lunedì 29 maggio 2017





Sulla ‘valenza’ della tessera elettorale e sulle modalità di rilascio del duplicato


Cons. di Stato, III,  maggio 2017

La tessera elettorale e, di conseguenza, il suo duplicato, costituiscono una mera certificazione del diritto al voto che è direttamente riconosciuto dalla legge, funzionale a costituire un titolo di legittimazione agevolmente verificabile in sede di ammissione dell’elettore all’esercizio del diritto di voto. Nulla di più. Da ciò deriva, che, una volta che l’elettore è stato ammesso all’esercizio del diritto di voto, la funzione certificatoria della tessera raggiunge definitivamente le sue finalità ed esaurisce i suoi effetti, talché l’esistenza di eventuali irregolarità nel procedimento di rilascio, che non siano tali da mettere in dubbio il diritto di elettorato attivo, non ha alcuna refluenza sulla validità del voto [in ordine alle contestazioni del ricorrente sulla quantità e sulle modalità di rilascio dei duplicati delle tessere elettorali (“per le suddette elezioni, avrebbe rilasciato un numero elevato di duplicati delle tessere elettorali, e precisamente 1.164, in violazione dell’art. 4 del d.P.R. 8 settembre 2000, n. 299. Sul totale di n. 1164 richieste, infatti, ben 1094 non conterrebbero alcuna specificazione della motivazione richiesta, delle 70 dotate di specificazione del motivo, ben 20 sarebbero state ritirate da terzi senza delega, 966 non accluderebbero le vecchie tessere (esaurite o deteriorate, ecc.), delle 198 richieste con allegate le vecchie tessere, ben 34 sarebbero state ritirate da terzi senza delega, 55 recherebbero la specificazione di smarrimento/furto, ma sarebbero prive di dichiarazione sostitutiva e/o denuncia, 256 sarebbero state esitate con consegna di duplicati a terzi (di cui solo 182 con specificazione del rapporto con il richiedente), ma senza alcuna delega”), il Collegio condivide l’arresto del giudice di primo grado: “anche in mancanza di specificazione della motivazione per la quale il duplicato è richiesto, è ragionevole presumere, salva prova contraria, che la ragione della richiesta sia lo smarrimento dell’originale. Anche la mancata allegazione della copia fotostatica del documento di identità alla richiesta di duplicato è giustificabile dal fatto che la dichiarazione è stata resa davanti al funzionario incaricato della relativa ricezione (come dimostra il timbro e la sigla in calce alle richieste). E’ altresì plausibile – come sostenuto dall’amministrazione, ed in assenza di prova contraria - che i duplicati siano stati ritirati da familiari o conviventi noti all’Ufficio elettorale, trattandosi di Comune di piccole dimensioni”]



FATTO e DIRITTO
1.Il giorno 5 giugno 2016 si sono svolte nel Comune di V. le elezioni amministrative per il rinnovo del Sindaco e del Consiglio comunale, elezioni cui hanno partecipato 5 liste, riportanti, all’esito dello scrutinio: lista “V. sei Tu! N. Sindaco”, voti 2.641, pari al 32%, lista “C. Sindaco Si!” voti 2.589, pari al 31,74%, lista “F. R. Sindaco”, voti 1.967, lista “M.”, voti 863, lista “N.”, voti 96.
2. Il sig. C., odierno appellante, ha chiesto al Tar Puglia l’annullamento dell’intero procedimento elettorale, sul presupposto che il Comune di V., per le suddette elezioni, avrebbe ilasciato un numero elevato di duplicati delle tessere elettorali, e precisamente 1.164, in violazione dell’art. 4 del d.P.R. 8 settembre 2000, n. 299. Sul totale di n. 1164 richieste, infatti, ben 1094 non conterrebbero alcuna specificazione della motivazione richiesta, delle 70 dotate di specificazione del motivo, ben 20 sarebbero state ritirate da terzi senza delega, 966 non accluderebbero le vecchie tessere (esaurite o deteriorate, ecc.), delle 198 richieste con allegate le vecchie tessere, ben 34 sarebbero state ritirate da terzi senza delega, 55 recherebbero la specificazione di smarrimento/furto, ma sarebbero prive di dichiarazione sostitutiva e/o denuncia, 256 sarebbero state esitate con consegna di duplicati a terzi (di cui solo 182 con specificazione del rapporto con il richiedente), ma senza alcuna delega.
3.Il TAR ha respinto il ricorso, affermando che “le censure sollevate dai ricorrenti integrano tutt’al più gli estremi di mere irregolarità nel rilascio dei duplicati che non possono portare all’annullamento dell’intero procedimento elettorale, incidendo così su un diritto avente rilevanza costituzionale (art. 48 Cost.), qual è il diritto di voto. In ogni caso, si osserva che dal modello di richiesta di duplicato allegato al ricorso emerge che lo stesso contiene la dichiarazione sostitutiva di cui al d.P.R. n. 445 del 28 dicembre 2000 “consapevole delle sanzioni penali, nel caso di dichiarazioni non veritiere, di formazione o uso di atti falsi, richiamate dall’art. 76 del d.P.R. 445 del 28 dicembre 2000”.
E’ vero che nel modello allegato il richiedente non ha indicato la ragione per la quale ha richiesto il duplicato, crocettando la relativa casella, ma, non avendo allegato la tessera elettorale vecchia, come hanno osservato gli stessi ricorrenti a pagina 14 del ricorso, si può presumere che le ragioni della richiesta siano lo smarrimento o il furto della tessera medesima.
Il Comune di V., inoltre, ha spiegato che la mancata allegazione della copia fotostatica del documento di identità alla richiesta di duplicato sarebbe giustificata dal fatto che la dichiarazione è stata resa davanti al funzionario incaricato della relativa ricezione (come dimostrerebbe il timbro e la sigla in calce alle richieste) e che i duplicati sono stati ritirati o dagli interessati ovvero dai conviventi noti all’Ufficio trattandosi di Comune di piccole dimensioni
4.Il ricorrente ha proposto appello. Deduce di avere specificato più volte che il numero di coloro che hanno votato illegittimamente é talmente alto, vieppiù se rapportato allo scarso margine tra la lista vincitrice e quella di “C. Sindaco Si!”, da non poter rimane privo di incidenza sul risultato finale. Diversamente da quanto ritenuto dal Giudice di primo grado, nel caso di specie, il vizio inficerebbe proprio l'espressione del voto, nel senso, cioè, che l'elettore avrebbe votato esibendo un titolo, la tessera elettorale, rilasciata in violazione dell'art. 4 del D.P.R. 8.9.2000 n. 299.
5. Nel giudizio si sono costituiti il Comune di V. ed il controinteressato, N.. Osservano, i particolare, le parti resistenti, che anche a prescindere dalla validità delle tessere elettorali giusto quanto già affermato dal Tar, la validità o meno dell’attestazione non interferirebbe comunque con il diritto al voto dell’elettore e con la validità del voto dal medesimo espresso.
6.La causa è stata trattenuta in decisione alla pubblica udienza del 4 maggio 2017.
7. Ritiene il Collegio che l’appello non sia fondato.
7.1. Sono del tutto condivisibili le argomentazioni e le coerenti statuizioni adottate dal Giudice di prime cure. In sintesi, anche in mancanza di specificazione della motivazione per la quale il duplicato è richiesto, è ragionevole presumere, salva prova contraria, che la ragione della richiesta sia lo smarrimento dell’originale. Anche la mancata allegazione della copia fotostatica del documento di identità alla richiesta di duplicato è giustificabile dal fatto che la dichiarazione è stata resa davanti al funzionario incaricato della relativa ricezione (come dimostra il timbro e la sigla in calce alle richieste). E’ altresì plausibile – come sostenuto dall’amministrazione, ed in assenza di prova contraria - che i duplicati siano stati ritirati da familiari o conviventi noti all’Ufficio elettorale, trattandosi di Comune di piccole dimensioni.
7.2. L’appellante, tuttavia, insiste molto sulla valenza dell’art. 4 del d.P.R. 8 settembre 2000, n. 299, e contesta la sussunzione, come operata dal primo giudice, dei vizi derivanti dalla violazione delle modalità dallo stesso disciplinate, nell’ambito della fattispecie della “mera irregolarità”.
In sostanza, anche a voler ammettere che i vizi siano solo procedimentali e non pongano in discussione il diritto d’elettorato attivo, non potrebbe revocarsi in dubbio – secondo l’appellante -che comunque una violazione di legge v’è stata e che essa ha riguardato il documento che l’elettore deve esibire per poter esercitare il voto.
7.3.Il Collegio ritiene che trattasi di una suggestione da respingere. Ciò che rileva è il nesso tra il procedimento di rilascio del duplicato della tessera elettorale e la validità del voto espresso dall’elettore che quel duplicato ha ottenuto sulla base di una incompleta o irregolare formulazione della domanda, o comunque, in violazione di norme procedimentali prescritte dalla legge che non attengano alla sussistenza del diritto di elettorato attivo.
7.3.1.V’è senz’altro un rapporto di connessione fra le due fattispecie, ma esso non è tale da determinare l’invalidità del voto espresso dall’elettore ammesso al seggio sulla base della presunzione di validità della tessera posseduta. La tessera elettorale, e di conseguenza il suo duplicato, costituiscono infatti una mera certificazione del diritto al voto che è direttamente riconosciuto dalla legge, funzionale a costituire un titolo di legittimazione agevolmente verificabile in sede di ammissione dell’elettore all’esercizio del diritto di voto. Nulla di più.
7.3.2.Al riguardo si osserva, con il conforto della giurisprudenza assolutamente univoca, che la tessera elettorale, introdotta dall' art. 13 della Legge n. 120 del 1999, "riflette l'iscrizione del cittadino nelle liste elettorali e, come tale, è conseguentemente idonea a dimostrare l'iscrizione medesima” (cfr. Cons. St., V, 23.3.2004 n. 1542). Essa è destinata a svolgere la stessa funzione del certificato elettorale o, come più specificamente si esprime l'art. 1 del regolamento attuativo del predetto art. 13, approvato con D.P.R. n. 299 del 2000 "sostituisce integralmente e svolge le medesime funzioni del certificato elettorale". Il regolamento, al successivo secondo comma dell’art. citato, ulteriormente precisa che "la esibizione della tessera elettorale presso la sezione elettorale di votazione è necessaria, unitamente ad un documento di identificazione, per l'ammissione dell'elettore all'esercizio di voto in occasione di ogni consultazione elettorale o referendaria"
7.4. Da ciò deriva, che una volta che l’elettore è stato ammesso all’esercizio del diritto di voto la funzione certificatoria della tessera raggiunge definitivamente le sue finalità ed esaurisce i suoi effetti, talchè l’esistenza di eventuali irregolarità nel procedimento di rilascio, che non siano tali da mettere in dubbio il diritto di elettorato attivo, non ha alcuna refluenza sulla validità del voto.
7.5. Nel caso di specie, l’appellante, pur perorando l’esistenza di un nesso di collegamento invalidante, non contesta affatto il diritto di elettorato attivo in capo agli elettori ammessi al voto.
7.6. E del resto, ove ciò avesse fatto, della questione non avrebbe potuto conoscere il giudice amministrativo. E’ noto infatti che in tema di contenzioso elettorale, “le controversie aventi ad oggetto, in modo diretto, l'accertamento della titolarità o meno del diritto di elettorato attivo in capo alle persone ammesse alla votazione, sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, quale che sia la natura (pubblica o privata) dell'ente interessato, atteso che i diritti di elettorato rilevano quali diritti soggettivi pubblici e, in quanto tali, non possono essere degradati dalla Pubblica Amministrazione” (così Cass. civ. Sez. Unite, 12-03-2003, n. 3601).
8.L’appello è pertanto respinto.
9.Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna l’appellante alla refusione delle spese di lite sostenute dalle parti resistenti, forfettariamente liquidate in €. 1500 (millecinquecento), oltre oneri di legge, a favore di ciascuna delle parti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

