Cons. di stato, I, xxx n. xxx, Ministero
dell'interno. Quesito in materia di applicazione della legge 23 novembre 2012,
n. 215, recante “Disposizioni per promuovere il riequilibrio delle
rappresentanze di genere nei Consigli e nelle Giunte degli enti locali e nei
Consigli regionali. Disposizioni in materia di pari opportunità nella
composizione delle commissioni di concorso nelle pubbliche amministrazioni”.
LA SEZIONE
Vista la relazione trasmessa con nota 21 febbraio 2014 n. 2959,
con la quale il Ministero dell'interno - Dipartimento per gli affari interni e
territoriali - ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sul quesito in
oggetto;
esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Elio
Toscano;
Premesso.
1. Il Ministero dell’interno premette che la legge 23 novembre
2012, n. 215 ha dettato nuove disposizioni volte a promuovere il riequilibrio
delle rappresentanze di genere nei Consigli e nelle Giunte degli enti locali e
nei Consigli comunali, regionali, nonché nella composizione delle Commissioni
di concorso nelle Pubbliche Amministrazioni.
In particolare, l’art. 1, comma 1, della legge suddetta ha
modificato il comma 3. dell’art. 6 del d.lgs. n. 267 del 2000, prevedendo che
gli statuti comunali e provinciali stabiliscano norme per assicurare condizioni
di pari opportunità tra uomo e donna ai sensi della legge 10 aprile 1991, n.
125, e per garantire (anziché “promuovere” espressione utilizzata nella
precedente formulazione), la presenza di entrambi i sessi nelle Giunte e negli
organi collegiali non elettivi del Comune e della Provincia, nonché degli enti,
aziende ed istituzioni da essi dipendenti.
Lo stesso articolo 1, al comma 2, stabilisce, inoltre, che gli
enti locali, entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge, debbano
adeguare i rispettivi statuti e regolamenti alle novellate disposizioni del
comma 3 dell'art. 6 del d.lgs. n. 267 del 2000.
L’Amministrazione richiama, altresì, le ulteriori disposizioni
introdotte dalla legge n. 215 del 2012 volte a rendere effettiva la presenza di
entrambi i sessi nei Consigli comunali, sia nella formazione delle liste dei
candidati, sia nelle relative consultazioni elettorali, sia nella formazione
delle Giunte comunali e provinciali “nel rispetto del principio di pari
opportunità tra donne e uomini”.
Sottolinea, poi, che il legislatore con la novella in argomento
ha inteso specificare ulteriormente quanto già sancito in materia da fonti
nazionali e sovranazionali, quali l'art. 51 della Costituzione, l'art. l del
d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità) e l'art. 23 della
Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.
2. Ciò premesso, il Ministero riferente rappresenta che,
relativamente alla legge n. 215 del 2012, sono emerse alcune incertezze
applicative, riassumibili nei seguenti quesiti:
a) quali iniziative possono essere poste in essere nei
confronti degli enti locali che non hanno adeguato gli statuti e i regolamenti
comunali alle novellate disposizioni del comma 3 dell'art. 6 del d.lgs. 18
agosto 2000, n. 267;
b) se le delibere di Giunta e Consiglio adottate dagli organi
composti da soli uomini, quindi in violazione della legge n. 215 del 2012,
siano legittime;
c) se la legge n. 215 del 2012 si applichi esclusivamente alle
Amministrazioni locali elette dopo l'entrata in vigore della stessa o anche alle
Amministrazioni in corso di consiliatura, elette prima dell'entrata in vigore
della suddetta norma;
d) se e quale sia la percentuale necessaria che gli statuti
degli enti locali devono prevedere al fine di garantire il livello minimo
costituito dalla rappresentanza di genere;
e) se vi siano particolari procedure che il sindaco deve
attuare per dimostrare che, nonostante abbia posto in essere ogni utile
iniziativa idonea a garantire l'applicazione del principio di pari opportunità
tra uomo e donna, non sia riuscito a raggiungere tale obiettivo e abbia dovuto
nominare tutti assessori di sesso maschile.
Considerato.
3. I quesiti posti al Consiglio di Stato sottendono una
questione preliminare di fondo e cioè che gli interventi del legislatore in
materia di riequilibrio delle quote di genere hanno posto sinora l’accento
prevalentemente sull’obiettivo di un maggior coinvolgimento del genere
femminile negli organismi di decisione pubblica, ma sono stati meno puntuali
nell’indicare gli strumenti che devono garantire l’effettività delle specifiche
disposizioni normative. Da qui l’esigenza di trarre dall’ordinamento vigente
gli strumenti integrativi necessari per dare concreta attuazione alle norme
sulla parità di genere e sopperire a eventuali ritardi applicativi.
