mercoledì 28 gennaio 2015




Strasburgo vs. Palazzaccio: un ulteriore intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo (questa volta con specifico riferimento al diritto italiano) in tema di maternità surrogata


Secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, viola l’art. 8 CEDU il rifiuto dell’Italia di trascrivere l’atto di nascita del minore, procreato attraverso la c.d. maternità surrogata.

La sentenza Paradiso e Campanelli c. Italia (Sez. II, 27 gennaio 2015), adottata a maggioranza (si registra l’opinione dissenziente del vice-presidente italiano e del giudice islandese) si pone in continuità con le sentenze gemelle Mennesson c. Francia e Labassee c. Francia (Sez. V, 26 giugno 2014), ma contrasta con la decisione della Cassazione 11 novembre 2011, n. 24001.

Nella sentenza da ultimo citata, il S.C. , sottolinea che:

a)“il divieto di pratiche di surrogazione di maternità è certamente di ordine pubblico, come suggerisce già la previsione della sanzione penale, di regola posta appunto a presidio di beni giuridici fondamentali. Vengono qui in rilievo la dignità umana - costituzionalmente tutelata - della gestante e l'istituto dell'adozione, con il quale la surrogazione di maternità si pone oggettivamente in conflitto perché soltanto a tale istituto, governato da regole particolari poste a tutela di tutti gli interessati, in primo luogo dei minori, e non al mero accordo delle parti, l'ordinamento affida la realizzazione di progetti di genitorialità priva di legami biologici con il nato”;

b) “le aperture, registrate in dottrina, verso alcune forme di maternità surrogata solitamente non riguardano la surrogazione eterologa, quella cioè realizzata mediante ovociti non appartenenti alla donna committente, che è priva perciò anche di legame genetico con il nato, com'è pacifico nel caso in esame; né tantomeno riguardano le ipotesi in cui neppure il gamete maschile appartiene alla coppia committente, come nella specie è risultato all'esito degli accertamenti disposti dal Tribunale. E nemmeno rileva qui domandarsi se siano configurabili (e come reagiscano, eventualmente, sul divieto penale di surrogazione di maternità ora previsto dalla legge), fattispecie di maternità surrogata caratterizzate da intenti di pura solidarietà e perciò tali da escludere qualsiasi lesione della dignità della madre surrogata, come pure in dottrina si è sostenuto, inerendo interrogativi siffatti a problematiche non attinenti alla fattispecie in esame”;

c) “neppure può sostenersi che il divieto in discussione si pone in contrasto con la tutela del superiore interesse del minore, da considerare preminente “in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi” ai sensi dell'art. 3 della Convenzione di New York richiamata nel ricorso. Il legislatore italiano, invero, ha considerato, non irragionevolmente, che tale interesse si realizzi proprio attribuendo la maternità a colei che partorisce e affidando, come detto, all'istituto dell'adozione, realizzata con le garanzie proprie del procedimento giurisdizionale, piuttosto che al semplice accordo della parti, la realizzazione di una genitorialità disgiunta dal legame biologico. E si tratta di una valutazione operata a monte dalla legge, la quale non attribuisce al giudice, su tale punto, alcuna discrezionalità da esercitare in relazione al caso concreto”;

d)“né … è esatta l'affermazione, …, secondo cui la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, Quinta Sezione, avrebbe, nelle sentenze gemelle emesse il 26 giugno 2014 nei confronti della Francia sui ricorsi n. 65192/11 (Mennesson c. Francia) e n. 65941/11 (Labassee c. Francia), affermato il diritto del nato mediante surrogazione di maternità ad essere riconosciuto come figlio legittimo della coppia committente. Vero è, invece, che in dette sentenze la Corte ha riconosciuto un ampio margine di apprezzamento discrezionale ai singoli Stati sul tema della maternità surrogata, in considerazione dei delicati interrogativi di ordine etico posti da tale pratica, disciplinata in maniera diversa nell'ambito dei paesi membri del Consiglio d'Europa, e ha ravvisato il superamento di detto margine nel difetto di riconoscimento giuridico del rapporto di filiazione tra il nato e il padre committente allorché quest'ultimo sia anche padre biologico (difetto di riconoscimento che, rileva la Corte, viola il diritto al rispetto della vita privata del figlio, ai sensi dell'art. 8 della Convenzione, comprendente il diritto all'identità personale sotto il profilo del legame di filiazione)”.




qui la sentenza della Corte Edu (in francese)




martedì 27 gennaio 2015





Inammissibilità della richiesta di referendum popolare sulla c.d. legge Fornero – Le motivazioni della Consulta


Corte cost. 27 gennaio 2015, n. 6

E’ inammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione dell’art. 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, richiesta dichiarata legittima, con ordinanza dell’11 dicembre 2014, dall’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione.

LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alessandro CRISCUOLO; Giudici : Paolo Maria NAPOLITANO, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON,


ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di ammissibilità, ai sensi dell’art. 2, primo comma, della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1 (Norme integrative della Costituzione concernenti la Corte costituzionale), della richiesta di referendum popolare per l’abrogazione dell’art. 24 (Disposizioni in materia di trattamenti pensionistici) del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, giudizio iscritto al n. 162 del registro referendum.
Vista l’ordinanza dell’11 dicembre 2014, con la quale l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione ha dichiarato conforme a legge la richiesta;
udito nella camera di consiglio del 20 gennaio 2015 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli;
uditi gli avvocati Andrea Manzi e Luca Antonini per Calderoli Roberto, Candiani Stefano, Centinaio Gian Marco e Munerato Emanuela nella qualità di rappresentanti del Comitato promotore Lega Nord e l’avvocato dello Stato Massimo Massella Ducci Teri per il Presidente del Consiglio dei ministri.


Ritenuto in fatto
1.‒ Con ordinanza dell’11 dicembre 2014, l’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 12 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo) e successive modificazioni, ha dichiarato conforme alle disposizioni di legge la richiesta di referendum popolare abrogativo, promossa da quindici cittadini italiani (con annuncio pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 25 febbraio 2014, serie generale, n. 46), sul quesito così inizialmente formulato: «Volete Voi che sia abrogato: il decreto-legge n. 201 recante “Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici”, convertito in legge con modificazioni dall’art. 1, comma 1, legge 22 dicembre 2011, n. 214, nel testo risultante per effetto di modificazioni e integrazioni successive, limitatamente all’articolo 24?».
2.− L’Ufficio centrale, con la stessa ordinanza – ritenuto «opportuno […] provvedere all’integrazione del quesito per inserire […] la rubrica della disposizione oggetto della richiesta referendaria suddetta» − ne ha così ridenominato il titolo: «Abrogazione delle disposizioni in materia di trattamenti pensionistici di cui all’art. 24 del decreto-legge n. 201 del 2011 (convertito dalla legge n. 214 del 2011)».
3.− Il Presidente della Corte costituzionale, ricevuta comunicazione dell’ordinanza, ha fissato, per la conseguente deliberazione, la camera di consiglio del 14 gennaio 2015, disponendo che ne fosse data comunicazione ai sensi dell’art. 33 della legge n. 352 del 1970.
4.− In prossimità della camera di consiglio del 14 gennaio 2015, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha depositato una memoria con la quale chiede che la richiesta di referendum abrogativo, del predetto art. 24 del decreto-legge n. 201 del 2011, sia dichiarata inammissibile.
A tal fine, la difesa erariale deduce che la richiesta referendaria non sarebbe tale da soddisfare, anzitutto, il requisito dell’omogeneità del quesito, coinvolgendo esso tutte le disposizioni in materia di trattamenti pensionistici, sia pubblici che privati, oltre a norme in materia di perequazione delle pensioni, di riequilibrio della previdenza per i liberi professionisti e un Fondo per il finanziamento di interventi a favore dell’occupazione giovanile e delle donne.
Inoltre, la norma di cui si chiede l’abrogazione, introducendo nuovi principi in tema di trattamenti previdenziali, costituirebbe “una disposizione della manovra finanziaria del 2011, produttiva di effetti collegati in via diretta ed immediata alla legge di bilancio” e, dunque, non sottoponibile, di per sé, a referendum ai sensi dell’art. 75 Cost.
5.− La trattazione del giudizio di ammissibilità della suddetta richiesta di referendum – già fissata per la data del 14 gennaio 2015 – è stata, con ordinanza in pari data, rinviata all’udienza camerale del 20 gennaio successivo, in adesione alla richiesta in tal senso formulata dai cittadini suoi presentatori, non risultando nei loro confronti ritualmente perfezionata la notifica del provvedimento di fissazione della data della precedente udienza, della quale gli stessi dichiaravano di essere venuti solo tardivamente aliunde a conoscenza.
6.− Nel termine di cui all’art. 33 della legge n. 352 del 1970, la difesa dei predetti presentatori ha, quindi, depositato memoria, nella quale si sostiene che la norma oggetto della presente richiesta di referendum – diversamente dalle «Norme per il riordino del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della L. 23 ottobre 1992, n. 421», di cui al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (strutturate nell’ambito di una legge di delega e preannunciate nei documenti di programmazione finanziaria), oggetto della declaratoria di inammissibilità del referendum di cui alla sentenza n. 2 del 1994 − si risolva in un «intervento straordinario, annunciato e adottato quasi in contemporanea, in alcun modo riconducibile alla legge di stabilità» e, quindi, alla categoria delle leggi di bilancio.