venerdì 26 maggio 2017






Tar Veneto 15 maggio 2017, n. 471

La regola che impone la composizione della Commissione di gara pubblica con un numero dispari di componenti (nella specie: non superiore a cinque) – già presente nell’art. 21, c. 5, della l. 109/1994,  poi ribadita dall’art. 84, c. 2, del d.lgs. 163/2006, ed ora riaffermata categoricamente e senza deroghe di sorta dall’art. 77, c. 2, del d.lgs. 50/2016 - risponde agli obiettivi di garantire il computo del quorum strutturale e soddisfare le necessità di funzionamento del principio maggioritario ed è coerente con il principio in base al quale i collegi perfetti (com’è la Commissione di gara) sono sempre composti da un numero dispari di membri




Inquadramento penale della (falsa) autocertificazione

Cass. pen.  24 maggio 2017 (ud. 7 febbraio 2017)  n. 25927

Dal fatto che la stessa legge sulla documentazione amministrativa attribuisca  alle autodichiarazioni, disciplinate dagli articoli 46 e 47 del T.U. 445/2000, la qualità di atti pubblici, deriva l'illiceità penale, da inquadrare in una delle fattispecie astratte previste dal codice in tema di falsità in atti pubblici, nel caso in cui il privato rilasci una dichiarazione falsa, ai sensi delle norme suddette [il S.C., respinge la motivazione del Gup – a supporto dell’assoluzione dell’imputato “per il delitto di cui agli artt. 76 dpr 445/2000 in relazione all'art 483 cp, per la falsa dichiarazioni sostitutiva dell'atto notorio sul reddito familiare allo scopo di ottenere un assegno familiare … perché il fatto non è previsto come reato” – (motivazione) postasi  “consapevolmente in difformità del consolidato orientamento di questa Corte, che ha considerato come il primo comma dell'art 76 dpr 445/00 delinei autonomamente una condotta penalmente rilevante, facendo rinvio al codice penale ed alle leggi speciali al solo fine di individuare la sanzione applicabile. Secondo il Giudice  … la predetta disposizione conterrebbe, invece, una norma di mero rinvio alle fattispecie previste dal codice penale e da leggi speciali, ponendosi in caso di diversa interpretazione un problema di costituzionalità per difetto di tassatività e determinatezza. Per altro verso la falsa asserzione in una dichiarazione sostitutiva di atto notorio non integrerebbe il delitto ex art 483 cp per mancanza del requisito di essere rilasciata in atto pubblico”]

Il rinvio alle norme del codice penale contenuto nell'art 76 dpr 445/2000 non prevede un'espressa delimitazione al solo trattamento sanzionatorio ma deve ritenersi formulato anche con riguardo alla parte precettiva, in maniera tale da richiedere all'interprete l'adattamento della fattispecie integrata dalla falsa dichiarazione in una delle ipotesi previste dalle disposizioni incriminatrici del codice penale e/o delle leggi speciali in materia


OMISSIS

RITENUTO IN FATTO

Con la sentenza impugnata il Gup di Palermo, investito della richiesta di decreto penale per il delitto di cui agli artt. 76 dpr 445/2000 in relazione all'art 483 cp, per la falsa dichiarazioni sostitutiva dell'atto notorio sul reddito familiare allo scopo di ottenere un assegno familiare, ha assolto l'imputato perché il fatto non è previsto come reato. La motivazione si è posta consapevolmente in difformità del consolidato orientamento di questa Corte, che ha considerato come il primo comma dell'art 76 dpr 445/00 delinei autonomamente una condotta penalmente rilevante, facendo rinvio al codice penale ed alle leggi speciali al solo fine di individuare la sanzione applicabile. Secondo il Giudice palermitano la predetta disposizione conterrebbe, invece, una norma di mero rinvio alle fattispecie previste dal codice penale e da leggi speciali, ponendosi in caso di diversa interpretazione un problema di costituzionalità per difetto di tassatività e determinatezza. Per altro verso la falsa asserzione in una dichiarazione sostitutiva di atto notorio non integrerebbe il delitto ex art 483 cp per mancanza del requisito di essere rilasciata in atto pubblico.

1. Avverso la decisione ha proposto ricorso il PG presso la Corte d'Appello, che ha sottolineato come la falsa dichiarazione sostitutiva dell'atto notorio sia di valore squisitamente pubblicistico. Tuttavia ha posto in luce che, secondo il prevalente insegnamento di questa Corte, la norma ex art 76 dpr 445/00 delinea un'autonoma condotta criminosa ed in tal senso ha sollecitato questo Giudice di legittimità a verificare i presupposti di rilevanza e non manifesta infondatezza, a causa della quasi impossibilità di individuare di volta in volta la norma applicabile, quindi, in violazione dei principi di tassatività e determinatezza.
All'odierna udienza il PG, dr Salzano, ha concluso per l' annullamento con rinvio.


CONSIDERATO IN DIRITTO


Il ricorso è fondato.

