giovedì 19 ottobre 2017






Valenza del deposito della sentenza (civile)


Cass. 17 ottobre 2017, n. 24466

Il deposito e la pubblicazione della sentenza coincidono e si realizzano nel momento in cui il deposito ufficiale in cancelleria determina l'inserimento della sentenza nell'elenco cronologico, con attribuzione del numero identificativo e conseguente conoscibilità per gli interessati, dovendosi identificare tale momento con quello di venuta ad esistenza della sentenza a tutti gli effetti, inclusa la decorrenza del termine lungo per la sua impugnazione [ribadito il principio espresso dalle Sezioni Unite (sent. 18569/2016) il Collegio aggiunge: “Qualora, peraltro, tali momenti risultino impropriamente scissi mediante apposizione in calce alla sentenza di due diverse date, ai fini della verifica della tempestività dell'impugnazione, il giudice deve accertare - attraverso istruttoria documentale, ovvero ricorrendo a presunzioni semplici o, infine, alla regola di cui all'art. 2697 c.c., alla stregua della quale spetta all'impugnante provare la tempestività della propria impugnazione - quando la sentenza sia divenuta conoscibile attraverso il deposito ufficiale in cancelleria ed il suo inserimento nell'elenco cronologico con attribuzione del relativo numero identificativo”]

domenica 15 ottobre 2017



Fondo patrimoniale – Prova (in giudizio)


Cass. 12 ottobre 2017, n. 23955

Se è vero che la condizione sostanziale di opponibilità ai terzi dell'avvenuta costituzione del fondo patrimoniale è data dalla annotazione dell'atto costitutivo in calce all'atto di matrimonio, è pur vero che in giudizio occorre fornire la prova dell'adempimento di tale onere. L'esibizione in giudizio dell'atto di matrimonio recante l'annotazione, pertanto, non è condizione sostanziale di opponibilità dell'atto ai terzi richiesta dall'art. 162 cod. civ., ma costituisce necessario adempimento dell'onere processuale della prova in giudizio.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d'appello di Milano, con sentenza pubblicata il 21 aprile 2015, ha rigettato l'appello proposto dai coniugi A.G. e P.L.G. avverso la sentenza del Tribunale di Varese del 20 aprile 2012 che, a sua volta, aveva ritenuto inopponibile al creditore procedente N.P. s.r.l. un atto di costituzione in fondo patrimoniale di taluni beni immobili, pignorati dalla predetta società. Avverso tale decisione il G. e la G. hanno proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi. La società intimata non ha svolto attività difensiva.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il tribunale ha rigettato l'opposizione all'esecuzione osservando, fra l'altro, che gli opponenti non hanno dato alcuna prova dell'opponibilità al creditore procedente dell'atto di costituzione in fondo patrimoniale degli immobili pignorati; prova che si sarebbe dovuta fornire producendo in giudizio non soltanto il predetto atto notarile, ma anche l'atto di matrimonio attestante la data dell'annotazione del regime patrimoniale, poiché l'opponibilità invocata dagli opponenti dipende dall'eventuale anteriorità di tale annotazione rispetto alla data di trascrizione del pignoramento.

La corte d'appello ha rilevato che gli opponenti non hanno prodotto l'atto di matrimonio neppure nel secondo grado di giudizio, nonostante i puntuali rilievi del tribunale. In particolare, gli appellanti hanno ritirato il fascicolo di parte all'udienza di precisazione delle conclusioni (come da annotazione a margine del relativo verbale) e non l'hanno più depositato, così impedendo al giudice d'appello di verificare la fondatezza della deduzione secondo cui il tribunale avrebbe errato nell'affermare che il documento non era stato prodotto in giudizio.

Su questo capo della sentenza si impuntano le censure articolate nel primo motivo, con il quale si deduce la violazione o la falsa applicazione dell'art. 162, quarto comma, cod. civ.

