Illegittimità costituzionale
di norme regionali limitative – sulla base del requisito residenziale – del
diritto di accesso all’edilizia residenziale pubblica
Corte cost. 11 giugno 2014, n. 168
OMISSIS
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso, depositato il 14 maggio 2013, il Presidente del Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha
promosso questione di legittimità costituzionale, in via principale, dell’art.
19, comma 1, lettera b), della legge della Regione autonoma Valle
d’Aosta/Vallée d’Aoste 13 febbraio 2013, n. 3 (Disposizioni in materia di politiche
abitative), nella parte in cui annovera, fra i requisiti di accesso
all’edilizia residenziale pubblica, quello della «residenza nella Regione da
almeno otto anni, maturati anche non consecutivamente».
OMISSIS
Considerato in diritto
OMISSIS
2.– La questione è fondata nei termini di seguito precisati.
Questa Corte ha da tempo rilevato che le finalità proprie dell’edilizia
residenziale pubblica sono quelle di «garantire un’abitazione a soggetti
economicamente deboli nel luogo ove è la sede dei loro interessi» (sentenza n.
176 del 2000), al fine di assicurare un’esistenza dignitosa a tutti coloro che
non dispongono di risorse sufficienti (art. 34 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea), mediante un servizio pubblico deputato alla «provvista di
alloggi per i lavoratori e le famiglie meno abbienti» (sentenze n. 417 del
1994, n. 347 del 1993, n. 486 del 1992). Dal complesso delle disposizioni
costituzionali relative al rispetto della persona umana, della sua dignità e
delle condizioni minime di convivenza civile, emerge, infatti, con chiarezza
che l’esigenza dell’abitazione assume i connotati di una pretesa volta a
soddisfare un bisogno sociale ineludibile, un interesse protetto, cui
l’ordinamento deve dare adeguata soddisfazione, anche se nei limiti della
disponibilità delle risorse finanziarie. Per tale motivo, l’accesso
all’edilizia residenziale pubblica è assoggettato ad una serie di condizioni
relative, tra l’altro, ai requisiti degli assegnatari di alloggi di edilizia
residenziale pubblica, quali, ad esempio, il basso reddito familiare (sentenza
n. 121 del 1996) e l’assenza di titolarità del diritto di proprietà o di
diritti reali di godimento su di un immobile adeguato alle esigenze abitative
del nucleo familiare dell’assegnatario stesso, requisiti sintomatici di una
situazione di reale bisogno.
In questa prospettiva la legge n. 3 del 2013 della Regione Valle d’Aosta,
intitolata «Disposizioni in materia di politiche abitative», stabilisce che la Regione «promuove una
serie coordinata di interventi di interesse generale e di carattere sociale»
(art. 1), tesi, fra l’altro, a «risolvere, anche con interventi straordinari,
gravi e imprevedibili emergenze abitative presenti sul territorio regionale o
espresse da particolari categorie sociali» (comma 1, lettera g), fra le quali
ricomprende gli anziani, i soggetti diversamente abili, gli immigrati. Fra gli
interventi suddetti, vi è la realizzazione della cosiddetta edilizia
residenziale pubblica, definita dalla stessa legge, all’art. 8, comma 1, come
«il patrimonio immobiliare realizzato con il concorso finanziario di enti
pubblici e costituito da abitazioni destinate a ridurre il disagio abitativo
dei nuclei familiari che non sono in grado di accedere alla locazione di
alloggi nel libero mercato», e quindi destinate a sopperire a situazioni di
“emergenza abitativa”(art. 13, comma 5, lettera a).
Al fine di realizzare tale servizio sociale, di natura gratuita per il fruitore,
la Regione ha
stabilito, all’art. 19, comma 1, specifici criteri di accesso per
l’assegnazione dei beni facenti parte del patrimonio abitativo regionale in
esame, fra i quali, accanto alla previsione di indicatori del basso reddito e
della assenza di titolarità di diritti di proprietà, usufrutto, uso e
abitazione su quote di immobili adeguati alle esigenze abitative del nucleo
familiare richiedente (requisiti rivelatori della situazione di bisogno),
indica, alla lettera b), il diverso criterio della residenza protratta per otto
anni, anche non consecutivi, sul territorio regionale.