Considerato in diritto
1.‒ La Corte è chiamata a pronunciarsi sull’ammissibilità della richiesta di referendum popolare per l’abrogazione dell’art. 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214 (da ora, più semplicemente d.l. n. 201 del 2011): richiesta dichiarata legittima, con ordinanza dell’11 dicembre 2014, dall’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, che ha modificato il correlativo quesito, con attribuzione del seguente titolo: «Abrogazione delle disposizioni in materia di trattamenti pensionistici di cui all’art. 24 del decreto-legge n. 201 del 2011 (convertito dalla legge n. 214 del 2011)».
2.− Il citato art. 24 aggrega, nei commi da 1 a 31-bis, di cui si compone, una variegata serie di «disposizioni in materia di trattamenti pensionistici» relativa ai settori del lavoro sia pubblico che privato, sia subordinato che autonomo e dei liberi professionisti; e che attengono sia alla “nuova” pensione di vecchiaia che a quella “anticipata” (sostitutiva della precedente pensione di anzianità); contemplano misure concernenti la contribuzione di solidarietà e il blocco della perequazione automatica delle pensioni; prevedono anche l’istituzione di un «Fondo per il finanziamento di interventi a favore dell’incremento in termini quantitativi e qualitativi dell’occupazione giovanile e delle donne» (comma 27) e disciplinano la tassazione delle indennità di fine rapporto e di quelle in favore di amministratori di società di capitali (comma 31).
3.− La richiesta in esame è inammissibile per motivi che attengono sia alla natura della normativa che si intende abrogare, sia alla struttura del quesito.
3.1.− In relazione al primo profilo – anche a prescindere dalla natura tributaria, ostativa alla sottoponibilità a referendum ex art. 75 Cost., della su citata disposizione, di cui al comma 31, inserita all’interno dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, considerato come aggregato unitario e indiviso dalla richiesta abrogativa – rileva il divieto di ammissibilità del referendum abrogativo di leggi di bilancio, di cui al medesimo precetto costituzionale, riferibile al complessivo contenuto disciplinatorio del predetto art. 24.
3.1.1.− Al riguardo, questa Corte – sulla premessa che la interpretazione letterale delle cause di inammissibilità testualmente descritte nell’art. 75 Cost. deve essere integrata «da una interpretazione logico-sistematica, per cui vanno sottratte al referendum disposizioni produttive di effetti collegati in modo così stretto all’ambito di operatività delle leggi espressamente indicate dall’art. 75, che la preclusione debba ritenersi sottintesa» (sentenza n. 16 del 1978) – ha già avuto modo di precisare, con riguardo alla categoria, in particolare, delle «leggi di bilancio», che – se non possono, agli effetti del divieto sub art. 75 Cost., a questa equipararsi «le innumerevoli leggi di spesa» (sentenza n. 16 del 1978), ancorché (e per il solo fatto che) perseguano obiettivi di «contenimento della spesa pubblica» (sentenza n. 12 del 2014) – sono, viceversa, a detta categoria riconducibili quelle leggi che «presentino “effetti collegati in modo così stretto all’ambito di operatività” delle leggi di bilancio, da essere sottratte a referendum, diversamente dalle altre innumerevoli leggi di spesa». Con l’ulteriore puntualizzazione che un tale «stretto collegamento si può ritenere sussista se il legame genetico, strutturale e funzionale con le leggi di bilancio sia tale che le norme sostanziali collegate incidano direttamente sul quadro delle coerenze macroeconomiche e siano essenziali per realizzare l’indispensabile equilibrio finanziario» (sentenza n. 2 del 1994), in modo da rientrare nella «manovra di bilancio» (sentenza n. 35 del 1985).
3.1.2.− In applicazione di tali principi, sono già state ritenute inammissibili due richieste di referendum relative al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, recante «Norme per il riordino del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della L. 23 ottobre 1992, n. 421», in ragione, appunto, del ravvisato stretto collegamento, «nel tempo», degli effetti del suddetto atto legislativo «all’ambito di operatività delle leggi di bilancio», anche in correlazione alla sua specifica finalità di «stabilizzazione del sistema per dare sicurezza ai pensionati attuali e futuri sulla tenuta finanziaria del sistema stesso» (sentenza n. 2 del 1994).
La difesa dei promotori ha, a tal riguardo, sostenuto che lo «stretto collegamento» con l’ambito di operatività della legge di bilancio – ravvisato dalla ricordata sentenza n. 2 del 1994 rispetto alla disciplina pensionistica di cui al decreto legislativo n. 503 del 1992 – non possa essere, però, analogamente individuato nella norma oggetto dell’attuale richiesta referendaria. E ciò perché si tratterebbe, in questo caso, di «un intervento straordinario, annunciato ed adottato quasi in contemporanea», con un decreto-legge, «e non di un intervento strutturato nell’ambito di una legge di delega e preannunciato nei documenti di programmazione finanziaria», «come invece era accaduto per il d.lgs. n. 503 del 1992».
La stessa difesa − dopo aver sottolineato «come la legge di stabilità per il 2012 (legge 12 novembre 2011, n. 183) sia stata promulgata oltre venti giorni prima dell’adozione (6 dicembre) del decreto-legge n. 201 del 2011» − ha poi ancora sostenuto che ciò sia «dirimente» al fine di «escludere che il suddetto decreto-legge possa ritenersi collegato in modo genetico e funzionale con quelle leggi di bilancio per le quali l’art. 75 della Costituzione esclude il referendum».
3.1.3. – L’argomento non è fondato.
Il «collegamento» alla legge di bilancio, agli effetti della inammissibilità del referendum, ben può, infatti, riferirsi anche a provvedimenti a detta legge successivi, ove formalmente e sostanzialmente correttivi o integrativi della stessa, che si rendano necessari per l’equilibrio della manovra finanziaria.
Questa evenienza è espressamente prevista e disciplinata dalla disposizione di cui al comma 6 dell’art. 10-bis della legge di contabilità e finanza pubblica (legge 31 dicembre 2009, n. 196), come introdotta dall’art. 2, comma 3, della legge 7 aprile 2011, n. 39 (Modifiche alla legge 31 dicembre 2009, n. 196, conseguenti alle nuove regole adottate dall’Unione europea in materia di coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri), in vigore dal 13 aprile successivo, la quale prevede che, in tal caso, «il Governo […] trasmette una relazione al Parlamento nella quale indica […] gli interventi correttivi che si prevede di adottare».
Come noto, la riferita procedura è stata applicata, per la prima volta, proprio con riguardo al d.l. n. 201 del 2011.
Nella Relazione al Parlamento, presentata il 4 dicembre 2011, il Governo evidenziava come − in ragione delle recenti tensioni sui mercati finanziari − «per mantenere gli impegni assunti in sede europea» si rendesse, appunto, necessaria una manovra correttiva [della precedente legge n. 183 del 12 novembre 2011] equivalente a circa l’1,3 per cento del Prodotto interno lordo – incidente, per una parte rilevante sul settore previdenziale – ed espressamente qualificava tale intervento come “collegato” alla manovra di finanza pubblica per il triennio 2012-2014.
Ed è in ragione di ciò che, in sede di esame (per la conversione in legge) del d.l. n. 201 del 2011, è stata applicata la disposizione di cui all’art. 123-bis, comma 3-bis, del Regolamento della Camera, relativa al regime di ammissibilità delle proposte emendative di provvedimenti collegati alla manovra di finanza pubblica (Intervento del Presidente Giorgetti, in Commissioni Riunite V e VI, seduta dell’8 dicembre 2011 – Atti Camera n. 4829, XVI Legislatura). E, anche in sede di discussione e approvazione in Senato (651ª Seduta, 22 dicembre 2011), il disegno di legge n. 3066, di conversione del d.l. n. 201 del 2011, è stato espressamente qualificato come «Collegato alla manovra finanziaria».
Il collegamento della norma che si intende sottoporre a referendum con la legge di bilancio è ulteriormente, ed inequivocabilmente, del resto, dimostrato dal fatto che la disposizione di cui all’art. 5 della legge n. 183 del 2011 (in materia di trattamenti pensionistici e, segnatamente, sull’elevazione del requisito anagrafico ad anni 67 per chi matura il diritto al pensionamento dall’anno 2026), è stata abrogata proprio dal comma 9 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, che, pertanto, è venuto ad incidere su un aggregato, importante, della manovra di bilancio, con evidenti prospettive di ampliare l’orizzonte della sostenibilità finanziaria stessa (anticipando la progressione in avanti del requisito anagrafico).
In definitiva, proprio gli evidenziati profili di contenuto e procedurali, che sostanziano la portata dell’art. 24 e ne hanno caratterizzato l’origine, rendono immediatamente percepibile la differenza di piani sui quali si collocano l’anzidetta disposizione oggetto del quesito referendario ed una «qualunque legge» che «persegua obiettivi o produca effetti di contenimento della spesa pubblica in vista del riequilibrio del bilancio statale» (sentenza n. 12 del 2014); una distanza, dunque, che, anche nel caso in esame, mantiene intatta l’esigenza di non ampliare eccessivamente l’orbita del divieto di cui all’art. 75, secondo comma, Cost.
3.2.− Ulteriore, a sua volta decisivo, motivo di inammissibilità della odierna richiesta di referendum è costituito dalla palese carenza di omogeneità del quesito. Ciò che, nella loro memoria, i promotori neppure hanno contestato, insistendo, invece, sui molteplici aspetti di criticità che paleserebbe la disciplina recata dall’art. 24 e, tra questi, in particolare quello della sua incidenza pregiudizievole su una estesa platea di destinatari; censure, queste, che, come tali, non possono però radicare alcun scrutinio in questa sede, giacché estranee all’ambito oggettivo del presente giudizio di ammissibilità ai sensi della legge costituzionale n. 1 del 1953.
La richiesta in esame – proponendosi di sottoporre ad abrogazione in modo indistinto l’intero art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 – investe, infatti, all’interno della stessa (di per sé) ampia e variegata materia dei «trattamenti pensionistici», una pluralità di fattispecie differenziate, sia in relazione alle forme di pensione (stante l’autonomia disciplinatoria della «pensione di anzianità» rispetto a quella, cosiddetta ora, «anticipata»), sia con riguardo alla pluralità delle categorie di soggetti interessati (lavoratori pubblici, privati, subordinati, autonomi, liberi professionisti), cui corrispondono non uniformi regimi previdenziali; e coinvolge, altresì, disposizioni normative che attengono alle aliquote contributive dei soli lavoratori autonomi, alla perequazione automatica, alla contribuzione di solidarietà ed alla istituzione di un Fondo per favorire l’occupazione giovanile e delle donne, oltre ad una disposizione eccentrica ed estranea alla materia previdenziale come quella di natura tributaria sulla tassazione anche dei compensi degli amministratori di società di capitali.
Si tratta, dunque, nella specie di un “aggregato indivisibile di norme”, tale che «l’elettore si troverebbe a dover esprimere un voto bloccato su una pluralità di atti e disposizioni diverse» (sentenza n. 12 del 2014), con conseguente compressione della propria libertà di convincimento e di scelta, a presidio della quale, appunto, è posto il requisito della omogeneità del quesito, al fine di garantire l’autenticità della espressione della volontà popolare (sentenze n. 47 del 1991, n. 65 e n. 64 del 1990, n. 27 del 1981, ex plurimis).
4.− L’art. 1 della successiva legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge di stabilità 2015», nei suoi commi 113, 117, 707, 708 e 709, ha, a sua volta, inciso in senso modificativo su disposizioni (in particolare su quelle di cui al comma 10 e al comma 2) dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011.
Tale modifiche sono evidentemente prive di rilievo agli effetti dell’odierno giudizio di (esclusa) ammissibilità del referendum abrogativo del citato art. 24, anche se, ex post, ulteriormente confermano il collegamento della disciplina, che ne forma oggetto, con gli obiettivi e i contenuti, di lungo periodo, della manovra finanziaria.


