venerdì 29 gennaio 2016





Obbligo di astensione per i componenti delle commissioni concorsuali


Cons. di Stato, III, 20 gennaio 2016, n. 192


Nelle procedure concorsuali, i componenti delle commissioni esaminatrici hanno l'obbligo di astenersi solo se ricorre una delle condizioni tassativamente indicate dall'art. 51 c.p.c., senza che le cause di incompatibilità previste dalla stessa disposizione possano essere oggetto di estensione analogica. Ne deriva, da un lato, che non rientrano nelle condizioni in parola l'appartenenza allo stesso ufficio, il legame di subordinazione o di collaborazione tra i componenti della commissione e il candidato, dall’altro, che la conoscenza che alcuno dei membri di una commissione di concorso abbia di un candidato non implica di per sé la violazione delle regole dell'imparzialità e nemmeno il sospetto della violazione di tali regole

giovedì 28 gennaio 2016





PANOZZO, Imposta di bollo e documenti per l’espatrio: circolari e pareri dell’Amministrazione finanziaria e del Ministero dell’Interno, in
http://www.diritto.it/docs/37751-imposta-di-bollo-e-documenti-per-l-espatrio-circolari-e-pareri-dell-amministrazione-finanziaria-e-del-ministero-dell-interno

lunedì 25 gennaio 2016






Obbligo di pubblicazione in Gazzetta per i bandi di concorso a pubblico impiego

Cons. di Stato, V, 25 gennaio 2016, n. 227

L’obbligo di pubblicazione dei bandi per concorso a pubblico impiego nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana,  previsto dall’art. 4 del d.P.R. n. 487/1994, costituisce una regola generale attuativa degli artt. 51, c. 1, e 97, c. 3, della Costituzione, avendo la finalità di consentire la concreta massima conoscibilità della indizione di un concorso pubblico a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro residenza sul territorio dello Stato. La regola non è stata incisa né dall’art. 35, c. 3, lett. a), del d.lgs. n. 165/2001, che ha fissato il criterio della «adeguata pubblicità» in aggiunta e non in sostituzione della regola di carattere generale, né dall’art. 32 della l. 69/2009, posto che il comma 7 ha ribadito il perdurante vigore delle disposizioni – anche di rango secondario - che in precedenza hanno disposto la pubblicazione di atti amministrativi nella Gazzetta Ufficiale



1. Con la sentenza impugnata, il TAR per il Piemonte ha accolto il ricorso di primo grado n. 607 del 2015 ed ha annullato tutti gli atti del procedimento concorsuale, indetto dal Comune di G. per la copertura di un posto di istruttore amministrativo contabile.
Il TAR ha ravvisato la fondatezza della censura con cui il ricorrente in primo grado ha lamentato che il bando di concorso non è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
2. Con l’appello in esame, la vincitrice del concorso ha impugnato la sentenza del TAR, chiedendo che in sua riforma il ricorso di primo grado sia respinto.
Ella ha dedotto che – contrariamente a quanto ha ritenuto il TAR – la mancata pubblicazione del bando sulla Gazzetta Ufficiale va considerata legittima, a seguito della entrata in vigore dell’art. 32 della legge n. 69 del 2009, che ha previsto l’obbligo delle Amministrazioni di pubblicare i provvedimenti sui propri siti informatici.
3. Ritiene la Sezione che le censure dell’appellante, così riassunte, vadano respinte.
3.1. Come ha rilevato la Sezione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 8 giugno 2015, n. 2801), l'obbligo di pubblicazione dei bandi per concorso a pubblico impiego nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana – previsto dall’art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994 - costituisce una regola generale attuativa dell’art. 51, primo comma, e dell’art. 97, comma terzo, della Costituzione.
Tale regola ha la finalità di consentire la concreta massima conoscibilità della indizione di un concorso pubblico a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro residenza sul territorio dello Stato e non è stata incisa – neanche per incompatibilità - dall’art. 35, comma 3, lett. a), del d.lgs. n. 165-2001, che ha fissato il criterio della «adeguata pubblicità» in aggiunta e non in sostituzione della regola di carattere generale.
Neppure rileva in contrario l’art. 32 della legge n. 69 del 2009, poiché il suo comma 7 ha ribadito il perdurante vigore delle disposizioni – anche di rango secondario - che in precedenza hanno disposto la pubblicazione di atti amministrativi sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
3.2. La mancata pubblicazione del bando di concorso sulla Gazzetta Ufficiale comporta la legittimazione alla sua impugnazione da parte di chi abbia interesse a parteciparvi, senza bisogno ovviamente di proporre la domanda di partecipazione, la cui mancanza è dipesa proprio dalla mancata pubblicazione del bando, in violazione della normativa vigente.
4. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto, con conferma della sentenza impugnata.
Le spese del presente grado di giudizio possono essere compensate, sussistendo giusti motivi;
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello n. 8922 del 2015, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Compensa le spese del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.


Diritto di accesso ad un verbale di sopralluogo della polizia municipale

Tar Toscana 21 gennaio 2016, n. 99

Sussiste il diritto di accesso dell’interessato al verbale relativo al sopralluogo nell’abitazione, da parte della polizia municipale; né si possono evocare limiti in relazione alla (presunta) “violazione penale”, (eventualmente) ivi accertata, posto che il segreto istruttorio penale viene in considerazione con riferimento agli atti compiuti dall’autorità amministrativa nell’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuitele dall’ordinamento, non già quando l’Amministrazione si limiti a presentare una denuncia all’A.G. nell’esercizio delle proprie istituzionali funzioni amministrative

sabato 16 gennaio 2016





Diniego della cittadinanza italiana e attività informativa



Cons. di Stato, I, 13 gennaio 2016, n. 46 (adunanza del 25 novembre 2015, n. 1882/2015), Richiesta di parere sull’ostensibilità della documentazione amministrativa “classificata”, prodotta o detenuta dal Ministero dell’interno per ragioni inerenti alle proprie funzioni istituzionali.





PREMESSA: Il Ministero dell’interno, premesso che la concessione della cittadinanza italiana è provvedimento “altamente discrezionale” e non revocabile in presenza di gravi elementi sopravvenuti, rappresenta che l’ingresso nel teatro mondiale di nuove organizzazioni terroristiche, che hanno assunto un ruolo di primissimo piano nella c.d. “guerra asimmetrica”, costituisce una minaccia a livello globale, che impone, nel caso di contenzioso conseguente al rigetto delle istanze di naturalizzazione, l’adozione di maggiori cautele a tutela della sicurezza nazionale e delle fonti di intelligence coinvolte nell’istruttoria del procedimento di rigetto. Richiamato, quindi, il contenuto di precedente parere di questa Sezione (1° luglio 2014, n. 226) in risposta ad altro quesito in materia di accesso difensivo alla documentazione classificata, l’Amministrazione riferisce che il “Comparto Intelligence”, interessato ai sensi del citato parere a rendere il proprio avviso in merito all'ostensione dei documenti classificati originati nell'ambito dei procedimenti in parola, ne ha recentemente negato in modo reciso l’esibizione, anche parziale, al fine di tutelare la propria attività.