Tale riflessione è indotta innanzitutto dal primo quesito con
il quale si chiede quali iniziative possano essere prese nei confronti degli
enti locali che non hanno adeguato gli statuti e i regolamenti comunali alla
novellate disposizioni entro i sei mesi fissati dal legislatore.
A norma dell’art. 120 della Costituzione, nel testo formalmente
riscritto dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, i poteri sostitutivi
possono essere esercitati dal Governo nei confronti delle Regioni, delle Città
metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di “…mancato rispetto …
della normativa comunitaria … ovvero quando lo richiedono … la tutela dei
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali,
prescindendo dai confini territoriali dei governi locali”.
Orbene, l’osservanza della parità di genere attiene senza
dubbio alla “tutela dei livelli essenziali delle prestazioni riguardanti i
diritti civili e sociali”.
Al riguardo, basti considerare che l’eguaglianza tra i sessi
nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive, affermata dall’art.
51, primo comma, della Carta costituzionale è una specificazione del principio
di uguaglianza (Corte cost. n. 166/1973), già espresso dall’art. 3 Cost., ed
esclude, quindi, che possano esserci discriminazioni attinenti al sesso.
Il principio della parità tra uomo e donna in tutti campi,
compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione, è affermato,
altresì, dall’articolo 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, sicché si caratterizza anche come cardine del diritto comunitario.
Va ancora considerato che il testo originario dell’art. 51
Cost. si limitava a sancire il principio delle pari opportunità tra i sessi,
mentre l’integrazione introdotta al comma 1 dell’art. 51 dalla legge
costituzionale n. 1 del 2003 “A tal fine la Repubblica promuove con
appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini” sta a
significare che la promozione delle pari opportunità non è demandata soltanto
al legislatore, ma coinvolge tutti i pubblici poteri.
Pertanto, da un lato le misure legislative devono essere “volte
a promuovere i punti di partenza e a realizzare la pari dignità sociale di
tutti i cittadini” (Corte cost. n. 422 del 1995), dall’altro tutti i pubblici
poteri sono tenuti a osservare il principio dell’eguaglianza tra i sessi, anche
nell’adozione dei provvedimenti amministrativi (obbligo ampiamente esplorato e
sancito dalla giurisprudenza amministrativa).
Ed è proprio nel contesto delle misure legislative volte ad
adempiere i precetti costituzionali appena richiamati che si inseriscono sia il
novellato comma 3 dell’art. 6 del d.lgs. n. 267 del 2000, che dispone che “gli
statuti comunali e provinciali stabiliscono norme per assicurare condizioni di
pari opportunità tra uomo e donna ai sensi della legge 10 aprile 1991, n. 125 e
per garantire la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi
collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché degli enti,
aziende ed istituzioni da essi dipendenti”, sia la correlata disposizione
che prevede che l’adeguamento degli statuti e dei regolamenti comunali debba
aver luogo entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge n. 215 del 2012
(art. 1, comma 2).
A fronte di un intervento legislativo volto a dare attuazione a
una specificazione del principio di eguaglianza tra uomo e donna nell’accesso
alle cariche elettive, sarebbe fuorviante concludere che il termine di sei mesi
non ha alcun rilievo, in quanto per la sua inosservanza il legislatore non ha
previsto una specifica sanzione. Infatti, vertendosi in materia di
riconoscimento di diritti costituzionali fondamentali, il superamento del
termine di sei mesi senza che si sia proceduto all’adeguamento dello statuto
(le stesse considerazioni valgono per i regolamenti degli enti locali)
rappresenta una violazione di principi costituzionali che qualificano la stessa
struttura democratica dello Stato e che non possono, pertanto, essere
decurtati, attenuati o violati.
Si deve, invece, ritenere, per le ragioni di ordine
costituzionale e legislativo sopra esposte, che lo statuto, in quanto atto
normativo fondamentale che disciplina l’organizzazione e il funzionamento
dell’ente locale, debba contenere le norme volte ad assicurare condizioni di
pari opportunità tra uomo e donna e che l’omesso adeguamento entro il termine
di sei mesi fissato dal legislatore, determini una situazione di grave
antigiuridicità che legittima il ricorso a poteri sostitutivi, anche se non fa
venir meno il potere degli enti locali di adeguare gli statuti e i regolamenti.
