscenza della variazione della sede operativa dell’Associazione ricreativa da M. ad A. e della variazione della denominazione da “X” a “Y”, ha presentato, tramite il proprio legale, due istanze di accesso agli atti, una presso il comune di M. al fine di prendere visione ed estrarre copia dello Statuto della Associazione “X” nonché della copia della certificazione attestante lo scopo dell’Associazione anche al fine di conoscere la data di inizio e chiusura della associazione ricreativa e l’altra presso il comune di A., al fine di prendere visione ed estrarre copia dello Statuto della Associazione “Y”, anche al fine di conoscere il nome degli associati per verificare se siano gli stessi soggetti dell’associazione prima denominata “X”.
Mentre il comune di A. ha riscontrato la suddetta richiesta di accesso rilasciando la documentazione richiesta, il comune di M. è rimasto inerte senza dare alcuna risposta alla domanda in questione.
Pertanto, la procuratrice della ricorrente si è recata personalmente presso il Comune e ha formulato una nuova istanza di accesso in formato cartaceo provvedendo a farla protocollare.
Anche quest’ultima istanza è rimasta prova di riscontro e, poiché è trascorso il termine di 30 giorni ex art. 25 l. 241/1990, si è formato il diniego tacito, la signora Cristina Bisconti ha proposto il suddetto ricorso deducendo:
- violazione degli artt. 24 e 97 Cost.;
- violazione, erronea interpretazione e falsa applicazione degli artt. 3, 22, 24 e 25 l. 241/1990;
- violazione, erronea interpretazione e falsa applicazione del d.P.R. 184/2006;
- eccesso di potere per difetto di motivazione e sviamento della causa tipica attributiva del potere di autorizzazione all’accesso agli atti amministrativi;
- perplessità e contraddittorietà dell’azione amministrativa; malgoverno.
La ricorrente sosteneva che l’accesso avrebbe consentito la tutela dei propri interessi giuridici per far accertare il rapporto di lavoro subordinato; che l’interesse posto a base della sua domanda è costituito anche dall’interesse strumentale alla tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi; che l’interesse è diretto, concreto e attuale.
Con la sentenza in epigrafe, n. 894 in data 16 marzo 2015, il Tribunale amministrativo della Puglia, sede di Lecce, Sezione Seconda, accoglieva il ricorso e, per l’effetto, ordinava al Comune di M. di esibire, entro venti giorni dalla comunicazione o notificazione della sentenza, i documenti oggetto dell’istanza proposta dalla ricorrente, con facoltà per la stessa di estrarne copia.
2. Avverso la predetta sentenza il Comune di M.  propone il ricorso in appello in epigrafe, rubricato al n. 3521/2015, contestando gli argomenti che ne costituiscono il presupposto e chiedendo la sua riforma e la declaratoria dell’inammissibilità del ricorso di primo grado.
Si è costituita in giudizio la signora C.B. chiedendo il rigetto dell’appello.
La causa è stata assunta in decisione alla udienza camerale del 6 ottobre 2015.
3. L’appello è infondato.
Il Comune appellante non contesta in alcun modo, nel presente grado del giudizio, la pretesa dell’appellata, sostenendo invece che la sua istanza, presentata irregolarmente, non avrebbe fatto sorgere il suo onere di darvi risposta.
Più specificamente, il Comune appellante sostiene di non avere alcun obbligo di dare corso all’istanza in quanto questa è stata presentata dall’avvocato dell’odierna appellata in difetto di procura espressa ed è stata reiterata dopo che il silenzio rifiuto formatosi sul primo atto era divenuto inoppugnabile per decorso del relativo termine, per cui neanche in questo caso il Comune aveva l’obbligo di rispondere.
Tale argomentazione non può essere condivisa.
L’appellante condivisibilmente afferma l’applicabilità, nel caso che ora occupa, dell’art. 6, primo comma, del d.P.R. 12 aprile 2006, n. 184, ai sensi del quale “qualora non sia possibile l'accoglimento immediato della richiesta in via informale, ovvero sorgano dubbi sulla legittimazione del richiedente, sulla sua identità, sui suoi poteri rappresentativi, sulla sussistenza dell'interesse alla stregua delle informazioni e delle documentazioni fornite, sull'accessibilità del documento o sull'esistenza di controinteressati, l'amministrazione invita l'interessato a presentare richiesta d'accesso formale, di cui l'ufficio rilascia ricevuta”.
Ad avviso del Collegio la norma non ha contenuto propriamente innovativo in quanto si limita ad esplicitare il principio di leale collaborazione fra Amministrazione e cittadini, in base al quale questa non può frapporre ostacoli privi di significato sostanziale alle istanze degli associati (in termini C. di S., VI, 9 marzo 2011, n.1492, che ha affermato l’applicabilità del principio di leale collaborazione ai rapporti relativi ad istanze di accesso agli atti della pubblica amministrazione; sostanzialmente in termini anche C. di S., V, 26 febbraio 2010 n. 1150).
Sulla base del principio richiamato afferma il Collegio che nel caso che ora occupa l’Amministrazione non poteva limitarsi a prendere atto dell’irregolarità della prima istanza, restando conseguentemente inerte.
Costituiva invece suo obbligo rappresentare i motivi che ostavano all’accoglimento della richiesta, in modo da indirizzarla nei termini ritenuti corretti.
Non avendo l’Amministrazione ottemperato a tale obbligo di comunicazione la stessa non può ora opporre l’irritualità dell’istanza, che l’odierna appellante non ha potuto correggere; pertanto, nei suoi confronti il termine per l’impugnazione non ha cominciato a decorrere.
Il ricorso di primo grado deve quindi essere ritenuto tempestivo ed ammissibile.
Infine, deve essere rilevato come le argomentazioni sulla base delle quali il primo giudice ha ritenuto fondato il ricorso di primo grado non sono state contestate in appello.
4. L’appello deve, in conclusione, essere respinto.
Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) definitivamente pronunciando sull'appello n. 201503521, come in epigrafe proposto, lo respinge, confermando la sentenza gravata.
Condanna il Comune appellante al pagamento, in favore della controparte costituita, di spese ed onorari del giudizio, che liquida in complessivi € 2.000,00 (duemila/00) oltre agli accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