1.Il percorso logico-giuridico seguito dal Gup palermitano per giungere alla conclusione che il fatto di aver affermato il falso nella dichiarazione sostitutiva resa ai sensi dell'art 47 dpr 445/2000, rubricato ai sensi dell'art 76 dpr 445/200 in relazione all'art 483 cp, non costituisce reato, è fondato su due considerazioni.

1.1La prima è che la disposizione di cui all'art 76 del medesimo dpr, che prevede la sanzione penale per "chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso nei casi previsti dal presente decreto", costituisca solo una norma di mero rinvio alle fattispecie incriminatrici previste dal codice penale e dalle leggi speciali. Se non fosse questa la natura della norma il semplice rinvio al codice penale ed alle leggi speciali sarebbe talmente generico da far dubitare della costituzionalità della disposizione, per difetto di tassatività e determinatezza, quantomeno con riferimento alla pena applicabile.

1.2 La seconda considerazione, collegata alla precedente, è che, secondo l'opinione del Giudice a quo, la falsa affermazione contenuta in una dichiarazione sostitutiva di atto notorio resa ai sensi degli artt 46 e 47 del dpr 445/2000, definibile sinteticamente falsa autodichiarazione, non possa integrare la fattispecie astratta di cui all'art 483 cp, poiché in essa mancherebbe il requisito di essere resa in un atto pubblico. A conferma di tale assunto ha sostenuto il Gup che questa Corte non avrebbe mai affermato apertamente che la dichiarazione sostitutiva di atto notorio sia un atto pubblico, citando in proposito giurisprudenza molto antica (Cass Pen 24.2.1983, n 4135). Ha aggiunto che l'affermazione contenuta nell'art 76 comma 3 dpr 445/2000, secondo la quale le dichiarazioni rese ex artt 46 e 47 del medesimo dpr si considerino rese al pubblico ufficiale, non sarebbe sufficiente per considerarle rese in un atto pubblico.

2.In contrario va osservato che da lungo tempo si è formato e consolidato l'orientamento di questa Corte secondo il quale il delitto di falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico (art. 483 cod. pen.) è configurabile solo nei casi in cui una specifica norma giuridica attribuisca all'atto la funzione di provare i fatti attestati dal privato al pubblico ufficiale, così collegando l'efficacia probatoria dell'atto medesimo al dovere del dichiarante di affermare il vero. Sez. U, Sentenza n. 28 del 15/12/1999 Ud. Rv. 215413. Tale principio è stato ripreso e confermato da una pluralità di pronunzie : N. 17363 del 2003 Rv. 224750, N. 5365 del 2008 Rv. 239110, N. 4970 del 2012 Rv. 251815, N. 23587 del 2013 Rv. 256259, N. 18279 del 2014 Rv.259883;Sez. 5, Sentenza n. 39215 del 04/06/2015 Ud.(dep. 28/09/2015 )Rv. 264841. Tra queste alcune hanno preso in considerazione la fattispecie oggetto di ricorso ex art. 76 d.P.R. n. 445 del 2000 in relazione all'art. 483 cod. pen. Così Sez. 5, Sentenza n. 16275 del 16/03/2010 Ud. (dep. 26/04/2010) Rv. 247260 : integra il delitto di falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico la condotta di colui che, in sede di dichiarazione sostitutiva di atto notorio resa ai sensi dell'art. 47 d.P.R. n. 445 del 2000, allegata ad istanza preordinata ad ottenere il passaporto, attesti falsamente di non avere mai riportato condanne penali. E' stato, inoltre, osservato che l'atto disciplinato dalle norme di cui agli artt 46 e 47 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa è per sua natura "destinato a provare la verità" dei fatti in esso affermati, che concernono fatti, stati  e qualità personali. Sez. 5, Sentenza n. 38748 del 09/07/2008 Ud.(dep. 14/10/2008 )Rv. 242324: integra il reato previsto dall'art. 483 cod. pen. la condotta del privato che renda, a norma degli artt. 46 e 76 del D.Lgs. n. 445 del 2000, falsa dichiarazione circa stati, qualità personali e fatti per conseguire l'esenzione dal contributo alla spesa sanitaria.

2.1 Dalla citata giurisprudenza si ricava che la riflessione di questa Corte ha individuato la natura pubblica dell'atto di cui all'art 483 cp solo nei casi in cui una specifica norma attribuisca all'atto stesso la funzione di provare i fatti attestati dal privato al pubblico ufficiale, collegandone l'efficacia probatoria al dovere del dichiarante di affermare il vero; con riguardo al caso per cui è ricorso, delle dichiarazioni sostitutive di atto notorio rilasciate ai sensi degli artt 46 e 47 dpr 445/2000 - autodichiarazioni - la natura pubblica dell'atto è stata desunta anche dalla sua naturale destinazione a provare la verità dei fatti in esso affermati, a sua volta ricavabile dalla funzione di comprovare stati, qualità personali e fatti, che le due disposizioni in parola assegnano alle dichiarazioni sostitutive di atti notori e di certificazioni.

2.2 Del resto, a stare alla lettera della legge, secondo la quale "le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli artt 46 e 47 sono considerate come fatte a pubblico ufficiale" e considerato il tenore letterale dell'art 2699 cod civ, che definisce la nozione di atto pubblico in riferimento al soggetto che lo emana secondo le previste formalità, notaio o altro pubblico ufficiale, ed al potere conferitogli ad attribuirgli pubblica fede, deve osservarsi che la stessa legge sulla documentazione amministrativa vuole attribuire alle suddette autodichiarazioni la qualità di atti pubblici; ne deriva, pertanto, l'illiceità penale, da inquadrare in una delle fattispecie astratte previste dal codice in tema di falsità in atti pubblici, nel caso in cui il privato rilasci una dichiarazione, ai sensi degli artt. 46 e 47, che sia falsa.

2.3 Le sovrabbondanti e tortuose argomentazioni del Giudice del merito hanno il difetto di trascurare l'interpretazione letterale della legge, nella fattispecie art 76 comma 3 del TU, canone ermeneutico prioritario per l'interprete, seguendo la quale sembra chiaro che il significato da attribuire alla disposizione incriminatrice è quello di includere le dichiarazioni rese ai sensi degli artt. 46 e 47 del dpr 445/2000 nel numero degli atti pubblici; nel caso concreto il risultato di tale interpretazione è arricchito in senso confermativo dalla ponderazione della ragione giustificatrice delle norme di riferimento, individuabile nella già evidenziata destinazione probatoria.

3.Quanto alla prospettata incostituzionalità della norma in questione deve ribadirsi quanto già affermato da questa stessa Sezione nella sentenza 2978 del 2009, secondo la quale il rinvio alle norme del codice penale contenuto nell'art 76 dpr 445/2000 non prevede un'espressa delimitazione al solo trattamento sanzionatorio ma deve ritenersi formulato anche con riguardo alla parte precettiva, in maniera tale da richiedere all'interprete l'adattamento della fattispecie integrata dalla falsa dichiarazione in una delle ipotesi previste dalle disposizioni incriminatrici del codice penale e/o delle leggi speciali in materia.

3.1 L'interpretazione che questa Corte ha dato della norma in parola - della quale sono stati citati innanzi una pluralità di esempi con riguardo all'art 483 cp - corrisponde alla generale indicazione proveniente dal Giudice delle leggi, secondo la quale occorre che il Giudice provi ad intendere le norme in modo conforme ai principi della Costituzione, essendone egli il primo esegeta, prima di porsi e porre dubbi di incostituzionalità, e consente di superare il problema della prospettata questione di costituzionalità, che appare, quindi, manifestamente infondata.

Alla luce delle considerazioni che precedono la sentenza deve essere annullata per l'errata applicazione della legge penale in relazione agli artt 76 dpr 445/2000 e 483 cp e gli atti rinviati al Tribunale di Palermo per il giudizio.

PQM


Annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Palermo per il giudizio.

Così deciso il 7.2.2017.