I ricorrenti osservano, anzitutto, che l'avvenuto ritiro del fascicolo di parte sarebbe avvenuto d'iniziativa dello «avv. M.M. dello Studio dell'avv. G.B. di G. [...] senza alcuna specifica istruzione del sottoscritto procuratore degli appellanti». Il dato è assolutamente irrilevante, oltre che indimostrato, in quanto - a prescindere dal fatto che non si chiarisce a che titolo tale avv. M. avrebbe partecipato all'udienza di precisazione delle conclusioni innanzi alla corte d'appello in rappresentanza degli appellanti non vi è dubbio che, quale che fosse l'incarico ricevuto, questi ultimi rispondono del suo operato quantomeno per culpa in eligendo.

Inoltre, in punto di diritto, i ricorrenti sostengono che l'art. 162, comma quarto, cod. civ. impone, quale condizione di opponibilità ai terzi, l'annotazione dell'atto costitutivo del fondo patrimoniale in calce all'atto di matrimonio, ma non anche la sua produzione in giudizio.

Il motivo è infondato.

Infatti, se è vero che la condizione sostanziale di opponibilità ai terzi dell'avvenuta costituzione del fondo patrimoniale è data dalla annotazione dell'atto costitutivo in calce all'atto di matrimonio, è pur vero che in giudizio occorre fornire la prova dell'adempimento di tale onere. L'esibizione in giudizio dell'atto di matrimonio recante l'annotazione, pertanto, non è condizione sostanziale di opponibilità dell'atto ai terzi richiesta dall'art. 162 cod. civ., ma costituisce necessario adempimento dell'onere processuale della prova in giudizio.

Correttamente, quindi, i giudici di merito hanno ritenuto che l'omessa produzione in giudizio dell'atto dovesse comportare il rigetto dell'opposizione.

Giova aggiungere che, in virtù del principio dispositivo delle prove, il mancato reperimento nel fascicolo di parte, al momento della decisione, di alcuni documenti ritualmente prodotti, deve presumersi espressione, in assenza della denuncia di altri eventi, di un atto volontario della parte stessa, che è libera di ritirare il proprio fascicolo e di omettere la restituzione di esso o di alcuni dei documenti ivi contenuti; ne consegue che è onere della parte dedurre quella incolpevole mancanza e che il giudice è tenuto ad ordinare la ricerca o disporre la ricostruzione della documentazione non rinvenuta solo ove risulti l'involontarietà della mancanza, dovendo, negli altri casi, decidere sulla base delle prove e dei documenti sottoposti al suo esame al momento della decisione (Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 10224 del 26/04/2017, Rv. 643996).

Poiché nella specie gli opponenti non hanno provato, al di là di quella generica e inammissibile deduzione circa l'operato dell'avv. M., l'involontarietà del ritiro del proprio fascicolo di parte, correttamente la corte d'appello ha ritenuto l'opposizione infondata. Con il secondo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 170 cod. civ. e dell'art. 229 cod. proc. civ.

La censura riguarda la parte della sentenza della corte d'appello in cui è stato rilevato che agli esecutati non sarebbe bastato soltanto dimostrare l'opponibilità del fondo patrimoniale ai terzi, ma anche che il debito era stato contratto per scopi estranei agli interessi della famiglia.

Trattandosi di una autonoma ratio decidendi, il motivo ad essa relativo è assorbito dal rigetto di quello concernente la motivazione principale del provvedimento impugnato, la quale da sola è sufficiente a reggere la decisione finale.

Nulla si dispone per le spese del presente giudizio di cassazione, in quanto la parte intimata non ha svolto attività difensiva. Sussistono invece i presupposti per l'applicazione dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, sicché va disposto il versamento, da parte dell'impugnante soccombente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l'impugnazione da lui proposta, senza spazio per valutazioni discrezionali (Sez. 3, Sentenza n. 5955 del 14/03/2014, Rv. 630550).