mercoledì 25 novembre 2015



Profili penali del matrimonio ‘di comodo’

Cass. pen. 14 ottobre 2015 (ud. 12 giugno 2015), n. 41303

Integra il delitto di favoreggiamento dell'immigrazione illegale degli stranieri nel territorio dello Stato anche il fatto di contrarre, verso corrispettivo in danaro, matrimonio con cittadino extracomunitario presente irregolarmente nel territorio dello Stato, al fine di fargli conseguire la cittadinanza italiana e così di consentirgli di restare in Italia







Rappresentanza di genere nelle giunte comunali

Tar Sardegna xxx novembre 2015

La natura fiduciaria del rapporto che lega i nominati al nominante, non consente di ritenere che l'atto di nomina dei componenti della giunta comunale possa prescindere dal rispetto dei limiti dettati in materia di pari opportunità dalla nostra Carta Costituzionale e dalla normativa vigente, giacché l'ampiezza delle valutazioni di opportunità che guidano il Sindaco nell’individuazione degli Assessori non deve comunque travalicare la disciplina dell'esercizio della funzione amministrativa di organizzazione del Comune, ancorché esercitata - con tale atto - al più alto livello.


Il principio della rappresentanza di genere in seno alla giunta comunale impone il rispetto della quota prevista dall’art. 1, c. 137, della l. 56/2014, anche nelle ipotesi di surroga, in quanto non è ragionevole un’interpretazione della norma che ne leghi la concreta vigenza alla data delle elezioni ovvero che condizioni unicamente le nomine assessorili all’indomani delle elezioni [aggiunge il Collegio che, nel caso deciso, da un lato, “non risulta esperita da parte del Sindaco … alcuna istruttoria per la scelta della nominanda che evidenzi l’impossibilità del rispetto della suddetta percentuale, né dall’atto sindacale si evince una qualche ragione per la quale il Sindaco ha ritenuto di potersi discostare dal suddetto parametro normativo, sebbene una specifica e puntuale indicazione in tal senso, per il caso di mancata applicazione del principio di pari opportunità, sia stata espressamente prevista dalla circolare del Ministero dell’Interno del 24 aprile 2014”, dall’altro, è irrilevante “il rilievo che tale principio non sia stato ancora formalmente recepito nello statuto comunale”]