per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione dell’art. 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, richiesta dichiarata legittima, con ordinanza dell’11 dicembre 2014, dall’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione.



domenica 25 gennaio 2015





Corte di Giustizia UE xx gennaio 2015, (cause riunite)  n. xx

Rinvio pregiudiziale – Previdenza sociale dei lavoratori migranti – Regolamento (CEE) n. 1408/71 – Articolo 7, paragrafo 2, lettera c) – Applicabilità delle convenzioni in materia previdenziale tra Stati membri – Rifugiato rimpatriato originario di uno Stato membro – Compimento di periodi di occupazione nel territorio di un altro Stato membro – Domanda di concessione di una prestazione di vecchiaia – Diniego



L’articolo 7, paragrafo 2, lettera c), del regolamento (CEE) n. 1408/71 del Consiglio, del 14 giugno 1971, relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità, nella sua versione modificata e aggiornata dal regolamento (CE) n. 118/97 del Consiglio, del 2 dicembre 1996, come modificato dal regolamento (CE) n. 1992/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 dicembre 2006, deve essere interpretato nel senso che un accordo bilaterale relativo alle prestazioni di sicurezza sociale a favore dei cittadini di uno degli Stati firmatari, cittadini che avevano lo status di rifugiati politici nel territorio dell’altro Stato firmatario, concluso in una data in cui uno dei due Stati firmatari non aveva ancora aderito all’Unione e che non figura nell’allegato III di tale regolamento, non rimane applicabile alla situazione di rifugiati politici rimpatriati nel loro Stato d’origine prima della conclusione dell’accordo bilaterale e dell’entrata in vigore di tale regolamento.