P.Q.M.


rigetta il ricorso

Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, dal parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 26 maggio 2017.

sabato 14 ottobre 2017



Limiti all’accesso generalizzato

Accesso ai documenti – Accesso generalizzato – Finalità – Intralcio al buon funzionamento dell’amministrazione – Esclusione.  
                L’istituto dell’accesso generalizzato, introdotto dal d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97, che ha modificato il comma 2 dell’art. 5, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, non può essere utilizzato in modo disfunzionale rispetto alla finalità per la quale è stato introdotto nell’ordinamento (id est, favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico) ed essere trasformato in una causa di intralcio al buon funzionamento dell’Amministrazione (1).
  
(1) Ha chiarito il Tar che le fattispecie di cui al comma 1 e al comma 2 dell’art. 5, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33 sono diverse: mentre il comma 1 riguarda documenti, informazioni o dati per i quali è previsto l’obbligo normativo della pubblicazione, il comma 2 riguarda invece dati e documenti detenuti dalle Pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del decreto. La distinzione riguarda l’ambito oggettivo di applicazione dell’istituto, ma non quello soggettivo, potendo “chiunque” esercitare sia l’accesso civico, di cui al comma 1, sia quello c.d. generalizzato, di cui al comma 2.
L’accesso generalizzato – introdotto dal d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97 – ha la sua ratio nella dichiarata finalità di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico.
Ad avviso del Tar, posta questa finalità, l’istituto, che costituisce uno strumento di tutela dei diritti dei cittadini e di promozione della partecipazione degli interessati all’attività amministrativa (cfr. art. 1, d.lgs. n. 33 del 2013, come modificato dall’art. 2, d.lgs. n. 97 del 2016), non può essere utilizzato in modo disfunzionale rispetto alla predetta finalità ed essere trasformato in una causa di intralcio al buon funzionamento dell’amministrazione. La valutazione dell’utilizzo secondo buona fede va operata caso per caso, al fine di garantire – in un delicato bilanciamento – che, da un lato, non venga obliterata l’applicazione dell’istituto, dall’altro lo stesso non determini una sorta di effetto “boomerang” sull’efficienza dell’Amministrazione.

https://www.giustizia-amministrativa.it/cdsintra/cdsintra/Approfondimenti/Accessoaidocumenti/Accessogeneralizzato/TarMilano11ottobre2017n.1951/index.html

venerdì 13 ottobre 2017






Consigliere comunale - Decadenza


[Cons. di Stato, V, 22 settembre 2017, n. 4433 (conferma Tar Lombardia, Brescia,  10 aprile 2006, n. 383)]




https://www.diritto.it/consigliere-comunale-decadenza/

martedì 10 ottobre 2017





Sospensione di diritto dalle cariche pubbliche a seguito di condanna

Giurisdizione - Comuni - Assessore - Nomina - Da parte di Sindaco neo eletto condannato in primo grado per abuso d’ufficio - Impugnazione - Giurisdizione giudice amministrativo.

Processo amministrativo - Riti - Cumulo rito ordinario e rito elettorale - Prevale il rito elettorale.

Enti locali - Comuni - Amministratori – Sospensione dalla carica – Art. 11, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 235 del 2012 – Per condanna in primo grado per abuso d'ufficio – Notifica dell’atto di accertamento – Non occorre - Ratio.

            Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo l’impugnazione dell’atto di nomina di un assessore da parte del Sindaco neo eletto che, condannato in primo grado per abuso d’ufficio, non poteva emettere alcun atto, in ragione della “sospensione di diritto”, trattandosi di atti autoritativi concernenti l’individuazione degli organi da investire di funzioni pubbliche, ai sensi dell’art. 7 c.p.a. (1).

        In assenza, nel comma 1 dell’art. 32 c.p.a., della disciplina dell’ipotesi di cumulo, nello stesso giudizio, di rito ordinario e di rito elettorale prevale il rito elettorale, ispirato ad una logica di particolare rapidità dei giudizi (2).

        La sospensione di diritto, prevista dall’art. 11, comma 5, d.lgs. 31 dicembre 2012, n. 235 per coloro che abbiano riportato in primo grado una condanna per il delitto di abuso d’ufficio, non presuppone che l’atto di accertamento sia notificato a chi versa in tale situazione, producendo tale sospensione effetto nel momento stesso in cui vi è la proclamazione degli eletti e inibendo l’esercizio delle pubbliche funzioni a chi sia stato già condannato in sede penale (3).