FATTO
Le Associazioni ricorrenti, statutariamente finalizzate (anche) a promuovere e sostenere la partecipazione e il ruolo delle donne ai diversi livelli di governo all’interno delle Istituzioni, degli enti e della vita pubblica in generale, con il ricorso in esame hanno impugnato il provvedimento del 24.7.2015, pubblicato sul sito web dell'amministrazione comunale in data 22.9.2015, con il quale il Sindaco del Comune di S. ha nominato Assessore ai Lavori Pubblici …Riccardo P. in sostituzione dell’Assessore dimissionario Emma P.
Con unica articolata censura le ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 1, comma 137, legge n. 56/2014, e delle altre disposizioni menzionate nell’atto introduttivo del giudizio (artt. 21 e 23 della Carta Europea dei diritti dell’Uomo, artt. 51, comma 1, 117 comma 7 e 114, comma 1 della Costituzione, art. 1 del D.Lgvo n. 118 dell’11.4.2006, art. 1 del D.Lgvo n. 5 del 25.1.2010, Statuto comunale), nonché eccesso di potere per difetto di istruttoria, ingiustizia manifesta, illogicità e sviamento, violazione dell’art. 3 della legge n. 241/1990.
In sintesi esse sostengono che la composizione della giunta comunale, come venutasi a determinare per effetto delle dimissioni dell’ing. Emma P. e dell’impugnata nomina dell’Ing Riccardo P.in sua sostituzione, sarebbe in contrasto con quanto previsto dall’art. 1, comma 137 della legge 7 aprile 2014 n. 56, per il quale “Nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento, con arrotondamento aritmetico”.
Ed invero nel Comune di S. la Giunta comunale, formata da 7 componenti (6 assessori più il Sindaco) non sarebbe correttamente composta dal momento che la percentuale del 40% sarebbe rispettata solo con la presenza in Giunta di almeno 3 donne, mentre con l’attuale composizione tale percentuale si attesta al 28,6%.
Pertanto, stante la presenza in Giunta di due sole rappresentanti del genere femminile (Ass. Roberta Relli e Ass. Daniela Sitzia), il dimissionario Ass. Emma P. doveva necessariamente essere sostituita da un’altra donna e non poteva essere legittimamente rimpiazzata da un rappresentante del genere maschile.
Di qui la richiesta, previa sospensiva, di annullamento dei provvedimenti impugnati, con ogni conseguente pronuncia anche in ordine alle spese del giudizio.
Per resistere al ricorso si è costituito in giudizio il Comune di S. che, con memoria depositata il 14 novembre 2015, dopo aver eccepito l’inammissibilità dell’impugnazione in quanto volta a sindacare nel merito un atto di natura politica, ne ha chiesto nel merito il rigetto, vinte le spese.
Alla camera di consiglio del 18 novembre 2015, chiamata per l’esame dell’istanza cautelare di sospensione, le parti sono state avvertite della possibile definizione del giudizio direttamente nel merito con sentenza resa in forma semplificata.
Al termine della discussione la causa è stata posta in decisione.
DIRITTO
Occorre esaminare in via preliminare l’eccezione d’inammissibilità del ricorso sollevata dall’amministrazione resistente.
Sostiene la difesa comunale che l’impugnazione proposta dalle associazioni ricorrenti sarebbe inammissibile in quanto volta a sindacare nel merito un atto politico giacché, a suo avviso, il provvedimento di nomina degli assessori sarebbe espressione di un potere di scelta dell’organo di vertice dell’ente connotato da valutazioni di rilievo politico in quanto strumentale all’attuazione dei fini di governo e, dunque, come tale, sottratto al sindacato del giudice amministrativo.
L’argomento non è fondato.
E’ pacifico ed incontestato che in Sardegna il Sindaco è diretta espressione del corpo elettorale e che tra i suoi compiti rientra quello di nominare gli assessori e dirigere la politica della Giunta comunale, assumendone la responsabilità.
Sennonché tale circostanza non rende l'atto di nomina un atto politico tout court e, tanto meno, lo sottrae alla garanzia costituzionale della tutela giurisdizionale.
La stessa Corte regolatrice della giurisdizione, ha osservato che il principio della tutela giurisdizionale contro gli atti della pubblica amministrazione (art. 113 Cost.) ha portata generale e coinvolge, in linea di principio, tutte le amministrazioni, anche di rango elevato e di rilievo costituzionale, concludendo che "non sono quindi, per i loro caratteri intrinseci, soggetti a controllo giurisdizionale solo un numero estremamente ridotto di atti in cui si realizzano scelte di specifico rilievo costituzionale e politico; atti che non sarebbe corretto qualificare come amministrativi e in ordine ai quali l'intervento del Giudice determinerebbe un'interferenza del potere giudiziario nell'ambito di altri poteri (si pensi ad atti del Presidente della Repubblica quali la concessione di una grazia, o lo scioglimento delle camere).”
