lunedì 31 ottobre 2016



PANOZZO, Nozioni di diritto comunitario: il primato del diritto comunitario sul diritto interno nella giurisprudenza della corte di giustizia e della corte costituzionale, (4 settembre 2009), in www.cittadinistranieri.it


PANOZZO, Legge 94/2009 - Dichiarazione di nascita: prime osservazioni sui (paventati) riflessi del novellato art. 6, c. 2, del TU immigrazione, (26 luglio 2009), in www.cittadinistranieri.it

domenica 30 ottobre 2016



Corte di Giustizia UE 27 ottobre 2016, n. C-428/15

«Rinvio pregiudiziale – Cooperazione giudiziaria in materia civile – Competenza, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale – Regolamento (CE) n. 2201/2003 – Articolo 15 – Trasferimento del caso a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro – Ambito di applicazione – Condizioni per l’applicazione – Autorità giurisdizionale più adatta – Interesse superiore del minore»








1)      L’articolo 15 del regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000, deve essere interpretato nel senso che si applica in presenza di un ricorso in materia di tutela dei minori presentato sulla base del diritto pubblico dalla competente autorità di uno Stato membro e avente ad oggetto l’adozione di misure relative alla responsabilità genitoriale, come quello di cui al procedimento principale, qualora la dichiarazione di competenza di un organo giurisdizionale di un altro Stato membro necessiti, a valle, dell’avvio, da parte di un’autorità di tale altro Stato membro, ai sensi del suo diritto interno e alla luce di circostanze di fatto eventualmente diverse, di un procedimento distinto da quello avviato nel primo Stato membro.

2)      L’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 deve essere interpretato nel senso che:
–        per poter stabilire che un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore ha un legame particolare è più adatta, il giudice competente di uno Stato membro deve accertarsi che il trasferimento del caso a detta autorità giurisdizionale sia idoneo ad apportare un valore aggiunto reale e concreto al trattamento dello stesso, in particolare tenendo conto delle norme di procedura applicabili in detto altro Stato membro;
–        per poter stabilire che un siffatto trasferimento corrisponde all’interesse superiore del minore, il giudice competente di uno Stato membro deve in particolare accertarsi che tale trasferimento non rischi di ripercuotersi negativamente sulla situazione del minore.

3)      L’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 deve essere interpretato nel senso che il giudice competente di uno Stato membro non deve tenere conto, in sede di attuazione di tale disposizione in un determinato caso in materia di responsabilità genitoriale, né dell’incidenza di un possibile trasferimento di detto caso a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro sul diritto di libera circolazione delle persone interessate diverse dal minore interessato, né del motivo per il quale la madre di tale minore si è avvalsa di tale diritto, prima che detto giudice fosse adito, salvo che considerazioni di questo tipo siano tali da ripercuotersi in modo negativo sulla situazione di tale minore.