(1) Ha ricordato il Tar che la giurisdizione del giudice ordinario si radica sulle controversie aventi ad oggetto il provvedimento con cui il Prefetto, ai sensi dell’art. 11, comma 1, lett. a), d.lgs. 31 dicembre 2012, n. 235 accerta la sussistenza dei presupposti della sospensione di diritto, nei confronti di chi sia stato condannato in primo grado per uno dei delitti che comportino la medesima sospensione (Cass. civ., S.U., n. 11131 del 2015).

(2) Il comma 1 dell’art. 32 c.p.a. dispone che “1. È sempre possibile nello stesso giudizio il cumulo di domande connesse proposte in via principale o incidentale. Se le azioni sono soggette a riti diversi, si applica quello ordinario, salvo quanto previsto dal Titolo V del Libro IV”.
Ad avviso del Tar, nel silenzio della norma va infatti fatta applicazione del principio, affermato dal Consiglio di Stato (sez. V, 17 febbraio 2014, n. 755), secondo cui – quando una controversia comunque riguarda la materia elettorale - rileva la “necessità di definire rapidamente quali siano le autorità titolati di poteri pubblici nell’assetto costituzionale”: questo principio si applica anche quando sono stati contestualmente impugnati altri atti per illegittimità derivata, di cui si prospetti una sostanziale unicità procedimentale.  
(3) In altri termini, ad avviso del Tar, l’inibizione all’esercizio delle pubbliche funzioni non discende dall’atto del Prefetto (che accerta la sussistenza della causa di sospensione, al fine di renderlo noto “agli organi che hanno convalidato l’elezione o deliberato la nomina”), tanto che neppure l’atto va notificato all’interessato, ma dipende dalla preclusione derivante di per sé dalla condanna di primo grado. Diversamente opinando, e cioè se si ammettesse che, prima dell’emanazione dell’atto del Prefetto, il candidato risultato eletto possa porre in essere atti nella qualità conseguente alla proclamazione, si verificherebbe una elusione delle disposizioni dell’art. 11, d.lgs. n. 235 del 2012. Si ammetterebbe cioè che il candidato risultato eletto, pur se sospeso di diritto dall’esercizio delle funzioni, potrebbe ugualmente disporre una nomina di carattere fiduciario, di per sé avente una decisiva incidenza sulla designazione di tutti gli assessori, ciò che urterebbe con le ragioni poste a base della sospensione di diritto (cioè la sussistenza di una ‘indegnità’ tale da comportare l’assenza di un requisito essenziale per ricoprire l’ufficio, sulla base di una valutazione del legislatore, considerata ragionevole dalla Corte cost. con la sentenza n. 236 del 2015).


Dal sito del Consiglio di Stato:
https://www.giustizia-amministrativa.it/cdsintra/cdsintra/Approfondimenti/Giurisdizione/Comuni/TarReggioCalabria5ottobre2017n.862/index.html

venerdì 6 ottobre 2017




ARAN, Orientamento applicativo RAL_1945, del 27 settembre 2017, Mansioni superiori

In presenza di tutti i requisiti richiesti dall’art.52 del D.Lgs.n.165/2001 e dall’art.8 del CCNL del14.9.2000, è necessario, comunque, anche il consenso del lavoratore stesso?