OMISSIS



giovedì 25 maggio 2017






In tema di residenza legale (in Italia), ai fini dell’acquisto della cittadinanza italiana, ex art. 4, c. 2, l. 91/1992


Cass. 17 maggio 2017, n. 12380

La condizione dettata dalla norma relativa alla residenza in Italia fino al raggiungimento del diciottesimo anno di età, ex art. 4, l. 91/1992, deve essere interpretata, coerentemente con quanto ritenuto dalla dottrina pressoché unanime, con specifico riferimento all'avverbio "legalmente" come permanenza in Italia non clandestina ovvero in violazione delle norme che regolano l'ingresso, la circolazione e il soggiorno dei cittadini stranieri [“L'affacciarsi del fenomeno della migrazione al momento dell'entrata in vigore della legge sulla cittadinanza”, aggiunge il S.C., “ ha dettato l'esigenza di qualificare come "legale" la condizione costituita dall'ininterrotta residenza, utilizzando un termine del tutto eterogeneo rispetto alla qualificazione normativa della residenza desumibile dall'art. 43 del codice civile o dalle norme processuali sulle notificazioni degli atti”]


Ai fini dell’acquisto della cittadinanza italiana, ex art. 4, c. 2, l. 91/1992, la prova della continuità della residenza – dalla nascita e fino all'integrazione della condizione temporale ivi prevista – può consistere in documentazione che certifichi anche indirettamente ma univocamente la permanenza continuativa in Italia dello straniero [nel caso deciso, sottolinea il S.C.: a) “vi è stato un ritardo nella regolarizzazione della residenza della ricorrente da parte dei genitori, avvenuta nel 1995, ma dalla nascita della ricorrente al 1995 sono state prodotte: la certificazione delle vaccinazioni eseguite … dal 1991 al 1994 quando la minore non era ancora inclusa nel permesso di soggiorno della madre ed anche tutte le successive; i libretti di lavoro paterno che attestano una continuativa permanenza (…in Italia… ndA) per ragioni di lavoro ben oltre la data di attestazione della residenza anagrafica; la percezione degli assegni familiari da parte del padre dalla nascita che attestano l'inclusione della minore nel nucleo familiare anche in questo caso anche oltre la formalizzazione della residenza”; b) “ai fini della residenza effettiva l'esame di questa documentazione doveva essere effettuato in concreto in quanto relativo all'unico accertamento rilevante in causa”, mentre è stato “ignorato il contenuto di questa documentazione e la sua incidenza sull'accertamento da svolgere sulla base della valorizzazione esclusiva della dichiarazione dei genitori alla nascita sulla residenza estera, non tanto per il peso probatorio in sé quanto per la mancata attivazione e confutazione successiva”]



OMISSIS


In fatto la richiedente è nata in Italia il 5/6/1991 da genitori immigrati dall'ex Yugoslavia; il padre risulta regolarmente soggiornante dalla nascita della figlia con permesso fino al 20/11/1999; la madre ha richiesto il permesso di soggiorno il 26/11/92 e la richiesta d'iscrizione della figlia all'anagrafe è datata 14/9/95. Al fine di provare anche la precedente continuativa residenza di C. in Italia viene prodotta certificazione delle vaccinazioni svolte in precedenza presso i presidi sanitari di B. (dal 91 al 2009); il libretto di lavoro del padre (attestante iscrizioni ancorché con limitate soluzioni di continuità dal 1990 al 2000) e le dichiarazioni degli assistenti sociali che avevano in carico il nucleo familiare. Dalla dichiarazione INPS risulta che la minore è inclusa nel nucleo familiare del padre che ne ha percepito gli assegni familiari con decorrenza 7/9/1992, in base alla rinnovazione di una precedente autorizzazione del 13/4/91.

In diritto, nonostante tale documentazione non sia ritenuta non veritiera, anche perché, come osserva la Corte d'Appello il soggiorno degli stranieri è sottoposto istituzionalmente a controlli pubblici che si deve presumere siano stati effettuati anche nella specie, la indicazione da parte dei genitori nell'atto di nascita della loro residenza estera in Dardania prevale in quanto atto consapevole e partecipato. Ne risulta inequivocamente che l'emigrazione dalla Yugoslavia è avvenuta nel gennaio del 1995. Non risulta comprensibile, alla Corte d'Appello, perché il padre della minore abbia sottoscritto la residenza all'estero se tale condizione non corrispondeva alla realtà, perché non si è provveduto ad una tempestiva iscrizione, perché non si è mai opposto alla certificazione del gennaio 1995.

In mancanza di valide giustificazioni anche sul proprio atto di nascita da parte della richiedente, è da condividersi lo specifico rilievo dato dal Tribunale alla dichiarazione paterna che smentisce la residenza in Italia.

Avverso questa pronuncia ha proposto ricorso per cassazione la cittadina straniera con un unico motivo accompagnato da memoria. Nel motivo viene dedotta la violazione dell'art. 4 della legge n. 91 del 1992 per non avere la Corte d'appello provveduto ad accertare la residenza effettiva della ricorrente dalla nascita secondo i criteri indicati secondo la definizione codicistica generale di residenza e nella giurisprudenza.

Il motivo è manifestamente fondato. L'art. 4 della I. n. 91 del 1992 stabilisce al secondo comma: "Lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla suddetta data".

La condizione dettata dalla norma relativa alla residenza in Italia fino al raggiungimento del diciottesimo anno di età, deve essere interpretata, coerentemente con quanto ritenuto dalla dottrina pressoché unanime, con specifico riferimento all'avverbio "legalmente" come permanenza in Italia non clandestina ovvero in violazione delle norme che regolano l'ingresso, la circolazione e il soggiorno dei cittadini stranieri. L'affacciarsi del fenomeno della migrazione al momento dell'entrata in vigore della legge sulla cittadinanza ha dettato l'esigenza di qualificare come "legale" la condizione costituita dall'ininterrotta residenza, utilizzando un termine del tutto eterogeneo rispetto alla qualificazione normativa della residenza desumibile dall'art. 43 del codice civile o dalle norme processuali sulle notificazioni degli atti. Secondo l'art. 43 la residenza è il luogo della dimora abituale. Ugualmente, la definizione giuridica di residenza, mutuabile dalle disposizioni processuali sulla notificazione degli atti giudiziari, (artt. 138 e ss. del codice di rito) si fonda sul criterio dell'effettività, da ritenersi prevalente ove provata, sulla residenza anagrafica. (Cass.2814 del 2000; 5726 del 2002). Peraltro, come esattamente sottolineato nel ricorso, nelle circolari esplicative, dettate dal Ministero dell'Interno, ed in particolare nella circolare n. 22 del 2007, ratione temporis applicabile, viene espressamente precisato che l'eventuale iscrizione anagrafica tardiva del minore non può pregiudicare l'acquisto della cittadinanza italiana quando vi sia in concreto la residenza effettiva.

L'incidenza quantitativa del fenomeno dell'errore, a danno dei requisiti dell'acquisto della cittadinanza da parte del minore nato da genitori stranieri e residente in Italia dalla nascita, si è rivelata così frequente da richiedere l'intervento del legislatore. L'art. 33 del d.l. n.69 del 2013, conv. con modif. dalla L. n. 98 del 2013, rivolto proprio alla "semplificazione del procedimento per l'acquisto della cittadinanza per lo straniero nato in Italia" prevede espressamente che: Ai fini di cui all'articolo 4, comma 2, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, all'interessato non sono imputabili eventuali inadempimenti riconducibili ai genitori o agli uffici della Pubblica Amministrazione, ed egli puo' dimostrare il possesso dei requisiti con ogni altra idonea documentazione. 2. Gli Ufficiali di Stato Civile sono tenuti al compimento del diciottesimo anno di età  a comunicare all'interessato, nella sede di residenza quale risulta all'ufficio, la possibilità  di esercitare il diritto di cui al comma 2 del citato articolo 4 della legge n. 91 del 1992 entro il compimento del diciannovesimo anno di età. . In mancanza, il diritto può  essere esercitato anche oltre tale data.