Nel caso in esame, ad avviso del Collegio, non si può dire che la nomina degli assessori comunali costituisca un atto oggettivamente non amministrativo che realizza scelte di specifico rilievo costituzionale e politico e, come tale, non sindacabile a pena di interferire nell'esercizio di altro potere, straripando dai limiti di quello giurisdizionale.
Il provvedimento di nomina degli assessori non contiene scelte programmatiche, non individua i fini da perseguire nell'azione di governo, non ne determina il contenuto e non costituisce, dunque, atto (di indirizzo) politico e neppure direttiva di vertice dell'attività amministrativa.
La suggestione derivante dalla natura fiduciaria del rapporto che lega i nominati al nominante, il quale certamente gode della più ampia discrezionalità nella scelta delle persone dei suoi assessori, non consente, contrariamente a quanto opinato da parte resistente, di ritenere che l'atto di nomina dei componenti della giunta comunale possa prescindere dal rispetto dei limiti dettati in materia di pari opportunità dalla nostra Carta Costituzionale e dalla normativa vigente, giacché l'ampiezza delle valutazioni di opportunità che guidano il Sindaco nell’individuazione degli Assessori non deve comunque travalicare la disciplina dell'esercizio della funzione amministrativa di organizzazione del Comune, ancorché esercitata - con tale atto - al più alto livello.
Si tratta, pertanto, di un atto soggettivamente e oggettivamente amministrativo, l'emanazione del quale è sottoposta all'osservanza delle disposizioni che attribuiscono, disciplinano e conformano il relativo potere, il cui corretto esercizio è, sotto questi profili, pienamente sindacabile in sede giurisdizionale .
Va ribadito, in proposito, che l'ampiezza della discrezionalità nella nomina e i motivi legati ad equilibri interni di coalizione - solo in questo senso definibili "politici" e come tali insindacabili - non possono, di per sé, sottrarre l'atto al giudizio di legittimità sul rispetto delle norme che ne dettano la disciplina procedurale e sostanziale (ed a riprova di ciò possono citarsi diverse pronunce di giudici amministrativi che hanno annullato gli atti di nomina di organi c.d.“politici”) cioè alla tutela garantita, sul piano generale, contro i provvedimenti illegittimi, dall'art. 24 Cost., né la natura strettamente fiduciaria del rapporto può ritenersi sufficiente ad evitare il sindacato sulla stessa validità (legittimità) della sua instaurazione (cfr. TAR Sardegna, Sez. II, n. 864 del 2 agosto 2011).
Può quindi passarsi all’esame del merito del ricorso, che è fondato.
La questione delle c.d. quote rosa in seno agli organi amministrativi degli enti pubblici è stata recentemente regolamentata dall’art. 1, comma 137 della legge 7 aprile 2014 n. 56, per il quale “Nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento, con arrotondamento aritmetico”.
Peraltro, già prima dell’entrata in vigore dell’art. 1, comma 137, l. n. 56/2014, la giurisprudenza amministrativa aveva avuto modi di affermare che: “E' illegittimo, per violazione del principio delle pari opportunità, contenuto negli art. 3 e 51 della Costituzione e 23 della carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, nonché degli artt. 6, comma 3 e 46, comma 2, TUEL, nel testo risultante dalla legge n. 215/2012 , il decreto di nomina degli assessori ­ tutti di sesso maschile - della Giunta municipale” (cfr: Cons. St., sez. V, 18 dicembre 2013, n. 6073).
Ed invero la giurisprudenza, confortata anche dalla conforme interpretazione del principio fornita dalla Corte Costituzionale, ha in più occasioni riconosciuto all'art. 51 Cost. (che sancisce "tutti i cittadini dell'uno e dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini".) valore di norma cogente e immediatamente vincolante, come tale idonea a conformare ed indirizzare lo svolgimento della discrezionalità amministrativa, ponendosi rispetto ad essa quale parametro di legittimità sostanziale (ex multis Corte Cost. n. 4/2010; Tar Campania - Napoli, sez. I, n. 12668 del 2010 e nn. 1427 e 1985 del 2011).
In particolare il principio in questione è stato inteso in primo luogo come immediato svolgimento del principio di uguaglianza sostanziale di cui all'art. 3 Cost., non solo nella sua accezione negativa (come divieto di azioni discriminatorie fondate sul sesso), ma anche positiva, impegnando le Istituzioni alla rimozione degli ostacoli che di fatto impediscono la piena partecipazione di uomini e donne alla vita sociale, istituzionale e politica del Paese.