Quesito n. 1: “se l'attuale quadro normativo possa essere interpretato nel senso che, in caso di pronuncia che riconosca al ricorrente in un giudizio di annullamento, che abbia parallelamente o incidentalmente proposto istanza di accesso, il diritto di ottenere l'ostensione dei documenti richiesti, l'Amministrazione possa mantenere una condotta processuale di non esibizione, ai sensi dei principi che regolano il processo amministrativo (artt. 63 e 64 c.p.a.) giustificandola, nei casi che i documenti facciano riferimento all'espletamento di attività informative particolarmente sensibili, specie nell'attuale momento storico, con la necessità di tutelare il prioritario interesse pubblico alla non divulgazione delle informazioni”

Risposta: E’ “principio generale che spetta soltanto ed esclusivamente alla parte introdurre nel giudizio i fatti e presentare la prova degli stessi, a meno che, come nel caso del diniego di cittadinanza, non sia materialmente impossibilitata a produrre il mezzo di prova, sicché potrà chiedere al giudice di acquisirlo” (il Collegio aggiunge che “la legge pone in capo alla pubblica Amministrazione un obbligo di collaborazione con il giudice, che nel caso del processo amministrativo è rafforzato dal fatto che la pubblica Amministrazione, oltre ad essere parte del procedimento, è essa stessa detentrice di elementi di prova che si trovano nella sua disponibilità e che essa deve pertanto porre a disposizione del giudice come istituzione, cioè come potere dello Stato tenuto ad agire in modo neutrale come terzo rispetto al processo”). Si ricorda, inoltre, “fermo restando … l’obbligo dell’Amministrazione di collaborare lealmente con l’Autorità giudiziaria ai fini dell’acquisizione delle prove, sull’attendibilità delle quali l’organo giudicante è chiamato ad esprimersi …, che il contesto di cautela entro il quale l’acquisizione deve avvenire è chiaramente definito dall’art. 42, c. 8, della l. 124/2007; con la conseguenza che “le cautele devono essere disposte caso per caso dal magistrato, sentita l’Amministrazione riferente, e svilupparsi con modalità diverse a seconda della situazione generale e del momento (per esempio, esibizione documentale con o senza omissis, in forma originale o in forma sintetica) senza tuttavia spingersi al punto di vanificare l’esercizio del diritto di agire in giudizio con interpretazioni elusive dei principi costituzionali e della legislazione nella specifica materia”.





Quesito n. 2: “se, conseguentemente, sempre in base al vigente quadro normativo, possa ritenersi che, nei casi rappresentati, la pronuncia in materia di accesso non sia suscettibile di esecuzione coattiva; se, inoltre, fatte salve naturalmente le valutazioni nei singoli casi di esclusiva competenza, rispettivamente, del giudice penale e del giudice contabile, la condotta del funzionario che nei sensi indicati non adempia motivatamente all'ordine di esibizione possa ritenersi in via generale immune da censure sotto il profilo della responsabilità penale (art. 328 c.p.) e amministrativa”.


Risposta: Premesso che il quesito “sottende una preoccupazione sui profili di responsabilità penale e amministrativa a carico del responsabile dell’unità organizzativa che non ottemperi all’ordine di esibizione documentale, sia in sede giurisdizionale sia in sede di ricorso straordinario”, si osserva trattarsi  “di una formulazione ipotetica, contrastante con il principio di leale collaborazione a cui dev’essere improntato il rapporto tra Amministrazione e giudice”: per ciò che riguarda l’aspetto penale, in mancanza di eccezione relativa al segreto di Stato, non pare possibile in sede consultiva individuare una generale causa di giustificazione per l’ipotesi specifica in questione. Spetta al giudice penale valutare l’esistenza di tutti gli elementi del reato e, in particolare, dell’elemento psicologico di esso, in relazione al giudizio amministrativo, comportamenti resistenti non giustificati dell’Amministrazione rileverebbero ai fini della valutazione delle prove ai sensi dell’art. 64 c.p.a.







Quesito n. 3: “come debba interpretarsi - alla luce della recente giurisprudenza circa i rapporti tra accesso difensivo e casi di esclusione dell'accesso e in relazione sia all'esercizio dell'accesso, incidentale o parallelo al ricorso giurisdizionale avverso il diniego della cittadinanza, sia all'accesso nell'ambito del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica - il disposto del comma 7 dell'art. 24 della legge 241/1990 in rapporto ai casi di esclusione del diritto di accesso, ove si tratti di atti di cui, come nel caso di documenti classificati, sia vietata la divulgazione ai sensi dell'art. 42, comma 1, legge n. 124/2007”.


Risposta: “si confermano le considerazioni ermeneutiche già espresse nel parere n. 1835/2013, che si riferiscono all’accesso difensivo in sede di ricorso giurisdizionale o straordinario e non riguardano le richieste di accesso ai documenti amministrativi direttamente rivolte all’Amministrazione, competente ad adottare i relativi provvedimenti”.








Quesito n. 4: “come debba interpretarsi - alla luce della recente giurisprudenza circa i rapporti tra accesso difensivo e casi di esclusione dell'accesso e in relazione sia all'esercizio dell'accesso, incidentale o parallelo al ricorso giurisdizionale avverso il diniego della cittadinanza, sia all'accesso nell'ambito del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica - il disposto del comma 7 dell'art. 24 della legge 241/1990 in rapporto ai casi di esclusione del diritto di accesso, ove si tratti di atti di cui, come nel caso di documenti classificati, sia vietata la divulgazione ai sensi dell'art. 42, comma 1, legge n. 124/2007”.

Risposta: “l’argomento è stato già esaminato …, nell’ambito della risposta al primo quesito, di cui costituisce corollario”









Numero 00046/2016 e data 13/01/2016
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REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Prima
Adunanza di Sezione del 25 novembre 2015

NUMERO AFFARE 01882/2015
OGGETTO:
Ministero dell'interno

Richiesta di parere sull’ostensibilità della documentazione amministrativa “classificata”, prodotta o detenuta dal Ministero dell’interno per ragioni inerenti alle proprie funzioni istituzionali.
LA SEZIONE
Vista la relazione trasmessa nota 29 ottobre 2015 n. 22-3180/4, con la quale il Ministero dell'interno - Gabinetto del ministro - ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull’affare consultivo in oggetto;
esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Elio Toscano