Si tratta, peraltro, di una scelta obbligata,
costituzionalmente corretta e non rinviabile se si vuol garantire il rispetto
di un principio fondamentale dell’ordinamento giuridico. Del resto la
giurisprudenza amministrativa, ancor prima delle modifiche introdotte dalla
legge n. 215 del 2012, aveva affermato che l’omesso tempestivo adeguamento
dello statuto alle norme sul riequilibrio di genere consente l'esercizio del
potere sostitutivo da parte dell'organo di controllo, in quanto rientra nei
casi in cui l'ente locale ha l'obbligo di emanare un atto previsto da una fonte
normativa e non lo emani o lo ritardi (Cons. St. sez. V, 8 settembre 2008, n.
4284).
Quanto agli strumenti per l’esercizio dei poteri sostitutivi e
di annullamento, essi sono previsti e disciplinati dagli artt. 136, 137 e 138
del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali approvato con il
decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.
I menzionati articoli demandano in primo luogo e in via
generale l’esercizio del potere sostitutivo alle Regioni, nell’ambito della
vigilanza che le stesse esercitano sugli atti delle Province e dei Comuni, e
contemplano solo successivamente l’intervento statale in caso di inadempienza
delle autonomie territoriali.
In particolare, l’art. 136 (poteri sostitutivi per omissione o
ritardo di atti obbligatori) subordina l’esercizio del potere sostitutivo,
demandato ad un commissario ad acta nominato dal Comitato regionale di
controllo, all’inottemperanza dell’ente locale all’invito della Regione ad
adempiere all’obbligo di legge entro un termine ragionevole all’uopo indicato.
A sua volta l’art. 137 (“[p]oteri sostitutivi del Governo”)
prevede che il Presidente del Consiglio dei ministri, in caso di accertata
inattività che comporti inadempimento agli obblighi derivanti dall’appartenenza
all’Unione europea, su proposta del Ministro competente, assegna all’ente
inadempiente un congruo termine per provvedere e, decorso inutilmente tale
termine, il Consiglio dei Ministri nomina un commissario ad acta.
Infine, l’art. 138 (annullamento straordinario) prevede che, in
applicazione dell'articolo 2, comma 3, lettera p), della legge 23 agosto 1988,
n. 400, il Governo, a tutela dell'unità dell'ordinamento, con decreto del
Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri,
su proposta del Ministro dell'interno, possa, in qualunque tempo, annullare,
d'ufficio o su denunzia, sentito il Consiglio di Stato, gli atti degli enti
locali viziati da illegittimità. Quest’ultima possibilità di intervento appare
attagliarsi meglio alle ipotesi di ottemperanza soltanto formale all’obbligo di
adeguamento dello statuto.
Le disposizioni del T.U. sull’ordinamento degli enti locali
appena richiamate, secondo quanto evidenziato dalla Corte costituzionale con la
sentenza n. 43 del 2004, riguardano l’esercizio del potere sostitutivo
“ordinario” e lasciano impregiudicata l’ammissibilità e la disciplina di altri
casi di interventi sostitutivi, configurabili dalla legislazione regionale di
settore. Sul punto va pure considerato che l’art. 117, settimo comma, della
Costituzione, nel testo introdotto dalla legge costituzionale n. 3 del 2001,
ripropone il principio di eguaglianza anche per la legge regionale, che deve
rimuovere ogni ostacolo che impedisce la parità di genere nella vita sociale,
culturale ed economica e promuovere la parità di accesso alle cariche elettive.
La disposizione costituzionale ha pertanto una portata precettiva, che obbliga la Regione all’adozione di
misure antidiscriminatorie, non soltanto sul piano legislativo, ma anche
nell’esercizio dei poteri di vigilanza sugli enti locali.
A questo punto, pur considerando che il ricorso ai poteri
sostitutivi è un rimedio che va esercitato entro i limiti fissati dal rispetto
dei principi costituzionali di sussidiarietà e di leale collaborazione, si può
affermare che l’omesso adeguamento dello statuto entro il termine di sei mesi
previsto dalla legge n. 215 del 2012 costituisce il presupposto per l’esercizio
dei poteri sostitutivi, secondo un procedimento i cui lineamenti si traggono
dagli artt. 136, 137 e 138 del T.U. sull’ordinamento degli enti locali.