Questa Corte ha riconosciuto che «le politiche sociali delle Regioni legate
al soddisfacimento dei bisogni abitativi ben possono prendere in considerazione
un radicamento territoriale ulteriore rispetto alla sola residenza» (sentenza
n. 222 del 2013), considerato che «L’accesso a un bene di primaria importanza e
a godimento tendenzialmente duraturo, come l’abitazione, […] può richiedere
garanzie di stabilità, che, nell’ambito dell’assegnazione di alloggi pubblici
in locazione, scongiurino avvicendamenti troppo ravvicinati tra conduttori,
aggravando l’azione amministrativa e riducendone l’efficacia» (sentenza n. 222
del 2013). Un simile requisito, tuttavia, deve essere «contenuto entro limiti
non palesemente arbitrari ed irragionevoli» (sentenza n. 222 del 2013), anche
in linea con il principio che «se al legislatore, sia statale che regionale (e
provinciale), è consentito introdurre una disciplina differenziata per l’accesso
alle prestazioni assistenziali al fine di conciliare la massima fruibilità dei
benefici previsti con la limitatezza delle risorse finanziarie disponibili»
(sentenza n. 133 del 2013), tuttavia «la legittimità di una simile scelta non
esclude che i canoni selettivi adottati debbano comunque rispondere al
principio di ragionevolezza» (sentenza n. 133 del 2013) e che, quindi, debbano
essere in ogni caso coerenti ed adeguati a fronteggiare le situazioni di
bisogno o di disagio, riferibili direttamente alla persona in quanto tale, che
costituiscono il presupposto principale di fruibilità delle provvidenze in
questione (sentenza n. 40 del 2011).
Nella specie, la previsione dell’obbligo di
residenza da almeno otto anni nel territorio regionale, quale presupposto necessario
per la stessa ammissione al beneficio dell’accesso all’edilizia residenziale
pubblica (e non, quindi, come mera regola di preferenza), determina
un’irragionevole discriminazione sia nei confronti dei cittadini dell’Unione,
ai quali deve essere garantita la parità di trattamento rispetto ai cittadini
degli Stati membri (art. 24, par. 1, della direttiva 2004/38/CE), sia nei
confronti dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo,
i quali, in virtù dell’art. 11, paragrafo 1, lettera f), della direttiva
2003/109/CE, godono dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto
riguarda anche l’accesso alla procedura per l’ottenimento di un alloggio.
Quanto ai primi, risulta evidente che la norma
regionale in esame li pone in una condizione di inevitabile svantaggio in
particolare rispetto alla comunità regionale, ma anche rispetto agli stessi
cittadini italiani, che potrebbero più agevolmente maturare gli otto anni di
residenza in maniera non consecutiva, realizzando una discriminazione vietata
dal diritto comunitario (oggi «diritto dell’Unione europea», in virtù
dell’art. 2, numero 2, lettera a, del Trattato di Lisbona, che modifica il
trattato sull’Unione europea e il trattato che istituisce la Comunità europea, firmato
a Lisbona il 13 dicembre 2007), in particolare dall’art. 18 del TFUE, in quanto
determina una compressione ingiustificata della loro libertà di circolazione e
soggiorno, garantita dall’art. 21 del TFUE. Infatti, il requisito della
residenza protratta per otto anni sul territorio regionale induce i cittadini
dell’Unione a non esercitare la libertà di circolazione abbandonando lo Stato
membro cui appartengono (Corte di giustizia, sentenza 21 luglio 2011, in causa
C-503/09, Stewart), limitando tale libertà in una misura che non risulta né
proporzionata, né necessaria al pur legittimo scopo di assicurare che a
beneficiare della provvidenza siano soggetti che abbiano dimostrato un livello
sufficiente di integrazione nella comunità presso la quale risiedono (Corte di
giustizia, sentenza 23 marzo 2004, in causa C-138/02, Collins), anche al fine
di evitare oneri irragionevoli onde preservare l’equilibrio finanziario del
sistema locale di assistenza sociale (Corte di giustizia, sentenza 2 agosto
1993, in cause riunite C-259/91, C-331/91 e C-332/91, Allué). Non è, infatti,
possibile presumere, in termini assoluti, che i cittadini dell’Unione che
risiedano nel territorio regionale da meno di otto anni, ma che siano pur
sempre ivi stabilmente residenti o dimoranti, e che quindi abbiano instaurato
un legame con la comunità locale, versino in stato di bisogno minore rispetto a
chi vi risiede o dimora da più anni e, per ciò stesso siano estromessi dalla
possibilità di accedere al beneficio.