Premesso.
1. Il Ministero dell’interno, premesso che la concessione della cittadinanza italiana è provvedimento “altamente discrezionale” e non revocabile in presenza di gravi elementi sopravvenuti, rappresenta che l’ingresso nel teatro mondiale di nuove organizzazioni terroristiche, che hanno assunto un ruolo di primissimo piano nella c.d. “guerra asimmetrica”, costituisce una minaccia a livello globale, che impone, nel caso di contenzioso conseguente al rigetto delle istanze di naturalizzazione, l’adozione di maggiori cautele a tutela della sicurezza nazionale e delle fonti di intelligence coinvolte nell’istruttoria del procedimento di rigetto.
Richiamato, quindi, il contenuto di precedente parere di questa Sezione (1° luglio 2014, n. 226) in risposta ad altro quesito in materia di accesso difensivo alla documentazione classificata, l’Amministrazione riferisce che il “Comparto Intelligence”, interessato ai sensi del citato parere a rendere il proprio avviso in merito all'ostensione dei documenti classificati originati nell'ambito dei procedimenti in parola, ne ha recentemente negato in modo reciso l’esibizione, anche parziale, al fine di tutelare la propria attività.
2. Stanti i delicati interessi coinvolti, sicurezza dello Stato e diritto di difesa in giudizio, e dovendosi comunque preservare la supremazia del primo sul secondo, il Ministero dell’interno ritiene che, nei procedimenti relativi ai ricorsi avverso il diniego di naturalizzazione, occorra mantenere un atteggiamento “prudente” nel concedere l’accesso difensivo con un sostanziale “arretramento della soglia di conoscibilità” delle risultanze informative e investigative. Conseguentemente pone a questo Consiglio i seguenti quesiti:
a) se l'attuale quadro normativo possa essere interpretato nel senso che, in caso di pronuncia che riconosca al ricorrente in un giudizio di annullamento, che abbia parallelamente o incidentalmente proposto istanza di accesso, il diritto di ottenere l'ostensione dei documenti richiesti, l'Amministrazione possa mantenere una condotta processuale di non esibizione, ai sensi dei principi che regolano il processo amministrativo (artt. 63 e 64 c.p.a.) giustificandola, nei casi che i documenti facciano riferimento all'espletamento di attività informative particolarmente sensibili, specie nell'attuale momento storico, con la necessità di tutelare il prioritario interesse pubblico alla non divulgazione delle informazioni;
b) se, conseguentemente, sempre in base al vigente quadro normativo, possa ritenersi che, nei casi rappresentati, la pronuncia in materia di accesso non sia suscettibile di esecuzione coattiva; se, inoltre, fatte salve naturalmente le valutazioni nei singoli casi di esclusiva competenza, rispettivamente, del giudice penale e del giudice contabile, la condotta del funzionario che nei sensi indicati non adempia motivatamente all'ordine di esibizione possa ritenersi in via generale immune da censure sotto il profilo della responsabilità penale (art. 328 c.p.) e amministrativa;
c) come debba interpretarsi - alla luce della recente giurisprudenza circa i rapporti tra accesso difensivo e casi di esclusione dell'accesso e in relazione sia all'esercizio dell'accesso, incidentale o parallelo al ricorso giurisdizionale avverso il diniego della cittadinanza, sia all'accesso nell'ambito del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica - il disposto del comma 7 dell'art. 24 della legge 241/1990 in rapporto ai casi di esclusione del diritto di accesso, ove si tratti di atti di cui, come nel caso di documenti classificati, sia vietata la divulgazione ai sensi dell'art. 42, comma 1, legge n. 124/2007;
d) in subordine se sia possibile - in caso di ordine di esibizione nell'ambito di un giudizio ex art. 116 del c.p.a. o di un ricorso al Presidente della Repubblica per annullamento del diniego di concessione della cittadinanza - ostendere un documento amministrativo nuovo, recante l'intestazione dell’Amministrazione dell’interno (in modo da preservare la fonte di intelligence che ha comunicato gli elementi di controindicazione), che, privo di riferimenti all'originatore, riporti solo motivazioni di ordine generale - come, a mero titolo di esempio "la sospetta aderenza a posizioni fondamentaliste e come tali presumibilmente estremiste" - dalle quali non si possa risalire ad attività, luoghi, persone o altri elementi collegati al contesto in cui le informazioni sono state acquisite.
Considerato.
3. Il parere richiesto dal Ministero dell’interno ripropone questioni, già oggetto del parere 1835/2013 reso dalla Sezione all’adunanza del 16 aprile 2014, concernente l’ostensibilità della documentazione amministrativa “classificata”, prodotta o detenuta dallo stesso Ministero per ragioni inerenti alle proprie funzioni istituzionali, con specifico riferimento ai procedimenti di diniego di concessione della cittadinanza.
Al riguardo si considera preliminarmente che il quadro legislativo di riferimento non ha subito nel frattempo modifiche: pertanto, si richiamano le considerazioni già espresse sull’interpretazione e sulla corretta applicazione dell’art. 24, commi 1, lettera a), e 7, della legge 7 agosto 1990, n. 241 e dell’art. 42, comma 8, della legge 3 agosto 2007, n. 104, e si ribadisce che entrambe le disposizioni di legge intervengono in stretta connessione tra loro in materia di diritto ad agire in giudizio, stabilendo concordemente che, fatti salvi i casi di opposizione del segreto di stato, il diritto di accesso prevale sulle esigenze di riservatezza soltanto nel caso in cui sia necessario per l'utilizzo difensivo, diritto che il Costituente ha inteso garantire con una nutrita serie di garanzie processuali.
La definizione di una posizione di equilibrio tra gli interessi coinvolti è riservata al giudice adito, al quale compete stabilire, in contraddittorio con le parti e nel rispetto dei vincoli normativi, le cautele da osservarsi nel consentire l’accesso difensivo, in modo da non vanificare l’istanza di tutela richiesta dal ricorrente.
4. Con il primo dei quesiti si chiede se, nel caso in cui il giudice amministrativo ordini l’ostensione di documenti classificati richiesta dal ricorrente e l’ente originatore ne precluda l’esibizione per ragioni di tutela di un primario interesse pubblico, l’Amministrazione possa giustificare con detta argomentazione l’inottemperanza e sottrarsi, quindi, alla prevedibile soccombenza in giudizio. Un tale effetto conseguirebbe necessariamente all’applicazione degli artt. 63 e 64 del codice del processo amministrativo, che rinviano al codice di procedura civile quanto al potere del giudice di ordinare anche a terzi di esibire in giudizio documenti (artt. 210 e 211 c.p.c.) e di disporre ispezioni (art. 118 c.p.c.), nonché di trarre elementi di valutazione ai fini decisori dal contegno tenuto dalle parti, alle quali spetta di fornire gli elementi di prova che siano nella loro disponibilità (art. 116 c.p.c.).
Sul punto va considerato che il parallelismo richiamato in relazione tra le disposizioni che riguardano l’acquisizione e la formazione della prova tra processo civile e processo amministrativo deve necessariamente estendersi all’art. 65 c.p.a., concernente l’esercizio del potere d’istruttoria presidenziale e collegiale, e all’art. 213 c.p.c., il quale stabilisce che, fuori dai casi di cui agli artt. 210 e 211 c.p.c., il giudice può richiedere d’ufficio alla pubblica Amministrazione le informazioni scritte relativi ad atti e documenti dell’Amministrazione stessa, che è necessario acquisire al processo.
In sostanza, la legge pone in capo alla pubblica Amministrazione un obbligo di collaborazione con il giudice, che nel caso del processo amministrativo è rafforzato dal fatto che la pubblica Amministrazione, oltre ad essere parte del procedimento, è essa stessa detentrice di elementi di prova che si trovano nella sua disponibilità e che essa deve pertanto porre a disposizione del giudice come istituzione, cioè come potere dello Stato tenuto ad agire in modo neutrale come terzo rispetto al processo.
Orbene dall’insieme delle disposizioni codicistiche richiamate si ricava il principio generale che spetta soltanto ed esclusivamente alla parte introdurre nel giudizio i fatti e presentare la prova degli stessi, a meno che, come nel caso del diniego di cittadinanza, non sia materialmente impossibilitata a produrre il mezzo di prova, sicché potrà chiedere al giudice di acquisirlo.
Concordemente si è espressa anche la Corte di cassazione, la quale ha ritenuto che: “la distribuzione dell'onere della prova deve tenere conto (...) anche del principio della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova, perché la copertura costituzionale di cui gode il diritto di agire in giudizio a tutela delle proprie posizioni soggettive impone di non interpretare la legge in modo da renderne impossibile o troppo difficile l'esercizio” (Cass., sez. III, 11 maggio 2009, n. 10744).
Fermo restando, quindi, l’obbligo dell’Amministrazione di collaborare lealmente con l’Autorità giudiziaria ai fini dell’acquisizione delle prove, sull’attendibilità delle quali l’organo giudicante è chiamato ad esprimersi, va ricordato che il contesto di cautela entro il quale l’acquisizione deve avvenire è chiaramente definito dall’art. 42, comma 8, della legge n. 124 del 2007, che recita testualmente: “8. Qualora l'autorità giudiziaria ordini l'esibizione di documenti classificati per i quali non sia opposto il segreto di Stato, gli atti sono consegnati all'autorità giudiziaria richiedente, che ne cura la conservazione con modalità che ne tutelino la riservatezza, garantendo il diritto delle parti nel procedimento a prenderne visione senza estrarne copia”-
Secondo il tenore letterale della disposizione, le cautele devono essere disposte caso per caso dal magistrato, sentita l’Amministrazione riferente, e svilupparsi con modalità diverse a seconda della situazione generale e del momento (per esempio, esibizione documentale con o senza omissis, in forma originale o in forma sintetica) senza tuttavia spingersi al punto di vanificare l’esercizio del diritto di agire in giudizio con interpretazioni elusive dei principi costituzionali e della legislazione nella specifica materia.
5. Il secondo quesito sottende una preoccupazione sui profili di responsabilità penale e amministrativa a carico del responsabile dell’unità organizzativa che non ottemperi all’ordine di esibizione documentale, sia in sede giurisdizionale sia in sede di ricorso straordinario.
Al riguardo la Sezione non può astenersi dal considerare che si tratta di una formulazione ipotetica, contrastante con il principio di leale collaborazione a cui dev’essere improntato il rapporto tra Amministrazione e giudice.
Per ciò che riguarda in particolare l’aspetto penale, in mancanza di eccezione relativa al segreto di Stato, non pare possibile in sede consultiva individuare una generale causa di giustificazione per l’ipotesi specifica in questione. Spetta al giudice penale valutare l’esistenza di tutti gli elementi del reato e, in particolare, dell’elemento psicologico di esso.
Per quanto riguarda in particolare il giudizio amministrativo, comportamenti resistenti non giustificati dell’Amministrazione rileverebbero ai fini della valutazione delle prove ai sensi dell’art. 64 c.p.a.
6. In ordine al terzo quesito, riguardante l’interpretazione dell’art. 24, comma 7, della legge n. 241 del 1990 e il suo coordinamento con l’art. 42, commi 1 e 8, si confermano le considerazioni ermeneutiche già espresse nel parere n. 1835/2013, che si riferiscono all’accesso difensivo in sede di ricorso giurisdizionale o straordinario e non riguardano le richieste di accesso ai documenti amministrativi direttamente rivolte all’Amministrazione, competente ad adottare i relativi provvedimenti.
7. Infine, per ciò che riguarda il quarto quesito sulle possibili modalità di ostensione della documentazione classificata, l’argomento è stato già esaminato al punto 5, nell’ambito della risposta al primo quesito, di cui costituisce corollario.
P.Q.M.
nei termini su esposti è il parere.