Ma la pregnanza del principio nel tessuto ordinamentale, come in parte già rilevato più sopra, si svolge anche su un ulteriore piano dei valori costituzionali, giungendosi ad una più consapevole individuazione della sua valenza trasversale nella misura in cui lo si ricollega, in chiave strumentale, al principio di buon andamento e imparzialità dell'azione amministrativa: la rappresentanza di entrambi i generi nella compagine degli organi amministrativi, specie se di vertice e di spiccata caratterizzazione politica, "garantisce l'acquisizione al modus operandi dell'ente, e quindi alla sua concreta azione amministrativa, di tutto quel patrimonio, umano, culturale, sociale, di sensibilità e di professionalità, che assume una articolata e diversificata dimensione in ragione proprio della diversità del genere" (Tar del Lazio sent. n 6673/2011).
Il principio costituzionale così inteso, quindi, illumina ulteriori disposizione poste dal legislatore ordinario a tutela della effettiva realizzazione della parità tra uomini e donne : il codice delle pari opportunità tra uomo e donna (d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198), all'art. 1, comma 4, precisa che "l'obiettivo della parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere tenuto presente nella formulazione e attuazione, a tutti i livelli e ad opera di tutti gli attori, di leggi, regolamenti, atti amministrativi, politiche e attività", mentre l'art. 6 TUEL (d.lgs 267/2000) al comma 3 prevede "Gli statuti comunali e provinciali stabiliscono norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna ai sensi della legge 10 aprile 1991, n. 125, e per promuovere la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da esso dipendenti".
Inteso nei termini sopra specificati il principio di parità si pone come vincolo per l'azione dei pubblici poteri nello svolgimento della discrezionalità loro consegnata dall'ordinamento e come direttiva in ordine al risultato da perseguire (promozione delle pari opportunità tra i generi, in funzione della parità sostanziale e del buon andamento dell'azione amministrativa).
All’indomani dell’entrata in vigore del citato art. 1, comma 137, attuativo degli anzidetti principi di rango costituzionale, tutti gli atti adottati nella vigenza di quest’ultimo trovano in tale norma un ineludibile parametro di legittimità, non essendo ragionevole una sua interpretazione – sottesa dalle difese comunali - che leghi la sua concreta vigenza alla data delle elezioni ovvero che condizioni unicamente le nomine assessorili all’indomani delle elezioni.
Una simile interpretazione consentirebbe un facile aggiramento della suddetta prescrizione, nella misura in cui il rispetto della percentuale assicurato dai provvedimenti di nomina immediatamente successivi alle elezioni potrebbe essere posto nel nulla da successivi provvedimenti sindacali di revoca e nomina, atti a sovvertire la suddetta percentuale.
Allo stesso tempo deve rilevarsi che non risulta esperita da parte del Sindaco del Comune di S. alcuna istruttoria per la scelta della nominanda che evidenzi l’impossibilità del rispetto della suddetta percentuale, né dall’atto sindacale si evince una qualche ragione per la quale il Sindaco ha ritenuto di potersi discostare dal suddetto parametro normativo, sebbene una specifica e puntuale indicazione in tal senso, per il caso di mancata applicazione del principio di pari opportunità, sia stata espressamente prevista dalla circolare del Ministero dell’Interno del 24 aprile 2014.
Non rileva, infine, neppure il rilievo che tale principio non sia stato ancora formalmente recepito nello statuto comunale.
L’attuazione del generale principio ordinamentale del rispetto delle c.d. quote rosa, infatti, non può essere condizionata dall'omissione o ritardo del Consiglio comunale nel provvedere in tal senso alla modifica dello statuto.
Il ricorso merita dunque accoglimento in ragione del mancato rispetto della percentuale del 40% di componenti del genere femminile nella giunta comunale di S. imposta dall’art. 1, comma 137, l. n. 56/2014.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura di cui in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione Seconda)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla il provvedimento di nomina dell’ing. Riccardo P. ad Assessore ai Lavori Pubblici del Comune di S..
Condanna il Comune di S. al pagamento in favore delle ricorrenti delle spese del giudizio, liquidandole in complessivi euro 2500,00 (duemilacinquecento//00), oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