SENTENZA DELLA CORTE (Terza Sezione)
27 ottobre 2016
Nella causa C‑428/15,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dalla Supreme Court (Corte Suprema, Irlanda), con decisione del 31 luglio 2015, pervenuta in cancelleria il 4 agosto 2015, nel procedimento
Child and Family Agency
contro
J.D.,
con l’intervento di:
R.P.D.,
LA CORTE (Terza Sezione),
composta da L. Bay Larsen, presidente di sezione, M. Vilaras, J. Malenovský (relatore), M. Safjan e D. Šváby, giudici,
avvocato generale: M. Wathelet
cancelliere: L. Hewlett, amministratore principale
vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 12 maggio 2016,
considerate le osservazioni presentate:
–        per la Child and Family Agency, da L. Jonker, solicitor, T. O’Leary, SC, e D. Leahy, barrister;
–        per J.D., da I. Robertson, solicitor, M. de Blacam, SC, e G. Lee, BL;
–        per il minore R.P.D., da G. Irwin, solicitor, G. Durcan, SC, S. Fennell, BL, e N. McDonnell, BL;
–        per l’Irlanda, da E. Creedon e L. Williams nonché da A. Joyce, in qualità di agenti, assistiti da A. Carroll, BL;
–        per il governo ceco, da M. Smolek e J. Vláčíl, in qualità di agenti;
–        per il governo slovacco, da B. Ricziová, in qualità di agente;
–        per la Commissione europea, da M. Wilderspin, in qualità di agente,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 16 giugno 2016,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1        La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 15 del regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000 (GU 2003, L 338, pag. 1, e rettifica in GU 2013, L 82, pag. 63).
2        Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la Child and Family Agency (Agenzia per l’infanzia e la famiglia, Irlanda; in prosieguo: l’«Agenzia») e la sig.ra J.D. in merito alla sorte del secondo figlio di quest’ultima, il minore in tenera età R.
 Contesto normativo
3        I considerando 5, 12, 13 e 33 del regolamento n. 2201/2003 enunciano:
«(5)      Per garantire parità di condizioni a tutti i minori, il presente regolamento disciplina tutte le decisioni in materia di responsabilità genitoriale, incluse le misure di protezione del minore, indipendentemente da qualsiasi nesso con un procedimento matrimoniale.
(...)
(12)      È opportuno che le regole di competenza in materia di responsabilità genitoriale accolte nel presente regolamento si informino all’interesse superiore del minore e in particolare al criterio di vicinanza. Ciò significa che la competenza giurisdizionale appartiene anzitutto ai giudici dello Stato membro in cui il minore risiede abitualmente, salvo ove si verifichi un cambiamento della sua residenza o in caso di accordo fra i titolari della responsabilità genitoriale.
(13)      Nell’interesse del minore, il presente regolamento consente al giudice competente, a titolo eccezionale e in determinate condizioni, di trasferire il caso al giudice di un altro Stato membro se quest’ultimo è più indicato a conoscere del caso. Tuttavia, in questo caso, il giudice adito in seconda istanza non dovrebbe essere autorizzato a trasferire il caso a un terzo giudice.
(...)
(33)      Il presente regolamento riconosce i diritti fondamentali e osserva i principi sanciti in particolare dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In particolare, mira a garantire il pieno rispetto dei diritti fondamentali del bambino quali riconosciuti dall’articolo 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea».
4        L’articolo 1 del regolamento n. 2201/2003, intitolato «Campo di applicazione», prescrive quanto segue:
«1.      Il presente regolamento si applica, indipendentemente dal tipo di autorità giurisdizionale, alle materie civili relative:
(...)
b)      all’attribuzione, all’esercizio, alla delega, alla revoca totale o parziale della responsabilità genitoriale.
2.      Le materie di cui al paragrafo 1, lettera b), riguardano in particolare:
a)      il diritto di affidamento e il diritto di visita;
(...)
d)      la collocazione del minore in una famiglia affidataria o in un istituto;
(...)».
5        L’articolo 2, punto 7, di tale regolamento stabilisce che, ai fini dello stesso, deve intendersi per:
«“responsabilità genitoriale”: i diritti e doveri di cui è investita una persona fisica o giuridica in virtù di una decisione giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore riguardanti la persona o i beni di un minore. Il termine comprende, in particolare, il diritto di affidamento e il diritto di visita».
6        Il capo II di detto regolamento, intitolato «Competenza», comprende fra l’altro una sezione 2, intitolata «Responsabilità genitoriale», che prevede, agli articoli da 8 a 15, una serie di regole riguardanti la competenza delle autorità giurisdizionali degli Stati membri in materia.
7        L’articolo 8 di tale regolamento, intitolato «Competenza generale», al paragrafo 1 dispone, in particolare, quanto segue:
«Le autorità giurisdizionali di uno Stato membro sono competenti per le domande relative alla responsabilità genitoriale su un minore, se il minore risiede abitualmente in quello Stato membro alla data in cui sono adit[e]».
8        A termini dell’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003, intitolato «Trasferimento delle competenze a una autorità giurisdizionale più adatta a trattare il caso»:
«1.      In via eccezionale le autorità giurisdizionali di uno Stato membro competenti a conoscere del merito, qualora ritengano che l’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore abbia un legame particolare sia più adatt[a] a trattare il caso o una sua parte specifica e ove ciò corrisponda all’interesse superiore del minore, possono:
a)      interrompere l’esame del caso o della parte in questione e invitare le parti a presentare domanda all’autorità giurisdizionale dell’altro Stato membro conformemente al paragrafo 4 oppure
b)      chiedere all’autorità giurisdizionale dell’altro Stato membro di assumere la competenza ai sensi del paragrafo 5.
2.      Il paragrafo 1 è applicabile:
a)      su richiesta di una parte o
b)      su iniziativa dell’autorità giurisdizionale o
c)      su iniziativa di un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con cui il minore abbia un legame particolare, conformemente al paragrafo 3.
Il trasferimento della causa può tuttavia essere effettuato su iniziativa dell’autorità giurisdizionale o su richiesta di un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro soltanto se esso è accettato da almeno una delle parti.
3.      Si ritiene che il minore abbia un legame particolare con uno Stato membro, ai sensi del paragrafo 1, se tale Stato membro
a)      è divenuto la residenza abituale del minore dopo che l’autorità giurisdizionale di cui al paragrafo 1 è stata adita; o
b)      è la precedente residenza abituale del minore; o
c)      è il paese di cui il minore è cittadino; o
d)      è la residenza abituale di uno dei titolari della responsabilità genitoriale; o
e)      la causa riguarda le misure di protezione del minore legate all’amministrazione, alla conservazione o all’alienazione dei beni del minore situati sul territorio di questo Stato membro.
4.      L’autorità giurisdizionale dello Stato membro competente a conoscere del merito fissa un termine entro il quale le autorità giurisdizionali dell’altro Stato membro devono essere adite conformemente al paragrafo 1.
Decorso inutilmente tale termine, la competenza continua ad essere esercitata dall’autorità giurisdizionale preventivamente adita ai sensi degli articoli da 8 a 14.
5.      Le autorità giurisdizionali di quest’altro Stato membro possono accettare la competenza, ove ciò corrisponda, a motivo delle particolari circostanze del caso, all’interesse superiore del minore, entro 6 settimane dal momento in cui sono adite in base al paragrafo 1, lettere a) o b). In questo caso, l’autorità giurisdizionale preventivamente adita declina la propria competenza. In caso contrario, la competenza continua ad essere esercitata dall’autorità giurisdizionale preventivamente adit[a] ai sensi degli articoli da 8 a 14.
6.      Le autorità giurisdizionali collaborano, ai fini del presente articolo, direttamente ovvero attraverso le autorità centrali nominate a norma dell’articolo 53».
 Procedimento principale e questioni pregiudiziali
9        La sig.ra D. è cittadina del Regno Unito.
10      Il suo primo figlio è stato collocato in un istituto nel Regno Unito nel corso del 2010, in seguito a constatazioni secondo cui la sig.ra D., da un lato, soffriva di un disturbo di personalità qualificato come «comportamento asociale» e, dall’altro, aveva dato prova di violenza fisica verso tale figlio.
11      Mentre risiedeva sempre in tale Stato membro, la sig.ra D. si è sottoposta, il 27 agosto 2014, a un esame prenatale organizzato dalle autorità di tutela dell’infanzia del suo luogo di residenza in previsione della nascita del suo secondo figlio, R., e ciò in ragione dei suoi precedenti medici e familiari. Da questo esame è emerso fra l’altro che la sig.ra D. aveva dato prova di affetto verso il suo primo figlio, che attendeva la nascita di R. con un atteggiamento positivo e che aveva preso provvedimenti in previsione di tale nascita e che, in particolare, aveva manifestato la volontà di collaborare con gli assistenti sociali al riguardo. Le autorità competenti hanno tuttavia ritenuto che, al momento della nascita, R. avrebbe dovuto essere affidato a una famiglia affidataria, nell’attesa dell’avvio di una procedura di adozione da parte di terzi.
12      La sig.ra D. ha quindi risolto il proprio contratto di locazione e ha venduto i propri beni nel Regno Unito, per stabilirsi in Irlanda il 29 settembre 2014. R. è nato in tale secondo Stato membro il 25 ottobre 2014. Entrambi vi risiedono da allora.
13      Poco dopo la nascita di R., l’Agenzia ha chiesto alla District Court (Corte distrettuale, Irlanda) competente di ordinare che il minore fosse oggetto di un provvedimento di affido. Tale domanda è stata tuttavia respinta con la motivazione che le prove de relato provenienti dal Regno Unito sulle quali l’Agenzia si basava erano irricevibili.
14      La Circuit Court (Corte circondariale, Irlanda) competente, adita con un appello presentato dall’Agenzia, ha disposto l’affidamento provvisorio di R. presso una famiglia affidataria. Tale misura è stata regolarmente rinnovata da allora. La sig.ra D. ha tuttavia ottenuto il beneficio del diritto di visita regolare a suo figlio, di cui ella ha usufruito.
15      L’Agenzia ha peraltro chiesto alla High Court (Alta Corte, Irlanda) che il giudizio nel merito fosse trasferito alla High Court of Justice (England & Wales) [Alta Corte di Giustizia (Inghilterra e Galles), Regno Unito], in applicazione dell’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003. Tale domanda è stata sostenuta dal tutore ad litem di R.
16      Con una sentenza del 26 marzo 2015, la High Court (Alta Corte) ha autorizzato l’Agenzia a chiedere alla suddetta autorità giurisdizionale di esercitare la sua competenza riguardo al caso di cui trattasi.
17      La sig.ra D. ha chiesto di essere autorizzata ad appellarsi avverso tale sentenza direttamente dinanzi alla Supreme Court (Corte Suprema, Irlanda), che ha accolto la sua richiesta, dopo aver sentito le parti.
18      Nella sua decisione di rinvio, la Supreme Court (Corte Suprema) si chiede, innanzitutto, se l’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003 sia applicabile a un caso avente ad oggetto una procedura di affidamento avviata sulla base del diritto pubblico, come quello con cui è adito, malgrado il fatto che, attualmente, nessuna procedura sia pendente nel Regno Unito e che una dichiarazione di competenza delle autorità giurisdizionali di tale Stato membro necessiti quindi, a valle, che le autorità di tutela dell’infanzia di detto Stato membro accettino di prendere in carico il caso di R., avviando una simile procedura sulla base del loro diritto interno.
19      Inoltre, il giudice del rinvio si interroga su come interpretare la nozione di «interesse superiore del minore» enunciata all’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003. Secondo detto organo, tale articolo non esige che il giudice normalmente competente a conoscere di un determinato caso proceda, qualora preveda di trasferirlo a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro che reputi più indicata a conoscerne, a un esame completo dell’interesse superiore del minore. Lo stesso ritiene che il giudice di norma competente debba piuttosto eseguire una valutazione sommaria di tale questione, alla luce del principio secondo cui è nell’interesse superiore del minore che sia l’autorità giurisdizionale più indicata a valutare la situazione a procedervi, con l’obbligo per l’organo giurisdizionale dell’altro Stato membro di effettuare un’analisi più approfondita.
20      Infine, il giudice del rinvio si interroga sugli elementi di cui tenere conto nell’ambito di una tale valutazione sommaria. A tal riguardo, egli sottolinea che del tutto legittimamente la sig.ra D. ha lasciato il Regno Unito per stabilirsi in Irlanda prima della nascita di R., pur chiedendosi se non sia comunque possibile tenere conto del fatto che il suo trasferimento è stato motivato dal timore che il figlio le fosse sottratto dai servizi di tutela dell’infanzia del primo di tali Stati membri.
21      In tale contesto, la Supreme Court (Corte Suprema) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1)      Se l’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003 si applichi alle domande di diritto pubblico in materia di cura dei minori presentate da un’autorità locale in uno Stato membro, qualora, se il giudice di un altro Stato membro si dichiara competente, si renda necessario l’avvio di un procedimento distinto su iniziativa di un organo differente ai sensi di un ordinamento nazionale diverso, ed eventualmente, se non probabilmente, vertente su circostanze di fatto diverse.
2)      In caso affermativo, in che misura, eventualmente, un organo giurisdizionale dovrebbe tenere conto del verosimile impatto di una domanda ai sensi dell’articolo 15, se accolta, sulla libera circolazione dei soggetti interessati.
3)      Qualora l’“interesse superiore del minore”, di cui all’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003, si riferisca unicamente alla decisione relativa al foro competente, quali fattori relativi a tale nozione un organo giurisdizionale possa prendere in considerazione, che non siano già stati esaminati al fine di stabilire se un altro giudice sia “più adatto”.
4)      Se un giudice, ai sensi dell’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003, possa prendere in considerazione il diritto sostanziale, le norme procedurali o la prassi giurisprudenziale dello Stato membro di cui trattasi.
5)      In che misura un giudice nazionale, ai fini dell’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003, dovrebbe tenere conto delle circostanze specifiche della fattispecie, ivi compresa l’intenzione della madre di sottrarsi ai servizi sociali del suo Stato di residenza, e quindi di dare alla luce il figlio in un altro paese con un sistema di servizi sociali che considera a lei più favorevoli.
6)      Quali siano precisamente gli elementi che un organo giurisdizionale nazionale deve prendere in considerazione per stabilire quale giudice sia il più adatto a esaminare il caso».
 Procedimento dinanzi alla Corte
22      Il giudice del rinvio ha chiesto che la causa beneficiasse del procedimento pregiudiziale d’urgenza previsto dall’articolo 23 bis dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea e dall’articolo 107 del regolamento di procedura della Corte.
23      Il 14 agosto 2015, la Corte ha deciso, dopo aver sentito l’avvocato generale, di non accogliere tale domanda, dopo aver rilevato che le circostanze esposte a supporto della stessa non dimostravano l’urgenza richiesta per giustificare l’applicazione di detto procedimento.
24      È stato disposto, tuttavia, che detta causa fosse decisa in via prioritaria, in applicazione dell’articolo 53, paragrafo 3, del regolamento di procedura.
 Sulle domande di riapertura della fase orale
25      In seguito alla presentazione delle conclusioni dell’avvocato generale il 16 giugno 2016, l’Agenzia e l’Irlanda hanno chiesto, con atti depositati presso la cancelleria della Corte, rispettivamente, il 5 ed il 19 agosto 2016, che fosse disposta la riapertura della fase orale del procedimento, facendo valere la necessità di chiarire la presentazione del quadro procedurale della controversia oggetto del procedimento principale, come effettuata dal giudice del rinvio.
26      A tal riguardo, l’articolo 83 del regolamento di procedura prevede che la Corte possa, sentito l’avvocato generale, disporre in qualsiasi momento la riapertura della fase orale del procedimento, in particolare se non si ritiene sufficientemente edotta.
27      Nel caso di specie, la Corte, sentito l’avvocato generale, si ritiene tuttavia sufficientemente edotta, dato che gli elementi necessari ai fini della decisione sono presenti nel fascicolo e che gli interessati hanno potuto prendere posizione al riguardo sia per iscritto che oralmente. Non occorre, pertanto, disporre la riapertura della fase orale del procedimento.
 Sulle questioni pregiudiziali
 Sulla prima questione
28      Con la prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003 debba essere interpretato nel senso che si applica in presenza di un ricorso in materia di tutela dei minori presentato sulla base del diritto pubblico dalla competente autorità di uno Stato membro, come nel procedimento principale, qualora la dichiarazione di competenza di un organo giurisdizionale di un altro Stato membro necessiti, a valle, dell’avvio, da parte di un’autorità di tale altro Stato membro, ai sensi del suo diritto interno e alla luce di circostanze di fatto eventualmente diverse, di un procedimento distinto da quello avviato nel primo Stato membro.
29      Innanzitutto, occorre rilevare, da un lato, che l’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003 rientra nella sezione 2 del capo II di detto regolamento, il quale stabilisce un insieme di regole di competenza nelle cause in materia di responsabilità genitoriale, e, dall’altro, che tale articolo prevede una regola di competenza specifica e derogatoria alla regola di competenza generale che designa le autorità giurisdizionali del luogo di residenza abituale del minore come giudici competenti a conoscere del merito di tali casi, enunciata all’articolo 8 del medesimo regolamento.
30      Tenuto conto dell’impianto sistematico della sezione 2 del capo II del regolamento n. 2201/2003 e della posizione occupata dall’articolo 15, si deve considerare che l’ambito di applicazione materiale di tale articolo è lo stesso di quello di tutte le regole di competenza enunciate in detta sezione e, in particolare, dell’articolo 8 di detto regolamento (v., in tal senso, sentenza del 19 novembre 2015, P, C‑455/15 PPU, EU:C:2015:763, punto 44).
31      A tal riguardo, è vero che dalla formulazione dell’articolo 1, paragrafi 1 e 2, del regolamento n. 2201/2003 risulta che tali regole di competenza si applicano alle «materie civili» relative all’attribuzione, all’esercizio, alla delega ed alla revoca totale o parziale della responsabilità genitoriale, come definita all’articolo 2, punto 7, del medesimo regolamento.
32      Tuttavia, la Corte ha già dichiarato, a più riprese, che le regole di competenza previste dal regolamento n. 2201/2003 in materia di responsabilità genitoriale devono essere interpretate, alla luce del considerando 5 di tale regolamento, nel senso che si applicano a cause in materia di responsabilità genitoriale aventi ad oggetto misure di protezione del minore, anche nel caso in cui queste ultime siano considerate, ai sensi dell’ordinamento interno di uno Stato membro, rientranti nel diritto pubblico (v., in tal senso, sentenze del 27 novembre 2007, C, C‑435/06, EU:C:2007:714, punti 34 e da 50 a 51; del 2 aprile 2009, A, C‑523/07, EU:C:2009:225, punti 24 e da 27 a 29, nonché del 26 aprile 2012, Health Service Executive, C‑92/12 PPU, EU:C:2012:255, punti 60 e 61).