L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE

Elio Toscano
Giuseppe Barbagallo













IL SEGRETARIO
Gabriella Allegrini

venerdì 15 gennaio 2016





Approvato dal Senato, in via definitiva, il ddl in materia di ammissione dei minori stranieri, residenti in Italia, nelle società sportive

Nella seduta del 14 gennaio 2016, il Senato ha approvato definitivamente il ddl n. 1871, Disposizioni per favorire l'integrazione sociale dei minori stranieri residenti in Italia mediante l'ammissione nelle società sportive appartenenti alle federazioni nazionali, alle discipline associate o agli enti di promozione sportiva.

Il testo approvato prevede che:

- “I minori di anni diciotto che non sono cittadini italiani e che risultano regolarmente residenti nel territorio italiano almeno dal compimento del decimo anno di età possono essere tesserati presso società sportive appartenenti alle federazioni nazionali o alle discipline associate o presso associazioni ed enti di promozione sportiva con le stesse procedure previste per il tesseramento dei cittadini italiani” (art. 1, comma 1).

- “Il tesseramento di cui al comma 1 resta valido, dopo il compimento del diciottesimo anno di età, fino al completamento delle procedure per l'acquisizione della cittadinanza italiana da parte dei soggetti che, ricorrendo i presupposti di cui alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, hanno presentato tale richiesta” (art. 1, comma 2).

martedì 12 gennaio 2016





Attualità del reato di renitenza alla leva per situazioni pregresse

Cass. pen. 8 gennaio 2016 (ud. 26 novembre 2015), n. 517


La sospensione della chiamata obbligatoria alla leva militare, così come introdotta dall’art. 7, c. 1, l 231/2000, non ha abolito tale servizio di leva, ma ne ha limitato l’operatività a specifiche situazioni e a ipotesi eccezionali, rilevanti sia in tempo di guerra che in tempo di pace [né – osserva il S.C. – avrebbe potuto essere altrimenti, “atteso che una simile interpretazione … si porrebbe in contrasto con la previsione dell’art. 52, comma 2, Cost., che risulterebbe indubbiamente violata in caso di definitiva e totale soppressione dell’obbligatorietà della leva militare.”]

Posto che la nuova disciplina sul reclutamento militare, non avendo integralmente soppresso l’istituto del servizio di leva obbligatorio, non ha comportato una abolitio criminis totale della relativa fattispecie, ma soltanto una riduzione della possibile sfera di operatività dell’illecito penale,  sussiste l’ipotesi di cui all’art. 2, c. 4, cod. pen. per i fatti di renitenza alla leva commessi anteriormente all’intervenuta modifica legislativa, sempre che non sia stata pronunciata sentenza di condanna irrevocabile, che comporta al soggetto renitente l’inapplicabilità delle nuove e più favorevoli norme.