Dal sito http://curia.europa.eu

venerdì 23 gennaio 2015



Violazione del diritto dell’Unione e patologia dell’atto amministrativo

Tar Emilia Romagna xxx 2014, n. xxx


OMISSIS
Il Collegio ritiene che l’azione proposta dalla ricorrente ex art. 21 septies L. n. 241 del 1990 non possa essere accolta. La norma, nell’unico comma che la compone, prescrive che: “E' nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge.”
Da un’attenta lettura della disposizione si evince che tale tipologia di “illegittimità forte”, così individuata in quanto più grave, negli effetti, rispetto all’ordinaria patologia dell’atto amministrativo sfociante nell’illegittimità e nel conseguente necessario annullamento dello stesso da parte del giudice amministrativo o della stessa P.A., costituisce ipotesi eccezionale rispetto all’ordinaria invalidità dell’atto, con conseguente sua concreta applicazione solo nei casi espressamente indicati nella norma che l’ha innovativamente introdotta nel testo della legge sul procedimento amministrativo e, quindi, nel vigente diritto amministrativo positivo.
Anche la giurisprudenza amministrativa che si è occupata della questione è ferma nel ritenere che le ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo di cui all’art. 21-septies L. n. 241 del 1990 costituiscano un numerus clausus, con conseguente inapplicabilità della suddetta disposizione all’infuori dei casi riferibili a: 1) atto amministrativo sprovvisto degli elementi essenziali; 2) atto adottato da organismo pubblico in difetto assoluto di attribuzioni; 3) atto adottato in violazione o elusione del giudicato; 4) in tutti gli altri casi in cui la legge prevede specificamente la nullità dell’atto amministrativo.
OMISSIS
Il Collegio ritiene – sul punto condividendo il largamente maggioritario indirizzo della giurisprudenza amministrativa sul punto – che la violazione del diritto comunitario da parte dell’atto amministrativo implichi solo un vizio di legittimità dello stesso, con conseguente semplice annullabilità dell’atto, stante che il vizio consistente nella violazione di norma del diritto comunitario non rientra – come si è visto- tra i casi espressamente elencati nell’art. 21 septies L. n. 241 del 1990 …. La stessa giurisprudenza ha inoltre rilevato che “…quando la norma comunitaria è entrata a far parte integrante dell’ordinamento giuridico interno, essa gode del medesimo regime di illegittimità-annullabilità degli atti amministrativi non conformi alle altre norme dell’ordinamento giuridico nazionale, per cui, se si consentisse al Giudice adito (o all’Amministrazione, al di fuori dell’esercizio del potere di autotutela) la disapplicazione delle norme processuali che impongono l’impugnazione a pena di decadenza, si creerebbe una discriminazione alla rovescia a danno delle norme nazionali, invece sottoposte a quel regime.” (v. …).
Ancora, altra condivisibile giurisprudenza ha sostenuto che la violazione, da parte dell'atto amministrativo nazionale, di norme appartenenti al diritto comunitario (primario o derivato), comporti una illegittimità dell'atto da inquadrare nell'ambito dell'annullabilità, con conseguente applicabilità, nei suoi confronti, delle ordinarie regole sostanziali e processuali in materia di efficacia, di inoppugnabilità per decorso dei termini di impugnazione e di non disapplicabilità dell'atto in sede di giurisdizione amministrativa …. Il Collegio deve quindi conclusivamente rilevare che, al di fuori delle tassative ipotesi eccezionali previste dall’art. 21 septies L. n. 241 del 1990, la violazione di una norma comunitaria, da parte di un provvedimento amministrativo, comporta l’onere, in capo al soggetto interessato, di impugnare detto provvedimento entro l’ordinario termine decadenziale, al fine di poterne ottenere l’annullamento in sede giurisdizionale.
OMISSIS

martedì 20 gennaio 2015


Comunicato dell'Ufficio stampa della Corte costituzionale 20 gennaio 2015





Decisione in tema di ammissibilità del referendum sulle disposizioni in materia di trattamenti pensionistici





            La Corte costituzionale, nell’odierna Camera di consiglio, ha dichiarato inammissibile la  richiesta di referendum relativa  all’articolo 24 (Disposizioni in materia di trattamenti pensionistici) del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito in legge, con modificazioni, dall'articolo 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, nel testo risultante per effetto di modificazioni e integrazioni successive.
            La sentenza sarà depositata entro i termini previsti dalla legge

lunedì 19 gennaio 2015





Cons. di stato, I, xxx n. xxx, Ministero dell'interno. Quesito in materia di applicazione della legge 23 novembre 2012, n. 215, recante “Disposizioni per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei Consigli e nelle Giunte degli enti locali e nei Consigli regionali. Disposizioni in materia di pari opportunità nella composizione delle commissioni di concorso nelle pubbliche amministrazioni”.
LA SEZIONE
Vista la relazione trasmessa con nota 21 febbraio 2014 n. 2959, con la quale il Ministero dell'interno - Dipartimento per gli affari interni e territoriali - ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sul quesito in oggetto;
esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Elio Toscano;