L'esame svolto dalla Corte d'Appello di B. non ha assunto come parametro normativo dell'accertamento da svolgere la residenza effettiva della ricorrente, avendo dato rilievo assorbente, alla dichiarazione, del tutto contrastante con i molteplici riscontri probatori contrari, posti a base della domanda di cittadinanza, resa dai genitori all'atto di nascita della figlia. Una dichiarazione resa nella fase iniziale della permanenza in Italia dei predetti genitori la cui mancata confutazione successiva si giustifica inequivocamente con la loro condizione di cittadini stranieri certamente non tenuti a conoscere nel dettaglio i requisiti per l'acquisto della cittadinanza della propria figlia fin dal loro ingresso o anche dopo qualche anno, quando hanno assunto anche formalmente la cittadinanza in Italia. Tralasciando la documentazione prodotta in appello, peraltro del tutto ammissibile in considerazione della natura dell'accertamento e del potere dovere istruttorio officioso del giudice di approfondire l'indagine di fatto (Cass.6205 del 2014;22608 del 2015), deve rilevarsi che, alla luce della corretta qualificazione giuridica della residenza, univocamente fondata sull'accertamento della sua effettività, la corte d'Appello avrebbe dovuto rivolgere il suo esame alla verifica della continuità, dalla nascita e fino all'integrazione della condizione temporale prevista dalla legge n. 91 del 1992, della residenza effettiva della ricorrente in Italia. Tale prova può essere fornita mediante documentazione, peraltro di provenienza da autorità pubbliche, che certifichi anche indirettamente ma univocamente la permanenza continuativa in Italia della richiedente la cittadinanza. Nella specie vi è stato un ritardo nella regolarizzazione della residenza della ricorrente da parte dei genitori, avvenuta nel 1995, ma dalla nascita della ricorrente al 1995 sono state prodotte: la certificazione delle vaccinazioni eseguite a B. dal 1991 al 1994 quando la minore non era ancora inclusa nel permesso di soggiorno della madre ed anche tutte le successive; i libretti di lavoro paterno che attestano una continuativa permanenza a B. per ragioni di lavoro ben oltre la data di attestazione della residenza anagrafica; la percezione degli assegni familiari da parte del padre dalla nascita che attestano l'inclusione della minore nel nucleo familiare anche in questo caso anche oltre la formalizzazione della residenza.

Ai fini della residenza effettiva l'esame di questa documentazione doveva essere effettuato in concreto in quanto relativo all'unico accertamento rilevante in causa. E' stato, invece, ignorato il contenuto di questa documentazione e la sua incidenza sull'accertamento da svolgere sulla base della valorizzazione esclusiva della dichiarazione dei genitori alla nascita sulla residenza estera, non tanto per il peso probatorio in sé quanto per la mancata attivazione e confutazione successiva.

Il ricorso deve essere, in conclusione, accolto e la sentenza cassata con rinvio alla Corte d'Appello di B. perché esamini alla luce delle considerazioni svolte e della crucialità dell'accertamento relativo alla residenza effettiva la domanda proposta.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'Appello di B. in diversa composizione.

Così deciso nella camera di consiglio del 19 gennaio 2017

martedì 23 maggio 2017



Sulla nozione di atto pubblico (ai fini penali)

Cass. pen.  19 maggio 2017 (ud. 14 marzo 2017)  n. 24878

Ai fini della configurazione del reato di falso ideologico in atto pubblico, costituisce atto pubblico non solo l'atto destinato ad assolvere una funzione attestativa o probatoria esterna, con riflessi diretti ed immediati nei rapporti tra privati e P.A., ma anche gli atti cosiddetti interni cioè sia quelli destinati ad inserirsi nel procedimento amministrativo, offrendo un contributo di conoscenza o di valutazione, sia quelli che si collocano nel contesto di una complessa sequela procedimentale - conforme o meno allo schema tipico - ponendosi come necessario presupposto di momenti procedurali successivi


OMISSIS

  1 - Non vi è innanzitutto dubbio che il bilancio di un ente pubblico territoriale, quale è un Comune, sia un atto pubblico (così espressamente Sez. 5, n. 2091 del 26/09/1995, Savino, Rv. 202656) perché promana dal consiglio comunale ed è un atto anche a valenza esterna e, per quanto attiene al bilancio consuntivo (nel caso di specie di questo si tratta), illustra quali siano state le spese sostenute e gli introiti realizzati, finendo per rappresentare non il mero risultato economico dell'ente nell'anno precedente ma anche l'illustrazione degli scopi amministrativi e politici perseguiti dall'amministrazione. In quanto documento rappresentativo di dati è del tutto evidente che possa essere oggetto di falsificazione sia materiale, sia ideologica. Nel caso di specie l'avere appostato la somma ricevuta dalla Cassa depositi e prestiti come entrata extratributaria e, quindi, come ricavo, piuttosto che come prestito, qual'era, costituisce un'ipotesi di falsità ideologica, in quanto si occulta il fatto che la somma pervenuta dovrà essere restituita, modificando così il risultato economico dell'ente.

2 - Il bilancio consuntivo dell'ente comunale perviene alla sua definitiva approvazione da parte del consiglio ad esito di una procedura che è disciplinata nel Testo unico degli enti locali, agli artt. 227 e seguenti, ed è evidente che il procedimento comporta una serie di atti interni che possono a loro volta essere il frutto di un falso, materiale o ideologico.

Questa Corte ha già più volte confermato la rilevanza dei falsi che attengono agli atti interni di un procedimento amministrativo (Sez. 5, n. 9368 del 19/11/2013, Budetta, Rv. 258952; Sez. 5, n. 4322 del 06/11/2012, Camera, Rv. 254388), ricordando che, ai fini della configurazione del reato di falso ideologico in atto pubblico, costituisce atto pubblico non solo l'atto destinato ad assolvere una funzione attestativa o probatoria esterna, con riflessi diretti ed immediati nei rapporti tra privati e P.A., ma anche gli atti cosiddetti interni cioè sia quelli destinati ad inserirsi nel procedimento amministrativo, offrendo un contributo di conoscenza o di valutazione, sia quelli che si collocano nel contesto di una complessa sequela procedimentale - conforme o meno allo schema tipico - ponendosi come necessario presupposto di momenti procedurali successivi. Era pertanto possibile pervenire alla declaratoria di responsabilità delle prevenute anche nel caso in cui, accertato il fatto storico che costoro non avevano contribuito ad approvare i rendiconti relativi agli anni 2005 e 2006 perché non erano più in carica, si fosse potuto dimostrare che costoro avevano formato o concorso a formare atti interni al procedimento che aveva determinato le falsità contenute nell'atto finale.

OMISSIS

giovedì 18 maggio 2017



Circolare Ministero dell’Interno – Dip. affari interni e territoriali – Dir. Centr. Serv. Dem. 18 maggio 2017, n. 5,  Iscrizione anagrafica dei richiedenti protezione internazionale. Art 8, DL 17/2/2017, n. 13, recante "Disposizioni urgenti per l'accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell'immigrazione illegale", convertito, con modificazioni, dalla L. n. 46/2017.


L'art. 8, c. 1, lett. a)-bis, del DL n. 13/2017, indicato in oggetto, ha inserito, dopo l'art. 5 del d.lgs n. 18/8/2015, n. 142, recante, tra le altre, norme relative all'accoglienza dei richiedenti la protezione internazionale, l'art. 5-bis, rubricato" iscrizione anagrafica".

Il comma 1 della nuova disposizione prevede che l'istituto della convivenza anagrafica, di cui all'art. 5 del regolamento anagrafico (DPR n. 223/1989), possa essere applicato sia nella ipotesi in cui l'interessato sia ospitato nei centri di prima accoglienza, che nei casi in cui esso sia ospitato nelle strutture temporanee, ovvero nei centri di accoglienza del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), sempre che non sia registrato individualmente in anagrafe.

Il successivo comma 2 - analogamente a quanto previsto dagli artt. 6, c. 2, e 13, c. 2 del citato regolamento, con riguardo alla generale disciplina dell'istituto della convivenza anagrafica - sancisce l'obbligo del responsabile della convivenza di dare comunicazione della variazione della convivenza al competente ufficio di anagrafe entro venti giorni dalla data in cui si sono verificati i fatti.

Il comma 3, prevede, infine, testualmente, che "La comunicazione, da parte del responsabile della convivenza anagrafica, della revoca delle misure di accoglienza o dell'allontanamento non giustificato del richiedente protezione internazionale costituisce motivo di cancellazione anagrafica con effetto immediato, fermo restando il diritto di essere nuovamente iscritto ai sensi del comma l".

Tale disposizione introduce quindi una speciale disciplina della cancellazione anagrafica, con effetto immediato, applicabile alle ipotesi di revoca delle misure di accoglienza o di allontanamento ingiustificato del richiedente protezione internazionale, salvaguardando comunque il diritto dell'interessato ad essere nuovamente iscritto.

Si pregano le SS.LL. di voler comunicare ai Sigg.Sindaci il contenuto della presente circolare, al fine di garantire l'uniforme e corretta applicazione delle recenti novità legislative.

mercoledì 17 maggio 2017








Corte Dei Conti – Sezione delle Autonomie 12 maggio 2017, n. 11/SEZAUT/2017/QMIG, Principio di gratuità degli incarichi conferiti dalle pubbliche amministrazioni a titolari di cariche elettive. Applicazione art. 5, comma 5, d.l. n. 78/2010 convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122.