RILEVATO IN FATTO

1. Con ordinanza emessa il 02/12/2014 la Corte di appello di Bologna rigettava la richiesta di revoca della sentenza emessa dalla Corte di appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, il 13/11/2003, divenuta irrevocabile il 16/11/2014, con la quale S.E. era stato condannato alla pena di anni uno di reclusione per la commissione del reato di renitenza alla leva militare obbligatoria. Tale richiesta era stata presentata in conseguenza della sospensione della leva militare obbligatoria che era stata disposta dall’art. 7, comma 1, della legge 14 novembre 2000, n. 231, che imponeva l’applicazione alla fattispecie in esame dell’art. 2, comma 4, cod. pen. in materia di successione di leggi penali in senso favorevole al reo.
Nel caso di specie, il provvedimento di rigetto veniva adottato sul presupposto che, al contrario di quanto dedotto dall’E., le modifiche normative in tema di leva militare obbligatoria non avevano comportato la totale abolizione del servizio militare di leva obbligatorio, ma solo limitato la sua operatività a situazioni specifiche e a casi eccezionali, di cui occorreva tenere conto nella valutazione delle condotte delittuose in corso di valutazione giurisdizionale.
2. Avverso tale ordinanza, il condannato ricorreva per cassazione, a mezzo del suo difensore, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione alla ritenuta insussistenza dei presupposti per l’accoglimento della richiesta proposta in sede di esecuzione, in relazione al reato di renitenza alla leva militare obbligatoria contestato all’E., che erano stati valutati dalla Corte di appello di Bologna, con un percorso motivazionale contraddittorio e manifestamente illogico.
Si deduceva, in particolare, che le norme relative al servizio militare di leva obbligatorio, contenute nel d.P.R. 14 febbraio 1964, n. 237 e nella legge 24 dicembre 1986, n. 958, erano state abrogate dalla legge 231 del 2000, con conseguente applicazione del principio di successione di leggi penali in senso favorevole al reato previsto dall’art. 2, comma 4, cod. pen. Né valeva in senso contrario, l’argomento secondo cui l’istituto in esame era stato soppresso in maniera graduale, atteso che, essendo stata abrogata la leva militare obbligatoria, non poteva ritenersi operante la fattispecie di reato tesa a sanzionare la condotta elusiva di tale comportamento, non più imposto dalla legge.
Per queste ragioni processuali, l’ordinanza impugnata doveva essere annullata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato.
Deve, in proposito, rilevarsi che, nel caso di specie, deve farsi applicazione dell’orientamento consolidato di questa Corte, secondo cui la sospensione della chiamata obbligatoria alla leva militare, così come introdotta dall’art. 7, comma 1, della legge 231 del 2000, non ha abolito tale servizio di leva, ma ne ha limitato l’operatività a specifiche situazioni e a ipotesi eccezionali, rilevanti sia in tempo di guerra che in tempo di pace (cfr. Sez. 1, n. 43709 del 06/11/2007, Almavera, Rv. 238685).
Né potrebbe essere diversamente, atteso che una simile interpretazione, oltre a formare oggetto di una posizione ermeneutica da tempo consolidata, si porrebbe in contrasto con la previsione dell’art. 52, comma 2, Cost., che risulterebbe indubbiamente violata in caso di definitiva e totale soppressione dell’obbligatorietà della leva militare. Ne consegue che la nuova disciplina sul reclutamento militare, non avendo integralmente soppresso l’istituto del servizio di leva obbligatorio, non ha comportato una abolitio criminis totale della relativa fattispecie, ma soltanto una riduzione della possibile sfera di operatività dell’illecito penale (cfr. Sez. 1, n. 24270 del 18/05/2006, Lampedone, Rv.  234839).
Ne discende che sussiste l’ipotesi di cui all’art. 2, comma 4, cod. pen. per i fatti di renitenza alla leva commessi anteriormente all’intervenuta modifica legislativa, sempre che non sia stata pronunciata sentenza di condanna irrevocabile, che comporta al soggetto renitente l’inapplicabilità delle nuove e più favorevoli norme. Tale condizione ostativa sussiste certamente nel caso in esame, atteso che la richiesta formulata nell’interesse dell’E. riguarda la revoca della sentenza emessa dalla Corte di appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, il 13/11/2003, divenuta irrevocabile il 16/11/2004.  Sul punto, si ritiene utile richiamare conclusivamente il principio di diritto affermato da questa Corte, che occorre ribadire, secondo cui: «La sospensione della chiamata obbligatoria alla leva, introdotta con L. n. 331 del 2000 e successive integrazioni, non ha abolito il servizio di leva militare obbligatoria, ma ne ha limitato l’operatività a specifiche situazioni e a casi eccezionali riferiti anche al tempo di pace, sicché il reato di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza non è stato abrogato, ma è stato modificato il contenuto del precetto penale. Sussiste, pertanto, l’ipotesi di cui all’art. 2, comma quarto, cod. pen., con la conseguenza, che per i fatti anteriormente commessi, sempre che non sia stata pronunciata sentenza di condanna irrevocabile, deve farsi applicazione delle nuove più favorevoli disposizioni, per le quali la condotta di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza non è più reato» (cfr. Sez. 1, n. 10424 del 24/02/2010, Negro, Rv. 246396).
2. Per queste ragioni, il ricorso proposto nell’interesse di S.E. deve essere rigettato, con la sua condanna al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 26 novembre 2015.


domenica 10 gennaio 2016





Natura del termine per la presentazione di osservazioni a seguito del preavviso di rigetto


Tar Lazio, Roma, 4 gennaio 2016, n. 30

Non è perentorio il termine – di dieci giorni – previsto dall’art. 10 bis della l. 241/1990: se è vero che l’Amministrazione deve necessariamente attendere il decorso dei dieci giorni prima dell’adozione del provvedimento, la stessa è tenuta, comunque, a valutare le osservazioni pervenute, qualora adotti il provvedimento successivamente [tale interpretazione – aggiunge il Collegio –  “deriva dalla stessa ratio della disciplina dell’art. 10 bis, tesa a favorire l’acquisizione di ulteriori elementi al procedimento prima della sua adozione finale”]