In ordine a tale problematica, si ritiene utile precisare quanto segue.
Sulla base della disciplina dell’art.52 del D.Lgs.n.165/2001, l’assegnazione del lavoratore a mansioni superiori sembra configurarsi come manifestazione di un potere esercitabile in via unilaterale del datore di lavoro pubblico.
Infatti, sulla base della sua formulazione testuale, il comma 2 del suddetto art.52 del D.Lgs.n.165/2001 si presta ad essere interpretato nel senso di riconoscere a ciascun datore di lavoro pubblico un vero e proprio diritto potestativo in materia di attribuzione di mansioni superiori.
Si tratta di un potere che il legislatore assoggetta solo alla sussistenza delle specifiche condizioni espressamente previste dalla richiamata norma e cioè: a) le obiettive esigenze di servizio; b)  l’esigenza di copertura di una vacanza di posto in organico (per non più di sei mesi, prorogabili fino a dodici qualora siano state avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti) oppure quella di provvedere alla sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto.
In coerenza e nel rispetto di tale indicazione legislativa, l’art.3, comma 3, del CCNL del 31.3.1999, concernente il sistema di classificazione del personale del Comparto Regioni-Autonomie Locali, ha disposto che: “L’assegnazione temporanea di mansioni proprie della categoria immediatamente superiore costituisce il solo atto lecito di esercizio del potere modificativo. Essa, fino a diversa disciplina contrattuale, è regolata dai commi 2-4 dell’art. 56 del D.Lgs.n.29 del 1993 come modificato dal D.Lgs.n.80 del 1998 (il riferimento deve essere inteso all’attuale art.52 del D.lgs.n.165/2001).
L’art.8 del CCNL del 14.9.2000, poi, disciplina in modo specifico e dettagliato la materia delle mansioni superiori, dando attuazione diretta alle previsioni sia dell’art.52 del D.lgs.n.165/2001 che dell’art.3, comma 3, del CCNL del 31.3.1999 e senza disporre, rispetto a quelli legali, alcun ulteriore limite o vincolo in materia al potere modificativo del datore di lavoro pubblico.
Ad ulteriore conferma dell’unilateralità del potere modificativo di cui si tratta, infine, si può evidenziare che la complessiva regolamentazione dell’assegnazione a mansioni superiori del dipendente, di fonte sia legislativa che contrattuale, pure essendo articolata e particolareggiata, non richiede mai formalmente ed espressamente il preventivo consenso del dipendente stesso.
Per completezza, informativa, comunque, si deve anche evidenziare che, con riferimento al mondo del lavoro privato, la Corte di Cassazione, in presenza di particolari fattispecie, si è pronunciata nel senso della ammissibilità del rifiuto del lavoratore di espletare mansioni superiori a quelle della qualifica di inquadramento (ad es. Cass. 12 febbraio 2008, n. 3304; Cass. 19 luglio 2013, n. 17713; Cass. 7 ottobre 2016, n. 20222).





Corte Dei Conti – Sezione giurisdizionale per l’Emilia Romagna 26 settembre 2017, n. 187, Riunioni della Giunta Comunale

Se il principio fondamentale nell'esercizio dell'attività giurisdizionale della Corte dei conti, costituito dall'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali, previsto dall'art. 1, comma 1, l. 20/1994, non legittima l'esistenza di un perimetro insondabile dell'attività ammnistrativa, ben potendo il Giudice Contabile sottoporre a sindacato giurisdizionale l'agire amministrativo sotto il profilo della logicità e della ragionevolezza, nondimeno, nell'ambito del governo di un ente locale, la scelta di convocare la giunta comunale costituisce l'espressione di un atto politico, che attiene all'autonomia dell'ente in questione, e che concerne non solo il contenuto discrezionale dell'attività amministrativa degli enti pubblici, ma anche le modalità di organizzazione di tale attività al loro interno. Ne consegue che non spetta al Giudice Contabile verificare nel singolo dettaglio, mediante una valutazione del tutto inopportuna dell'aderenza degli ordini del giorno all'attività istituzionale o con un esame contenutistico dei singoli verbali dell'organo di governo dell'ente, se le singole sedute della giunta siano state conformi alle esigenze della collettività amministrata o se siano stati strumentali al conseguimento del vantaggio economico costituito dalla somma in denaro riconosciuta dal suo datore di lavoro pubblico in occasione di detti impegni.