33      Da quanto precede deriva che l’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003 si applica nel caso di un ricorso in materia di tutela dei minori presentato sulla base del diritto pubblico dalla competente autorità di uno Stato membro e avente ad oggetto l’adozione di misure relative alla responsabilità genitoriale.
34      Inoltre, riguardo alla questione se l’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003 possa essere applicato nel caso in cui la dichiarazione di competenza di un organo giurisdizionale di un altro Stato membro necessiti, a valle, dell’avvio, da parte di un’autorità di tale altro Stato membro, ai sensi del suo diritto interno e alla luce di circostanze di fatto eventualmente diverse, di un procedimento distinto da quello avviato nel primo Stato membro, occorre sottolineare che dal paragrafo 1 di detto articolo risulta che una dichiarazione di questo tipo è subordinata alla condizione che l’organo giurisdizionale di cui trattasi sia stato adito con una domanda presentata o dalle parti in causa o dal giudice competente di tale primo Stato membro.
35      Per contro, non risulta né da tale articolo né da alcun altro articolo del regolamento n. 2201/2003 che una siffatta domanda, presentata dalle parti in causa o dal giudice di uno Stato membro di norma competente, sia soggetta a una condizione procedurale che si aggiunga a quella indicata al punto precedente.
36      Ciò posto, dato che una norma di procedura nazionale secondo cui la dichiarazione di competenza di un organo giurisdizionale di un altro Stato membro necessita, a valle, dell’avvio, da parte di un’autorità di tale Stato membro, di un procedimento distinto da quello avviato nel primo Stato membro, può essere messa in atto solo in seguito alla decisione con cui il giudice di tale primo Stato membro di norma competente ha chiesto il trasferimento del caso a un organo giurisdizionale di un altro Stato membro in applicazione del paragrafo 1 dell’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003 e alla decisione mediante cui quest’altro organo giurisdizionale si è dichiarato competente sulla base del paragrafo 5 del medesimo articolo, essa non può ritenersi ostativa all’adozione di tali decisioni.
37      Inoltre, l’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003 non osta a che l’avvio di un procedimento distinto da parte dell’autorità dell’altro Stato membro induca, eventualmente, l’organo giurisdizionale di tale altro Stato membro a tenere conto di circostanze di fatto diverse da quelle che avrebbero potuto essere considerate dal giudice inizialmente competente. Al contrario, una simile ipotesi attiene al meccanismo di trasferimento a un organo giurisdizionale più adatto istituito da tale articolo.
38      Per i suddetti motivi, alla prima questione occorre rispondere che l’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003 deve essere interpretato nel senso che si applica in presenza di un ricorso in materia di tutela dei minori presentato sulla base del diritto pubblico dalla competente autorità di uno Stato membro e avente ad oggetto l’adozione di misure relative alla responsabilità genitoriale, come quello di cui al procedimento principale, qualora la dichiarazione di competenza di un organo giurisdizionale di un altro Stato membro necessiti, a valle, dell’avvio, da parte di un’autorità di tale altro Stato membro, ai sensi del suo diritto interno e alla luce di circostanze di fatto eventualmente diverse, di un procedimento distinto da quello avviato nel primo Stato membro.
 Sulle terza, sulla quarta e sulla sesta questione
39      Con la terza, la quarta e la sesta questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza come interpretare e articolare le nozioni di autorità giurisdizionale «più adatta» e di «interesse superiore del minore» di cui all’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003.
40      L’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 prevede che le autorità giurisdizionali di uno Stato membro competenti a conoscere del merito di un caso possono chiedere il trasferimento di tale caso o di una sua parte specifica a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore abbia un legame particolare, ove ritengano che quest’ultima sia più adatta a trattarla e ove ciò corrisponda all’interesse superiore del minore.
41      Poiché le nozioni di autorità giurisdizionale «più adatta» e di «interesse superiore del minore» ai sensi di tale disposizione non sono definite da alcun’altra disposizione del regolamento n. 2201/2003, occorre interpretarle tenendo conto del contesto nel quale si collocano e degli obiettivi perseguiti da detto regolamento.
42      Si deve preliminarmente osservare che, a termini del considerando 12 del regolamento n. 2201/2003, le regole di competenza dettate da quest’ultimo in materia di responsabilità genitoriale sono ispirate all’interesse superiore del minore.
43      La necessità che il trasferimento di un caso a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro corrisponda all’interesse superiore del minore costituisce, come sostanzialmente rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 70 delle sue conclusioni, un’espressione del principio cardine su cui, da un lato, si è basato il legislatore nella concezione di tale regolamento e che, dall’altro, deve guidare la sua attuazione nelle cause in materia di responsabilità genitoriale ad esso assoggettate (v., in tal senso, sentenze dell’11 luglio 2008, Rinau, C‑195/08 PPU, EU:C:2008:406, punto 51; del 1° ottobre 2014, E., C‑436/13, EU:C:2014:2246, punto 45, e del 12 novembre 2014, L, C‑656/13, EU:C:2014:2364, punto 48).
44      A tal riguardo, si deve altresì rilevare che, nel contesto del regolamento n. 2201/2003, la considerazione dell’interesse superiore del minore è volta a garantire il rispetto dei diritti fondamentali del bambino, come si evince dal considerando 33 di tale regolamento (v., in tal senso, sentenze del 23 dicembre 2009, Detiček, C‑403/09 PPU, EU:C:2009:810, punti da 53 a 55, e del 5 ottobre 2010, McB., C‑400/10 PPU, EU:C:2010:582, punto 60).
45      Al fine di garantire che sia preso in considerazione l’interesse superiore del minore in sede di attuazione delle regole di competenza sancite dal regolamento n. 2201/2003 in materia di responsabilità genitoriale, il legislatore dell’Unione si è avvalso, come risulta dal considerando 12 di tale regolamento, del criterio di vicinanza.
46      In forza di tale criterio, la competenza delle autorità giurisdizionali degli Stati membri in materia di responsabilità genitoriale è di norma determinata, conformemente all’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003, dal luogo di residenza abituale del minore alla data in cui esse sono adite.
47      Tuttavia, l’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 consente il trasferimento di un determinato caso a un’autorità giurisdizionale di uno Stato membro diverso da quello a cui appartiene l’autorità giurisdizionale di norma competente, fermo restando che, come risulta dal considerando 13 del medesimo regolamento, un siffatto trasferimento deve rispondere a condizioni specifiche, da un lato, e può avvenire solo in casi eccezionali, dall’altro.
48      Pertanto, la regola del trasferimento a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro sancita all’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 costituisce una regola di competenza speciale e derogatoria rispetto a quella di competenza generale enunciata all’articolo 8, paragrafo 1, di tale regolamento, cosicché essa dev’essere interpretata restrittivamente (v., per analogia, sentenze del 23 dicembre 2009, Detiček, C‑403/09 PPU, EU:C:2009:810, punto 38, e del 21 ottobre 2015, Gogova, C‑215/15, EU:C:2015:710, punto 41).
49      Ciò posto, l’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 dev’essere interpretato nel senso che l’autorità giurisdizionale di uno Stato membro normalmente competente a conoscere di una controversia deve, per poter chiederne il trasferimento a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro, riuscire a contrastare la forte presunzione in favore del mantenimento della propria competenza derivante da tale regolamento, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 90 delle sue conclusioni.
50      Più in particolare, occorre ricordare, in primo luogo, che, ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003, il trasferimento di un caso in materia di responsabilità genitoriale, da parte di un’autorità giurisdizionale di uno Stato membro, può essere effettuato unicamente in favore di un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore interessato abbia un «legame particolare».
51      Al fine di dimostrare la sussistenza di un siffatto legame in un determinato caso, occorre fare riferimento agli elementi elencati, in modo tassativo, all’articolo 15, paragrafo 3, lettere da a) ad e), del regolamento n. 2201/2003. Ne consegue che i casi privi di tali elementi devono essere ab origine esclusi dal meccanismo di trasferimento.
52      Ebbene, si deve constatare che tali elementi attestano tutti – se non in modo esplicito, quantomeno dal punto di vista sostanziale – una vicinanza tra il minore interessato dal caso e uno Stato membro diverso da quello cui appartiene l’autorità giurisdizionale competente a conoscere dello stesso sulla base dell’articolo 8, paragrafo 1, di tale regolamento.
53      Infatti, i primi due elementi riguardano la residenza acquisita dal minore nell’altro Stato membro interessato anteriormente o successivamente all’adizione dell’autorità giurisdizionale di norma competente. Il terzo elemento riguarda la cittadinanza di tale minore. Il quarto elemento fa derivare, nei casi pertinenti, il legame di detto minore con l’altro Stato membro in ragione dei beni che questi detiene nel suo territorio. Infine, il quinto elemento verte sul legame di vicinanza che il minore ha con un determinato Stato a motivo dei suoi parenti.
54      Alla luce della natura dei suddetti elementi, si deve osservare che, in sede di applicazione dell’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 a un determinato caso, l’autorità giurisdizionale competente deve comparare l’entità e l’intensità del legame di vicinanza «generale» che lo connette al minore interessato, ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 2, di detto regolamento, con quelle del legame di vicinanza «particolare» attestato da uno o più degli elementi enunciati all’articolo 15, paragrafo 3, di tale regolamento e sussistenti, nel caso di specie, tra tale minore e determinati altri Stati membri.
55      Ciò posto, l’esistenza di un «legame particolare» ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003, pertinente alla luce delle circostanze del caso, tra il minore e un altro Stato membro non pregiudica necessariamente, di per sé, la questione relativa a se, oltre a ciò, un’autorità giurisdizionale di detto altro Stato membro sia «più adatta a trattare il caso» rispetto al giudice competente, ai sensi di tale disposizione, né tantomeno, in senso affermativo, la questione se il trasferimento del caso a tale autorità giurisdizionale corrisponda all’interesse superiore del minore.
56      Pertanto, spetta in secondo luogo ancora all’autorità giurisdizionale competente stabilire se, all’interno dell’altro Stato membro con cui il minore detiene un legame particolare, esista un’autorità giurisdizionale più adatta a trattare il caso.
57      A tal fine, il giudice competente deve stabilire se il trasferimento del caso a tale altra autorità giurisdizionale sia idoneo ad apportare un valore aggiunto reale e concreto, per quanto riguarda l’adozione di una decisione riguardante il minore, rispetto all’ipotesi del suo mantenimento davanti ad esso. In tale contesto può tenere conto, fra gli altri elementi, delle norme di procedura dell’altro Stato membro, come quelle applicabili alla raccolta delle prove necessarie al trattamento del caso. Per contro, il giudice competente non dovrebbe prendere in considerazione, ai fini di una tale valutazione, il diritto sostanziale di detto altro Stato membro che sarebbe eventualmente applicabile da parte dell’autorità giurisdizionale di quest’ultimo, nell’ipotesi in cui il caso le fosse trasferito. Infatti, una considerazione siffatta contrasterebbe con i principi della fiducia reciproca tra Stati membri e del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie sui quali si basa il regolamento n. 2201/2003 (v., in tal senso, sentenze del 23 dicembre 2009, Detiček, C‑403/09 PPU, EU:C:2009:810, punto 45, nonché del 15 luglio 2010, Purrucker, C‑256/09, EU:C:2010:437, punti 70 e 71).
58      In terzo e ultimo luogo, la necessità che il trasferimento corrisponda all’interesse superiore del minore implica che il giudice competente si accerti, alla luce delle circostanze concrete del caso, che il trasferimento da esso previsto in favore di un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro non rischi di ripercuotersi negativamente sulla situazione del minore interessato.
59      A tal fine, il giudice competente deve valutare l’eventuale incidenza negativa che un simile trasferimento potrebbe avere sui rapporti affettivi, familiari e sociali del minore interessato dal caso o sulla situazione materiale di quest’ultimo.
60      In tale contesto, il giudice competente può altresì decidere, sulla base dell’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003, di chiedere il trasferimento non già dell’intero caso ma soltanto di una parte specifica del medesimo, qualora ciò sia giustificato dalle circostanze che lo caratterizzano. Una simile facoltà può, in particolare, essere contemplata ove il legame di vicinanza con un altro Stato membro non riguardi direttamente il minore in quanto tale, bensì uno dei titolari della responsabilità genitoriale, per il motivo enunciato all’articolo 15, paragrafo 3, lettera d), del regolamento n. 2201/2003.
61      Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, occorre risolvere la terza, la quarta e la sesta questione dichiarando che l’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 deve essere interpretato nel senso che:
–        per poter stabilire che un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore ha un legame particolare è più adatta, il giudice competente di uno Stato membro deve accertarsi che il trasferimento del caso a detta autorità giurisdizionale sia idoneo ad apportare un valore aggiunto reale e concreto al trattamento dello stesso, in particolare tenendo conto delle norme di procedura applicabili in detto altro Stato membro;
–        per poter stabilire che un siffatto trasferimento corrisponde all’interesse superiore del minore, il giudice competente di uno Stato membro deve in particolare accertarsi che tale trasferimento non rischi di ripercuotersi negativamente sulla situazione del minore.
 Sulla seconda e sulla quinta questione
62      Con la seconda e la quinta questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza se l’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 debba essere interpretato nel senso che il giudice competente di uno Stato membro deve tenere conto, in sede di attuazione di tale disposizione in un determinato caso in materia di responsabilità genitoriale, dell’incidenza di un possibile trasferimento di tale caso a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro sul diritto di libera circolazione delle persone interessate o del motivo per il quale la madre del minore interessato si sia avvalsa di questo diritto, prima che detto giudice fosse adito.
63      A tal riguardo, si deve ricordare che, come osservato al punto 42 della presente sentenza, la prescrizione prevista all’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 è ispirata, analogamente alle altre regole di competenza previste da tale regolamento in materia di responsabilità genitoriale, all’interesse superiore del minore, e che la questione relativa a se, in un caso determinato, il trasferimento del caso corrisponda a detto interesse superiore implica in particolare, come osservato al punto 58 della presente sentenza, la verifica che un tale trasferimento non rischi di ripercuotersi negativamente sulla situazione del minore interessato.
64      Ne deriva che il rischio di ripercussioni negative di un possibile trasferimento del caso sul diritto di libera circolazione del minore interessato fa parte degli elementi che devono essere presi in considerazione in sede di attuazione dell’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003.
65      Per contro, le considerazioni relative ad altre persone interessate dal caso non sono destinate, in via di principio, a essere prese in considerazione, salvo che siano anch’esse rilevanti al fine di valutare il suddetto rischio per il minore.
66      Di conseguenza, l’eventuale incidenza di un siffatto trasferimento sul diritto alla libera circolazione delle altre persone interessate, ivi inclusa la madre del minore di cui trattasi, non può essere presa in considerazione dal giudice competente, salvo che sia tale da ripercuotersi in modo negativo sulla situazione di tale minore. Lo stesso vale per il motivo per il quale la madre del minore si è avvalsa del suo diritto di libera circolazione prima che fosse adito il giudice competente.
67      Alla seconda e alla quinta questione occorre pertanto rispondere che l’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 deve essere interpretato nel senso che il giudice competente di uno Stato membro non deve tenere conto, in sede di attuazione di tale disposizione in un determinato caso in materia di responsabilità genitoriale, né dell’incidenza di un possibile trasferimento di detto caso a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro sul diritto di libera circolazione delle persone interessate diverse dal minore interessato, né del motivo per il quale la madre di tale minore si è avvalsa di tale diritto, prima che detto giudice fosse adito, salvo che considerazioni di questo tipo siano tali da ripercuotersi in modo negativo sulla situazione di tale minore.
 Sulle spese
68      Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara:
1)      L’articolo 15 del regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000, deve essere interpretato nel senso che si applica in presenza di un ricorso in materia di tutela dei minori presentato sulla base del diritto pubblico dalla competente autorità di uno Stato membro e avente ad oggetto l’adozione di misure relative alla responsabilità genitoriale, come quello di cui al procedimento principale, qualora la dichiarazione di competenza di un organo giurisdizionale di un altro Stato membro necessiti, a valle, dell’avvio, da parte di un’autorità di tale altro Stato membro, ai sensi del suo diritto interno e alla luce di circostanze di fatto eventualmente diverse, di un procedimento distinto da quello avviato nel primo Stato membro.
2)      L’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 deve essere interpretato nel senso che:
–        per poter stabilire che un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore ha un legame particolare è più adatta, il giudice competente di uno Stato membro deve accertarsi che il trasferimento del caso a detta autorità giurisdizionale sia idoneo ad apportare un valore aggiunto reale e concreto al trattamento dello stesso, in particolare tenendo conto delle norme di procedura applicabili in detto altro Stato membro;
–        per poter stabilire che un siffatto trasferimento corrisponde all’interesse superiore del minore, il giudice competente di uno Stato membro deve in particolare accertarsi che tale trasferimento non rischi di ripercuotersi negativamente sulla situazione del minore.
3)      L’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 deve essere interpretato nel senso che il giudice competente di uno Stato membro non deve tenere conto, in sede di attuazione di tale disposizione in un determinato caso in materia di responsabilità genitoriale, né dell’incidenza di un possibile trasferimento di detto caso a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro sul diritto di libera circolazione delle persone interessate diverse dal minore interessato, né del motivo per il quale la madre di tale minore si è avvalsa di tale diritto, prima che detto giudice fosse adito, salvo che considerazioni di questo tipo siano tali da ripercuotersi in modo negativo sulla situazione di tale minore.
Firme
Dal sito http://curia.europa.eu