FATTO e DIRITTO
La ricorrente, cittadina marocchina, ha presentato, il 30-4-2009, domanda per la concessione della cittadinanza italiana, ai sensi dell’articolo 9 comma 1 lettera f) della legge n. 91 del 1992, in quanto residente in Italia da più di dieci anni.
L’Amministrazione, rilevando l’insufficienza dei redditi della ricorrente, il 23-4-2013 inviava la comunicazione con il preavviso di rigetto, invitando a presentare osservazioni e a produrre documentazione nei dieci giorni successivi al ricevimento della comunicazione.
Il 16-5-2013 la ricorrente, tramite un avvocato, inviava a mezzo raccomandata, ricevuta dall’ufficio postale di distribuzione il 22-5-2013, una nota nella quale formulava osservazioni relative al reddito percepito anche dai familiari conviventi ed allegando i relativi CUD.
Con provvedimento del 10-9-2013 è stata respinta la domanda di cittadinanza sulla base della insufficienza dei redditi della ricorrente e richiamando le motivazioni di cui al preavviso di rigetto “a cui non sono seguite osservazioni”.
Avverso tale provvedimento è stato proposto il presente ricorso per i seguenti motivi:
violazione dell’art 9 della legge n. 91 del 1992;
violazione dell’art 22 della Costituzione;
carenza di motivazione;
difetto di istruttoria; erronea valutazione dei fatti e dei presupposti;
violazione dell’art 10 bis della legge n. 241 del 1990;
violazione dell’art 5 del d.p.r. 572 del 1993;
eccesso di potere, travisamento dei fatti, ingiustizia manifesta;violazione del principio di imparzialità della Amministrazione;
Violazione dell’art 3 del d.p.r. n. 362 del 1994;
Si è costituito il Ministero dell’Interno con atto di forma.
All’udienza pubblica del 12 novembre 2015 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
In via preliminare deve essere esaminata la censura relativa alla violazione dell’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990, idonea a definire il giudizio, in quanto l’amministrazione ha adottato il provvedimento impugnato senza alcuna considerazione delle osservazioni presentate dal ricorrente pur tardivamente rispetto al termine indicato nel preavviso di rigetto, e comunque nell’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990, ma comunque prima dell’adozione del provvedimento impugnato.
L’art. 10 bis prevede espressamente, infatti, che, entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione del preavviso di rigetto, gli istanti possano presentare osservazioni.
La giurisprudenza è consolidata nel ritenere che tale termine non sia perentorio (T.A.R. Perugia n.322 del 2014; T.A.R. Campania- Napoli n. 5013 del 2009) e che l’Amministrazione, se necessariamente deve attendere il decorso dei dieci giorni prima dell’adozione del provvedimento, sia tenuta comunque a valutare le osservazioni, anche pervenute tardivamente, qualora adotti il provvedimento successivamente. Tale interpretazione deriva dalla stessa ratio della disciplina dell’art. 10 bis, tesa a favorire l’acquisizione di ulteriori elementi al procedimento prima della sua adozione finale. La giurisprudenza ha anche affermato che la natura non perentoria del termine di dieci giorni deve essere però contemperata con i profili organizzativi complessi dell’Amministrazione, nel caso in cui essendo pervenute le osservazioni pochi giorni prima dell’adozione del provvedimento finale si possa ritenere che questo sia già “alla firma” (soprattutto nei casi, come quello di specie, in cui il provvedimento finale è un decreto ministeriale ) o sia comunque già chiusa l’istruttoria cfr. Tar Lazio II quater n. 11583 del 2014).
Dagli atti depositati in giudizio dal ricorrente non risulta la data di ricezione da parte della ricorrente del preavviso di rigetto, che porta la data del 23-4-2013, ma nel provvedimento impugnato si fa riferimento all’avvenuto invio per raccomandata.
La difesa ricorrente ha depositato copia della ricevuta di invio della raccomandata relativa alle osservazioni, avvenuto il 16-5-2013.
Considerato che il decreto ministeriale è stato sottoscritto dal Sottosegretario di Stato, alcuni mesi dopo, il 10-9-2013, si deve ritenere, applicando i principi giurisprudenziali suesposti, che l’Amministrazione avesse l’obbligo di valutare la documentazione pervenuta e di prendere in considerazioni le osservazioni presentate. Né si può porre a carico della ricorrente l’eventuale disguido nella distribuzione della posta presso il Ministero, in relazione alla circostanza che la cartolina di ricevimento è stata regolarmente restituita, anche se priva di sottoscrizione di un impiegato, ma solo con il timbro dell’ufficio di destinazione.
Risulta, inoltre, evidente, dagli atti di causa, che nel caso di specie, non può farsi alcuna applicazione della disciplina dell’art. 21 octies , in quanto, come è noto, la concessione della cittadinanza è un provvedimento ampiamente discrezionale, e l’Amministrazione, costituendosi in giudizio con mero atto di stile, non ha dedotto alcunché, in ordine all’applicazione della seconda parte del secondo comma dell’art 21 octies. Inoltre, la partecipazione dell’interessata avrebbe potuto apportare nuovi elementi alla decisione finale, considerando che lo stesso preavviso di rigetto faceva riferimento alla possibilità di valutare anche i redditi dei componenti del nucleo familiare, invitando a presentare la documentazione fiscale.
Sotto tale profilo il ricorso è fondato e deve essere accolto, con annullamento del provvedimento impugnato, salve le ulteriori valutazioni dell’amministrazione.
L’accoglimento per tale motivo di ricorso comporta l’assorbimento delle ulteriori censure.
In relazione alla particolarità delle circostanze del caso, sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese processuali.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Quater), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla il provvedimento impugnato nei limiti di cui in motivazione.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

sabato 9 gennaio 2016





Presupposti per la sussistenza del ‘danno da ritardo’

Tar Liguria 8 gennaio 2016, n. 4

In tema di presupposti per il risarcimento del danno da ritardo, al fine del necessario accertamento della colposità dell'inerzia, la cui dimostrazione incombe sul danneggiato, non è sufficiente la sola violazione del termine massimo di durata del procedimento amministrativo, poiché tale violazione di per sé non dimostra l'imputabilità del ritardo, potendo la particolare complessità della fattispecie o il sopraggiungere di evenienze non imputabili all'amministrazione escludere la sussistenza della colpa.

Il risarcimento dei danni per il ritardo dell'amministrazione nell'adozione di un provvedimento dovuto può essere richiesto esclusivamente nelle ipotesi in cui sia stato previamente accertato e dichiarato dal Giudice il silenzio inadempimento dell'amministrazione


In tema di danno da ritardo, il comportamento dell'Amministrazione deve essere valutato unitamente alla condotta dell'istante, il quale riveste il ruolo di parte essenziale e attiva del procedimento e in tale veste dispone di poteri idonei a incidere sulla tempistica e sull'esito del procedimento stesso, attraverso il ricorso ai rimedi amministrativi e giustiziali riconosciutigli dall'ordinamento giuridico, tra cui il rito del silenzio che deve essere attivato con tempestività. Ne consegue che, per ottenere il risarcimento del danno da ritardo,  occorre una iniziativa del danneggiato volata a fare risaltare l’inerzia dell’amministrazione [tale ordine di idee – aggiunge il Collegio – “è conforme ai principi solidaristici che informano l’ordinamento e che impongono di attivarsi nel limite di un apprezzabile sacrificio al fine di evitare che la situazione produttiva del danno si aggravi con il passare del tempo”, cosicché “non è lecito che l’asserito danneggiato rimanga inerte per poi giovarsi dell’inerzia della p.a. a fini risarcitori”, ma “affinché il danno possa essere risarcibile (..occorre …) un’iniziativa del danneggiato che metta in mora l’amministrazione”, specialmente  nell’ipotesi in cui difetti  “una espressa previsione di un termine finale”]

lunedì 4 gennaio 2016




Illegittima concessione di cappella gentilizia (a seguito di retrocessione – inefficace –  di un erede del precedente concessionario) e risarcimento del danno (agli eredi del concessionario originario)

Tar Lombardia, Milano, 31 dicembre 2015, n. 2885

Il culto dei defunti rientra nell’ambito dei limiti alla risarcibilità del danno non patrimoniale tracciati da Cass. S.U. n. 26972/2008, vertendosi in tema di diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale, ed in cui la posizione attorea, ai fini dell’assolvimento dell’onere probatorio, risulta agevolata, nei termini di cui all'art. 2050 c.c., rispetto alla regola generale del danno aquiliano, nonché dalla possibilità di dimostrare il danno anche solo tramite presunzioni semplici e dal risarcimento secondo equità.

Si deve riconoscere ai congiunti il risarcimento dei danni causati in conseguenza di comportamenti illegittimi che abbiano privato gli stessi della possibilità di onorare le spoglie mortali dei propri cari, con la sicura consapevolezza dell'ubicazione delle stesse, e quindi, per la violazione del sentimento di pietà verso i defunti [nel caso deciso, tuttavia, il Tar osserva che “il diritto del ricorrente ha subito una mera compressione, senza mai essere tuttavia irreversibilmente eliso, essendosi … potuto recare presso il cimitero …, sebbene le spoglie dei suoi defunti sono state collocate in una cappella funeraria diversa da quella a cui il medesimo avrebbe avuto diritto”, con la conseguenza che il congiunto non ha “perso il proprio diritto ad onorare i propri defunti, neppure temporaneamente, essendo stato tuttavia costretto, in conseguenza di atti illegittimi del Comune, ad esercitare il M.simo in un luogo diverso da quello spettantegli, ciò che comporta la riduzione del risarcimento, ad un decimo delle somme richieste”]