SENTENZA

nel giudizio di responsabilità iscritto al n. 44567 proposto ad istanza del Procuratore Regionale presso la Sezione Giurisdizionale per la Regione Emilia Romagna della Corte dei conti nei confronti di V.M., B.A. e M.A.;

Visto l'atto di citazione;

Visti gli altri atti e documenti di causa;

Uditi nella pubblica udienza del 28 giugno 2017 OMISSIS;

 MOTIVAZIONE

1. Con atto di citazione regolarmente notificato la Procura Regionale cita in giudizio V.M., in qualità di sindaco di M., B.A. e M.A, dipendenti comunali, per sentirli condannare al risarcimento del danno erariale pari ad euro 94.887,54, nella misura del 40% per V.M. e del 30% ciascuna per B.A. e M.A.

1.1 La Procura attrice ritiene che V.M., dipendente della Regione Emilia Romagna, avesse fatto indebito uso dei permessi retribuiti ex art. 79 T.U.E.L., e in particolare per aver pianificato riunioni della giunta comunale asseritamente non necessarie e in orari coincidenti con il lavoro principale; per aver fruito di permessi retribuiti per un numero di ore superiore all'effettiva durata delle riunioni di giunta comunale; per non aver documentato le predette attività; per aver partecipato alle riunioni del consiglio di amministrazione della B.R. utilizzando permessi riservati all'attività istituzionale del Comune di M..

1.2 Secondo l'accusa il V. avrebbe indetto delle riunioni di giunta informali o non deliberative, attestando una durata superiore a quella effettiva e, in più occasioni, avrebbe fruito di permessi generici omettendo di documentare la causa giustificatrice dell'assenza e l'inerenza al mandato istituzionale. In tal senso l'attrice contesta al convenuto la regolarità di una serie di permessi ottenuti sia ai sensi dell'art. 79, comma 3, T.U.E.L. (per consentire le riunioni di giunta), sia ai sensi dell'art. 79, comma 4, T.U.E.L. (permessi generici retribuiti). Dette condotte illecite si sarebbero consumate tra ottobre 2009 e maggio 2014.

1.3 A riprova dell'inutilità delle riunioni di giunta, la Procura Regionale riporta le dichiarazioni di F.M. e M.M., rispettivamente ex vicesindaco ed ex assessore del Comune di M., secondo i quali una riunione di giunta a settimana, anziché due, sarebbe stata sufficiente per svolgere l'attività istituzionale. Riporta altresì la dichiarazione del segretario comunale in servizio all'epoca dei fatti, secondo il quale le riunioni sarebbero durate mediamente due ore o due ore e mezza. La Procura rileva, inoltre, come le ore richieste dal V. fossero superiori al necessario in quanto, a suo dire, il tempo medio di percorrenza secondo un percorso automobilistico tra M. e la sede della Regione Emilia Romagna a Bologna (dove il convenuto prestava la sua attività lavorativa) non supererebbe i quarantacinque minuti totali, consentendo, in tal modo, di essere presente in servizio nelle due ore di orario pomeridiano dopo le riunioni antimeridiane della giunta comunale.

1.4 La Procura contesta il danno erariale anche alle convenute B. e M. per aver certificato, in concorso con il V., la partecipazione alle riunioni di giunta o altri impegni afferenti al mandato elettivo in assenza di attestazioni ufficiali. In particolare B.A., appartenente al servizio staff del comune di M., avrebbe attestato la presenza del sindaco V. alle riunioni di giunta o ad impegni connessi al mandato elettivo contribuendo, con la sua condotta, a procurare un profitto in vantaggio del V. per euro 31.967,44, in danno della Regione Emilia Romagna. Per quanto riguarda M.A., anch'essa del servizio staff, avrebbe consentito un ingiusto profitto al V. per euro 47.299,06 in danno dell'ente regionale per il quale il sindaco aveva mantenuto il contratto di lavoro pubblico subordinato.

1.5 In conclusione la Procura Regionale contesta un danno erariale complessivo alla Regione Emilia Romagna pari ad euro 94.887,54, ripartita tra i convenuti secondo le citate percentuali, corrispondente alla somma degli importi percepiti da V. Massimiliano ai sensi dell'art. 79, commi 3 e 4, T.U.E.L. per permessi retribuiti riscossi in costanza del mandato di sindaco del Comune di M., ritenuti dall'attrice indebiti.