Antecedentemente all’entrata in vigore del d.l. 24 aprile 2017, n. 50, resta fermo il principio interpretativo affermato dalla giurisprudenza contabile che esclude che il titolare di cariche elettive possa percepire ulteriori emolumenti per “lo svolgimento di qualsiasi incarico conferito dalle pubbliche amministrazioni di cui al comma 3 dell'articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196, inclusa la partecipazione ad organi collegiali di qualsiasi tipo”, fatta eccezione unicamente per quelli ex lege di cui alla deliberazione n. 11/SEZAUT/2016/QMIG. Il principio di gratuità trova applicazione a prescindere dalla dimensione dell’ente in cui la carica elettiva è svolta. Detto principio si applica anche nelle ipotesi in cui l’assunzione della titolarità della carica elettiva sia successiva al conferimento dell’incarico e, in mancanza di una specifica distinzione normativa, anche per gli “incarichi” di cui all’art. 90 del d.lgs. n. 267/2000 (TUEL).




PREMESSO


1. La Sezione di controllo per la Regione Sardegna, con le deliberazioni n. 1 e n. 2 del 19 gennaio 2017, e sulla base di richieste di parere presentate, per il tramite del Consiglio delle Autonomie Locali della Sardegna, dai Comuni di B. e di U., ha sottoposto al Presidente della Corte dei conti la valutazione dell’opportunità di deferire alla Sezione delle autonomie, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. 10 ottobre 2012 n. 174, od alle Sezioni riunite, ai sensi dell’art. 17, comma 31, del d.l. n. 78/2009, la questione di massima di interesse generale in merito a tre quesiti concernenti l’ambito di applicazione dell’art. 5, comma 5, del d.l. n. 78 del 2010 che introduce il principio di gratuità di tutti gli incarichi conferiti dalle pubbliche amministrazioni ai titolari di cariche elettive.  

I quesiti sono i seguenti: 

1) se nei confronti della disciplina vincolistica sopra richiamata possano configurarsi particolari fattispecie di esclusione oltre ai casi contemplati nella deliberazione n. 11/SEZAUT/2016/QMIG del 31 marzo 2016 della Sezione delle autonomie della Corte dei conti, con riferimento alla condizione dei titolari di cariche elettive nei Comuni di ridotte dimensioni demografiche; 
2) se la medesima disciplina debba trovare integrale applicazione anche nelle ipotesi in cui l’assunzione della titolarità della carica elettiva sia successiva al conferimento dell’incarico; 
3) se la dicitura "qualsiasi incarico conferito dalle pubbliche amministrazioni" debba ricomprendere, e con quali modalità, anche gli incarichi di cui all’art. 90 del d.lgs. n. 267 del 2000.

Il testo della norma anteriore all’integrazione introdotta dal legislatore, nelle more di questa deliberazione, con il decreto legge 24 aprile 2017, n. 50 (di cui si tratterà più oltre nelle considerazioni in diritto), dopo aver richiamato il regime delle incompatibilità vigente, non dispone un divieto di assunzione di ulteriori incarichi da parte dei titolari di cariche elettive, ma esclude per costoro la possibilità di percepire ulteriori emolumenti, senza alcuna eccezione e facendo salvi solo i rimborsi spese e i gettoni di presenza per la partecipazione a sedute di organi collegiali di qualsiasi tipo. L’orientamento consolidato delle Sezioni regionali di controllo (fra le altre: Lombardia, deliberazioni n. 144/2011/PAR, n. 199/2012/PAR, n. 257/2012/PAR, n. 38/2015/PAR, n. 124/2016/PAR, n. 126/2016/PAR, n. 174/2016/PAR, n. 287/2016/PAR; Puglia, deliberazione n. 123/2015/PAR e n. 160/2013/PAR; Emilia-Romagna, deliberazione n. 149/2015/PAR; Veneto, deliberazione n. 326/2012/PAR) ha ricondotto nell’alveo di applicazione del principio di gratuità imposto dalla norma vincolistica in esame lo svolgimento di “qualsiasi incarico” conferito dalle pubbliche amministrazioni di cui al comma 3 dell'articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196, qualora da queste ultime attribuito al titolare di carica elettiva. 

In sede di nomofilachia la Sezione delle autonomie (deliberazione n. 11/SEZAUT/2016/QMIG del 31 marzo 2016) ha ritenuto possibile configurare una eccezione al principio di tendenziale gratuità di tutti gli incarichi conferiti dalle pubbliche amministrazioni ai titolari di cariche elettive con esclusivo riferimento ai collegi dei revisori dei conti e sindacali e ai revisori dei conti purché incaricati successivamente all'entrata in vigore dell'art. 5, comma 5, del d.l. n. 78/2010 ed al nuovo sistema di nomina dell'organo di revisione degli Enti locali e con titolarità di carica elettiva in ambito territoriale di altra Provincia. Ciò in coerenza con il mutato quadro normativo ulteriormente ridefinito con l’introduzione dell’art. 35, co. 2-bis del d.l. 9 febbraio 2012, n. 5 (inserito dalla legge di conversione 4 aprile 2012, n. 35) ed in precedenza significativamente già innovato in relazione al sistema di reclutamento dell’organo di revisione. 

La Sezione regionale di controllo remittente, pur richiamando tale ultima deliberazione nonché la sentenza n. 151/2012 in cui la Corte Costituzionale, con specifico riguardo alla ratio della normativa de qua, la definisce quale “espressione di una scelta di fondo, diretta a connotare la disciplina settoriale degli incarichi conferiti ai titolari delle cariche elettive e, nel contempo, a ridurre gli oneri della finanza pubblica”, ritiene che, tuttavia, alla luce della ridotta dimensione demografica dei Comuni interessati, della peculiarità del caso rappresentato da uno di tali enti locali (incarico conferito dalla pubblica amministrazione ai titolari di cariche elettive che hanno assunto la titolarità di dette cariche elettive in epoca successiva al conferimento dell’incarico) e della particolare natura degli incarichi previsti dall’art. 90 del TUEL, sussistano “elementi certamente suscettibili di creare ulteriori dubbi esegetici, non affrontati espressamente dalla Sezione delle autonomie nella citata deliberazione”. 

In particolare: 

1) riguardo al primo quesito, la Sezione remittente ha evidenziato che negli enti di ridotte dimensioni demografiche agli Amministratori spettano le indennità piuttosto esigue di cui al decreto ministeriale n. 119/2000. La medesima Sezione ritiene, pertanto, che, data l’ampiezza della locuzione normativa “qualsiasi incarico conferito”, si debbano operare delle distinzioni tra le diverse fattispecie di incarico ipotizzabili. Il principio di gratuità degli incarichi sarebbe, infatti, eccessivamente penalizzante nei confronti dei titolari di cariche pubbliche in piccoli Comuni e potrebbe determinare in capo agli stessi una compressione del diritto all’elettorato passivo. 
2) Quanto al secondo quesito, la Sezione remittente osserva che, nelle ipotesi in cui l’incarico è stato conferito prima dell’assunzione della titolarità della carica elettiva, non vi sarebbe in concreto una elusione della ratio normativa della disposizione (costituita dal disincentivo sia per i rappresentanti dei cittadini ad assumere altri incarichi oltre a quelli attribuiti elettivamente, sia per le pubbliche amministrazioni ad indirizzare la propria scelta verso titolari di cariche elettive piuttosto che verso altri professionisti), in quanto il soggetto ha assunto la titolarità di cariche elettive in epoca successiva al conferimento dell’incarico. Anzi, l’applicazione retroattiva delle norme restrittive travolgerebbe i diritti e gli obblighi già sorti tra le parti contrattuali. 
3) Circa il terzo quesito, infine, la Sezione remittente rappresenta che, con riguardo agli incarichi previsti dall’art. 90 del TUEL, l’attività svolta costituisce una prestazione d’opera a cui normalmente corrisponde una controprestazione economica. Tali incarichi, inoltre, configurano dei rapporti di natura contrattuale che sembrano mal conciliarsi con il principio della gratuità dell’incarico, anche in relazione alla portata precettiva dell’art. 36 della Costituzione, che sancisce il diritto del lavoratore alla giusta retribuzione. 

Il Presidente della Corte, con propria ordinanza n. 6 del 23 febbraio 2017, ha deferito l’esame e la pronuncia della prospettata questione alla Sezione delle autonomie. 