PANOZZO, Legge 94/2009 - Prime osservazioni alle modifiche al TU immigrazione: il reato di ingresso e soggiorno irregolare in Italia, (25 luglio 2009), in www.cittadinistranieri.it



Elezioni regionali – Diritto di elettorato attivo – Azione di accertamento - giurisdizione ordinaria.


Cass., Sez. Un.,  20 ottobre 2016, n. 21262

            Spetta alla giurisdizione ordinaria la cognizione di una domanda, promossa prima e al di fuori dell’avvio del procedimento elettorale, di accertamento del diritto di elettorato attivo, asseritamene leso dalle previsioni di una legge regionale disciplinante le modalità di attribuzione dei seggi nel consiglio regionale, in quanto il giudice ordinario è il giudice naturale dei diritti fondamentali e, tra questi, dei diritti politici (1).

(1) Con la sentenza in epigrafe le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, chiamate a pronunciarsi in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, hanno confermato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui spetta al giudice ordinario la cognizione delle azioni aventi ad oggetto il diritto fondamentale di elettorato attivo.
Nel caso di specie, si trattava di un’azione, proposta da alcuni cittadini dinanzi al Tribunale ordinario di Perugia, per l’accertamento del diritto "di esercitare il proprio diritto di voto libero, eguale, personale e diretto, così come attribuito e garantito nel suo esercizio dalla Costituzione italiana e dalle vigenti norme di diritto internazionale convenzionale", in relazione al quale gli attori chiedevano di sollevare la questione di costituzionalità della legge della Regione Umbria 23 febbraio 2015, n, 4, in materia di elezione dei Consiglio regionale e del Presidente della Giunta regionale.
Essi assumevano, infatti, che la citata legge regionale attribuirebbe un premio di maggioranza eccedente, istituirebbe un anomalo premio di minoranza, assegnerebbe i seggi in base ai voti del candidato e non della lista e ripartirebbe il premio secondo criteri non conformi ai parametri evocati.
Le Sezioni unite hanno quindi ritenuto che la cognizione di detta controversia, promossa prima ed al di fuori dell'avvio del procedimento elettorale per il rinnovo degli organi elettivi della Regione, spettasse alla giurisdizione del giudice ordinario, perché il petitum sostanziale della domanda investiva la tutela del diritto fondamentale di elettorato attivo ed il giudice ordinario è il giudice naturale dei diritti fondamentali e, tra questi, dei diritti politici.
Questi i passaggi fondamentali della decisione:
a)      la controversia non ricade nell'ambito della giurisdizione amministrativa sul contenzioso elettorale, di cui agli artt. 126, 129 e 130 c.p.a., poiché la giurisdizione che tali disposizioni assegnano al giudice amministrativo ha ad oggetto le sole «operazioni elettorali», ossia la regolarità delle forme procedimentali di svolgimento delle elezioni (che comprendono tutti gli atti del complesso procedimento elettorale, dall'emanazione dei comizi elettorali sino alla proclamazione degli eletti), rispetto alle quali i singoli vantano situazioni soggettive che hanno consistenza di interesse legittimo, non di diritto soggettivo;
b)      né può ritenersi che la giurisdizione del giudice amministrativo in materia elettorale di cui agli artt. 126, 129 e 130 c.p.a. rientri tra i casi di giurisdizione esclusiva, atteso che essa non è ricompresa nell’elenco (tassativo) di cui all’art. 133 c.p.a. e che una attribuzione al giudice amministrativo, in quest'ambito, della giurisdizione su diritti, e diritti fondamentali, proprio in quanto derogatoria del criterio di riparto costituzionalmente delineato dall'art. 103, primo comma, Cost., avrebbe richiesto una legge specifica,  da emanarsi peraltro nel rispetto  dei principi e dei limiti fissati dalla sentenza costituzionale n. 204 del 2004;
c)      l'appartenenza della presente controversia alla cognizione del giudice amministrativo, infine, non può neppure ricavarsi in via interpretativa dalla sentenza della Corte costituzionale n. 110 del 2015 (in Foro it. 2015, parte I, col. 2618 con nota di richiami e in Giur. cost. 2015, 3, 876 con nota di Sorrentino.), con la quale la questione incidentale di costituzionalità relativa alla previsione di una soglia di sbarramento per l’elezione dei rappresentanti al Parlamento europeo è stata dichiarata inammissibile, in quanto - in quel caso - la pronuncia di inammissibilità è stata motivata in relazione alla carenza del requisito della pregiudizialità costituzionale, essendosi in  presenza di una domanda di accertamento astratta, incardinata al di fuori di una determinata vicenda elettorale, e non è invece stata posta in dubbio la giurisdizione del giudice remittente (Tribunale ordinario) e dunque la sua legittimazione a proporre la questione di costituzionalità;
d)     pertanto, deve ritenersi attribuita all'autorità giudiziaria ordinaria la cognizione delle controversie nelle quali si fanno valere posizioni di diritto soggettivo, quali quelle che si riconnettono al diritto di elettorato attivo o che concernono ineleggibilità, decadenze e incompatibilità;
e)      la circostanza che potrebbe – in ipotesi - non esservi spazio, per un'azione di accertamento mero del contenuto del diritto di voto, per mancanza di interesse ad agire, non è questione che rileva ai fini della individuazione del giudice munito di potestas iudicandi, ma attiene, semmai, al diverso ambito ammissibilità della causa così come proposta,  che spetta al giudice adito valutare.
Per completezza si segnala:
1) Per quanto attiene al riparto di giurisdizione tra autorità giudiziaria ordinaria e giudici amministrativi nell’ambito del contenzioso elettorale (in relazione alla disciplina di cui al previgente art. 6 della legge n. 1034 del 1971),  l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 24 novembre 2005, n. 10, in Foro it. 2006, III, 255, con nota di richiami, la quale ha affermato che sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo ogniqualvolta si ricorra per l’annullamento di determinazioni amministrative attinenti alle operazioni elettorali, ferma la spettanza al giudice ordinario delle "controversie concernenti l’ineleggibilità, le decadenze e le incompatibilità, ossia le questioni che vertono su diritti soggettivi perfetti".
2) Si veda inoltre  Cass., s.u., ord., 4 maggio 2004, n. 8469, Foro it., Rep. 2004, voce Elezioni, n. 111,  in termini, nella quale la corte ha ulteriormente rilevato che la giurisdizione del giudice ordinario non trova limitazioni o deroghe per il caso in cui la questione di eleggibilità venga introdotta mediante impugnazione del provvedimento del consiglio sulla convalida degli eletti, o di impugnazione dell’atto di proclamazione, o di impugnazione del provvedimento di decadenza, perché anche in tali ipotesi la decisione verte non sull’annullamento dell’atto amministrativo, bensì sul diritto soggettivo perfetto inerente all’elettorato attivo o passivo (cfr. Cass., s.u., ord., 29 luglio 2003, n. 11646, id., Rep. 2003, voce cit., n. 95; 12 marzo 2003, n. 3601, ibid., n. 94. nonché Cass., s.u., 1 luglio 1992, n. 8084 – citata dalla sentenza in commento - secondo la quale la competenza dei tribunali amministrativi regionali a «decidere sui ricorsi concernenti controversie in materie di operazioni per le elezioni dei consigli comunali, provinciali e regionali» si caratterizza per la pertinenza delle operazioni "a situazioni giuridiche soggettive che hanno la consistenza del mero interesse legittimo", e si è conseguentemente escluso che alla giurisdizione amministrativa in tali controversie potesse "riconoscersi carattere esclusivo", costituendo essa, piuttosto, "una applicazione dei criteri generali di riparto della giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo").
3) La Corte cost., nella sentenza n. 259 del 2009 (in Foro it. 2009, parte I, col. 3271, con nota di richiami), citata dalla sentenza in commento, resa a proposito di una questione circa la giurisdizione in materia di diritto di elettorato passivo e in particolare di candidature per l’elezione alla Camera dei deputati, ha anch’essa affermato  che la giurisdizione del giudice amministrativo in materia di contenzioso elettorale non potesse essere qualificata come giurisdizione esclusiva, occorrendo a tal fine una specifica legge.
4) In termini non dissimili, sempre in relazione al diritto di elettorato passivo e dunque alla diversa questione della spettanza alla giurisdizione ordinaria dell’azione volta alla impugnazione del decreto prefettizio che, a norma dell’art. 11 D.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235, dispone la sospensione della carica elettiva (nella specie di sindaco) a seguito della condanna penale dell’eletto, le Sezioni Unite si sono di recente espresse, affermando che spetta al giudice ordinario la  tutela del diritto soggettivo di elettorato passivo, che non si esaurisce con la partecipazione all’elezione, ma si estende allo svolgimento della funzione elettiva  (cfr. Cass. civ., ord., sez. un., 28 maggio 2015, n. 11131, in Foro it., 2016, I, 413).
5) In tema di contenzioso elettorale in generale, si rinvia per gli approfondimenti ivi contenuti alle  news dell’US del 12 maggio 2016 e del 23 agosto 2016, concernenti rispettivamente le ordinanze di rimessione del Tar Milano n. 841 del 28 aprile 2016 circa la mancata estensione del rito processuale elettorale alle elezioni per la costituzione del Consiglio metropolitano e del Cons. St.  23 agosto 2016, n. 3673, concernente la legge elettorale per le elezioni europee e i dubbi di costituzionalità sulla soglia di sbarramento del 4%.