Premesso.
1. Il Ministero dell’interno premette che la legge 23 novembre 2012, n. 215 ha dettato nuove disposizioni volte a promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei Consigli e nelle Giunte degli enti locali e nei Consigli comunali, regionali, nonché nella composizione delle Commissioni di concorso nelle Pubbliche Amministrazioni.
In particolare, l’art. 1, comma 1, della legge suddetta ha modificato il comma 3. dell’art. 6 del d.lgs. n. 267 del 2000, prevedendo che gli statuti comunali e provinciali stabiliscano norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna ai sensi della legge 10 aprile 1991, n. 125, e per garantire (anziché “promuovere” espressione utilizzata nella precedente formulazione), la presenza di entrambi i sessi nelle Giunte e negli organi collegiali non elettivi del Comune e della Provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.
Lo stesso articolo 1, al comma 2, stabilisce, inoltre, che gli enti locali, entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge, debbano adeguare i rispettivi statuti e regolamenti alle novellate disposizioni del comma 3 dell'art. 6 del d.lgs. n. 267 del 2000.
L’Amministrazione richiama, altresì, le ulteriori disposizioni introdotte dalla legge n. 215 del 2012 volte a rendere effettiva la presenza di entrambi i sessi nei Consigli comunali, sia nella formazione delle liste dei candidati, sia nelle relative consultazioni elettorali, sia nella formazione delle Giunte comunali e provinciali “nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini”.
Sottolinea, poi, che il legislatore con la novella in argomento ha inteso specificare ulteriormente quanto già sancito in materia da fonti nazionali e sovranazionali, quali l'art. 51 della Costituzione, l'art. l del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità) e l'art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.
2. Ciò premesso, il Ministero riferente rappresenta che, relativamente alla legge n. 215 del 2012, sono emerse alcune incertezze applicative, riassumibili nei seguenti quesiti:
a) quali iniziative possono essere poste in essere nei confronti degli enti locali che non hanno adeguato gli statuti e i regolamenti comunali alle novellate disposizioni del comma 3 dell'art. 6 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267;
b) se le delibere di Giunta e Consiglio adottate dagli organi composti da soli uomini, quindi in violazione della legge n. 215 del 2012, siano legittime;
c) se la legge n. 215 del 2012 si applichi esclusivamente alle Amministrazioni locali elette dopo l'entrata in vigore della stessa o anche alle Amministrazioni in corso di consiliatura, elette prima dell'entrata in vigore della suddetta norma;
d) se e quale sia la percentuale necessaria che gli statuti degli enti locali devono prevedere al fine di garantire il livello minimo costituito dalla rappresentanza di genere;
e) se vi siano particolari procedure che il sindaco deve attuare per dimostrare che, nonostante abbia posto in essere ogni utile iniziativa idonea a garantire l'applicazione del principio di pari opportunità tra uomo e donna, non sia riuscito a raggiungere tale obiettivo e abbia dovuto nominare tutti assessori di sesso maschile.
Considerato.
3. I quesiti posti al Consiglio di Stato sottendono una questione preliminare di fondo e cioè che gli interventi del legislatore in materia di riequilibrio delle quote di genere hanno posto sinora l’accento prevalentemente sull’obiettivo di un maggior coinvolgimento del genere femminile negli organismi di decisione pubblica, ma sono stati meno puntuali nell’indicare gli strumenti che devono garantire l’effettività delle specifiche disposizioni normative. Da qui l’esigenza di trarre dall’ordinamento vigente gli strumenti integrativi necessari per dare concreta attuazione alle norme sulla parità di genere e sopperire a eventuali ritardi applicativi.
Tale riflessione è indotta innanzitutto dal primo quesito con il quale si chiede quali iniziative possano essere prese nei confronti degli enti locali che non hanno adeguato gli statuti e i regolamenti comunali alla novellate disposizioni entro i sei mesi fissati dal legislatore.
A norma dell’art. 120 della Costituzione, nel testo formalmente riscritto dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, i poteri sostitutivi possono essere esercitati dal Governo nei confronti delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di “…mancato rispetto … della normativa comunitaria … ovvero quando lo richiedono … la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali”.
Orbene, l’osservanza della parità di genere attiene senza dubbio alla “tutela dei livelli essenziali delle prestazioni riguardanti i diritti civili e sociali”.
Al riguardo, basti considerare che l’eguaglianza tra i sessi nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive, affermata dall’art. 51, primo comma, della Carta costituzionale è una specificazione del principio di uguaglianza (Corte cost. n. 166/1973), già espresso dall’art. 3 Cost., ed esclude, quindi, che possano esserci discriminazioni attinenti al sesso.
Il principio della parità tra uomo e donna in tutti campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione, è affermato, altresì, dall’articolo 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sicché si caratterizza anche come cardine del diritto comunitario.
Va ancora considerato che il testo originario dell’art. 51 Cost. si limitava a sancire il principio delle pari opportunità tra i sessi, mentre l’integrazione introdotta al comma 1 dell’art. 51 dalla legge costituzionale n. 1 del 2003 “A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini” sta a significare che la promozione delle pari opportunità non è demandata soltanto al legislatore, ma coinvolge tutti i pubblici poteri.
Pertanto, da un lato le misure legislative devono essere “volte a promuovere i punti di partenza e a realizzare la pari dignità sociale di tutti i cittadini” (Corte cost. n. 422 del 1995), dall’altro tutti i pubblici poteri sono tenuti a osservare il principio dell’eguaglianza tra i sessi, anche nell’adozione dei provvedimenti amministrativi (obbligo ampiamente esplorato e sancito dalla giurisprudenza amministrativa).
Ed è proprio nel contesto delle misure legislative volte ad adempiere i precetti costituzionali appena richiamati che si inseriscono sia il novellato comma 3 dell’art. 6 del d.lgs. n. 267 del 2000, che dispone che “gli statuti comunali e provinciali stabiliscono norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna ai sensi della legge 10 aprile 1991, n. 125 e per garantire la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti”, sia la correlata disposizione che prevede che l’adeguamento degli statuti e dei regolamenti comunali debba aver luogo entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge n. 215 del 2012 (art. 1, comma 2).
A fronte di un intervento legislativo volto a dare attuazione a una specificazione del principio di eguaglianza tra uomo e donna nell’accesso alle cariche elettive, sarebbe fuorviante concludere che il termine di sei mesi non ha alcun rilievo, in quanto per la sua inosservanza il legislatore non ha previsto una specifica sanzione. Infatti, vertendosi in materia di riconoscimento di diritti costituzionali fondamentali, il superamento del termine di sei mesi senza che si sia proceduto all’adeguamento dello statuto (le stesse considerazioni valgono per i regolamenti degli enti locali) rappresenta una violazione di principi costituzionali che qualificano la stessa struttura democratica dello Stato e che non possono, pertanto, essere decurtati, attenuati o violati.
Si deve, invece, ritenere, per le ragioni di ordine costituzionale e legislativo sopra esposte, che lo statuto, in quanto atto normativo fondamentale che disciplina l’organizzazione e il funzionamento dell’ente locale, debba contenere le norme volte ad assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna e che l’omesso adeguamento entro il termine di sei mesi fissato dal legislatore, determini una situazione di grave antigiuridicità che legittima il ricorso a poteri sostitutivi, anche se non fa venir meno il potere degli enti locali di adeguare gli statuti e i regolamenti.
Si tratta, peraltro, di una scelta obbligata, costituzionalmente corretta e non rinviabile se si vuol garantire il rispetto di un principio fondamentale dell’ordinamento giuridico. Del resto la giurisprudenza amministrativa, ancor prima delle modifiche introdotte dalla legge n. 215 del 2012, aveva affermato che l’omesso tempestivo adeguamento dello statuto alle norme sul riequilibrio di genere consente l'esercizio del potere sostitutivo da parte dell'organo di controllo, in quanto rientra nei casi in cui l'ente locale ha l'obbligo di emanare un atto previsto da una fonte normativa e non lo emani o lo ritardi (Cons. St. sez. V, 8 settembre 2008, n. 4284).
Quanto agli strumenti per l’esercizio dei poteri sostitutivi e di annullamento, essi sono previsti e disciplinati dagli artt. 136, 137 e 138 del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali approvato con il decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.
I menzionati articoli demandano in primo luogo e in via generale l’esercizio del potere sostitutivo alle Regioni, nell’ambito della vigilanza che le stesse esercitano sugli atti delle Province e dei Comuni, e contemplano solo successivamente l’intervento statale in caso di inadempienza delle autonomie territoriali.
In particolare, l’art. 136 (poteri sostitutivi per omissione o ritardo di atti obbligatori) subordina l’esercizio del potere sostitutivo, demandato ad un commissario ad acta nominato dal Comitato regionale di controllo, all’inottemperanza dell’ente locale all’invito della Regione ad adempiere all’obbligo di legge entro un termine ragionevole all’uopo indicato.
A sua volta l’art. 137 (“[p]oteri sostitutivi del Governo”) prevede che il Presidente del Consiglio dei ministri, in caso di accertata inattività che comporti inadempimento agli obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione europea, su proposta del Ministro competente, assegna all’ente inadempiente un congruo termine per provvedere e, decorso inutilmente tale termine, il Consiglio dei Ministri nomina un commissario ad acta.
Infine, l’art. 138 (annullamento straordinario) prevede che, in applicazione dell'articolo 2, comma 3, lettera p), della legge 23 agosto 1988, n. 400, il Governo, a tutela dell'unità dell'ordinamento, con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell'interno, possa, in qualunque tempo, annullare, d'ufficio o su denunzia, sentito il Consiglio di Stato, gli atti degli enti locali viziati da illegittimità. Quest’ultima possibilità di intervento appare attagliarsi meglio alle ipotesi di ottemperanza soltanto formale all’obbligo di adeguamento dello statuto.
Le disposizioni del T.U. sull’ordinamento degli enti locali appena richiamate, secondo quanto evidenziato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 43 del 2004, riguardano l’esercizio del potere sostitutivo “ordinario” e lasciano impregiudicata l’ammissibilità e la disciplina di altri casi di interventi sostitutivi, configurabili dalla legislazione regionale di settore. Sul punto va pure considerato che l’art. 117, settimo comma, della Costituzione, nel testo introdotto dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, ripropone il principio di eguaglianza anche per la legge regionale, che deve rimuovere ogni ostacolo che impedisce la parità di genere nella vita sociale, culturale ed economica e promuovere la parità di accesso alle cariche elettive. La disposizione costituzionale ha pertanto una portata precettiva, che obbliga la Regione all’adozione di misure antidiscriminatorie, non soltanto sul piano legislativo, ma anche nell’esercizio dei poteri di vigilanza sugli enti locali.
A questo punto, pur considerando che il ricorso ai poteri sostitutivi è un rimedio che va esercitato entro i limiti fissati dal rispetto dei principi costituzionali di sussidiarietà e di leale collaborazione, si può affermare che l’omesso adeguamento dello statuto entro il termine di sei mesi previsto dalla legge n. 215 del 2012 costituisce il presupposto per l’esercizio dei poteri sostitutivi, secondo un procedimento i cui lineamenti si traggono dagli artt. 136, 137 e 138 del T.U. sull’ordinamento degli enti locali.
Per le ragioni di ordine costituzionale e di coerenza ordinamentale sin qui espresse, sarebbe auspicabile un intervento di sensibilizzazione delle autonomie locali da parte del Governo sulla specifica materia nelle forme ritenute più opportune, coinvolgendo anche la Conferenza Unificata Stato-Regioni e Stato-Città di cui al d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281.
In ogni caso, compete innanzitutto alle Regioni diffidare i Comuni, che non hanno ancora adeguato i rispettivi statuti e regolamenti, a provvedere entro un termine ragionevole (90 giorni sembrerebbero sufficienti nella generalità dei casi) e, nel caso di inadempienze, nominare un commissario ad acta perché proceda all’adeguamento dello statuto per gli enti rimasti insensibili alla diffida.
Nell’ipotesi che taluna delle Regioni, benché sollecitate dal Governo, non provvedesse nel senso sopra indicato, i poteri sostituitivi saranno esercitati dal Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta dei Ministri dell’interno e degli affari regionali e autonomie, nelle forme previste dagli artt. 137 e 138 del d.lgs. n. 267 del 2000.
Peraltro, come sopra evidenziato, la facoltà del Governo di far uso del potere sostitutivo nei confronti delle autonomie territoriali è stata ribadita e ampliata dall’art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), in presenza di violazioni in grado di incidere sensibilmente sui livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali o di compromettere l’unitarietà dell’ordinamento.
4. Passando al secondo quesito, con il quale ci si interroga sulla validità delle deliberazioni di Giunta e di Consiglio adottate dagli organi composti da soli uomini, in violazione della legge n. 215 del 2012, vanno considerate due ipotesi.
La prima si riferisce al caso in cui l’atto deliberativo sia stato adottato, mentre è pendente ricorso giurisdizionale avverso l’irregolare composizione dell’organo.
Come ricordato dalla stessa Amministrazione richiedente, la questione è stata risolta dalla giurisprudenza amministrativa, che si è espressa nel senso che l’organo in carica si presume validamente costituito sino al deposito della sentenza che ne accerta l’illegittima composizione (T.A.R. Lombardia - Brescia, Sez. II, 13 gennaio 2012, n. 1). Fino a quel momento la Giunta o il Consiglio dispongono dei pieni poteri e i relativi atti beneficiano del principio della continuità degli organi amministrativi. Tale orientamento è condiviso dalla Sezione.
La seconda ipotesi prende in esame il caso in cui l’atto deliberativo sia stato adottato da un organo la cui irregolare composizione non sia stata impugnata. Anche in questa situazione non ci sono riflessi diretti sulla validità dell’atto. L’atto, se non impugnato nei termini, è divenuto inoppugnabile, esso ha acquistato stabilità.
A chiarimento si considera che il potere amministrativo è conferito dalla legge per la cura di interessi che non sono propri del soggetto che lo esercita e che richiedono una situazione di supremazia nell’ordinamento giuridico (principio di legalità). A detto principio si aggiungono il principio di necessità, cioè il dovere del soggetto investito del potere di perseguire l’interesse pubblico sino a quando perduri la situazione che ha originato il potere e l’esigenza di curare gli interessi per cui è esercitato.
Ne consegue che la stabilità dell’azione amministrativa è premessa e sintesi dei principi generali ai quali deve ispirarsi l’esercizio del potere pubblico: economicità, efficacia e non aggravamento, pubblicità e trasparenza, ragionevolezza e proporzionalità, buona fede e legittimo affidamento.
Resta salvo l’esercizio del potere di autotutela della Amministrazione (annullamento ordinario o straordinario) ove ne ricorrano i presupposti.
5. Relativamente al terzo quesito va condiviso l’avviso dell’Amministrazione che ritiene che le disposizioni delle legge n. 215 del 2012 debbano applicarsi soltanto all’atto del rinnovo della consiliatura o nel caso di dimissioni o di surrogazione di un membro della giunta.
Siffatta interpretazione, oltre a conformarsi ai principi di ragionevolezza e di buona amministrazione, è rispettosa dell’intendimento del legislatore come emerge dagli atti parlamentari, nei quali si legge che l’iniziativa legislativa “nasce dall'esigenza, finora elusa, di incentivare una maggiore presenza femminile nelle istituzioni ad ogni livello, con la gradualità necessaria a garantire le pari opportunità per ambedue i sessi, in modo da evitare sia interventi di sola facciata sia forzature dall'alto che condizionano già in partenza la piena autonomia delle elette” (Atto Camera n. 4415- XVI legislatura).
6. Con il quarto quesito l’Amministrazione chiede quale debba essere la ripartizione percentuale minima tra i due sessi che gli statuti devono prevedere a garanzia della rappresentanza di genere.
La questione, nei suoi lineamenti generali, è stata più volte esaminata dalla Corte costituzionale, che anche in tempi recenti si è pronunciata nel senso che “gli spazi della discrezionalità politica, in quanto tali sottratti al sindacato del giudice, trovano i loro limiti nei principi di natura giuridica posti dall'ordinamento, sia a livello costituzionale, sia a livello legislativo; pertanto, quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto, con la conseguenza che: a) l'ambito di estensione del potere discrezionale, incluso quello amplissimo connotante l'azione di governo, è circoscritto dai vincoli segnati dalle norme giuridiche, che ne tracciano i confini o ne indirizzano l'esercizio; b) il rispetto di detti vincoli costituisce, allora e pur sempre, requisito di validità dell'atto, sindacabile nelle sedi appropriate” (Corte cost., n. 81/2012).
Orbene, per quanto di interesse, il legislatore non ha indicato una percentuale precisa per riequilibrare il rapporto numerico tra i due sessi, sicché con riferimento alla composizione delle giunte (ciò che qui rileva) il vincolo non è stato precisato nelle dimensioni applicative. Sul punto, pertanto, sussistono ampi spazi di discrezionalità che conseguono all’autonomia ordinamentale e devono essere compatibili con le dimensioni della realtà amministrativa considerata.
In ogni caso, equilibrio di genere non significa parità di presenze maschili e femminili, quanto piuttosto evitare l’irragionevole preponderanza di un sesso rispetto all’altro, secondo un criterio già ampiamente espresso dalla giurisprudenza amministrativa citata dalla stessa Amministrazione. Soluzioni tassative al riguardo sono di competenza del legislatore, che tuttavia sia nel decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna a norma dell’art. 7 della legge 28 novembre 2005, n. 2469), sia nella legge n. 215 del 2012, è sembrato privilegiare soluzioni ispirate a ragionevolezza e progressività.
7. Per ultimo, il Ministero pone il quesito se vi siano particolari procedure che il sindaco debba attuare per dimostrare che, nonostante abbia posto in essere ogni utile iniziativa idonea a garantire l'applicazione del principio di pari opportunità tra uomo e donna, non è riuscito a raggiungere tale obiettivo e ha dovuto nominare soltanto assessori di sesso maschile.
Sul punto la Sezione condivide l’orientamento della più recente giurisprudenza amministrativa (T.A.R. Lazio, Sez. II, 20 gennaio 2012, n. 679), che si è espressa nel senso che, affinché un decreto di nomina della Giunta sia legittimo e rispetti la portata precettiva dell’art. 51 Cost., occorre che contenga i seguenti elementi giustificativi:
-la dimostrazione di una preventiva e necessaria attività istruttoria, volta ad acquisire la disponibilità allo svolgimento dell’attività assessorile da parte di persone di entrambi i sessi;
- un’adeguata motivazione della mancata applicazione del principio di pari opportunità.
Le stesse motivazioni assumono rilievo nel caso di Comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti, sebbene per questi ultimi, a differenza dei Comuni con una popolazione superiore alle 15.000 unità, l’art. 47, comma 4, del T.U. degli enti locali preveda la facoltà e non l’obbligo di nominare assessori esterni.
Dovendosi, infatti, escludere che l’art. 1, comma 2, della legge n. 215 del 2012 abbia tacitamente abrogato l’art. 47, comma 1, del T.U. degli enti locali, sul quale è intervenuto con modifiche specifiche, rimane soltanto da affermare che il Sindaco dovrà motivare il provvedimento di nomina della Giunta, nel caso sia stato impossibile pervenire a una composizione rispettosa dell’equilibrio di genere.