CONSIDERATO


I. La questione di massima sollevata dalla Sezione remittente con deliberazioni n. 1/2017/PAR e n. 2/2017/PAR del 19 gennaio 2017, deferita alla Sezione delle autonomie con ordinanza del Presidente della Corte n. 6 del 23 febbraio 2017, verte su alcune problematiche interpretative afferenti l’ambito di applicazione dell’art. 5, co. 5, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122 che, nell’ambito delle disposizioni per la riduzione del costo degli apparati politici ed amministrativi, ha introdotto il principio di gratuità di qualsiasi incarico conferito dalle pubbliche amministrazioni a titolari di cariche elettive.

Si premette che la norma costituisce principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, ascrivibile alla competenza legislativa dello Stato, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost. (in termini: Corte Costituzionale, sentenza n. 151/2012) e pertanto è dettata ai fini della tutela dell’unità economica della Repubblica, in quanto risponde all’imprescindibile esigenza di unitarietà del sistema di finanza pubblica. 

Rispetto alla corretta interpretazione ed applicazione della richiamata normativa, la Sezione regionale di controllo per la Sardegna ha formulato altri ed ulteriori dubbi esegetici, che involgono aspetti in parte diversi da quelli già esaminati, in sede di nomofilachia, dalla Sezione delle autonomie con la recente deliberazione n. 11/SEZAUT/2016/QMIG, legati a particolari situazioni (dalla medesima rappresentate) per dirimere le quali ha ravvisato l’esigenza, in via preventiva, di una decisione nomofilattica. In particolare la Sezione chiede: 

1) se possano configurarsi fattispecie di esclusione dell’applicabilità del surriferito principio di gratuità degli incarichi con riferimento alla condizione dei titolari di cariche elettive nei Comuni di ridotte dimensioni demografiche (in specie Comuni aventi, rispettivamente, n. 556 e n. 1.310 abitanti); 
2) se la disposizione vincolistica di cui all’art. 5, comma 5, del d.l. n. 78/2010 debba trovare integrale applicazione anche nelle ipotesi in cui l’assunzione della titolarità della carica elettiva sia successiva al conferimento dell’incarico; 
3) se tra gli incarichi attribuiti ai titolari di cariche elettive, a cui si applica l’art. 5, comma 5, del d.l. n. 78 del 2010, rientrino anche quelli di cui all’art. 90 del d.lgs. n. 267 del 2000. 

Nelle more delle risoluzione della questione di massima deferita è entrato in vigore il decreto legge n. 50/2017 recente “Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo” (di cui in pari data il Governo ha presentato al Parlamento il disegno di legge di conversione) che ha introdotto un comma aggiuntivo all’art. 5, comma 5, del d.l. 78/2010, attenuando il principio di gratuità degli incarichi, ivi contemplato, nei confronti dei titolari di cariche elettive di Regioni ed enti locali, fermo restando l’obbligo di rispetto dei limiti di spesa previsti dalla normativa vigente.

Il comma 4 dell’art. 22 dell’intervenuto decreto legge, infatti, integra il comma 5 dell’articolo 5 del d.l. n. 78/2010, aggiungendo la disposizione che esclude, tra gli incarichi conferiti ai titolari di cariche elettive dalle amministrazioni pubbliche di cui al comma 3 dell'articolo 1 della legge 31 dicembre 2009 n.196 per i quali vige il principio di gratuità, quelli aventi ad oggetto prestazioni professionali, conferiti dalle predette amministrazioni a titolari di cariche elettive di Regioni ed enti locali, purché la pubblica amministrazione conferente operi in ambito territoriale diverso da quello dell’ente presso il quale è rivestita la carica elettiva, all’uopo precisando che, in caso di carica elettiva comunale, l’ambito in cui opera la pubblica amministrazione conferente deve essere riferito ad area provinciale o metropolitana diversa da quella dell’ente presso il quale è rivestita la carica elettiva. 

La novella disposizione precisa, altresì, che il conferimento deve essere effettuato nel rispetto dei limiti di spesa previsti dalla normativa vigente. 

È necessario, pertanto, verificare quali siano gli effetti della nuova disposizione sulle fattispecie in esame. 

Infatti, se pur espressamente qualificati (art. 77 Cost.) come “provvedimenti provvisori” i decreti legge sono immediatamente efficaci, ovviamente nel rispetto delle condizioni tutte poste dalla Costituzione, ed hanno forza di legge: sono atti normativi del Governo parificati alla legge, sia come capacità di innovare nell’ambito dell’ordinamento giuridico, che come resistenza all’abrogazione da parte di fonti subordinate. 

Nello specifico, la novella di che trattasi produce i suoi effetti a decorrere dal 24 aprile 2017, non avendo efficacia retroattiva poiché non reca l’interpretazione autentica dell’art. 5, comma 5, del d.l. n. 78/2010 ma (come pure si legge nella relazione tecnica ex art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009 n. 196, e successive modificazioni - A.C. 4444 ) integra detto comma, innovandolo, al fine di attenuare «il vigente divieto di corresponsione di compensi nei confronti dei titolari di cariche elettive che svolgono incarichi conferiti dalle pubbliche amministrazioni…». 

In proposito si richiama la giurisprudenza costituzionale (ex multis: sentenze n.155 e n. 380 del 1990; n. 246, n. 440, n. 454 e n. 455 del 1992; n. 39 e n.424 del 1993, n. 397 del 1994) che costantemente ha precisato che si deve riconoscere il carattere interpretativo soltanto a una legge che, fermo il tenore testuale della norma interpretata, ne chiarisce il significato normativo ovvero privilegia una tra le tante interpretazioni possibili, allo scopo di imporre a chi è tenuto ad applicare la disposizione considerata un determinato significato normativo. 

La disposizione, pertanto, deve essere applicata alla luce del principio di irretroattività della norma: principio cardine del nostro ordinamento giuridico, nonché fondamento dello Stato di diritto e conditio sine qua non della certezza del diritto stesso, a mente di quanto disposto dall’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale. 


In conseguenza: 


1. per il periodo antecedente all’entrata in vigore del d.l. 24 aprile 2017 resta fermo il principio interpretativo enunciato dalla giurisprudenza contabile che esclude che il titolare di cariche elettive possa percepire ulteriori emolumenti per “lo svolgimento di qualsiasi incarico conferito dalle pubbliche amministrazioni di cui al comma 3 dell'articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 , inclusa la partecipazione ad organi collegiali di qualsiasi tipo”, fatta eccezione per quelli ex lege di cui alla deliberazione n. 11/SEZAUT/2016/QMIG. In relazione a detto principio di gratuità, giova ricordare quanto affermato dalla Corte Costituzionale che ne ha qualificato la ratio nell’esigenza di evitare il cumulo di incarichi retribuiti e di perseguire in tal modo, attraverso un risparmio della spesa corrente, l’equilibrio della finanza pubblica complessiva, all’uopo precisando che la norma deve considerarsi “espressione di una scelta di fondo, diretta a connotare la disciplina settoriale degli incarichi conferiti ai titolari delle cariche elettive e, nel contempo, a ridurre gli oneri della finanza pubblica” (in termini: Corte Costituzionale, sentenza n. 151/2012). 

Con riferimento a detto arco temporale, quindi: 

1.1. quanto al primo quesito formulato dalla Sezione remittente, il testo di legge non permette alcun aggancio letterale idoneo a consentire di poter escludere dall’ambito di applicazione della disciplina vincolistica dell’art. 5, co. 5, del d.l. n. 78/2010 i titolari di cariche elettive nei Comuni di ridotte dimensioni demografiche. La locuzione normativa “qualsiasi incarico conferito” preclude all’interprete di operare distinzioni circa la natura dell’incarico medesimo di talché non può condividersi la diversa opzione ermeneutica prospettata dalla Sezione remittente, secondo la quale l’ampiezza della locuzione normativa “qualsiasi incarico conferito” renderebbe possibile (anzi, “doveroso”) distinguere in via pretoria tra le diverse fattispecie di incarico ipotizzabili. In tal senso, infatti, più che una “ampiezza” si attribuirebbe alla locuzione normativa una “indeterminatezza” che lascerebbe all’interprete la discrezionalità di definire e considerare varie tipologie di incarichi. Ora, se è ben possibile che il legislatore difetti di chiarezza e precisione nella redazione di una norma, è anche vero che in sede di attuazione deve privilegiarsi l’interpretazione nel senso reso “palese dal significato proprio delle parole”, ai sensi dell’art. 12 delle disposizioni della legge in generale. E appare obiettivamente difficile, sotto il profilo propriamente semantico, non attribuire alla locuzione “qualsiasi incarico conferito” il significato di “tutti gli incarichi, di qualunque tipo, conferiti…”. 