2. Si costituisce V. M., eccependo, in via preliminare, la prescrizione del danno, e constatando l'insussistenza dell'elemento materiale dell'illecito.

2.1 Rileva come non sia sindacabile in sede giurisdizionale l'atto politico del numero delle convocazioni di giunta comunale, che rientrerebbe nell'autonomia organizzativa. Respinge le accuse circa la convocazione di riunioni di giunta informali o non deliberative, posto che tutte le riunioni di giunta consentono la fruizione dei permessi in contestazione. Afferma che rientrava nei suoi poteri, previsti anche dallo statuto dell'ente locale, la possibilità di convocare, anche informalmente, la giunta del Comune di M.. Rileva, altresì, l'assurdità del calcolo effettuato per stabilire gli orari per rientrare al lavoro. Ritiene non provata la colpa grave, e chiede il rigetto delle domande.


3. Si costituisce in giudizio B.A. eccependo l'intervenuta prescrizione. Osserva che non ha mai rivestito il ruolo di Responsabile del Settore, e che tutte le attestazioni erano trasmesse al Segretario comunale. Ritiene non provata la colpa grave.


4. Si costituisce in giudizio M.A. eccependo la nullità della citazione ex art. 87 c.g.c. per difformità rispetto all'invito a dedurre. Chiede la sospensione del giudizio in attesa della conclusione del corrispondente giudizio penale. Nel merito rileva come tutte le sedute di giunta, oggetto di contestazione alla M., si siano svolte alla presenza del segretario comunale che non eccepì mai il carattere "non deliberativo" delle sedute. Osserva altresì che la Regione ha sempre ritenuto sufficienti le attestazioni prodotte dal V., senza mai richiedere integrazioni o altro. Conclude chiedendo il rigetto della domanda o l'esercizio del potere riduttivo.


5. All'udienza del 28 giugno 2017 il Collegio, a fronte della richiesta del rinvio proposta da B.A. per motivi di salute, ha disposto la prosecuzione del giudizio trattandosi di convenuta regolarmente costituita in giudizio e rappresentata da difensori presenti in aula. Il Pubblico Ministero ha insistito per le proprie conclusioni, mentre l'Avv. A. Carullo per V. M. ha insistito sull'eccezione di prescrizione e, nel merito, sul rigetto per assenza di colpa grave. L'Avv. A. Montanari per B.A. e l'Avv. T. Zambelli per M.A. si sono riportati alle conclusioni espresse nei rispettivi scritti difensivi.  


6. Il Collegio ritiene di affrontare direttamente il merito della questione sottoposto al suo giudizio, prescindendo dallo scrutinio dell'eccezione di prescrizione, sollevata da V.M., in base al principio di effettività e celerità della tutela processuale (Cass. SS.UU. n. 9936/2014).

6.1 Si ritiene, infatti, che la domanda attorea sia infondata, con ciò rendendo priva d'interesse la valutazione, in via preliminare, dell'eccepita prescrizione.
La tesi accusatoria presuppone che il V. abbia volontariamente convocato riunioni della giunta municipale senza precise motivazioni o senza particolari oggetti all'ordine del giorno al solo scopo di percepire il corrispettivo del permesso retribuito dal posto di lavoro presso l'ente regionale, o che abbia partecipato ad attività, quali i consigli di amministrazione della B.R., a titolo personale pur richiedendo il permesso retribuito al datore di lavoro pubblico.