Dal sito
https://www.giustizia-amministrativa.it/cdsintra/cdsintra/Notiziasingola/index.html?p=NSIGA_4160170

Il testo integrale dell’ordinanza si può leggere nel sito  http://www.italgiure.giustizia.it/sncass/

sabato 29 ottobre 2016





Cause ostative al riconoscimento della sentenza straniera di divorzio – Art. 64 lett. e) della l. 218/1995 – Sentenza di separazione personale e sentenza di divorzio

Cass. 27 ottobre 2016, n. 21741


Tra statuizione sulla separazione personale dei coniugi e sentenza di divorzio sussistono differenze in ordine alla causa petendi, al petitum e agli effetti (delle due pronunce)


OMISSIS

Oggetto di essa (…censura … ndA) è l’applicabilità nella specie della causa ostativa al riconoscimento della sentenza di divorzio emessa a C. prevista dall’art. 64 lettera e) della 1. n.  218 del 1995. La disposizione prevede che la pronuncia straniera non deve essere contraria ad altra sentenza pronunciata da un giudice italiano e passata in giudicato.  La ratio consiste nell’evitare anche con riferimento alle sentenze straniere il contrasto tra giudicati ed il bis in idem. La verifica deve essere svolta in ordine alle parti, al rapporto dedotto in giudizio, al contenuto della decisione ed ai suoi effetti.
L’identità delle parti è fuori discussione. Il rapporto dedotto in entrambi i giudizi è il vincolo matrimoniale.  La situazione giuridica dedotta nei due giudizi non è tuttavia sovrapponibile. Nella separazione personale la parte ricorrente (o le parti) azionano il diritto a vedere accertata l’irreversibilità della loro crisi coniugale, una verifica che costituisce condizione necessaria ai fini dell’esercizio del diritto allo scioglimento definitivo del vincolo, ottenibile mediante il giudizio di divorzio. Tale ulteriore passaggio non è, tuttavia, obbligato ben potendo le parti scegliere di mantenere in essere il vincolo, nonostante l’accertamento giudiziale della sussistenza dei requisiti di legge per la separazione personale. Ciò costituisce un ulteriore indicatore della diversità della causa petendi ed introduce alle più rilevanti diversità riscontrabili in ordine al petitum ed agli effetti del giudicato separativo e divorzile. Il provvedimento sul vincolo proprio del giudizio di separazione personale incide sui diritti e doveri conseguenti al matrimonio, come rilevabile dal disposto dell’art. 146 secondo comma, modificando il titolo ed il contenuto dei doveri di assistenza propri della solidarietà coniugale. Gli effetti della statuizione separativa non determinano però lo scioglimento del vincolo, per il quale è necessaria la successiva pronuncia di divorzio. Quest’ultima travolge il giudicato formatosi sul vincolo con la pronuncia di separazione e, se esteso anche ai provvedimenti consequenziali, sostituisce definitivamente i propri a quelli in precedenza assunti in sede di separazione personale. Ne consegue la non assimilabilità della causa petendi, del petitum e degli effetti delle due pronunce sia se limitate al vincolo sia se riguardanti anche i provvedimenti economici. Pertanto non può effettuarsi alcuna comparazione tra le sentenze, quella emessa in Italia e quella C.na, al fine di valutare la sussistenza di un contrasto tra giudicati.  Né, con riferimento al parametro di cui all’art. 64 lettera e) della 1. n. 218 del 1995 riveste alcuna incidenza la previsione contenuta nell’accordo separativo omologato e riportata nel dispositivo della sentenza passata in giudicato, con la quale si dà atto della rinuncia alla prosecuzione del giudizio di divorzio instaurato a C.. Tale presa d’atto non costituisce l’oggetto di un accertamento giudiziale ma la mera riproduzione di una intervenuta manifestazione di volontà non idonea al giudicato e non comparabile ex art. 64 lettera e) 1. n. 218 del 1995. La non vincolatività della rinuncia non deriva come erroneamente ritenuto in ricorso (ed anche nella sentenza impugnata) dalla natura di provvedimento di volontaria giurisdizione dell’atto nel quale è contenuta, risultando invece l’intero accordo separativo trasfuso nel dispositivo della sentenza di separazione giudiziale,  ma dalla sua peculiare natura giuridica di atto volontario abdicativo (peraltro secondo la cronologia dei giudizi emergente ex actis da riferirsi ad un giudizio proposto nel 2011 presumibilmente riassunto o reintrodotto successivamente), come tale non assimilabile ad una statuizione giudiziale.
La decisione impugnata non ha fatto buon governo dei principi sopra esposti avendo limitato il proprio sindacato sul riconoscimento della sentenza c. al parametro della contraddittorietà tra la dichiarazione di rinuncia e il giudicato separativo, senza considerare la diversità degli effetti dei due giudizi e la non idoneità della parte di dispositivo relativa alla rinuncia a passare in giudicato.
L’accoglimento del primo motivo determina l’assorbimento del secondo motivo del ricorso principale e dell’unico motivo del ricorso incidentale, rimanendo al giudice di merito, escluso il contrasto tra giudicati, da esaminare, anche officiosamente, gli altri parametri di riconoscimento della sentenza di divorzio c.  previsti dall’art. 64 sopra citato.
La sentenza impugnata, in conclusione, deve essere cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Perugia in diversa composizione perché provveda anche sulle spese processuali del presente giudizio..


OMISSIS





PANOZZO, Legge 94/2009 - Prime osservazioni alle modifiche al TU immigrazione: l’ ingresso ed il soggiorno (artt. 4, 4 bis, 5 e 6), il permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo (art. 9), il ricongiungimento familiare (art. 29), (25 luglio 2009), in www.cittadinistranieri.it



Circolare Ministero dell’Interno – Dip. Pubblica Sicurezza 26 ottobre 2016, n. 43699, Sentenza del Consiglio di Stato, Sezione Terza, N. 4487/2015 REG.PROV. COLL. E N. 7047/2016 REG. RIC. del 26 ottobre 2016, di conferma della sentenza n. 060095 del 24 maggio scorso del Tar del Lazio, di annullamento del DM 6.10.2011





http://www.stranieriinitalia.it/images/circointerno27ottobre2016.pdf

venerdì 28 ottobre 2016

giovedì 27 ottobre 2016



La sentenza del Consiglio di Stato sul contributo per il rilascio/rinnovo del permesso di soggiorno



Cons. di Stato, III, 26 ottobre 2016, n. 4487

La stretta interrelazione tra le competenze legislative degli Stati membri e quelli dell’Unione, nel diritto dell’immigrazione, rende indispensabile e sempre più frequente una compenetrazione tra l’ordinamento eurounitario e quello nazionale, in un processo osmotico, che induca il primo, da un lato, a recepire progressivamente i valori di civiltà giuridica e di solidarietà sociale più elevati comuni alla maggior parte, se non a tutti, gli Stati membri, così innalzando il livello minimo di tutela dei diritti fondamentali dei richiedenti soggiorno (o asilo) nell’ambito del territorio dell’Unione, e dall’altro il secondo a farsi plasmare e conformare dai principî del diritto dell’Unione, quali enucleati dall’attività interpretativa della Corte. [In tale ottica, aggiunge il Collegio, “sempre più spesso la Corte di Giustizia incide, proprio per questa stretta e indissolubile interrelazione, anche sulla normativa dei singoli Stati che disciplina i permessi di breve durata, come per esempio e da ultimo sulla legislazione spagnola relativa ai permessi di breve soggiorno richiesti dai cittadini di Stati terzi per eccezionali ragioni, laddove la Corte ha chiarito che l’art. 20 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso osta alla normativa nazionale in forza della quale la concessione di un permesso di soggiorno viene automaticamente negata, per il solo motivo che egli ha precedenti penali, al cittadino di uno Stato terzo, genitore di minori cittadini dell’Unione, dei quali ha l’affidamento esclusivo, qualora tale diniego produca la conseguenza di costringere detti minori a lasciare il territorio dell’Unione europea (sentenza della Corte di Giustizia del 13 settembre 2016, in C-165/14)”; e “questo Consiglio non può che prendere atto dell’opera interpretativa della giurisprudenza della Corte di Giustizia, tesa ad affermare la primazia del diritto euroeunitario e a preservarne l’effetto utile dal non adeguato o non proporzionato esercizio del potere legislativo dei singoli Stati anche nelle (e, non di rado, per il tramite delle) materie attribuite alla loro competenza]

Qualora la Corte di Giustizia dell’Unione europea dichiari l’incompatibilità del diritto nazionale con i Trattati e la ‘legislazione eurounitaria’, il giudice interno – e, in particolar modo, il Consiglio di Stato quale giudice di ultima istanza ai sensi dell’art. 267, par. 3, TFUE – è tenuto a disapplicare o, meglio, a non applicare il diritto dello Stato giudicato dalla Corte contrastante con i Trattati e detta ‘legislazione’

Deve essere disapplicata, per effetto della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 2 settembre 2015, in C-309/14, la disposizione dell’art. 5, comma 2-ter,  del d. lgs. 286/1998, nella misura in cui fissa gli importi dei contributi richiesti per tutti i permessi di soggiorno da un minimo di € 80,00 ad un massimo di € 200,00, in quanto costituenti nel loro complesso un ostacolo, per il loro importo eccessivamente elevato, ai diritti conferiti ai cittadini stranieri richiedenti i permessi UE di lungo soggiorno. E’, conseguentemente,  illegittimo  il Decreto Ministeriale (Ministero dell’Economia e delle Finanze) 6 ottobre 2011 (G.U. 31 dicembre 2011, n. 304) Contributo per il rilascio ed il rinnovo del permesso di soggiorno, limitatamente agli articoli 1, comma 1, 2, commi 1 e 2 (nella sola parte in cui si riferiscono al contributo di cui al precedente art.1), e 3.

Le Amministrazioni competenti devono rideterminare l’importo dei contributi, nell’esercizio della loro discrezionalità, in modo tale che la loro equilibrata e proporzionale riparametrazione non costituisca un ostacolo all’esercizio dei diritti riconosciuti dalla direttiva n. 2003/109/CE [precisa il Collegio che: a) secondo l’effetto conformativo proprio del presente giudicato, esse ridetermineranno con apposito decreto i contributi ora per allora; b) compete “alle predette Amministrazioni, nel rinnovato esercizio della loro discrezionalità, stabilire, secondo i principî dettati dal diritto nazionale ed eurounitario e in sintonia con le competenti istituzioni europee (anche al fine di scongiurare ulteriori procedure di infrazione da parte della Commissione), an, quando e quomodo degli eventuali rimborsi agli interessati per le somme versate in eccedenza rispetto al dovuto”]