Sulla base di analoghe argomentazioni, è agevole
ravvisare la portata irragionevolmente discriminatoria della norma regionale
impugnata anche con riguardo ai cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti
di lungo periodo. L’art. 11 della direttiva 2003/109/CE stabilisce, alla
lettera f) del paragrafo 1, che il soggiornante di lungo periodo gode dello
stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda «l’accesso a
beni e servizi a disposizione del pubblico e all’erogazione degli stessi,
nonché alla procedura per l’ottenimento di un alloggio». Tale previsione, che è
stata recepita dall’art. 9, comma 12, lettera c), del d.lgs. n. 286 del 1998
(nel testo modificato dal decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3, recante
«Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di
Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo»), mira ad impedire qualsiasi forma
dissimulata di discriminazione che, applicando criteri di distinzione diversi
dalla cittadinanza, conduca di fatto allo stesso risultato, a meno che non sia
obiettivamente giustificata e proporzionata al suo scopo. La previsione di una
certa anzianità di soggiorno o di residenza sul territorio ai fini dell’accesso
agli alloggi di edilizia residenziale pubblica, che si aggiunge al requisito
prescritto per ottenere lo status di soggiornante di lungo periodo, costituito
dal possesso del permesso di soggiorno da almeno cinque anni nel territorio
dello Stato, ove tale soggiorno non sia avvenuto nel territorio della Regione,
potrebbe trovare una ragionevole giustificazione nella finalità di evitare che
detti alloggi siano assegnati a persone che, non avendo ancora un legame
sufficientemente stabile con il territorio, possano poi rinunciare ad abitarvi,
rendendoli inutilizzabili per altri che ne avrebbero diritto, in contrasto con
la funzione socio-assistenziale dell’edilizia residenziale pubblica. Tuttavia,
l’estensione di tale periodo di residenza fino ad una durata molto prolungata,
come quella pari ad otto anni prescritta dalla norma impugnata, risulta
palesemente sproporzionata allo scopo ed incoerente con le finalità stesse
dell’edilizia residenziale pubblica, in quanto può finire con l’impedire
l’accesso a tale servizio proprio a coloro che si trovino in condizioni di
maggiore difficoltà e disagio abitativo, rientrando nella categoria dei
soggetti in favore dei quali la stessa legge della Regione Valle d’Aosta n. 3
del 2013 dispone, all’art. 1, comma 1, lettera g), l’adozione di interventi,
anche straordinari, finalizzati a fronteggiare emergenze abitative.
Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art.
19, comma 1, lettera b), della legge della Regione Valle d’Aosta n. 3 del 2013,
nella parte in cui indica, fra i requisiti di accesso all’edilizia residenziale
pubblica, quello della «residenza nella Regione da almeno otto anni, maturati
anche non consecutivamente», per violazione dell’art. 3 e dell’art. 117, primo
comma, Cost. in riferimento all’art. 21, paragrafo 1, del TFUE, all’art. 24,
paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE, nonché all’art. 11, paragrafo 1,
lettera f), della direttiva 2003/109/CE.
3.– Restano assorbite le ulteriori censure formulate dal ricorrente.
per questi motivi
LA CORTE
COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.
19, comma 1, lettera b), della legge della Regione autonoma Valle
d’Aosta/Vallée d’Aoste 13 febbraio 2013, n. 3 (Disposizioni in materia di
politiche abitative), nella parte in cui annovera, fra i requisiti di accesso
all’edilizia residenziale pubblica, quello della «residenza nella Regione da
almeno otto anni, maturati anche non consecutivamente».