FATTO
L’attuale ricorrente, unitamente ad altri discendenti di C.D., tra cui la Sig.ra C.P., è subentrato nella titolarità della concessione perpetua della cappella tombale n. XX , sita nel cimitero di M.. In data 2.11.1987, la predetta Sig.ra C. comunicava la volontà di retrocedere la cappella tombale al Comune di M,, che con delibera n. 287 del 20.4.1989 accoglieva la domanda, disponendo successivamente la cessione della cappella alle Sig.re A.R. e D.L., previa estumulazione delle salme della famiglia C., ivi sepolte.
Avverso detta delibera l’attuale ricorrente presentava un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, che veniva accolto con decreto del 27.5.1998.
In considerazione dell’inerzia serbata dal Comune, ritualmente diffidato in data XX, l’attuale ricorrente adiva Codesto Tribunale, che con sentenza n. XX del XX statuiva l’obbligo del Comune di attivarsi per ripristinare lo stato della cappella anteriore alla retrocessione e alla nuova concessione.
Con decreto n. XX del XX il Sindaco del Comune di M. ingiungeva la restituzione della tomba in questione all’attuale ricorrente, subordinatamente al pagamento di una somma a titolo risarcitorio delle spese di miglioramento della stessa, sostenute dalla predette Sig.re R. e L.
Con sentenza n. XX del XX il T.A.R. accoglieva il ricorso dell’attuale ricorrente avverso il citato decreto n. XX, nella parte in cui prevedeva a suo carico il versamento delle somme ivi indicate.
Detto decreto n. XX, una volta modificato nei termini previsti dalla citata sentenza n. XX, veniva a sua volta impugnato dalla Sig.ra L., il cui ricorso veniva tuttavia rigettato con sentenza n. XX del XX.
Con ordinanza n. XX del XX  il Sindaco del Comune di M. ingiungeva alle Sig.re R. e L.  la restituzione al ricorrente della cappella n. XX, disponendo altresì l’estumulazione delle salme.
Con atto di citazione notificato in data XX, proposto davanti al Tribunale di V., il ricorrente ha chiesto al Comune il risarcimento dei danni subiti, in considerazione dell’illegittima accettazione della retrocessione della tomba n. XX, senza previa acquisizione del suo consenso, ed in conseguenza del ritardo con cui ha provveduto alla sua restituzione, malgrado il suo obbligo in tal senso fosse stato accertato fin dal citato decreto del Presidente della Repubblica del XX.
Con sentenza n. XX del XX il Tribunale di V. ha tuttavia declinato la propria giurisdizione in favore di quella amministrativa, avendo conseguentemente il ricorrente riassunto il ricorso davanti al T.A.R., ex art. 11 c.p.a.
L’Amministrazione resistente si è costituita in giudizio, insistendo per il rigetto del ricorso, in rito e nel merito.
All’udienza pubblica del 29.10.2015 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
I) In via preliminare, il Collegio deve scrutinare l’eccezione sollevata dalla difesa comunale, secondo cui il diritto al risarcimento del danno richiesto dal ricorrente si sarebbe prescritto nel termine quinquennale decorrente dalla pubblicazione del citato Decreto del Presidente della Repubblica, e quindi nel mese di maggio 2003.
I.1) L’eccezione è infondata atteso che, in primo luogo, successivamente all’emanazione del citato D.P.R., e precisamente in data XX, il ricorrente ha diffidato l’Amministrazione a provvedere, richiedendo altresì il risarcimento dei danni subiti, e presentando successivamente, in considerazione dell’inerzia dalla stessa serbata, un ulteriore ricorso per ottemperanza.
I.2) Ritiene inoltre il Collegio che, contrariamente a quanto dedotto dalla difesa della resistente, secondo cui “tali atti non hanno nulla a che vedere con la richiesta di risarcimento dei danni”, poiché la domanda azionata nel presente giudizio verte in realtà, in larga misura, sulle conseguenze derivanti “dall’illegittimo ostruzionismo opposto dal Comune di fronte alla decisione del Presidente della Repubblica”, è di tutta evidenza che le citata diffida, e la successiva presentazione del ricorso per ottemperanza, siano stati atti idonei ad interrompere la prescrizione.
La domanda di risarcimento in questa sede presentata è infatti incentrata sulle spese necessarie al ripristino della cappella che il ricorrente dovrà affrontare in conseguenza delle modifiche intervenute nel periodo 1989-2005, oltre sulla mancata disponibilità della stessa. Qualora l’Amministrazione avesse ottemperato alla predetta diffida, anziché attendere altri otto anni prima di restituire la tomba all’attuale ricorrente, le conseguenze pregiudizievoli in capo al medesimo si sarebbero notevolmente ridotte, non potendo pertanto in questa sede sostenersi che l’intimazione ad adempiere alle statuizioni del D.P.R., che obbligava l’Amministrazione a restituire la cappella al ricorrente, non abbiano interrotto il termine prescrizionale.
II) Nel merito, il ricorso va accolto.
Come già accertato da ben tre provvedimenti giurisdizionali che si sono pronunciati sulla presente vicenda, sempre favorevolmente all’attuale ricorrente, la stessa è scaturita da un illegittimo atto del Comune di M. adottato in spregio alle regole fondamentali del diritto civile, senza peraltro che detto Ente, malgrado il suo annullamento in sede giurisdizionale, si conformasse spontaneamente, in modo da ridurre gli effetti pregiudizievoli per l’istante. Al contrario, come detto, il ricorrente è stato costretto ad intraprendere altri due giudizi nei confronti del Comune, prima che lo stesso gli conferisse ciò cui aveva diritto, quantomeno, a decorrere dalla pubblicazione del Decreto del Presidente della Repubblica del 1998, dovendosi pertanto ritenere provata la sussistenza della colpa, ai fini dello scrutinio della domanda di risarcimento del danno.
III) Quanto al nesso causale, evidenzia il Collegio che, in conseguenza dei provvedimenti gravemente illegittimi adottati dal Comune di M., e del comportamento elusivo dei giudicati che li hanno annullati, il ricorrente è stato privato per circa diciassette anni del godimento della cappella nella quale erano sepolti i propri familiari, che medio tempore è stata inoltre modificata dai detentori, ciò che ha indubbiamente causato al M.simo un danno ingiusto.
IV) In ordine al quantum, in primo luogo, il ricorrente chiede il risarcimento delle spese necessarie a ripristinare la cappella nella condizione in cui la stessa si trovava al momento dell’illegittima retrocessione al Comune, tenuto conto, a tal fine, della necessità di rimuovere le opere eseguite dalle predette Sig.re L. e R..
Ai fini della quantificazione, il ricorrente ripropone in tale sede le conclusioni cui è pervenuto il c.t.u. nell’ambito della predetta causa civile intentata presso il Tribunale di V., il quale ha quantificato gli stessi in Euro 67.762,08, richiedendo inoltre euro 8.000,00, necessari all’acquisto di cinque lapidi in marmo.
IV.1) Preliminarmente, il Collegio da atto che, in linea generale, nel processo amministrativo, non vi è un ostacolo all'utilizzazione dei risultati di una c.t.u. disposta in un processo civile cui hanno partecipato le M.sime parti (T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 8.5.2012 n. 1276), come del resto sostenuto dalla giurisprudenza invocata dalla resistente (C.S., Sez. IV, 17.5.2012 n. 2847), fermo restando lo scrutinio dei rilievi formulati avverso la perizia, esaminati nel proseguo delle presente sentenza.