1. Le odierne appellate, CGIL - Confederazione Generale Italiana del Lavoro (di qui in avanti, per brevità, CGIL) ed INCA – Istituto Nazionale Confederale di Assistenza – CGIL (di qui in avanti, per brevità, INCA), hanno impugnato avanti al T.A.R. per il Lazio, sede di Roma, il decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 6 ottobre 2011, adottato di concerto con il Ministero dell’Interno e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 304 del 31 dicembre 2011, concernente il «Contributo per il rilascio ed il rinnovo del permesso di soggiorno».
1.1. Tale decreto è stato adottato dalle Amministrazioni, come meglio si dirà, in attuazione degli artt. 5, comma 2-ter, e 14-bis del d. lgs. n. 286 del 1998.
1.2. Il decreto oggetto di impugnativa ha fissato gli oneri contributivi per il rilascio e per il rinnovo dei permessi di soggiorno nel seguente modo:
- € 80,00 per i permessi di soggiorno di durata superiore a tre mesi ed inferiore o pari ad un anno;
- € 100,00 per i permessi di soggiorno di durata superiore ad un anno e inferiore o pari a due anni;
- € 200,00 per il rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo e per i richiedenti il permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 27, comma 1, lett. a), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 e successive modifiche e integrazioni.
1.3. Le odierne appellate hanno dedotto in primo grado tre distinte censure:
a) l’illegittimità costituzionale degli artt. 5, comma 2-ter, e 14-bis del d. lgs. n. 286 del 1998, come introdotti dall’art. 1, comma 22, lett. b) e n), della l. n. 94 del 2009, per violazione dei principî di eguaglianza e di ragionevolezza, di capacità contributiva, di imparzialità (artt. 3, 53 e 97 Cost.) nonché per violazione dell’art. 9 della convenzione O.I.L. n. 143 del 1975 (artt. 10, comma 2, e 117, comma 1, Cost.);
b) la violazione dei principi di ragionevolezza, efficienza, economicità, imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.; art. 1 della l. n. 241 del 1990), nonché l’eccesso di potere per l’illogicità manifesta e per sviamento;
c) la violazione e la falsa applicazione dell’art. 14-bis, comma 2, del d. lgs. n. 286 del 1998 in ordine alla destinazione della c.d. “quota residua” del gettito derivante dal contributo, la violazione dell’art. 97 Cost. in relazione al principio di buon andamento dell’azione amministrativa, l’irragionevolezza e l’illogicità manifesta e l’eccesso di potere.
1.4. Si sono costituiti nel primo grado del giudizio il Ministero dell’Economia e delle Finanze e il Ministero dell’Interno, i quali hanno eccepito, preliminarmente, l’inammissibilità del ricorso per il difetto di legittimazione attiva in capo alle ricorrenti e, nel merito, l’infondatezza delle censure proposte nel ricorso.
1.5. Con l’ordinanza n. 5290 del 20 maggio 2014 il T.A.R. per il Lazio, sede di Roma, ritenuta preliminarmente la legittimazione attiva in capo alle associazioni sindacali, odierne appellate, ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione europea la questione incidentale di compatibilità con il diritto eurounitario della normativa italiana che disciplina la materia dei contributi previsti per il rinnovo o il rilascio dei permessi di soggiorno.
1.6. Il giudice nazionale ha in particolare investito la Corte di Giustizia, in via interpretativa, della questione se i principî stabiliti dalla direttiva del Consiglio n. 2003/109/CE e successive modifiche ed integrazioni, anche alla luce dell’orientamento interpretativo già manifestato dalla Corte su analoga questione nella sentenza del 26 aprile 2012 in C-508/10, ostino ad una normativa, come quella delineata in Italia dall’art. 5, comma 2-ter, del d. lgs. n. 286 del 1998, nella parte in cui dispone che la richiesta di rilascio e di rinnovo del permesso di soggiorno è sottoposta al versamento di un contributo, il cui importo è fissato in un minimo di € 80,00 e in un massimo di € 200,00 con decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, di concerto con il Ministero dell’Interno, e fissa un importo minimo del contributo pari ad otto volte circa il costo per il rilascio di una carta di identità nazionale.
1.7. Con la sentenza del 2 settembre 2015 in C-309/14, la Corte di Giustizia dell’Unione europea, pronunciandosi sulla questione pregiudiziale sollevata dal T.A.R. per il Lazio con la menzionata ordinanza n. 5290 del 20 maggio 2014, ha affermato che la direttiva n. 2003/109/CE del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, osta ad una normativa nazionale, come quella qui controversa, che impone ai cittadini di Paesi terzi - che chiedono il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno nello Stato membro considerato - di pagare un contributo di importo variabile tra € 80,00 ed € 200,00, in quanto tale contributo, nella misura prevista, è sproporzionato rispetto alla finalità perseguita dalla direttiva ed è idoneo a creare un ostacolo all’esercizio dei diritti conferiti da quest’ultima.
1.8. Dopo la pronuncia del giudice europeo, la causa è stata ritualmente riassunta dalle ricorrenti, ai sensi dell’art. 80 c.p.a., ed è stata chiamata per la definizione del merito avanti al T.A.R. per l’udienza pubblica del 1° marzo 2016, ove è stata discussa dai rispettivi difensori e trattenuta in decisione dal Collegio di prime cure.
1.9. Il T.A.R. per il Lazio, con la sentenza n. 6095 del 24 marzo 2016, ha preso atto della pronuncia della Corte di Giustizia e ha ritenuto la fondatezza del ricorso nella parte in cui ha dedotto la radicale illegittimità dell’imposizione del contributo de quo, che non troverebbe fondamento nella normativa eurounitaria nell’interpretazione datane dalla Corte di Giustizia.
1.10. Assorbiti pertanto tutti gli altri motivi di ricorso, aventi sostanzialmente un valore subordinato rispetto a quello accolto, il primo giudice ha annullato l’art. 1, comma 1, l’art. 2, commi 1 e 2, nella sola parte in cui si riferiscono al contributo di cui all’art. 1, e l’art. 3 del D.M. 6 ottobre 2011, perché aventi tutti quale presupposto la radicale illegittimità dell’istituzione del contributo.
2. Avverso tale sentenza e avverso la presupposta ordinanza collegiale n. 5290 del 20 maggio 2014 del T.A.R. per il Lazio (nella parte in cui è stata respinta l’eccezione, formulata dalle Amministrazioni resistenti in primo grado, di inammissibilità del ricorso introduttivo per difetto di legittimazione attiva in capo alle organizzazioni sindacali, odierne appellate), hanno proposto appello, previa sospensione anche inaudita altera parte, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Interno e il Ministero dell’Economia e delle Finanze, i quali hanno chiesto, previa sospensione, la riforma dei provvedimenti giurisdizionali qui impugnati, con conseguente reiezione del ricorso proposto in primo grado da CGIL ed INCA.
2.1. Le Amministrazioni appellate, in particolare, hanno dedotto due specifici motivi, che saranno di seguito singulatim esaminati, rispettivamente relativi:
a) al difetto di legittimazione attiva in capo alle associazioni sindacali, ricorrenti in primo grado;
b) all’erroneità dell’interpretazione che il primo giudice ha dato della sentenza della Corte di Giustizia, estendendone gli effetti anche alla previsione del contributo previsto per i contributi di breve durata e non, invece, ai soli permessi UE di lungo soggiorno, gli unici disciplinati dalla direttiva n. 2003/109/CE.
2.2. Con il decreto n. 3903 del 14 settembre 2016 il Presidente della III Sezione, accogliendo l’istanza cautelare proposta inaudita altera parte dalle Amministrazioni appellanti, ha sospeso l’esecutività della sentenza impugnata ed ha fissato, contestualmente, la camera di consiglio del 13 ottobre 2016 per la trattazione collegiale dell’istanza.
2.3. Si sono costituite le associazioni sindacali, odierne appellate, con memoria difensiva depositata il 15 settembre 2016, per resistere all’appello proposto dalle Amministrazioni e alla domanda incidentale da esse proposta.
2.4. È altresì intervenuta ad opponendum nel presente giudizio di appello, con atto ex art. 97 c.p.a. depositato il 10 ottobre 2016, l’ASGI – Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, quale associazione iscritta nel Registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività nel campo della lotta alle discriminazioni per razza e per origine etnica ai sensi dell’art. 5 del d. lgs. n. 215 del 2003.
2.5. Nella camera di consiglio del 13 ottobre 2016, fissata con il menzionato decreto presidenziale n. 3903 del 2016 per l’esame della domanda cautelare proposta dalle Amministrazioni appellanti, il Collegio, sentite le parti e ritenuto di poter decidere la controversia anche nel merito, ai sensi dell’art. 60 c.p.a., ha trattenuto la causa in decisione.
3. Ritiene la Sezione che l’appello delle Amministrazioni è infondato e deve essere respinto.
4. Preliminarmente deve essere dichiarato inammissibile l’intervento ad opponendum formulato dall’ASGI nel presente grado del giudizio.
4.1. L’Adunanza plenaria di questo Consiglio, nelle sentenze n. 1 e n. 9 del 2015, ha di recente ribadito che la valutazione della legittimazione dell’intervento nel giudizio di appello deve essere compiuta avendo riguardo alla posizione che avrebbe assunto la parte rispetto alla lite in primo grado.
4.2. Conseguentemente, rispetto all’appello proposto dall’Amministrazione, l’intervento in appello ha la stessa funzione e incontra gli stessi limiti dell’intervento ad adiuvandum, nel primo grado di giudizio, rispetto al ricorso proposto contro il provvedimento dell’Amministrazione.
4.3. È principio ormai consolidato nella giurisprudenza di questo Consiglio, e proprio riaffermato nelle due pronunce citate dell’Adunanza plenaria, che l’intervento ad adiuvandum in primo grado presuppone la titolarità di una posizione giuridica dipendente da quella dedotta dal ricorrente in giudizio, ad essa accessoria (Cons. St., Ad. plen., n. 1 del 2015), e non autonoma, poiché in questa seconda ipotesi l’interveniente ad adiuvandum, titolare di posizione autonoma, avrebbe dovuto impugnare il provvedimento ritenuto lesivo, non potendo eludere con l’intervento ad adiuvandum il termine decadenziale previsto dalla legge per contestare gli atti illegittimi (v., ex plurimis, Cons. St., sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 853).
4.4. Questo principio rileva anche per l’intervento ad opponendum nel secondo grado di giudizio rispetto all’appello dell’Amministrazione, corrispondente ad un non consentito intervento ad adiuvandum in primo grado per il soggetto titolare di posizione autonoma.
4.5. Ne segue che l’intervento ad opponendum dell’ASGI, quale titolare di un interesse, quantomeno morale, autonomo e non già dipendente rispetto a quello fatto valere in primo grado dalle ricorrenti CGIL ed INCA, deve essere dichiarato inammissibile.
5. Ciò premesso in via preliminare, quanto alla corretta instaurazione del contraddittorio nel presente grado di giudizio, occorre ora esaminare nel merito i due motivi proposti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dal Ministero dell’Interno.
6. Con il primo motivo (pp. 11-15 del ricorso) le Amministrazioni appellanti censurano l’ordinanza collegiale n. 5290 del 20 maggio 2014 del T.A.R. per il Lazio nella parte in cui è stata respinta l’eccezione, formulata dalle stesse in primo grado, di inammissibilità del ricorso introduttivo per il difetto di legittimazione attiva in capo alle organizzazioni sindacali, odierne appellate.
6.1. Nel costituirsi avanti al T.A.R. per il Lazio, le Amministrazioni resistenti avevano eccepito, in particolare, che la situazione soggettiva azionata dalle organizzazioni sindacali – e, cioè, il diritto/interesse a non soggiacere al pagamento di un contributo che si assume essere illegittimo e, comunque, “iniquo” e “sproporzionato” per il rilascio e/o il rinnovo del permesso di soggiorno – configurerebbe un diritto individuale appartenente non al sindacato CGIL e nemmeno al patronato INCA, ma ai singoli cittadini stranieri, dei quali tali organizzazioni non hanno la rappresentanza né legale né volontaria.
6.2. Il primo giudice, disattendendo l’eccezione nella citata ordinanza collegiale n. 5290 del 20 maggio 2014, ha invece attribuito decisiva rilevanza alle finalità statutarie perseguite da tali organizzazioni e, cioè, a quelle inerenti alla tutela degli interessi collettivi della categoria degli stranieri extracomunitari.
6.3. Questa conclusione è tuttavia contestata dalle odierne appellanti che, nel richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il sindacato non può agire in giudizio per far valere interessi propri degli associati, rilevano in senso contrario che la situazione giuridica soggettiva azionata in primo grado configurerebbe, con ogni evidenza, un diritto individuale che non appartiene alle organizzazioni sindacali, ma ai singoli cittadini stranieri, dei quali le medesime organizzazioni sindacali non hanno la rappresentanza né legale né volontaria.
6.4. Nel caso di specie, quindi, le organizzazioni sindacali, odierne appellate, avrebbero sostanzialmente agito quali “sostituti processuali” dei singoli cittadini extracomunitari, al di fuori dei casi previsti dalla legge (art. 81 c.p.c.), per tutelare situazioni soggettive di cui questi sono titolari propri ed esclusivi e, in particolare, il diritto di non soggiacere a contributi “iniqui” o “sproporzionati”.
6.5. Contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, infatti, gli obiettivi che si prefigge la CGIL, a norma dell’art. 2 del suo Statuto, sarebbero di per sé inidonei a fondarne la legittimazione ad agire nel presente giudizio, poiché la stessa legittimazione ad agire non può essere rimessa ad una mera autoqualificazione formale statutaria, ma deve essere stabilita esclusivamente in base all’effettiva natura della situazione soggettiva di cui si lamenta la lesione che, nella specie, avrebbe indubbia portata individuale.
6.6. Al più, deducono le odierne appellanti, le organizzazioni sindacali sarebbero portatrici di un interesse, morale o di mero fatto, che ne avrebbe legittimato l’intervento volontario ad adiuvandum nell’ambito del giudizio promosso dallo straniero cittadino di Paesi terzi, ma non sarebbero legittimate ad agire autonomamente in giudizio a tutela di diritti o degli interessi di cui sono titolari esclusivi i singoli cittadini di Paesi terzi, tenuti al versamento del contributo contestato.
6.7. Le suesposte considerazioni varrebbero, a fortiori, per il patronato INCA che, a norma di legge (art. 8, comma 3, della l. n. 152 del 2001), in tanto può agire in nome e per conto dei propri assistiti in quanto abbia ricevuto da costoro una specifica procura sostanziale ad negotia, nel caso di specie mancante.
6.8. Pertanto, secondo le Amministrazioni, si dovrebbe dichiarare l’inammissibilità del ricorso proposto in prime cure dalle associazioni sindacali, odierne appellate, per difetto di legittimazione attiva in capo a queste.
7. Il motivo è infondato e deve essere respinto.
7.1. Il primo giudice, nell’ordinanza n. 5290 del 20 maggio 2014, anzitutto ha correttamente rilevato che un’organizzazione sindacale, quale è la CGIL, non può agire per la difesa di singole posizioni o di interessi di una sola parte degli iscritti, ma è ben legittimata ad agire in giudizio a tutela delle prerogative della stessa organizzazione sindacale, quale istituzione esponenziale di una categoria di lavoratori e degli stessi interessi collettivi della stessa categoria, unitariamente considerata.
7.2. Tale orientamento è conforme alla consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, la quale afferma che le associazioni sindacali sono legittimate a difendere in sede giurisdizionale gli interessi di categoria dei soggetti, di cui hanno la rappresentanza istituzionale o di fatto, solo quando venga invocata la violazione di disposizioni poste a tutela della intera categoria, non anche quando si verta su questioni concernenti singoli iscritti ovvero su questioni capaci di dividere la categoria in posizioni contrastanti (Cons. Stato, sez. IV, 27 aprile 2005, n. 1240).
7.3. L’interesse collettivo della associazione sindacale deve identificarsi con l’interesse di tutti gli appartenenti alla categoria unitariamente considerata e non con gli interessi dei singoli associati o di gruppi di associati (v., ex plurimis, Cons. St., sez. VI, 12 dicembre 2006, n. 7346; Cons. St., sez. V, 9 luglio 2007, n. 4692).
7.4. Se si riconoscesse all’associazione di categoria la legittimazione ad agire anche in questi ultimi casi, infatti, si avrebbe una vera e propria sostituzione processuale in violazione dell’art. 81 c.p.c., secondo cui nessuno può fare valere in giudizio in nome proprio un diritto altrui se non nei casi espressamente previsti dalla legge (Cons. St., sez. IV, 2 aprile 2004, n. 1826; Cons. St., sez. V, 29 dicembre 2009, n. 8918; Cons. St., sez. III, 7 marzo 2012, n. 1301; Cons. St., sez. V, 3 luglio 2013, n. 3033).
7.5. Si è anche precisato, da diversa angolatura ma, sostanzialmente, secondo la stessa prospettiva, che il sindacato è legittimato ad impugnare atti concernenti singoli iscritti solo se ed in quanto i provvedimenti concretino anche una lesione dell’interesse collettivo statutariamente tutelato, risolvendosi altrimenti l’azione in una non consentita sostituzione processuale (v., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 26 maggio 2014, n. 2682).
7.6. Ora nel caso di specie la CGIL ha impugnato il D.M. 6 ottobre 2011, che ha determinato, in via generale, gli importi dei contributi previsti dal Ministero dell’Economia e delle Finanze per il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno richiesto dai cittadini stranieri, facendo valere un interesse collettivo dell’intera categoria di tali lavoratori e non già il singolo interesse di ciascuno di essi.
7.7. L’utilità che l’organizzazione sindacale si ripromette di conseguire, mediante l’annullamento del D.M., è in favore dell’intera categoria di tali lavoratori, indipendentemente dal beneficio che, in diversa misura, ne possano conseguire i singoli cittadini richiedenti, dovendo qui rammentarsi l’antico insegnamento secondo il quale l’interesse collettivo, di cui l’organizzazione sindacale si fa portatrice, è la sintesi e non la somma dei singoli interessi facenti capo agli iscritti.
7.8. Bene ha rilevato il primo giudice, in questo senso, che l’associazione sindacale risulta senz’altro titolare di una posizione soggettiva che la legittima ad agire per tutelare l’interesse dei cittadini stranieri che hanno trovato una più o meno stabile occupazione in Italia, costituendo tale occupazione uno dei presupposti principali per il rilascio dei titoli di soggiorno, e che intendono quali lavoratori stranieri concretizzare la loro aspettativa restando sul territorio dello Stato al fine di poter proseguire nello svolgimento della loro attività di lavoro.
7.9. Questo interesse rientra pacificamente, come ha pure rilevato il primo giudice nell’ordinanza n. 5290 del 20 maggio 2014 (pp. 8-9), tra le ampie finalità statutarie della CGIL, atteso che l’art. 2 dello Statuto della CGIL prevede che essa consideri «la solidarietà attiva tra i lavoratori di tutti i Paesi, e le loro organizzazioni sindacali rappresentative, un fattore decisivo per la pace, per l’affermazione dei diritti umani, civili e sindacali e della democrazia politica, economica e sociale, per l’indipendenza nazionale e la piena tutela dell’identità culturale ed etnica di ogni popolo» e che essa affermi «il valore della solidarietà in una società senza privilegi e discriminazioni, in cui sia riconosciuto il diritto al lavoro, alla salute, alla tutela sociale, il benessere sia equamente distribuito, la cultura arricchisca la vita di tutte le persone, rimuovendo gli ostacoli politici, sociali ed economici che impediscono alle donne e agli uomini native/i e immigrate/i di decidere – su basi di pari diritti ed opportunità, riconoscendo le differenze – della propria vita e del proprio lavoro».
7.10. L’interesse collettivo di cui la CGIL è portatrice consiste anche nella rimozione di quegli ostacoli sociali ed economici che impediscono ai lavoratori stranieri – sulla base di pari diritti ed opportunità con i lavoratori “nativi” – di potere orientare le proprie scelte di vita e di lavoro senza subire sperequazioni e discriminazioni, eventualmente derivanti anche dall’imposizione, da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze, di un contributo eccessivamente oneroso e sproporzionato per ottenere o rinnovare il permesso di soggiorno.
7.11. Non vi è dubbio, come anche ha rilevato il T.A.R., che questo ampio interesse, ben lungi dal legittimarsi sulla base di una asserita “autoinvestitura” dell’organizzazione sindacale, possa porsi e legittimamente perseguire in via giudiziale l’obiettivo di proteggere lo straniero dinanzi all’esercizio di un potere amministrativo, seppure di tipo ampiamente – ma non illimitatamente, come si dirà – discrezionale come avviene per i permessi di soggiorno, con particolare riguardo al rispetto delle regole e degli oneri stabiliti da parte delle Amministrazioni competenti a carico degli stranieri richiedenti il permesso.