P.Q.M.
nei termini su esposti è il parere richiesto.

giovedì 15 gennaio 2015





Circolare Ministero Interno 12 gennaio 2015, n. 323, Esercizio obbligatorio in forma associata delle funzioni fondamentali, mediante unioni o convenzioni, da parte dei comuni

Qui la circolare ed un commento 



mercoledì 14 gennaio 2015




Legge di stabilità 2015 – Comunicazioni all’INPS dei decessi

Decreto legge 30 dicembre 1979, n. 663, convertito, con modificazioni dalla legge 29 febbraio 1980, n. 33,  Finanziamento del Servizio sanitario nazionale nonché proroga dei contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni in base alla legge 1 giugno 1977, n. 285, sulla occupazione giovanile.

Art. 2

OMISSIS


A decorrere dal 1º gennaio 2015 il  medico  necroscopo  trasmette all’Istituto  nazionale  della  previdenza  sociale,  entro  48   ore dall’evento, il certificato  di  accertamento  del  decesso  per  via telematica on line secondo le  specifiche  tecniche  e  le  modalità procedurali già utilizzate ai fini delle  comunicazioni  di  cui  ai commi precedenti. In caso di violazione dell’obbligo di cui al  primo periodo  si  applicano  le  sanzioni  di  cui  all’articolo  46   del decreto-legge  30   settembre   2003,   n.   269,   convertito,   con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326 (1)

(1)Comma aggiunto dall’art. 1, c. 303, della l. 23 dicembre 2014, n. 190, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)






Provvedimento Direttore Agenzia delle Entrate 12 gennaio 2015, Approvazione delle caratteristiche del contrassegno sostitutivo delle marche da bollo, ai sensi dell’art. 4, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 642