martedì 24 novembre 2015





Ineleggibilità (del Sindaco) e ‘ruolo’ del vice (Sindaco)

Tar Campania xx novembre 2015

Qualora la convalida dell'elezione si effettui malgrado l'esistenza, non accertata, di una causa d'ineleggibilità, tale causa assume rilievo come ragione di decadenza dalla carica per successiva perdita delle condizioni di eleggibilità: essa riceve lo stesso trattamento delle cause di ineleggibilità sopravvenuta, le quali sono assimilabili a quelle di incompatibilità [aggiunge il Collegio: a) che  “in caso di ineleggibilità, così come in caso di incandidabilità, vi è luogo soltanto a surrogazione della persona non eleggibile o non candidabile, e ciò in quanto la sanzione di decadenza dalla carica (in caso di ineleggibilità) e la sanzione di nullità dell’elezione o della nomina (in caso di incandidabillità) è stabilita soltanto relativamente alla posizione del candidato, senza conseguenze invalidanti ulteriori”; b) “se l’unico effetto conseguente all’elezione del Sindaco non candidabile …è la nullità della sua elezione e/o nomina, senza alcun ulteriore riflesso sulla procedura (nessuna nullità, lo si ribadisce, è stabilita dalla legge con riguardo alle espressioni di voto di lista o alle stesse elezioni), a maggior ragione le cause di ineleggibilità – che sono elementi ostativi al solo esercizio dell’elettorato passivo e, quindi, certamente comportanti un minore allarme sociale rispetto alla incandidabilità - non possono integrare una causa di invalidità in grado di trasmettersi alle operazioni successive, ma producono il solo effetto della decadenza di chi è ineleggibile”]