7.12. Ne discende che la statuizione del primo giudice, nel ritenere sussistente la legittimazione attiva in capo alla CGIL a contestare il decreto ministeriale che ha determinato i contributi richiesti ai lavoratori stranieri per il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno, è pienamente conforme al costante orientamento di questo Consiglio, cristallizzato nella regula iuris secondo cui le associazioni di categoria sono legittimate «a difendere in sede giurisdizionale gli interessi di categoria dei soggetti di cui hanno la rappresentanza istituzionale ogniqualvolta si tratti di perseguire, comunque, il conseguimento di vantaggi, sia pure di carattere puramente strumentale, giuridicamente riferibili alla categoria, con l’unico limite derivante dal divieto di occuparsi di questioni concernenti i singoli iscritti, ovvero capaci di dividere la categoria in posizioni disomogenee» (v. ex plurimis, oltre alle sentenze dianzi citate,Cons. St., sez. III, 27 aprile 2015, n. 2150).
8. Parimenti sussistente, per le medesime ragioni appena esposte, è la legittimazione attiva in capo all’altra ricorrente in primo grado, nonché odierna appellata, l’INCA, quale ente di patronato soggetto alle disposizioni della legge 30 marzo 2001, n. 152, recante la «Nuova disciplina per gli istituti di patronato e di assistenza sociale».
8.1. Soccorrono, oltre alle suddette ragioni che qui si richiamano ad evitare inutili ripetizioni contrarie all’obbligo di sintesi prescritto dal codice di rito (art. 3, comma 2, c.p.a.), le specifiche previsioni della appena citata l. n. 152 del 2001, pure opportunamente menzionate dal T.A.R. nell’ordinanza n. 5290 del 20 maggio 2014 (p. 10) e, in particolare, gli artt. 7 e 8 di tale legge.
8.2. Lo Statuto dell’INCA prevede infatti, nell’art. 2, che tale ente svolga attività di consulenza e di assistenza in favore di lavoratori, pensionati, cittadini italiani, stranieri ed apolidi presenti sul territorio nazionale, «per il conseguimento in Italia e all’estero delle prestazioni di qualsiasi genere in materia di sicurezza sociale, di immigrazione e emigrazione, previste da leggi, regolamenti, statuti, contratti collettivi ed altre fonti normative, erogate da amministrazioni e enti pubblici, da enti gestori di fondi di previdenza complementare o da Stati esteri nei confronti dei cittadini italiani o già in possesso della cittadinanza italiana, anche se residenti all’estero» (art. 7, comma 1, della l. n. 152 del 2001).
8.3. Ai sensi del successivo art. 8, comma 1, della l. n. 152 del 2001, le attività di consulenza, di assistenza e di tutela degli istituti di patronato riguardano:
a) il conseguimento, in Italia e all’estero, delle prestazioni in materia di previdenza e quiescenza obbligatorie e di forme sostitutive e integrative delle stesse;
b) il conseguimento delle prestazioni erogate dal Servizio sanitario nazionale;
c) il conseguimento delle prestazioni di carattere socio-assistenziale, comprese quelle in materia di emigrazione e immigrazione;
d) il conseguimento, in Italia e all’estero, delle prestazioni erogate dai fondi di previdenza complementare, anche sulla base di apposite convenzioni con gli enti erogatori.
8.4. L’ampiezza di tali compiti, che fanno dei patronati «persone giuridiche di diritto privato che svolgono un servizio di pubblica utilità» (art. 1 della l. n. 152 del 2001), fonda e giustifica pienamente nel caso di specie la legittimazione ad agire dell’INCA in nome e per conto di tutti i lavoratori stranieri interessati ad ottenere il permesso di soggiorno secondo legittime condizioni, quantomeno per le elevate finalità di assistenza sociale che un patronato – qual è l’INCA –ex lege persegue.
8.5. Il primo motivo proposto dalle Amministrazioni appellanti, quindi, deve essere respinto.
9. Deve a questo punto il Collegio esaminare il secondo e principale motivo, proposto dalle Amministrazioni appellanti (pp. 15-26 del ricorso), incentrato sulla violazione e falsa applicazione della direttiva n. 2003/109/CE, sulla violazione e falsa applicazione degli artt. 5, comma 2-ter, e 9 del d. lgs. n. 286 del 1998 e, soprattutto, sulla errata interpretazione della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 2 settembre 2015, resa nella causa C-309/14, che ridonderebbe nella violazione o nella falsa applicazione dell’art. 267 TFUE e dell’art. 5, par. 1 e par. 2, TUE.
9.1. Il primo giudice, deducono le appellanti, ha fondato la propria decisione sul presupposto che la portata della sentenza della Corte di Giustizia del 2 settembre 2015 in C-309/14 – proprio su domanda di pronuncia pregiudiziale da parte dello stesso T.A.R. per il Lazio nel primo grado del presente giudizio – non sarebbe circoscritta ai soli titoli di soggiorno “coperti” dalla medesima direttiva n. 2003/109/CE e, cioè, i permessi UE per soggiornanti di lungo periodo di cui all’art. 9 del d. lgs. n. 286 del 1998, ma riguarderebbe tutte le tipologie di soggiorno, anche quelle di più breve durata, previste dall’art. 5, comma 2-ter, del d. lgs. n. 286 del 1998 e dall’art. 1 del D.M. 6 ottobre 2011.
9.2. Ma questo presupposto, assumono le appellanti, sarebbe fallace.
9.3. Esse sostengono che la direttiva n. 2003/109/CE ha come scopo la disciplina del conferimento dello status di soggiornante di lungo periodo in favore dei cittadini di Paesi terzi, legalmente soggiornanti nel territorio di uno Stato membro (art. 1), che si trovino nelle condizioni stabilite dalla stessa direttiva (art. 2).
9.4. Non è invece oggetto della direttiva la disciplina del regime giuridico dei cittadini dei Paesi terzi che non abbiano titolo ad acquisire lo status di soggiornante di lungo periodo, o perché non si trovino nelle condizioni previste o perché non intendano presentare la domanda per ottenerlo.
9.5. L’estensione degli obblighi e dei principî di cui alla direttiva 2003/109/CE ai permessi di soggiorno di breve durata rappresenta, secondo le Amministrazioni appellanti, una operazione ermeneutica «certamente erronea» (p. 18 del ricorso), che si porrebbe in contrasto con la ratio della stessa direttiva, quale si desume dal “Considerando” n. 4 della direttiva stessa.
9.6. Il contrasto che la Corte di Giustizia ha ritenuto di ravvisare tra la normativa introdotta dall’art. 1, comma 22, della l. n. 94 del 2009 e la direttiva n. 2003/109/CE, dunque, riguarderebbe soltanto il contributo stabilito dal D.M. 6 ottobre 2011 per il rilascio del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo di cui all’art. 9 del d. lgs. n. 286 del 1998 e non anche i contributi stabiliti per le altre tipologie di permesso di soggiorno, in quanto la disciplina di questi ultimi esulerebbe dall’oggetto della direttiva e, conseguentemente, dalla competenza della Corte di Giustizia a pronunciarsi, in via pregiudiziale, sull’interpretazione delle norme eurounitarie ai sensi dell’art. 267 TFUE.
9.7. L’interpretazione recepita dal T.A.R. per il Lazio, secondo la tesi delle appellanti, sarebbe inaccettabile perché estenderebbe la competenza delle istituzioni europee ben oltre gli ambiti definiti dal Trattati e dal diritto derivato, in aperta violazione del principio di attribuzione sancito dall’art. 5, par. 2, TUE.
9.8. Una lettura della decisione della Corte di Giustizia conforme al diritto eurounitario imporrebbe, dunque, di ritenere che essa si sia limitata a statuire l’incompatibilità, rispetto alla direttiva n. 2003/109/CE, della sola previsione relativa al contributo di € 200,00 per il rilascio dei permessi UE per soggiornanti di lungo periodo.
9.9. Dovrebbero pertanto ritenersi legittime le previsioni del D.M. impugnato in prime cure che, in relazione al rilascio e al rinnovo dei permessi di soggiorno diversi da quelli per soggiornanti di lungo periodo, impongono il versamento di € 80,00 per i permessi di soggiorno di breve durata, superiore a tre mesi e inferiore ad un anno, di € 100,00 per i permessi di soggiorno di breve durata, superiore ad un anno e inferiore o pari a due anni, e di € 200,00 per i permessi di soggiorno di breve durata, fino a due anni, di cui all’art. 27, comma 1, lett. a), del d. lgs. n. 286 del 1998, richiesti dai dirigenti e dal personale altamente qualificato.
9.10. Le Amministrazioni appellanti criticano il ragionamento del primo giudice pure nella parte in cui ha ritenuto che la sentenza della Corte di Giustizia si riferisca anche a tali permessi per il principio del c.d. “effetto utile”, in quanto, essendovi tra le condizioni per l’acquisizione dello status di soggiornante di lungo periodo anche quella del soggiorno legale e ininterrotto nel territorio di uno Stato membro per cinque anni, gli ostacoli frapposti al rinnovo del permesso di soggiorno di minore durata si tradurrebbero in altrettanti ostacoli ad acquisire lo status di soggiornante di lungo periodo.
9.11. La direttiva non sarebbe volta ad assicurare ai cittadini di Paesi terzi la maturazione delle condizioni per l’acquisizione dello status di soggiornante di lungo periodo, poiché né essa né altra normativa eurounitaria dettano una disciplina generale alla quale gli Stati membri debbano attenersi nello stabilire i limiti e le condizioni di ammissione dei cittadini di Paesi terzi per l’ingresso nel territorio nazionale.
9.12. Tale disciplina sarebbe rimessa esclusivamente alla normativa nazionale degli Stati membri, alla quale, dunque, deve farsi riferimento anche per quanto concerne la misura del contributo richiesto per il rilascio delle tipologie di permesso di soggiorno diverse da quella del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.
9.13. Ciò risponderebbe pienamente, peraltro, ai principî di attribuzione e di sussidiarietà, sui quali si fondano la delimitazione e l’esercizio delle competenze dell’Unione europea in base all’art. 5 TUE.
9.14. In conclusione, ancorché nel dispositivo della sentenza del 2 settembre 2015 nel procedimento C-309/14 la Corte abbia fatto riferimento, sinteticamente e indistintamente, a tutti gli importi previsti dalla normativa nazionale per tutte le tipologie di permesso, anche quelli di breve durata, le appellanti sostengono che le ragioni giuridiche della decisione, quali riportate nella motivazione e nel dispositivo, indurrebbero ad escludere che la decisione possa avere avuto riguardo alla misura del contributo richiesto per il rilascio e il rinnovo dei permessi ordinari.
10. Il motivo, così esposto e qui riassunto, va respinto, perché infondato.
11. Occorre muovere, anzitutto, proprio dalla lettura della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 2 settembre 2015, in C-309/14, per rilevare che, al contrario di quanto sostengono le appellanti, essa abbia inteso riferirsi consapevolmente e deliberatamente, per evidenti e ben motivate ragioni di ordine logico-sistematico, anche alla misura dei contributi stabiliti per il rilascio o il rinnovo dei permessi di breve durata, per quanto non contemplati dalla direttiva n. 2003/109/CE.
11.1. La Corte di Giustizia analizza, anzitutto, la disciplina dettata dal legislatore italiano negli artt. 5, comma 2-ter, e 14-bis del d. lgs. n. 286 del 1998, in attuazione della quale è stato emesso il D.M. in questa sede contestato.
11.2. Giova qui di seguito, per chiarezza e completezza di analisi, riportarne per esteso il contenuto letterale.
11.3. Il comma 2-ter dell’art. 5 del d. lgs. n. 286 del 1998, introdotto nel T.U. immigrazione dall’art. 1, comma 22, lett. b, della l. 15 luglio 2009, n. 94 (recante «Disposizioni in materia di pubblica sicurezza»), prevede, anzitutto, che «la richiesta di rilascio e di rinnovo del permesso di soggiorno è sottoposta al versamento di un contributo, il cui importo è fissato fra un minimo di 80 e un massimo di 200 euro con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dell’interno, che stabilisce altresì le modalità del versamento nonché le modalità di attuazione della disposizione di cui all’articolo 14-bis, comma 2», mentre «non è richiesto il versamento del contributo per il rilascio ed il rinnovo del permesso di soggiorno per asilo, per richiesta di asilo, per protezione sussidiaria, per motivi umanitari».
11.4. Il successivo art. 14-bis del d. lgs. n. 286 del 1998, introdotto nel T.U. immigrazione dall’art. 1, comma 22, lett. n), della citata legge n. 94 del 2009, istituisce a sua volta nel comma 1, presso il Ministero dell’Interno, «un Fondo rimpatri finalizzato a finanziare le spese per il rimpatrio degli stranieri verso i Paesi di origine ovvero di provenienza» e destina a tale Fondo, nel comma 2, «la metà del gettito conseguito attraverso la riscossione del contributo di cui all’articolo 5, comma 2-ter, nonché i contributi eventualmente disposti dall’Unione europea per le finalità del Fondo medesimo», assegnando altresì la quota residua del gettito del contributo di cui all’articolo 5, comma 2-ter, dianzi menzionato, allo stato di previsione del Ministero dell’Interno, «per gli oneri connessi alle attività istruttorie inerenti al rilascio e al rinnovo del permesso di soggiorno».
11.5. In attuazione di tali previsioni, il D.M. qui impugnato, come si è sopra premesso, ha fissato gli importi dei contributi da versare per il rilascio e il rinnovo di un permesso di soggiorno nel modo seguente:
- € 80,00 per i permessi di soggiorno di durata superiore a tre mesi ed inferiore o pari ad un anno;
- € 100,00 per i permessi di soggiorno di durata superiore ad un anno e inferiore o pari a due anni;
- € 200,00 per il rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo e per i richiedenti il permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 27, comma 1, lett. a), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 e successive modifiche e integrazioni.
11.6. La Corte di Giustizia, nel § 26 della sentenza del 2 settembre 2015, mostra l’esatta consapevolezza, sulla base del quadro della normativa nazionale correttamente rappresentatole nell’ordinanza di rinvio del T.A.R. per il Lazio, che i singoli importi dei contributi non si riferiscono tutti e soltanto al rilascio dei permessi UE per soggiornanti di lungo periodo, ma siano ben diversificati in base alla specifica finalità e alla singola tipologia del permesso (€ 80,00 per i permessi di più breve durata, € 100,00 per i permessi di “media” durata, ed € 200,00 per i permessi di lunga durata e quelli di cui all’art. 27, comma 1, del d. lgs. n. 286 del 1998).
11.7. Il giudice europeo li ha valutati tutti unitariamente e complessivamente, secondo un ben chiaro ragionamento di ordine logico-sistematico, poiché nel successivo § 27 della sentenza del 2 settembre 2015, in C-309/14, esso rileva che «l’incidenza economica di un contributo siffatto può essere considerevole per taluni cittadini di paesi terzi che soddisfano le condizioni poste dalla direttiva 2003/109 per il rilascio dei permessi di soggiorno previsti da quest’ultima, e ciò a maggior ragione per il fatto che, in considerazione della durata di tali permessi, tali cittadini sono costretti a richiedere il rinnovo dei titoli assai di frequente e che all’importo di detto contributo può aggiungersi quello di altri tributi previsti dalla preesistente normativa nazionale, cosicché, in tali circostanze, l’obbligo di versare il contributo di cui trattasi nel procedimento principale può rappresentare un ostacolo alla possibilità per i predetti cittadini dei paesi terzi di far valere i diritti conferiti dalla summenzionata direttiva».
11.8. La Corte di Giustizia muove anzitutto dall’evidente presupposto che, a norma del diritto europeo (art. 4 della direttiva n. 2003/109/CE) e nazionale (art. 9, comma 1, del d. lgs. n. 286 del 1998), il conseguimento del permesso UE per lungosoggiornanti possa essere richiesto in Italia solo dallo straniero che, oltre agli altri requisiti richiesti dalla legge, sia «in possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità».
11.9. La necessità di richiedere il rinnovo dei permessi di più breve durata, perché maturi il quinquennio di legale permanenza sul territorio italiano richiesto dall’art. 4 della direttiva n. 2003/109/CE e dall’art. 9, comma 1, del d. lgs. n. 286 del 1998, impone allo straniero di pagare quantomeno, inizialmente, un contributo minimo di € 80,00 e via via, nel corso della sua regolare permanenza, quelli successivi per il rinnovo dei permessi, anche per il superiore importo di € 120,00, fino al pagamento dell’importo finale, pari ad € 200,00, per ottenere il permesso UE per soggiornanti di lungo periodo.
11.10. La Corte di Giustizia ha osservato che ad aggravare tale sistema “contributivo” – già di per sé oneroso per molti dei cittadini di Paesi terzi intenzionati a stabilizzare la propria posizione in Italia quale approdo di una situazione esistenziale che, sovente, li vede muovere da una condizione di pressoché totale indigenza o anche solo di grave difficoltà economica nei Paesi di provenienza – si aggiungono gli ulteriori oneri fissi, complessivamente ammontanti ad € 73,50, richiesti in Italia per il rilascio e il rinnovo di ogni singolo titolo di soggiorno.
11.11. Le stesse Amministrazioni appellanti opportunamente ricordano (p. 3 del ricorso), infatti, che ai contributi qui controversi si assommano gli oneri, imposti indistintamente e per qualsiasi richiesta di permesso di soggiorno, relativi al costo del premesso di soggiorno in formato elettronico – € 27,50 previsti dal decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, di concerto con il Ministero dell’Interno, del 4 aprile 2006 – nonché quelli – pari ad € 30,00 fissati dal decreto del Ministero dell’Interno del 12 ottobre 2015 – relativi al servizio di accettazione delle istanze, svolto da Poste Italiane s.p.a., e infine l’imposta di bollo, pari ad € 16,00.
12. Il giudice europeo - sulla base di una valutazione complessiva del sistema vigente in Italia per i contributi richiesti agli stranieri che intendano stabilizzarsi, non già stabilirsi, e richiedere il permesso UE per il lungo soggiorno - è pervenuto alla conclusione che «la direttiva 2003/109 osta ad una normativa nazionale, come quella controversa nel procedimento principale, che impone ai cittadini di paesi terzi che chiedono il rilascio o il rinnovo di un permesso di soggiorno nello Stato membro considerato di pagare un contributo di importo variabile tra € 80,00 ed € 200,00, in quanto siffatto contributo è sproporzionato rispetto alla finalità perseguita ed è atto a creare un ostacolo all’esercizio dei diritti conferiti da quest’ultima».
12.1. Ora se è pur corretto affermare, come sostiene l’Avvocatura Generale dello Stato nell’appello qui in esame, che la direttiva n. 2003/109/CE regoli esclusivamente i permessi UE per soggiornanti di lungo periodo, non è altrettanto corretto dedurne che il diritto eurounitario sia estraneo, ed indifferente, al percorso normativo che nel suo complesso ogni singolo Stato delinea per il conseguimento di tali permessi.
12.2. Se fosse vero che solo il segmento finale di tale percorso e, cioè, quello esclusivamente concernente la procedura – e il contributo – per l’ottenimento del permesso UE per i soggiornanti di lungo periodo debba essere oggetto di normazione eurounitaria e di interpretazione da parte della Corte di Giustizia, ogni singolo Stato potrebbe introdurre una normativa sui permessi di più breve soggiorno tanto restrittiva da rendere sostanzialmente impossibile o eccessivamente oneroso per gli stranieri la legale permanenza nel loro territorio per i cinque anni necessari a stabilizzare la loro posizione all’interno dell’Unione europea e a consentirne l’inserimento nel tessuto socio-economico.
12.3. In questo modo la libertà di stabilimento, che pure la direttiva n. 2003/109/CE mira a proteggere, diverrebbe puramente teorica finendo di fatto per essere vanificata, perché – mediante l’introduzione di una legislazione nazionale relativa ai permessi di più breve durata, sostanzialmente penalizzante o addirittura proibitiva, già solo a livello economico, per la stabile permanenza degli stranieri nel territorio nazionale – l’obiettivo di conseguire i permessi di lunga durata sarebbe un traguardo irraggiungibile e illusorio per molti di essi, per quanto in possesso di tutti i requisiti previsti dalla normativa eurounitaria, con evidente elusione delle finalità perseguite dalla stessa direttiva n. 2003/109/CE.
12.4. Quanto all’aspetto qui controverso dei contributi richiesti per il rilascio e il rinnovo dei permessi, la Corte di Giustizia ha evidenziato tale pericolo ed ha censurato nel suo complesso la normativa italiana sullo straniero intenzionato a stabilizzarsi, avente tutti i requisiti previsti dalla direttiva, perché tale normativa una serie di ostacoli sproporzionati rispetto alla finalità perseguita dalla direttiva – l’inserimento dei lungosoggiornanti – e costituenti un ostacolo all’esercizio dei diritti che essa loro conferisce.
13. Per la individuazione dell’effettivo contenuto di questa pronuncia, relativa alla legislazione italiana, rileva un’altra sentenza della Corte di Giustizia, resa il 26 aprile 2012 in C-508/10, che la Corte ha richiamato nella sentenza del 2 settembre 2015.
13.1. Nella sentenza del 26 aprile 2012, la Corte di Giustizia, in un giudizio promosso dalla Commissione, ai sensi dell’art. 258 TFUE, per inadempimento del Regno dei Paesi Bassi nella regolazione nazionale di questa delicata materia, ha ben chiarito, nel § 64 e nel § 65, che «gli Stati membri possono subordinare il rilascio di permessi e titoli di soggiorno ai sensi della direttiva 2003/109 al pagamento di contributi e che, nel fissare l’importo di tali contributi, essi dispongono di un margine discrezionale», ma ha precisato che il potere discrezionale esercitabile dagli Stati membri in base alla direttiva n. 2003/109/CE non è illimitato, poiché questi ultimi «non possono applicare una normativa nazionale tale da compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti da una direttiva e, pertanto, da privare quest’ultima del suo effetto utile».