In specie il riferimento normativo alle “pubbliche amministrazioni di cui al comma 3 dell'articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196”, non sembra consentire alcuna distinzione basata sulle dimensioni degli enti locali che conferiscono gli incarichi. Con ciò non si intende negare aprioristicamente che l’affermazione della Sezione remittente (secondo la quale nel caso dei Comuni di piccole dimensioni “la ridotta entità degli emolumenti derivanti dalla carica non è tale da poter sopperire alle esigenze della vita e la impossibilità di svolgere incarichi retribuiti presso altri enti potrebbe comportare una situazione di disagio economico tale da indurre l’interessato a rinunciare all’incarico politico”), potrebbe avere in certi casi un riscontro fattuale. Tuttavia, come già precisato, il pur condivisibile richiamo al contemperamento tra i diversi interessi costituzionalmente tutelati, oltre che spettare in prima battuta al legislatore, non può comunque indurre in questa sede ad andare oltre la chiara lettera della norma. In proposito si ricorda che la stessa Sezione delle autonomie ha ripetutamente chiarito che occorre privilegiare interpretazioni il più possibile aderenti al tenore letterale delle norme rispetto a soluzioni ermeneutiche additive o derogatorie, anche se queste ultime potrebbero essere ritenute comprensibili nell’ottica di favorire gli enti, soprattutto di minore dimensione demografica, i cui amministratori spesso versano in maggiore difficoltà (si vedano, al riguardo, le deliberazioni n. 28/SEZAUT/2015/QMIG, n. 25/SEZAUT/2014/QMIG, n. 27/SEZAUT/2013/QMIG). 


1.2. Quanto al secondo quesito, il tenore letterale della norma milita a favore dell’operatività della medesima anche nel caso prospettato dalla Sezione remittente. Il termine “svolgimento”, infatti, consente di ricomprendere nella fattispecie tutte le ipotesi di incarichi esercitati da “titolari di cariche elettive”: non solo, quindi, quella del conferimento successivo all’acquisizione della carica, ma anche quella del conferimento precedente, nella quale l’incarico sia ancora in fase di “svolgimento” in costanza di mandato politico (in senso conforme: SRC Lombardia n. 666/PAR/2011 e n. 257/PAR/2012). 

È pur vero, come ricorda la Sezione remittente, che in quest’ultima ipotesi “l’incarico è stato assegnato nel pieno rispetto della normativa al momento vigente e da esso sono sorte reciproche obbligazioni e diritti, che rispondono a principi di autonomia contrattuale e che, in caso di applicazione retroattiva delle norme restrittive, dovrebbero cessare di efficacia per eventi estranei alla volontà delle parti”. 

Ma occorre considerare che la giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenza n. 349/1985 con precedenti ivi richiamati e, da ultimo, sentenza n. 108/2016) ha costantemente affermato, riguardo ai rapporti tra la stabilità dei vincoli negoziali di durata e le sopravvenienze normative, che “non è interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali modifichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata, anche se il loro oggetto sia costituito da diritti soggettivi perfetti, salvo, qualora si tratti di disposizioni retroattive, il limite costituzionale della materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.). Dette disposizioni però, al pari di qualsiasi precetto legislativo, non possono trasmodare in un regolamento irrazionale e arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando così anche l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, che costituisce elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto”. 

Nella fattispecie all’esame la norma che pone il principio della gratuità degli incarichi è vigente da diverso tempo per cui se ne presume, con ragionevole certezza, la conoscenza da parte di colui che sta svolgendo l’incarico e che, ancora prima del momento in cui inizierà il mandato politico, decide di candidarsi per essere eletto allo svolgimento dello stesso. In conseguenza, l’intervento normativo sul rapporto contrattuale non sembra, in tal caso, determinare, retroattivamente ed imprevedibilmente, un sacrificio imposto dalla legge idoneo a frustrare un legittimo affidamento del titolare dell’incarico sulla permanenza dello stesso. 

Pertanto, alla luce del disposto normativo che non prevede eccezioni di sorta, deve ritenersi che la disposizione vincolistica di cui all’art. 5, comma 5, del d.l. n. 78/2010 debba trovare integrale applicazione anche nelle ipotesi in cui l’assunzione della titolarità della carica elettiva sia successiva al conferimento dell’incarico; 

1.3. Quanto al terzo quesito, si premette che l’art. 90 del TUEL declina il principio di separazione tra la funzione di indirizzo politico e la funzione amministrativa, consentendo agli organi titolari della prima di poter disporre di personale posto alle proprie dirette dipendenze al fine di supportare il concreto “esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo”. Questa particolare relazione funzionale tra il personale “di staff” e gli organi di direzione politica conferisce al rapporto di lavoro subordinato costituito ai sensi del richiamato art. 90 una natura eminentemente fiduciaria. Trattasi, quindi, di rapporto instaurato intuitu personae, senza necessità di particolari procedure selettive e che può avere una peculiare disciplina del trattamento economico nell’ambito dei contratti di lavoro subordinato a tempo determinato. Ne consegue che i rapporti di lavoro subordinato a tempo determinato instaurati ai sensi della norma in discorso presentano caratteri di specialità rispetto alla generale disciplina dei rapporti a tempo determinato con la pubblica amministrazione, in considerazione dei contenuti dell’attività lavorativa intrinsecamente collegata all’esercizio della funzione di direzione politica dell’ente locale (in termini: SRC Marche n. 67/PAR/2014). Tale specialità induce a farli rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 5, comma 5, del d.l. n. 78/2010, per le motivazioni già espresse sub punto 1.1. 



2. A far data dall’entrata in vigore del d.l. n. 50 del 24 aprile 2017, invece, trova piena applicazione la nuova formulazione dell’art. 5, comma 5, del d.l. 78/2010, quale integrata dall’art. 22, comma 4, del d.l. 50/2017, fatte salve le eventuali modificazioni che potrebbero intervenire in sede di conversione di quest’ultimo ovvero le disposizioni di regolazione del periodo intertemporale, in caso di mancata conversione dello stesso nei termini di legge. 

Nella sua attuale formulazione, il predetto comma 5 esclude dal surriferito principio di gratuità gli incarichi aventi ad oggetto prestazioni professionali, conferiti a titolari di cariche elettive di Regioni ed enti locali da parte delle citate pubbliche amministrazioni, a condizione che la pubblica amministrazione conferente operi in ambito territoriale diverso da quello dell'ente presso il quale è rivestita la carica elettiva, nei termini specificati espressamente dalla stessa norma. 

In ultimo occorre soggiungere che l’intervenuta novella legislativa non fa venir meno il principio di gratuità di che trattasi (il comma 5 originario permane immodificato) ma ne delimita il perimetro di applicazione, precisando ciò che può essere remunerato ed a quali condizioni. 


P.Q.M.


La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulle questioni di massima poste dalla Sezione di controllo per la Regione Sardegna con le deliberazioni n. 1/2017/PAR e n. 2/2017/PAR, enuncia il seguente principio di diritto:  “Antecedentemente all’entrata in vigore del d.l. 24 aprile 2017, n. 50, resta fermo il principio interpretativo affermato dalla giurisprudenza contabile che esclude che il titolare di cariche elettive possa percepire ulteriori emolumenti per “lo svolgimento di qualsiasi incarico conferito dalle pubbliche amministrazioni di cui al comma 3 dell'articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196, inclusa la partecipazione ad organi collegiali di qualsiasi tipo”, fatta eccezione unicamente per quelli ex lege di cui alla deliberazione n. 11/SEZAUT/2016/QMIG. Il principio di gratuità trova applicazione a prescindere dalla dimensione dell’ente in cui la carica elettiva è svolta. Detto principio si applica anche nelle ipotesi in cui l’assunzione della titolarità della carica elettiva sia successiva al conferimento dell’incarico e, in mancanza di una specifica distinzione normativa, anche per gli “incarichi” di cui all’art. 90 del d.lgs. n. 267/2000 (TUEL).” 


La Sezione di controllo per la Regione Sardegna si atterrà al principio di diritto enunciato nel presente atto di orientamento, al quale si conformeranno tutte le Sezioni regionali di controllo ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito in legge 7 dicembre 2012, n. 213. 


Così deliberato in Roma nell’adunanza del 4 maggio 2017.