FATTO
I ricorrenti – premesso che il dott. P.C., pur essendo ineleggibile alla carica di Sindaco giusta l’art. 60, I comma, n. 9) del DLgs n. 267/2000 (come, peraltro, era stato successivamente accertato dal Tribunale di … che, adito dagli stessi odierni ricorrenti, con ordinanza …, confermata dalla Corte d’Appello con decisione …, aveva disposto la decadenza dalla nomina), aveva accettato la candidatura ed era risultato eletto alla carica di Sindaco del Comune di G. – contestano, chiedendone l’annullamento in quanto asseritamente illegittima, la determinazione …con cui la Prefettura di N. aveva stabilito che “le funzioni del Sindaco ai sensi dell'art. 53 del D.lgs. 267/2000 saranno svolte dal vice Sindaco".
Secondo i ricorrenti nel caso in esame non era applicabile l'art. 53, I comma del DLgs n. 267/2000 (in base al quale il Consiglio e la Giunta rimangono in carica sino all'elezione del nuovo Consiglio e del nuovo Sindaco), e ciò in quanto nella fattispecie l'ineleggibilita non era sopravvenuta, ma esistente già all'atto della presentazione della candidatura, sicché si versava in una ipotesi di nullità delle elezioni a fronte della quale il Prefetto di Napoli avrebbe dovuto nominare un Commissario che assumesse le funzioni di tutti gli organi del Comune fino alle elezioni del nuovo Sindaco e del nuovo Consiglio: allorquando la causa di ineleggibilità preesiste all'elezione e non è stata rimossa nel termine fissato nell'art. 60 del DLgs n. 267/2000, l'elezione del Sindaco ineleggibile è nulla e travolge, infatti, l'elezione anche del Consiglio e della Giunta.
DIRITTO
Il ricorso è infondato.
La disciplina delle elezioni negli enti locali prevede tre diverse cause limitative del diritto e/o dell’esercizio del diritto di elettorato passivo: la incandidabilità di cui all’art. 58 del DLgs n. 267/2000, la ineleggibilità di cui al successivo art. 60 e la incompatibilità di cui all’art. 63.
L'incompatibilità investe la posizione dell'eletto e, impedendo il contemporaneo esercizio di due funzioni, non incide minimamente sull'elezione, ma vieta di ricoprire la carica (cfr. l’art. 63, I comma), ferma restando la sanzione della decadenza dalla carica in caso di omessa rimozione della causa di incompatibilità (cfr. l’art. 68, II comma).
La ineleggibilità esclude, invece, l’esercizio del diritto di elettorato passivo e, pur non comportando l’invalidità del procedimento elettorale (per le ragioni che si esporranno di seguito), comporta la decadenza del candidato all’esito della procedura di contestazione di cui all’art. 69 del TUEL (anche in caso di ineleggibilità antecedente alle operazioni elettorali, giusta il richiamo al medesimo articolo effettuato dall’art. 41, I comma) e, in caso di candidato Sindaco, lo scioglimento del consiglio, con necessità di nuove elezioni (art. 53, I comma).
La incandidabilità esclude in radice la possibilità di adire una carica elettiva o di mantenerla, esclude, cioè, il diritto di elettorato passivo e non soltanto l’esercizio dello stesso. L’art. 58, IV comma del DPR n. 267/2000 stabilisce, infatti, che l’elezione di un soggetto incandidabile è nulla, aggiungendo che l’organo che ha deliberato la convalida dell’elezione è tenuto a revocarla.
S’è detto, prima, che l’ineleggibilità (antecedente alle elezioni) del Sindaco non riverbera sulle operazioni elettorali, ma incide esclusivamente sulla sua elezione/nomina: ebbene, ne è chiara dimostrazione il fatto che l’attribuzione, giusta l’art. 41, I comma del DLgs n. 267/2000, all’organo che ha convalidato l’elezione della persona incandidabile, e cioè allo stesso Consiglio comunale contestualmente eletto, del potere di provvedere alla revoca di quest’ultima, postula inequivocabilmente la validità della costituzione dell’organo elettivo, in quanto titolare della competenza assegnatagli dalla norma ed esclude, al contempo, qualsivoglia dubbio circa la configurabilità della nullità delle espressioni di voto o delle intere elezioni, posto che, se si ammettesse questa possibilità, la disposizione risulterebbe priva di senso.
L’art. 41 citato prevede, infatti, che “nella prima seduta il consiglio comunale e provinciale, prima di deliberare su qualsiasi altro oggetto, ancorché non sia stato prodotto alcun reclamo, deve esaminare la condizione degli eletti a norma del capo II titolo III e dichiarare la ineleggibilità di essi quando sussista alcuna delle cause ivi previste, provvedendo secondo la procedura indicata dall'articolo 69”.
Dunque, qualora la convalida dell'elezione si effettui malgrado l'esistenza, non accertata, di una causa d'ineleggibilità, tale causa assume rilievo come ragione di decadenza dalla carica per successiva perdita delle condizioni di eleggibilità: essa riceve lo stesso trattamento delle cause di ineleggibilità sopravvenuta, le quali sono assimilabili a quelle di incompatibilità.
Ma c’è di più.
In caso di ineleggibilità, così come in caso di incandidabilità, vi è luogo soltanto a surrogazione della persona non eleggibile o non candidabile, e ciò in quanto la sanzione di decadenza dalla carica (in caso di ineleggibilità) e la sanzione di nullità dell’elezione o della nomina (in caso di incandidabillità) è stabilita soltanto relativamente alla posizione del candidato, senza conseguenze invalidanti ulteriori.