13.2. Tale fondamentale principio, con il rigoroso richiamo all’osservanza del c.d. effetto utile, è stato affermato dalla stessa Corte di Giustizia, proprio con riferimento alla delicata materia dell’immigrazione e proprio nei confronti dell’Italia, nel caso El Dridi, nella sentenza del 28 aprile 2011, in C-61/11, laddove la Corte di Giustizia, nel ritenere disapplicabile l’art. 14, comma 5-ter, del d. lgs. 286 del 1998, il quale puniva con la pena della reclusione lo straniero che si fosse trattenuto illegalmente nello Stato nonostante l’ordine di espulsione emesso dal Questore, ha precisato che, «se è vero che la legislazione penale e le norme di procedura penale rientrano, in linea di principio, nella competenza degli Stati membri, su tale ambito giuridico può nondimeno incidere il diritto dell’Unione», perché tali Stati «non possono applicare una normativa, sia pure di diritto penale, tale da compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti da una direttiva e da privare così quest’ultima del suo effetto utile».
13.3. La Corte di Giustizia, in questo caso, ha affermato che il giudice nazionale debba disapplicare qualsiasi disposizione di legge (anche di diritto penale, tradizionalmente rientrante nelle attribuzioni degli Stati membri), quando essa frustri gli obiettivi della legislazione eurounitaria e li privi del loro effetto utile.
13.4. Tale principio vale, a fortiori, in questa materia per le previsioni della legislazione italiana relative ai contributi, quali prestazioni patrimoniali imposte (art. 23 Cost.), richiesti per i soggiorni di breve durata che, inscindibilmente legate alla concessione dei permessi UE per soggiornanti di lungo periodo, incidono fortemente, nel lungo periodo, sulla realizzazione degli obiettivi perseguiti dalla direttiva n. 2003/109/CE.
13.5. Come rilevato dalla stessa sentenza El Dridi, nel § 56, ai sensi rispettivamente del secondo e del terzo comma dell’art. 4, n. 3, TUE, gli Stati membri, in particolare, «adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione» e «si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione», compresi quelli perseguiti dalle direttive.
13.6. Il principio dell’effetto utile, richiamato espressamente nella sentenza del 26 aprile 2012, in C-508/10, deve trovare applicazione anche agli obiettivi perseguiti dalla direttiva n. 2003/109/CE, ove si consideri, tra l’altro, che:
- la direttiva «rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti segnatamente nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea» (“Considerando” n. 3);
- l’integrazione dei cittadini di Paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri costituisce «un elemento cardine per la promozione della coesione economica e sociale, obiettivo fondamentale della Comunità enunciato nel trattato» (“Considerando” n. 4);
- la condizione principale per ottenere lo status di soggiornante di lungo periodo dovrebbe essere la durata del soggiorno nel territorio di uno Stato membro (“Considerando” n. 6);
- le considerazioni economiche «non dovrebbero essere un motivo per negare lo status di soggiornante di lungo periodo» (“Considerando” n. 9);
- occorre stabilire un sistema di regole procedurali per l’esame della domanda intesa al conseguimento dello status di soggiornante di lungo periodo, ma le regole e le procedure, chiare ed eque, comunque «non dovrebbero costituire un mezzo per ostacolare l’esercizio del diritto di soggiorno» (“Considerando” n. 10).
14. In ragione di tali principi fondamentali e degli obiettivi perseguiti dalla direttiva n. 2003/109/CE, ben espressi nei “Considerando” appena menzionati, la Corte di Giustizia ha ritenuto il complesso delle regole procedurali fissate dalla legge italiana - nella sua sistematica connessione e non solo limitandosi al “segmento” finale del contributo di € 200,00 richiesto per il permesso UE per i soggiornanti di lungo periodo - un mezzo per ostacolare l’esercizio del diritto di soggiorno riconosciuto agli stranieri dalla direttiva n. 2003/109/CE.
14.1. I contributi richiesti, per il loro importo, «non devono avere né per scopo né per effetto di creare un ostacolo al conseguimento dello status di soggiornante di lungo periodo conferito da tale direttiva, venendo altrimenti arrecato pregiudizio tanto all’obiettivo perseguito quanto al suo spirito», poiché tali contributi, aventi una incidenza economica finanziaria considerevole per i cittadini di Paesi terzi che soddisfano le condizioni previste dalla direttiva n. 2003/109/CE per il rilascio dei permessi di lungo soggiorno, «potrebbero privare tali cittadini della possibilità di far valere i diritti conferiti dalla direttiva in parola, contrariamente al decimo considerando della medesima», il quale esige che il sistema delle regole procedurali per l’esame delle domande intese al conseguimento dello status di soggiornante di lungo periodo non dovrebbe, appunto, costituire un mezzo per ostacolare l’esercizio del diritto di soggiorno (§ 70 e § 71 della sentenza della Corte di Giustizia del 26 aprile 2012 in C-508/10).
14.2. Nel caso dei Paesi Bassi, la Corte di Giustizia ha rilevato che gli importi dei contributi richiesti da quel Regno «variano all’interno di una forbice il cui valore più basso è all’incirca sette volte superiore all’importo dovuto per ottenere una carta nazionale d’identità» (§ 77 della sentenza del 26 aprile 2012 in C-508/10).
14.3. Analoghe considerazioni, ben evidenziate dal T.A.R. per il Lazio nella sua ordinanza di rinvio, hanno evidentemente guidato la Corte di Giustizia nel ritenere che i contributi richiesti dalla legislazione italiana, anche quello di più basso importo (€ 80,00) per il conseguimento del permesso di più breve durata, siano sproporzionati rispetto alla finalità perseguita dalla direttiva n. 2003/109/CE e idonei a creare un ostacolo o, se si vuole, un “percorso ad ostacoli”, nel quinquennio richiesto, all’esercizio dei diritti conferiti da quest’ultima allo straniero intenzionato a stabilizzarsi (§ 31 della sentenza del 2 settembre 2015, in C-309/14), ove si consideri peraltro, come ha ritenuto a p. 19 nell’ordinanza n. 5290 del 20 maggio 2014 il T.A.R. per il Lazio, con affermazione non specificatamente contestata dalle stesse Amministrazioni appellanti anche ai sensi e per gli effetti dell’art. 64, comma 2, c.p.a., che «il costo per il rilascio della carta d’identità ammonta attualmente, nel nostro Paese, a circa 10 euro», somma otto volte inferiore a quella prevista per il rilascio del permesso di minor durata.
15. Dal quadro del complesso intreccio del diritto eurounitario e nazionale sin qui esposto, alla luce dell’interpretazione, vincolante per il giudice nazionale, datane dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, discende dunque la infondatezza delle censure sollevate dalle Amministrazioni appellanti, e sopra riassunte, in quanto:
a) la Corte di Giustizia ha motivatamente inteso affermare nella sentenza del 2 settembre 2015, in C-309/14, l’incompatibilità, nel suo complesso, della normativa nazionale, che prevede i contributi per il rilascio e il rinnovo di tutti i permessi di soggiorno in una forbice compresa tra un minimo di € 80,00 ed un massimo di € 200,00, perché ha ritenuto che il “tariffario” di tali contributi, di tutti i contributi, sia di ostacolo all’esercizio dei diritti conferiti dalla direttiva n. 2003/109/CE ai cittadini stranieri «stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri» (“Considerando” n. 4) e intenzionati a richiedere il permesso UE di lungo soggiorno, ma soggetti a ripetuti e sproporzionati contributi, fin da quello iniziale di € 80,00 e a quelli successivi di importo via via crescente, da parte della legislazione nazionale, nel quinquennio richiesto dalla stessa direttiva n. 2003/109/CE (art. 4) e dalla legislazione nazionale attuativa (art. 9, comma 1, del d. lgs. n. 286 del 1998) per l’ottenimento di tale permesso;
b) l’importo di tali contributi, anche quello minimo di € 80,00, ha infatti una incidenza finanziaria considerevole per i cittadini di Paesi terzi che soddisfano le condizioni sostanziali previste dalla stessa direttiva n. 2003/109/CE e compromette gli obiettivi perseguiti da tale direttiva, privandola del suo effetto utile, soprattutto ove si consideri che anche l’importo più basso – € 80,00 – tra tutti quelli previsti supera, comunque, ben oltre le sette volte il costo richiesto nel nostro Paese per il rilascio della carta di identità ad un cittadino italiano;
c) il diritto eurounitario, anche nella forma del “diritto vivente” scolpita dall’attività ermeneutica della Corte di Giustizia, ben può intersecare settori della legislazione nazionale, non strettamente rientranti nelle propria sfera di competenze, e condizionarne l’applicazione, laddove le regole poste anche in questi settori – come nel caso di specie quelle concernenti i contributi per i permessi di breve soggiorno – privino di effetto utile il diritto eurounitario, facendo sì che i suoi principi e le sue regole divengano difficilmente applicabili o sostanzialmente inapplicabili nei singoli Stati;
d) la primazia del diritto eurounitario non comporta alcuno sconfinamento di questo nelle competenze legislative riservate ai singoli Stati nazionali, in pretesa violazione del fondamentale principio di attribuzione sancito dall’art. 5 TUE, quando si tratti di assicurarne l’effetto utile compromesso da un esercizio di tale competenze che ne renda inapplicabile o estremamente difficoltosa l’applicazione nei singoli Stati, con lesione dei diritti riconosciuti direttamente dalla normativa sovranazionale, con efficacia orizzontale, ai cittadini dell’Unione o anche, come nel caso di specie, agli stranieri cittadini di Paesi terzi;
e) qualora la Corte di Giustizia dell’Unione europea, come in questo caso, dichiari l’incompatibilità del diritto nazionale con i Trattati e la ‘legislazione eurounitaria’, il giudice interno – e, in particolar modo, il Consiglio di Stato quale giudice di ultima istanza ai sensi dell’art. 267, par. 3, TFUE – è tenuto a disapplicare o, meglio, a non applicare il diritto dello Stato giudicato dalla Corte contrastante con i Trattati e detta ‘legislazione’;
f) nel caso di specie, deve essere disapplicata, per effetto della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 2 settembre 2015, in C-309/14, la disposizione dell’art. comma 2-ter dell’art. 5 del d. lgs. n. 286 del 1998, nella misura in cui fissa gli importi dei contributi richiesti per tutti i permessi di soggiorno da un minimo di € 80,00 ad un massimo di € 200,00, in quanto costituenti nel loro complesso un ostacolo, per il loro importo eccessivamente elevato, ai diritti conferiti ai cittadini stranieri richiedenti i permessi UE di lungo soggiorno, con conseguente illegittimità del D.M. qui impugnato, nelle parti già annullate dal T.A.R.
16.1. Quanto al dubbio sollevato dalle Amministrazioni nelle ultime pagine del loro appello, va sottolineato che nel suo dispositivo la sentenza del 2 settembre 2015 della Corte di Giustizia non ha riportato sinteticamente tutti gli importi, anche quello minimo di € 80,00, per il fatto che «la sentenza del 2 settembre 20015 nel procedimento C-309/14 è stata ricalcata sulla sentenza 26 aprile 2012 nel procedimento C-508/10 proposto su ricorso per inadempimento ai sensi dell’art. 258 del Trattato dalla Commissione europea contro il Regno dei Paesi Bassi» (p. 25 del ricorso), come invece sostengono le appellanti.
16.2. Invero già questa stessa circostanza e, cioè, che la sentenza del 2012 si fosse pronunciata su un ricorso per inadempimento, promosso dalla Commissione europea ai sensi dell’art. 258 TFUE, e non su una questione pregiudiziale, sollevata dal giudice nazionale ai sensi dell’art. 267 TFUE come nel presente caso, dimostra sul piano processuale che diverso è stato il modus procedendi dei due giudizi e che la Corte di Giustizia non abbia potuto “ricalcare” nemmeno nel dispositivo, con la sua pronuncia del 2015, la precedente sentenza del 2012.
16.3. Ma anche sul piano sostanziale, quello che più rileva, vi è una differenza tra le due pronunce, su questo punto non assimilabili, perché la sentenza del 26 aprile 2012, in C-508/10, ha preso in considerazione solo i contributi imposti dal Regno dei Paesi Bassi ai richiedenti il permesso UE per il lungo soggiorno (e ai loro familiari), come si evince dalla lettura del dispositivo e della motivazione, senza occuparsi dei contributi richiesti per i permessi di breve durata, mentre la sentenza del 2 settembre 2015, in C-309/14, si riferisce, al contrario, per tutte le ragioni esposte, all’intero sistema dei contributi previsti per tutti i permessi di soggiorno in Italia, compresi quelli di breve durata.
16.4. Anche per tale profilo, dunque, l’appello delle Amministrazioni risulta infondato.
17. L’intera impostazione dell’appello, mirante – pur comprensibilmente – a ben demarcare e a difendere le prerogative del legislatore nazionale e del Governo quanto alla regolazione dei contributi di più breve periodo, non ha tenuto conto, a livello generale, dell’evoluzione storica e sistematica del diritto dell’immigrazione costituente, ormai, un corpus unico e compatto, tipico di un ordinamento c.d. multivello.
17.1. La stretta interrelazione tra le competenze legislative degli Stati membri e quelli dell’Unione, nel diritto dell’immigrazione, rende del resto indispensabile e sempre più frequente una compenetrazione tra l’ordinamento eurounitario e quello nazionale, in un processo osmotico, che induca il primo, da un lato, a recepire progressivamente i valori di civiltà giuridica e di solidarietà sociale più elevati comuni alla maggior parte, se non a tutti, gli Stati membri, così innalzando il livello minimo di tutela dei diritti fondamentali dei richiedenti soggiorno (o asilo) nell’ambito del territorio dell’Unione, e dall’altro il secondo a farsi plasmare e conformare dai principî del diritto dell’Unione, quali enucleati dall’attività interpretativa della Corte.
17.1. Sempre più spesso la Corte di Giustizia incide, proprio per questa stretta e indissolubile interrelazione, anche sulla normativa dei singoli Stati che disciplina i permessi di breve durata, come per esempio e da ultimo sulla legislazione spagnola relativa ai permessi di breve soggiorno richiesti dai cittadini di Stati terzi per eccezionali ragioni, laddove la Corte ha chiarito che l’art. 20 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso osta alla normativa nazionale in forza della quale la concessione di un permesso di soggiorno viene automaticamente negata, per il solo motivo che egli ha precedenti penali, al cittadino di uno Stato terzo, genitore di minori cittadini dell’Unione, dei quali ha l’affidamento esclusivo, qualora tale diniego produca la conseguenza di costringere detti minori a lasciare il territorio dell’Unione europea (sentenza della Corte di Giustizia del 13 settembre 2016, in C-165/14).
17.2. Questo Consiglio non può che prendere atto dell’opera interpretativa della giurisprudenza della Corte di Giustizia, tesa ad affermare la primazia del diritto euroeunitario e a preservarne l’effetto utile dal non adeguato o non proporzionato esercizio del potere legislativo dei singoli Stati anche nelle (e, non di rado, per il tramite delle) materie attribuite alla loro competenza.
17.3. Per questo anche la dedotta violazione dell’art. 5 TUE, pur suggestiva, non sussiste, non essendovi stato alcuno “sconfinamento” della Corte di Giustizia e, più in generale, del diritto eurounitario nelle competenze riservate al legislatore nazionale.
18. In conclusione la sentenza qui impugnata del T.A.R. per il Lazio, nell’aver ritenuto che l’effetto utile affermato dalla Corte di Giustizia si estenda anche ai permessi di più breve durata, è immune da censura.
19. Deve essere infine esaminata la domanda di rinvio pregiudiziale, formulata a verbale in via di estremo subordine dai difensori delle odierne appellate, le quali hanno chiesto che il Consiglio di Stato, ove ritenga condivisibile l’interpretazione propugnata dalle appellanti con il secondo motivo di appello, rimetta nuovamente le questioni qui controverse alla Corte di Giustizia, in applicazione dell’art. 267, comma 3, TFUE.
19.1. La domanda non può trovare accoglimento in quanto ne difetta il presupposto, per la qui accertata infondatezza della tesi interpretativa sostenuta dalle Amministrazioni in virtù di tutte le ragioni sopra esposte, che qui si richiamano per obbligo di sintesi.
19.2. La Corte di Giustizia, sin dalla sentenza del 6 ottobre 1982, in C-283/81, in sede di interpretazione della corrispondente disposizione dell’art. 177 del Trattato (poi trasfusa nell’art. 267, comma 3, TFUE), ha costantemente affermato, del resto, che tale disposizione deve essere interpretata nel senso che «una giurisdizione le cui decisioni non sono impugnabili secondo l’ordinamento interno è tenuta, qualora una questione di diritto comunitario si ponga dinanzi ad essa, ad adempiere il suo obbligo di rinvio, salvo che non abbia constatato che la questione non è pertinente, o che la disposizione comunitaria di cui è causa ha già costituito oggetto di interpretazione da parte della Corte, ovvero che la corretta applicazione del diritto comunitario si impone con tanta evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi; la configurabilità di tale eventualità va valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto comunitario, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze di giurisprudenza all’interno della Comunità».
19.3. Nel caso di specie, per le ragioni già esposte, la questione sollevata con il secondo motivo dell’appello è stata già oggetto di pronuncia, proprio nel presente giudizio, da parte della Corte di Giustizia, i cui effetti si estendono anche ai contributi richiesti per i permessi di breve durata, sicché il rinvio pregiudiziale alla Corte stessa, richiesto in via di estremo subordine dalle odierne appellate ai sensi dell’art. 267, par. 3, TFUE, sarebbe superfluo, ai fini del decidere, e contrario, peraltro, al principio della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.).
20. Infine, va osservato che la mancata riproposizione nella memoria difensiva depositata il 15 settembre 2016, da parte delle odierne appellate, delle altre censure proposte in primo grado e non esaminate dal primo giudice preclude al Collegio il loro esame in questa sede, per il divieto posto dall’art. 101, comma 2, c.p.a.
21. Conclusivamente, per le ragioni esposte, l’appello proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal Ministero dell’Interno e dal Ministero dell’Economia e delle Finanze deve essere respinto, con conferma della sentenza impugnata.
21.1. In ottemperanza della presente decisione e previa disapplicazione, nei limiti sopra esplicati, del comma 2-ter dell’art. 5 del d. lgs. n. 286 del 1998, alla luce di quanto stabilito dalla Corte di Giustizia, le Amministrazioni competenti ridetermineranno l’importo dei contributi, nell’esercizio della loro discrezionalità, in modo tale che la loro equilibrata e proporzionale riparametrazione non costituisca un ostacolo all’esercizio dei diritti riconosciuti dalla direttiva n. 2003/109/CE.
21.2. In particolare, secondo l’effetto conformativo proprio del presente giudicato, esse ridetermineranno con apposito decreto i contributi ora per allora alla stregua del consolidato principio secondo il quale, quando vi è un giudicato amministrativo di annullamento di atti generali in tema di tariffe, di prezzi o di aliquote, l’Amministrazione ben può determinare ovvero applicare “ora per allora” il sopravvenuto provvedimento, che mira a colmare il ‘vuoto’ conseguente alla sentenza amministrativa che abbia annullato con effetti ex tunc un atto generale (v., ex plurimis, Cass., Sez. Un., 1° ottobre 1982, n. 5030; Cons. St., sez. V, 21 ottobre 1997, n. 1145 e, tra le più recenti, Cons. St., sez. III, 7 marzo 2016, n. 927).
21.3. Competerà anche alle predette Amministrazioni, nel rinnovato esercizio della loro discrezionalità, stabilire, secondo i principî dettati dal diritto nazionale ed eurounitario e in sintonia con le competenti istituzioni europee (anche al fine di scongiurare ulteriori procedure di infrazione da parte della Commissione), an, quando e quomodo degli eventuali rimborsi agli interessati per le somme versate in eccedenza rispetto al dovuto.
22. Le spese del presente grado di giudizio, considerata la novità e la complessità delle questioni qui controverse che hanno imposto il rinvio pregiudiziale al giudice europeo, possono essere interamente compensate tra le parti.
23. Rimane definitivamente a carico delle Amministrazioni appellanti, attesa la loro sostanziale soccombenza, il contributo unificato richiesto per la proposizione del gravame.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal Ministero dell’Interno e dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.
Dichiara inammissibile l’intervento spiegato nel presente grado del giudizio dall’ASGI – Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione.
Compensa interamente tra le parti le spese del presente grado di giudizio.
Pone definitivamente a carico della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero dell’Interno e del Ministero dell’Economia e delle Finanze il contributo unificato richiesto per la proposizione dell’appello.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 13 ottobre 2016, con l’intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti, Presidente
Manfredo Atzeni, Consigliere
Massimiliano Noccelli, Consigliere, Estensore
Stefania Santoleri, Consigliere
Raffaello Sestini, Consigliere