IL DIRETTORE DELL’AGENZIA
In base alle attribuzioni conferitegli dalle norme riportate nel seguito del presente provvedimento
DISPONE
1. Nuove caratteristiche del contrassegno
1.1 Il contrassegno sostitutivo per la riscossione dell’imposta di bollo, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. a), del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 642, deve essere stampato su un supporto autoadesivo (etichetta) prodotto dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, aventi le seguenti caratteristiche:
Dimensioni: 55 x 40 mm.
Colori: Blu, per parte del logo dell’Agenzia delle entrate e intestazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze; arancio, per parte del logo dell’Agenzia delle Entrate, per cornice recante una microstampa positiva/negativa, con la dicitura “Ministero dell’Economia e delle Finanze Agenzia entrate” e fascia laterale sinistra in prossimità della banda olografica; celeste, per fondino numismatico in chiaro/scuro; nero, per codice a barre.
Striscia olografica: apposta al lato sinistro dell’etichetta e di 5 mm di larghezza, riproduce una serie di stemmi della Repubblica italiana.
1.2 Le etichette attualmente in uso, approvate con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 5 maggio 2005, che continua ad applicarsi per quanto non modificato dal presente Provvedimento, continueranno ad essere utilizzate per l’emissione dei contrassegni sino all’esaurimento delle scorte in dotazione ai rivenditori di generi di monopolio.
Motivazioni
L’art. 3, comma 1, lett. a), del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 642, stabilisce che l’imposta di bollo si corrisponde mediante pagamento ad un intermediario convenzionato con l’Agenzia delle Entrate, il quale rilascia, con modalità telematiche, apposito contrassegno.
Il medesimo decreto, all’art. 4, comma 4, prevede che con Provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle Entrate sono stabilite le caratteristiche e le modalità d'uso del contrassegno rilasciato dagli intermediari, nonché le caratteristiche tecniche del sistema informatico idoneo a consentire il collegamento telematico con la stessa Agenzia.
Le caratteristiche delle etichette sono state approvate con il Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 5 maggio 2005, che continua ad applicarsi per quanto riguarda le modalità d’uso dei contrassegni e le caratteristiche del sistema informatico per la loro emissione.
Con il presente provvedimento sono modificate le caratteristiche delle etichette per la stampa dei contrassegni, per introdurvi ulteriori elementi di sicurezza sviluppati dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato spa d’intesa con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, Dipartimento del Tesoro.
Per ragioni di economicità, le etichette attualmente in uso continueranno ad essere utilizzate per l’emissione dei contrassegni sino all’esaurimento delle scorte in dotazione ai rivenditori di generi di monopolio.
Riferimenti normativi
Attribuzioni del Direttore dell’Agenzia delle entrate:
Decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, recante la riforma dell’organizzazione del Governo, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59, (art. 57; art. 62; art. 66; art. 67, comma 1; art. 68, comma 1; art. 71, comma 3, lettera a); art. 73, comma 4);
Statuto dell’Agenzia delle Entrate, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 42 del 20 febbraio 2001 (art. 5, comma 1; art. 6, comma 1);
Regolamento di amministrazione dell’Agenzia delle Entrate, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 36 del 13 febbraio 2001 (art. 2, comma 1);
Decreto del Ministro delle finanze 28 dicembre 2000, concernente disposizioni recanti le modalità di avvio delle Agenzie fiscali e l’istituzione del ruolo speciale provvisorio del personale dell’Amministrazione finanziaria a norma degli articoli 73 e 74 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300.

Disciplina normativa di riferimento:
Decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972 n. 642, artt. 3 e 4;
Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 5 maggio 2005, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 118 del 23 maggio 2005.
La pubblicazione del presente provvedimento sul sito internet dell’Agenzia delle Entrate tiene luogo della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, ai sensi dell’articolo 1, comma 361, della legge 24 dicembre 2007, n. 244.

venerdì 9 gennaio 2015




In tema di nomofilachia


Cass. 9 gennaio 2015, n. 174


Mediante un’adeguata e dettagliata motivazione, i giudici di merito possono disattendere la giurisprudenza della Cassazione,  prodottasi sulla materia

            La sentenza richiama Corte cost. 230/2012, in cui il Giudice delle leggi rileva(va): “L’orientamento espresso dalla decisione delle Sezioni unite “aspira” indubbiamente ad acquisire stabilità e generale seguito: ma – come lo stesso rimettente riconosce – si tratta di connotati solo «tendenziali», in quanto basati su una efficacia non cogente, ma di tipo essenzialmente “persuasivo”. Con la conseguenza che, a differenza della legge abrogativa e della declaratoria di illegittimità costituzionale, la nuova decisione dell’organo della nomofilachia resta potenzialmente suscettibile di essere disattesa in qualunque tempo e da qualunque giudice della Repubblica, sia pure con l’onere di adeguata motivazione; mentre le stesse Sezioni unite possono trovarsi a dover rivedere le loro posizioni, anche su impulso delle sezioni singole, come in più occasioni è in fatto accaduto”.
           
Secondo il S.C., peraltro, in presenza  dell’overruling (1), rimane integro il (principio del) legittimo affidamento della parte.



(1)“…per overruling deve intendersi il mutamento di giurisprudenza nell'interpretazione di una norma giuridica o di un sistema di norme dal carattere, se non proprio repentino, quantomeno inatteso o privo, comunque, di preventivi segnali anticipatori sul suo manifestarsi; segnali che possono essere quelli di un, pur larvato, dibattito dottrinale o di qualche significativo intervento giurisprudenziale sul tema oggetto di indagine”: Cass., Sez. Un., 12 ottobre 2012, n. 17402. In dottrina, si veda SANTANGELI, La tutela del legittimo affidamento sulle posizioni giurisprudenziali, tra la cristallizzazione delle decisioni e l’istituto del prospective overruling, con particolare riguardo al precedente in materia processuale, in www.judicium.it
           


giovedì 8 gennaio 2015





D.p.c.m. 10 novembre 2014, n. 194, Regolamento  recante  modalità  di  attuazione  e  di  funzionamento dell’Anagrafe nazionale  della  popolazione  residente  (ANPR)  e  di definizione  del  piano  per  il  graduale  subentro  dell’ANPR  alle anagrafi della popolazione residente (G.U. 8 gennaio 2015, n. 5)

mercoledì 7 gennaio 2015





Trascrizione di atto di nascita, formato all’estero, con  (doppia) maternità – Una (discutibile) sentenza della Corte d’Appello di Torino