L’art. 58, IV comma, infatti, sanziona espressamente con la nullità la sola elezione del candidato che si trova in una delle condizioni ostative contemplate dal precedente I comma e circoscrive, dunque, la portata delle conseguenze invalidanti riconducibili a tale fattispecie alla radicale invalidità dell’elezione del solo soggetto incandidabile. Altre illegittimità riconducibili alla consultazione elettorale, quale effetto dell’indebita partecipazione di un candidato privo della relativa capacità, risultano, pertanto, chiaramente, ancorchè implicitamente, escluse dal legislatore (cfr. CdS, V, 17.4.2012 n. 3673).
Orbene, se l’unico effetto conseguente all’elezione del Sindaco non candidabile - l’incandidabilità costituisce una figura di incapacità giuridica che incide, come si è detto, sullo stesso diritto di elettorato passivo, non semplicemente sul suo esercizio, ed è, dunque, la causa ostativa (alla copertura della carica, ma che rileva in una fase propedeutica alle stesse elezioni) di maggior spessore - è la nullità della sua elezione e/o nomina, senza alcun ulteriore riflesso sulla procedura (nessuna nullità, lo si ribadisce, è stabilita dalla legge con riguardo alle espressioni di voto di lista o alle stesse elezioni), a maggior ragione le cause di ineleggibilità – che sono elementi ostativi al solo esercizio dell’elettorato passivo e, quindi, certamente comportanti un minore allarme sociale rispetto alla incandidabilità - non possono integrare una causa di invalidità in grado di trasmettersi alle operazioni successive, ma producono il solo effetto della decadenza di chi è ineleggibile.
Con la conseguenza che se l’ineleggibilità riguarda il candidato Sindaco, la ineleggibilità (sia originaria, come in questo caso, che sopravvenuta) comporta, giusta l’art. 68, I comma de TUEL, la declaratoria di decadenza dell’organo monocratico risultato vincitore, e tale decadenza, a sua volta, comporta, ai sensi dell’art. 53, I comma del medesimo TUEL, la decadenza della Giunta e lo scioglimento del Consiglio, con necessità di nuove elezioni e con l’onere di svolgimento delle funzioni di Sindaco da parte del vicesindaco.
Per mera completezza – e per contrastare “funditus” la seconda censura - deve evidenziarsi che sebbene il Testo unico non contenga un’espressa previsione in ordine al momento in cui entra in carica il Sindaco, non è contestabile che tale organo si insedi immediatamente per effetto della proclamazione dell’avvenuta elezione consacrata nell’apposito verbale dell’Ufficio elettorale centrale. Lo stesso è quindi abilitato fin dal momento della proclamazione a compiere gli atti di sua competenza, né il TUEL contiene alcuna limitazione oggettiva della relativa attività giuridico-amministrativa: ne consegue, pertanto la piena legittimità degli atti di nomina del vicesindaco e degli assessori posti in essere dal Sindaco, e ciò anche alla luce della giurisprudenza consolidata che afferma che se il carattere retroattivo degli effetti derivanti dall’annullamento dell’elezione trova un limite nel generale principio di conservazione degli atti, secondo il quale gli atti posti in essere (prima che la illegittimità dell’elezione sia dichiarata) costituiscono espressione di un rapporto organico di fatto e sono comunque validi anche nei casi in cui attengano a funzioni indifferibili, sarebbe illogico considerare nulli gli atti posti in essere da un soggetto eletto dopo lo svolgimento di elezioni regolari, successivamente dichiarato decaduto.
“La ratio del regime dinanzi delineato, è da ravvisare nel fatto che esso è precipuamente diretto a realizzare il preminente interesse pubblico di garantire la stabilità degli organi elettivi, di favorire il rispetto della volontà degli elettori, di assicurare la certezza dei risultati elettorali, di conservare l’efficacia degli atti del procedimento elettorale non direttamente incisi dall’elezione della persona incandidabile e di ripristinare la situazione di legalità vulnerata da quest’ultima per mezzo dell’esclusione ex post del solo soggetto illegittimamente eletto e la surroga…del seggio divenuto vacante” (CdS, V, 17.4.2012 n. 3673 cit.).
In conclusione, dunque, coerentemente la Prefettura ha preso atto dell’esistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 53, I comma, secondo il quale in caso di decadenza del Sindaco, la Giunta decade e si procede allo scioglimento del consiglio e sino alle nuove elezioni le funzioni del Sindaco sono svolte dal vicesindaco; anche il Consiglio e la Giunta rimangono in carica, con pienezza di poteri, fino alle nuove elezioni e solo dopo la pubblicazione del decreto di indizione dei comizi elettorali devono limitarsi ad adottare gli atti urgenti ed improrogabili.
Le spese possono essere compensate in ragione della peculiarità della controversia e dell’assenza di un orientamento giurisprudenziale univoco.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Seconda) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

lunedì 23 novembre 2015








PANOZZO, Orientamenti della giurisprudenza amministrativa sul(la figura del) presidente del consiglio comunale, in
http://www.diritto.it/docs/37565-orientamenti-della-giurisprudenza-amministrativa-sul-la-figura-del-presidente-del-consiglio-comunale