Per le ragioni di ordine costituzionale e di coerenza
ordinamentale sin qui espresse, sarebbe auspicabile un intervento di
sensibilizzazione delle autonomie locali da parte del Governo sulla specifica
materia nelle forme ritenute più opportune, coinvolgendo anche la Conferenza Unificata
Stato-Regioni e Stato-Città di cui al d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281.
In ogni caso, compete innanzitutto alle Regioni diffidare i
Comuni, che non hanno ancora adeguato i rispettivi statuti e regolamenti, a
provvedere entro un termine ragionevole (90 giorni sembrerebbero sufficienti
nella generalità dei casi) e, nel caso di inadempienze, nominare un commissario
ad acta perché proceda all’adeguamento dello statuto per gli enti rimasti
insensibili alla diffida.
Nell’ipotesi che taluna delle Regioni, benché sollecitate dal
Governo, non provvedesse nel senso sopra indicato, i poteri sostituitivi
saranno esercitati dal Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta dei
Ministri dell’interno e degli affari regionali e autonomie, nelle forme
previste dagli artt. 137 e 138 del d.lgs. n. 267 del 2000.
Peraltro, come sopra evidenziato, la facoltà del Governo di far
uso del potere sostitutivo nei confronti delle autonomie territoriali è stata
ribadita e ampliata dall’art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni
per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale
18 ottobre 2001, n. 3), in presenza di violazioni in grado di incidere
sensibilmente sui livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti
civili e sociali o di compromettere l’unitarietà dell’ordinamento.
4. Passando al secondo quesito, con il quale ci si interroga
sulla validità delle deliberazioni di Giunta e di Consiglio adottate dagli
organi composti da soli uomini, in violazione della legge n. 215 del 2012,
vanno considerate due ipotesi.
La prima si riferisce al caso in cui l’atto deliberativo sia
stato adottato, mentre è pendente ricorso giurisdizionale avverso l’irregolare
composizione dell’organo.
Come ricordato dalla stessa Amministrazione richiedente, la
questione è stata risolta dalla giurisprudenza amministrativa, che si è
espressa nel senso che l’organo in carica si presume validamente costituito
sino al deposito della sentenza che ne accerta l’illegittima composizione
(T.A.R. Lombardia - Brescia, Sez. II, 13 gennaio 2012, n. 1). Fino a quel
momento la Giunta
o il Consiglio dispongono dei pieni poteri e i relativi atti beneficiano del
principio della continuità degli organi amministrativi. Tale orientamento è
condiviso dalla Sezione.
La seconda ipotesi prende in esame il caso in cui l’atto
deliberativo sia stato adottato da un organo la cui irregolare composizione non
sia stata impugnata. Anche in questa situazione non ci sono riflessi diretti
sulla validità dell’atto. L’atto, se non impugnato nei termini, è divenuto
inoppugnabile, esso ha acquistato stabilità.
A chiarimento si considera che il potere amministrativo è
conferito dalla legge per la cura di interessi che non sono propri del soggetto
che lo esercita e che richiedono una situazione di supremazia nell’ordinamento
giuridico (principio di legalità). A detto principio si aggiungono il principio
di necessità, cioè il dovere del soggetto investito del potere di perseguire
l’interesse pubblico sino a quando perduri la situazione che ha originato il
potere e l’esigenza di curare gli interessi per cui è esercitato.
Ne consegue che la stabilità dell’azione amministrativa è
premessa e sintesi dei principi generali ai quali deve ispirarsi l’esercizio
del potere pubblico: economicità, efficacia e non aggravamento, pubblicità e
trasparenza, ragionevolezza e proporzionalità, buona fede e legittimo
affidamento.
Resta salvo l’esercizio del potere di autotutela della
Amministrazione (annullamento ordinario o straordinario) ove ne ricorrano i
presupposti.
5. Relativamente al terzo quesito va condiviso l’avviso
dell’Amministrazione che ritiene che le disposizioni delle legge n. 215 del
2012 debbano applicarsi soltanto all’atto del rinnovo della consiliatura o nel
caso di dimissioni o di surrogazione di un membro della giunta.
Siffatta interpretazione, oltre a conformarsi ai principi di
ragionevolezza e di buona amministrazione, è rispettosa dell’intendimento del
legislatore come emerge dagli atti parlamentari, nei quali si legge che
l’iniziativa legislativa “nasce dall'esigenza, finora elusa, di incentivare una
maggiore presenza femminile nelle istituzioni ad ogni livello, con la
gradualità necessaria a garantire le pari opportunità per ambedue i sessi, in
modo da evitare sia interventi di sola facciata sia forzature dall'alto che
condizionano già in partenza la piena autonomia delle elette” (Atto Camera n.