Corte d’Appello Torino 29 ottobre 2014


L’Ufficiale dello Stato civile di .. con nota .. a seguito di trasmissione del Consolato Generale d’Italia di Barcellona, respingeva la richiesta di trascrizione dell’atto di nascita del minore … n. a Barcellona il …, in quanto atto contrario all’ordine pubblico italiano.
Dal certificato di nascita … del Comune di Barcellona risulta che le sigg.re …, cittadina spagnola, e .., cittadina italiana, sono considerate, per diritto spagnolo, madri del minore .. ( “ figlio matrimoniale delle comparenti”). La sig.ra .. ha donato gli ovuli per il concepimento di .. …, mentre la sig.ra .. ha portato avanti la gravidanza e il parto; il minore è cittadino spagnolo.
Le ricorrenti, …hanno contratto matrimonio in Spagna in data …...
Con ricorso … le sigg.re … proponevano reclamo ex art. 96 DRR n. 396\2000, avverso il diniego espresso dall’Ufficiale di Stato Civile chiedendo: l’accertamento del rapporto di filiazione tra il minore … e la sig.ra .. ex art. 33 L. 218\95; la dichiarazione della sussistenza dei requisiti di legge per il riconoscimento nello Stato Italiano dell’atto di nascita del minore e del conseguente diritto, di quest’ultimo, alla trascrizione nei Pubblici Registri dell’Anagrafe di T.
Con decreto in data 21.10.2013 il Tribunale di Torino ha respinto il ricorso rilevando, che il procedimento avviato ex art. 96 DPR 396\2000, strumentale al compimento di un’attività di tipo amministrativo, non sia previsto per ottenere una pronuncia di accertamento del rapporto di filiazione tra le ricorrenti e il minore né per il riconoscimento della cittadinanza italiana di quest’ultimo dovendosi, a questo fine, promuovere un ordinario giudizio di cognizione.
Sulla domanda di accertamento dei requisiti di legge per il riconoscimento dello Stato Italiano dell’atto di nascita del minore .., il Tribunale respingeva la richiesta di trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero rilevando la contrarietà all’ordine pubblico ( art 18 DPR 396\2000).
In particolare il Giudice di prime cure ha rilevato: …
Avverso il decreto hanno proposto reclamo le ricorrenti rilevando come il provvedimento si manifesti illegittimo: …
Le reclamanti chiedono, previa revoca del decreto impugnato, di accertare e dichiarare il rapporto di filiazione tra il minore e la sig.ra … ex art.33 L. 218\95; di rilevare che sussistono i requisiti di legge per il riconoscimento nello Stato Italiano dell’atto di nascita del minore e del conseguente diritto di quest’ultimo ad acquisire la nazionalità italiana; di ordinare all’Ufficiale dello Stato Civile di T. di provvedere alla trascrizione e\o annotazione nei Pubblici Registri dell’Anagrafe dell’atto di nascita del minore con ogni consequenziale provvedimento di legge ritenuto opportuno per la tutela di ….
Sul primo e il secondo motivo del reclamo, la questione, per l’oggetto che la connota (rifiuto di trascrizione da parte dell’ufficiale di stato civile), deve essere affrontata sotto il profilo della legittimazione e della norma applicabile.
OMISSIS
Ne consegue che la richiesta di trascrizione formulata dalla sig.ra .., in qualità di esercente la potestà sul minore .., integra gli estremi di cui all’art. 17 DRP 396\2000.
Per le considerazioni sopra svolte il primo e il secondo motivo di reclamo devono essere accolti.
Quanto al terzo, quarto e quinto motivo si osserva quanto segue.
Ritenuta la legittimazione alla trascrizione dell’atto di nascita del minore rappresentato dalla sig.ra .., occorre valutare se ciò integri violazione dell’ordine pubblico.
Il giudice di prime cure ha rilevato che la trascrizione sia contraria all’ordine pubblico inteso come insieme di principi desumibili dalla Carta Costituzionale o comunque fondanti l’intero assetto ordinamentale, fra i quali le norme in materia di filiazione che fanno espresso riferimento ai concetti di padre, madre, marito e moglie.
OMISSIS
Nella specie occorre valutare se l’atto di nascita del minore …, nato da inseminazione eterologa, figlio, secondo la legge spagnola sia della madre che lo ha partorito che della partner di sesso femminile coniugata con la prima, non sia contrario all’ordine pubblico e ancora, se l’omosessualità dei genitori sia di ostacolo alla formazione di una “famiglia“ secondo la legge italiana .
OMISSIS
Dunque l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, rientra tra le formazioni sociali di cui parla l’articolo 2 Costituzione, destinataria di riconoscimento giuridico con connessi diritti e doveri secondo una gradazione rimessa alla scelta del legislatore.
La Cassazione (n. 4184\2012) ha ribadito che il matrimonio fra persone dello stesso sesso non è inesistente né invalido, per contrasto con nome imperative, ma improduttivo di effetti giuridici in Italia per l’assenza di una norma specifica e l’inesistenza di una fattispecie matrimoniale; …
OMISSIS
Quanto alle tecniche seguite dalle ricorrenti per la nascita del minore deve richiamarsi la recente sentenza della Corte Costituzionale ( n. 162 del 9.4.2014) che ha dichiarato l’illegittimità degli artt. 4, comma 3, nella parte in cui stabilisce per la coppia il divieto al ricorso alla fecondazione assistita di tipo eterologo, qualora sia diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assoluta e irreversibile e dell’art. 9 commi 1 e 3, limitatamente al richiamo al divieto di cui all’art 4 comma 3 e 12 comma 1, norme che vietano la fecondazione eterologa. La pronuncia ha ribadito, sotto il profilo sostanziale dei valori e dei principi, l’estensione del confine della “vita familiare“ che sinora riguardava la coppia eterosessuale, ai figli generati sia naturalmente sia con la procreazione assistita anche eterologa.
OMISSIS
Il concetto di ordine pubblico deve essere declinato con riferimento all’interesse del minore.
Ai fini del riconoscimento o meno dei provvedimenti giurisdizionali stranieri, deve aversi prioritario riguardo all’interesse superiore del minore (art.3 L. 27.5.1991 n 176 di ratifica della Convenzione sui diritti del fanciullo, di New York 20.11.1989) ribadito in ambito comunitario con particolare riferimento al riconoscimento delle sentenze straniere in materia di rapporti tra genitori e figli, dall’art. 23 del Reg CE n 2201\2003 il quale stabilisce espressamente che la valutazione della non contrarietà all’ordine pubblico debba essere effettuata tenendo conto dell’interesse superiore del figlio.
Nel caso in questione non si tratta di introdurre ex novo una situazione giuridica inesistente ma di garantire la copertura giuridica ad una situazione di fatto in essere da anni, nell’esclusivo interesse di un bambino che è stato cresciuto da due donne che la legge riconosce entrambe come madri. Assume rilievo determinante la circostanza che la famiglia esista non tanto sul piano dei partners ma con riferimento alla posizione, allo status e alla tutela del figlio. Nel valutare il best interest per il minore non devono essere legati fra loro, il piano del legame fra i genitori e quello fra genitore-figli: l’interesse del minore pone, in primis, un vincolo al disconoscimento di un rapporto di fatto, nella specie validamente costituito fra la co-madre e un figlio.
Non competono al giudice nell’ambito della presente procedura effettuare ulteriori valutazioni di merito.
In una fattispecie analoga devono richiamarsi due recenti sentenze emesse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nelle quali è stata condannata la Francia, …
La CorteEDU ha riconosciuto all’unanimità, che non vi sia stata violazione dell’articolo 8 della Convenzione in relazione al diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita familiare ma ha affermato, che la violazione si realizzi in relazione al diritto dei minori al rispetto della loro vita privata. La Corte ha precisato come il rifiuto da parte delle autorità Francesi di non riconoscere valore legale al rapporto di parentela costituisce indubbiamente una” ingerenza nel diritto dei ricorrenti al rispetto della vita familiare”.
OMISSIS
In altra pronuncia della Corte Europea ( 19.2.2013 X e altri c. Austria) su ricorso del partner di una coppia femminile omosessuale di adottare il figlio naturale dell’altro partner, la Corte ha affermato che “la relazione esistente tra una coppia omosessuale che convive di fatto in maniera stabile rientra nella nozione di vita familiare così come quella di una coppia eterosessuale che si trova nella stessa situazione: quando minore vive insieme a loro la vita familiare comprende anche quest’ultimo”.
La mancata trascrizione dell’atto di nascita, limita e comprime il diritto all’identità personale del minore … e il suo status nello Stato Italiano; sul territorio italiano il minore non avrebbe alcuna relazione parentale né con la signora .. nè con i parenti della stessa.
Il minore non avrebbe un esercente la responsabilità genitoriale e nessuno potrebbe esercitarne la rappresentanza con riferimento a problematiche sanitarie, scolastiche, ricreative; oltre all’incertezza giuridica in cui si troverebbe nella società italiana il minore verrebbe anche privato dei rapporti successori nei confronti della famiglia della Sig.ra …
Il pregiudizio per il minore risulta ancora più evidente atteso che le ricorrenti si sono divorziate consensualmente con sentenza … del Tribunale di prima istanza di Barcellona; il minore sulla base di un accordo sottoscritto dalle parti in data 21 ottobre 2013 è affidato ad entrambe le parti con condivisione delle responsabilità genitoriali come conseguenza del carattere congiunto della potestà (sarà necessario il consenso di entrambe per prendere ed eseguire le decisioni più importanti relative ad educazione salute e spostamenti all’estero ).In tale situazione la mancata trascrizione del certificato di nascita comporterebbe anche conseguenze rilevanti in ordine alla libera circolazione del minore e la signora …, che in Italia non avrebbe titolo per spostarsi e tenere con sé il minore.
Compito del Giudice come ribadito dalle pronunce della Corte di giustizia che recano in epigrafe:“ Diritti concreti ed effettivi non teorici illusori “, è quello di rendere effettivi con la giurisdizione i diritti previsti dalla legge; non può affermarsi, nel caso de quo, che costituisca il miglior interesse del minore privarlo di un legame attraverso il quale si esprime il diritto al proprio status di figlio.
Le spese di lite devono essere compensate in ragione della novità della questione trattata.
                                                                                 P.Q.M.
LA CORTE D’APPELLO DI TORINO
Sezione Famiglia
Accoglie il reclamo e per l’effetto ordina all’ufficiale dello stato civile di T. di trascrivere l’atto di nascita di …
Compensa fra le parti le spese di lite.

OMISSIS