6.2 Principio fondamentale nell'esercizio dell'attività giurisdizionale della Corte dei conti è l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali, previsto dall'art. 1, comma 1, legge n. 20/1994.
Il principio in questione non può, certamente, legittimare l'esistenza di un perimetro insondabile dell'attività ammnistrativa, ben potendo il Giudice Contabile sottoporre a sindacato giurisdizionale l'agire amministrativo sotto il profilo della logicità e della ragionevolezza (Corte dei conti, Sez. II App., n. 296/2015).
Tuttavia appare evidente che, nell'ambito del governo di un ente locale, la scelta di convocare la giunta comunale costituisca l'espressione di un atto politico, che attiene all'autonomia dell'ente in questione.
Infatti il predetto principio generale deve riguardare non solo il contenuto discrezionale dell'attività amministrativa degli enti pubblici, ma anche le modalità di organizzazione di tale attività al loro interno.
Ne consegue che non spetta al Giudice Contabile verificare nel singolo dettaglio, mediante una valutazione del tutto inopportuna dell'aderenza degli ordini del giorno all'attività istituzionale o con un esame contenutistico dei singoli verbali dell'organo di governo dell'ente, se le singole sedute della giunta del Comune di M. siano state conformi alle esigenze della collettività amministrata o se siano stati strumentali al conseguimento, da parte di V. M., del vantaggio economico costituito dalla somma in denaro riconosciuta dal suo datore di lavoro pubblico in occasione di detti impegni.
Nulla, sotto il profilo della possibile irragionevolezza della volontà di riunire la giunta senza particolari motivi, ha provato la Procura Regionale.
La tesi accusatoria, infatti, non si è sviluppata oltre una prospettazione, sia pure suggestiva, di una condotta del V. finalizzata alla riscossione di benefici non giustificati. Infatti le dichiarazioni riportate in citazione dell'ex vicesindaco F.M. e dell'ex assessore M.M., in base alle quali sarebbe genericamente stato sufficiente riunire la giunta una sola volta a settimana, sono da considerarsi delle valutazioni meramente soggettive, che ben poco hanno a che fare con il concetto di prova processuale.

6.3 Privo di ogni valenza probatoria appare altresì la valutazione sulla durata oraria delle singole sedute di giunta comunale che, secondo l'accusa, si sarebbero potute concludere ad orari compatibili con la prosecuzione dell'orario di servizio, presso la Regione Emilia Romagna, di V.M..
Infatti non sembra, a giudizio del Collegio, che la stima della durata possibile delle riunioni per consentire l'accesso agli uffici dell'ente regionale in orari pomeridiani possa in qualche modo costituire un parametro di correttezza della condotta del V., posto che trattasi di apprezzamento estremamente discrezionale, non riscontrabile in concreto, e frutto di artificiose quanto indimostrate ricostruzioni del percorso e del traffico automobilistico lungo il tragitto fino alla sede regionale di Bologna da parte attrice.
Per quanto riguarda la partecipazione del V. alle riunioni del consiglio di amministrazione di B.R., questo Collegio non può che constatare la diretta connessione del predetto consesso alla carica elettiva, in quanto il convenuto vi si recava quale legale rappresentante del Comune di M., e non quale privato cittadino o diretto interessato.
In conclusione non sembra, a giudizio del Collegio, che siano stati dimostrati i presupposti della responsabilità amministrativa nei confronti del convenuto V., sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo.
Il rigetto delle domande attoree nei confronti del convenuto principale rende indimostrata, per assoluta consequenzialità, le domande formulate nei confronti delle convenute B. e M., alle quali non può essere imputato alcun addebito.
Liquida il compenso in favore di ciascuna difesa, a carico della Regione Emilia Romagna, nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.


La Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Emilia Romagna, definitivamente pronunciando, respinge la domanda attorea.

Liquida a carico della Regione Emilia Romagna il compenso in favore di ciascuna difesa dei convenuti in misura pari a euro 3.800,00, oltre  al 15% del predetto compenso per spese forfettarie.

Oneri come per legge.

Manda alla Segreteria per i conseguenti adempimenti.

Così deciso in Bologna nella camera di consiglio del 28 giugno 2017.        

mercoledì 4 ottobre 2017



PANOZZO, Immigrazione – Significativi interventi delle sezioni penali della Corte di Cassazione nel 2016


https://www.diritto.it/immigrazione-significativi-interventi-delle-sezioni-penali-della-cassazione-nel-2016/