4415- XVI legislatura).
6. Con il quarto quesito l’Amministrazione chiede quale debba
essere la ripartizione percentuale minima tra i due sessi che gli statuti
devono prevedere a garanzia della rappresentanza di genere.
La questione, nei suoi lineamenti generali, è stata più volte
esaminata dalla Corte costituzionale, che anche in tempi recenti si è
pronunciata nel senso che “gli spazi della discrezionalità politica, in quanto
tali sottratti al sindacato del giudice, trovano i loro limiti nei principi di
natura giuridica posti dall'ordinamento, sia a livello costituzionale, sia a
livello legislativo; pertanto, quando il legislatore predetermina canoni di
legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali
principi dello Stato di diritto, con la conseguenza che: a) l'ambito di
estensione del potere discrezionale, incluso quello amplissimo connotante
l'azione di governo, è circoscritto dai vincoli segnati dalle norme giuridiche,
che ne tracciano i confini o ne indirizzano l'esercizio; b) il rispetto di detti
vincoli costituisce, allora e pur sempre, requisito di validità dell'atto,
sindacabile nelle sedi appropriate” (Corte cost., n. 81/2012).
Orbene, per quanto di interesse, il legislatore non ha indicato
una percentuale precisa per riequilibrare il rapporto numerico tra i due sessi,
sicché con riferimento alla composizione delle giunte (ciò che qui rileva) il
vincolo non è stato precisato nelle dimensioni applicative. Sul punto,
pertanto, sussistono ampi spazi di discrezionalità che conseguono all’autonomia
ordinamentale e devono essere compatibili con le dimensioni della realtà
amministrativa considerata.
In ogni caso, equilibrio di genere non significa parità di
presenze maschili e femminili, quanto piuttosto evitare l’irragionevole
preponderanza di un sesso rispetto all’altro, secondo un criterio già
ampiamente espresso dalla giurisprudenza amministrativa citata dalla stessa
Amministrazione. Soluzioni tassative al riguardo sono di competenza del
legislatore, che tuttavia sia nel decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198
(Codice delle pari opportunità tra uomo e donna a norma dell’art. 7 della legge
28 novembre 2005, n. 2469), sia nella legge n. 215 del 2012, è sembrato
privilegiare soluzioni ispirate a ragionevolezza e progressività.
7. Per ultimo, il Ministero pone il quesito se vi siano
particolari procedure che il sindaco debba attuare per dimostrare che,
nonostante abbia posto in essere ogni utile iniziativa idonea a garantire
l'applicazione del principio di pari opportunità tra uomo e donna, non è riuscito
a raggiungere tale obiettivo e ha dovuto nominare soltanto assessori di sesso
maschile.
Sul punto la
Sezione condivide l’orientamento della più recente
giurisprudenza amministrativa (T.A.R. Lazio, Sez. II, 20 gennaio 2012, n. 679),
che si è espressa nel senso che, affinché un decreto di nomina della Giunta sia
legittimo e rispetti la portata precettiva dell’art. 51 Cost., occorre che
contenga i seguenti elementi giustificativi:
-la dimostrazione di una preventiva e necessaria attività
istruttoria, volta ad acquisire la disponibilità allo svolgimento dell’attività
assessorile da parte di persone di entrambi i sessi;
- un’adeguata motivazione della mancata applicazione del
principio di pari opportunità.
Le stesse motivazioni assumono rilievo nel caso di Comuni con
popolazione inferiore ai 15.000 abitanti, sebbene per questi ultimi, a
differenza dei Comuni con una popolazione superiore alle 15.000 unità, l’art.
47, comma 4, del T.U. degli enti locali preveda la facoltà e non l’obbligo di
nominare assessori esterni.
Dovendosi, infatti, escludere che l’art. 1, comma 2, della
legge n. 215 del 2012 abbia tacitamente abrogato l’art. 47, comma 1, del T.U.
degli enti locali, sul quale è intervenuto con modifiche specifiche, rimane
soltanto da affermare che il Sindaco dovrà motivare il provvedimento di nomina
della Giunta, nel caso sia stato impossibile pervenire a una composizione
rispettosa dell’equilibrio di genere.
P.Q.M.
nei termini su esposti è il parere richiesto.