IV.2) In primo luogo, la difesa comunale evidenzia che, in base a quanto risultante dalla relazione del tecnico comunale del XX, richiamata nella delibera di Giunta n. XX, quando la tomba era ancora nella disponibilità del ricorrente, la stessa si trovava in un precario stato di manutenzione, come dimostrato dal coefficiente di vetustità ivi attribuito, pari a 0,55, e dall’esiguità del suo valore, stimato pari a Lire 9.575.612, ciò di cui il c.t.u. non avrebbe tenuto conto.
IV.2.1) Evidenzia il Collegio che le pretese del ricorrente vertono sulla ricostruzione di uno status quo ante risalente nel tempo, come detto, profondamente alterato dalle opere medio tempore eseguite, ciò che è particolarmente significativo ai fini della quantificazione dei costi da sostenersi, ad esempio, rispetto ad una mera ricostruzione di un’opera demolita, come infatti puntualmente osservato dal C.T.U., secondo cui “rispetto agli interventi più recenti, con marmi, graniti, ecc., le soluzioni di finitura dello status quo ante potrebbero a confronto apparire oggi piuttosto modeste, tuttavia queste ultime hanno un alto valore storico e di memoria. Inoltre, per essere fatte così come erano richiedono interventi di ripristino che si avvalgono di tecniche esecutive, lavorazioni tradizionali, antichi e particolari magisteri (intonaco a calce, volte realizzate con mattoni, decorazioni su intonaci, gessi, ecc.), non più così consueti e diffusi”.
Conseguentemente, ritiene il Collegio che, in relazione alla natura del danno cagionato al ricorrente, inevitabilmente, al M.simo, vada riconosciuta una somma maggiore rispetto al mero valore dell’opera al momento dell’illegittima retrocessione, dovendo infatti aggiungersi alla stessa i costi necessari a rimuovere le opere medio tempore realizzate.
IV.2.2) Fermo restando quanto precede, ritiene tuttavia il Collegio che detta modalità risarcitoria non può evidentemente finire per conferire al ricorrente più di quanto il M.simo disponesse al momento dell’illegittima retrocessione.
In particolare, in esito ai lavori quantificati dal c.t.u., il ricorrente entrerà in possesso di una cappella in perfetto stato manutentivo, laddove invece, come detto, al momento della retrocessione, la stessa era considerevolmente usurata.
Conseguentemente, i predetti importi, quantificati nel computo metrico allegato alla c.t.u., andranno ridotti, in via equitativa, del 50%.
IV.3) Secondo la difesa comunale il C.T.U. avrebbe inoltre errato nel considerare quale parametro di riferimento, il valore delle cappelle funerarie circostanti, dovendo invece limitarsi all’indicazione degli interventi necessari a riportare la struttura nello stato in cui la stessa si trovava nel 1989.
IV.3.1) In primo luogo, osserva il Collegio che il C.T.U. ha ricostruito lo status quo ante della cappella del ricorrente basandosi sulle condizioni di una cappella speculare e simile alla stessa, “per epoca, tipologia edilizia e soluzioni architettoniche”, anch’essa di proprietà del ricorrente, ed in precedenza collegata a quella per cui è causa. Poiché tale seconda cappella risulta “integra e mai modificata” (v. punto 2 sopralluogo del 22.10.2007), le argomentazioni della difesa comunale volte a dimostrare che il c.t.u. avrebbe erroneamente preso a riferimento immobili in condizioni manutentive migliori di quelle in cui si trovava la cappella del ricorrente, vanno pertanto respinte.
IV.4) La difesa comunale muove inoltre una serie di censure in relazione alle specifiche voci di costo indicate nel computo metrico estimativo allegato alla perizia.
OMISSIS
V) Il ricorrente richiede altresì che il Comune di M. sia condannato al versamento della somma di Euro 8.000,00 per l’acquisto di cinque lapidi in marmo nero.
Come tuttavia correttamente evidenziato dalla difesa comunale, tale somma non va riconosciuta al M.simo, non essendo stata fornita prova in relazione all’avvenuta rimozione dalla cappella delle lapidi, e senza che il citato verbale dell’Ufficio Tecnico Comunale del 1988 menzioni le stesse, come del resto lo stesso C.T.U.
VI) Infine, il ricorrente richiede il risarcimento per il danno non patrimoniale subito, in relazione al mancato godimento della cappella di famiglia nell’arco temporale in cui non ne ha avuto la disponibilità, quantificando il M.simo in Euro 1.000,00 all’anno, e pertanto, complessivamente, in Euro 16.000,00
VI.1) Sul punto, osserva il Collegio che il culto dei defunti rientra nell’ambito dei limiti alla risarcibilità del danno non patrimoniale tracciati da Cass. S.U. n. 26972/2008, vertendosi in tema di diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale, ed in cui la posizione attorea, ai fini dell’assolvimento dell’onere probatorio, risulta agevolata, nei termini di cui all'art. 2050 c.c., rispetto alla regola generale del danno aquiliano, nonché dalla possibilità di dimostrare il danno anche solo tramite presunzioni semplici e dal risarcimento secondo equità (Cass. Sez. III, 5.3.2015 n. 4443). La giurisprudenza riconosce infatti pacificamente ai congiunti il risarcimento dei danni causati in conseguenza di comportamenti illegittimi che abbiano privato gli stessi della possibilità di onorare le spoglie mortali dei propri cari, con la sicura consapevolezza dell'ubicazione delle stesse, e quindi, per la violazione del sentimento di pietà verso i defunti (Tribunale Busto Arsizio, 31.1.2005, Tribunale di Treviso, 24.2.2012).
VI.2) Con riferimento alla fattispecie, il Collegio da atto che il diritto del ricorrente ha subito una mera compressione, senza mai essere tuttavia irreversibilmente eliso, essendosi il M.simo potuto recare presso il cimitero di M., sebbene le spoglie dei suoi defunti sono state collocate in una cappella funeraria diversa da quella a cui il M.simo avrebbe avuto diritto.
Il ricorrente non ha mai pertanto perso il proprio diritto ad onorare i propri defunti, neppure temporaneamente, essendo stato tuttavia costretto, in conseguenza di atti illegittimi del Comune, ad esercitare il M.simo in un luogo diverso da quello spettantegli, ciò che comporta la riduzione del risarcimento, ad un decimo delle somme richieste.
VII) In conclusione, il ricorso va accolto, e per l’effetto il Comune di M. va condannato al risarcimento del danno in favore del ricorrente della somma di Euro 33.629,04, per il ripristino della cappella nella condizione in cui la stessa si trovava al momento dell’illegittima retrocessione (Euro 67.762,08 – 504,00 / 2), e di Euro 1.600.00 a titolo di danno non patrimoniale, per un totale di Euro 35.229,04. Considerato poi che dal momento della liquidazione giudiziale il debito risarcitorio di valore si trasforma in debito di valuta, sulla somma complessiva, così determinata, dovranno essere corrisposti gli interessi di mora al saggio legale, con decorrenza dal deposito della presente decisione e sino all’effettiva soddisfazione.
Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie, nei termini di cui in motivazione.
Condanna il Comune di M. al pagamento delle spese processuali in favore del ricorrente, equitativamente e complessivamente liquidate in Euro 3.000,00, oltre agli oneri di legge.

venerdì 1 gennaio 2016



Garanzie per l’iscritto, espulso dal partito

Trib. Roma 12 febbraio 2015


L’esclusione dal partito, comminata senza la preventiva contestazione degli addebiti e senza consentire all’interessato alcuna possibilità di interloquire, deve considerarsi in contrasto con i principi costituzionali che tutelano la libertà di associazione e il metodo democratico cui devono ispirarsi le associazioni partitiche che concorrono a determinare la politica nazionale, con conseguente invalidità della delibera di espulsione