PANOZZO,
Nozioni di diritto comunitario: il
primato del diritto comunitario sul diritto interno nella giurisprudenza della
corte di giustizia e della corte costituzionale, (4 settembre 2009), in www.cittadinistranieri.it
lunedì 31 ottobre 2016
PANOZZO,
Legge 94/2009 - Dichiarazione di nascita:
prime osservazioni sui (paventati) riflessi del novellato art. 6, c. 2, del TU
immigrazione, (26 luglio 2009), in www.cittadinistranieri.it
domenica 30 ottobre 2016
Corte di Giustizia UE 27 ottobre 2016, n. C-428/15
«Rinvio pregiudiziale – Cooperazione giudiziaria in materia
civile – Competenza, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in
materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale –
Regolamento (CE) n. 2201/2003 – Articolo 15 – Trasferimento del
caso a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro – Ambito di
applicazione – Condizioni per l’applicazione – Autorità
giurisdizionale più adatta – Interesse superiore del minore»
1) L’articolo 15 del regolamento
(CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, relativo alla
competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia
matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento
(CE) n. 1347/2000, deve essere interpretato nel senso che si applica in
presenza di un ricorso in materia di tutela dei minori presentato sulla base
del diritto pubblico dalla competente autorità di uno Stato membro e avente ad
oggetto l’adozione di misure relative alla responsabilità genitoriale, come
quello di cui al procedimento principale, qualora la dichiarazione di
competenza di un organo giurisdizionale di un altro Stato membro necessiti, a
valle, dell’avvio, da parte di un’autorità di tale altro Stato membro, ai sensi
del suo diritto interno e alla luce di circostanze di fatto eventualmente
diverse, di un procedimento distinto da quello avviato nel primo Stato membro.
2) L’articolo 15, paragrafo 1, del
regolamento n. 2201/2003 deve essere interpretato nel senso che:
– per poter stabilire
che un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore
ha un legame particolare è più adatta, il giudice competente di uno Stato
membro deve accertarsi che il trasferimento del caso a detta autorità
giurisdizionale sia idoneo ad apportare un valore aggiunto reale e concreto al
trattamento dello stesso, in particolare tenendo conto delle norme di procedura
applicabili in detto altro Stato membro;
– per poter stabilire
che un siffatto trasferimento corrisponde all’interesse superiore del minore,
il giudice competente di uno Stato membro deve in particolare accertarsi che
tale trasferimento non rischi di ripercuotersi negativamente sulla situazione
del minore.
3) L’articolo 15, paragrafo 1, del
regolamento n. 2201/2003 deve essere interpretato nel senso che il giudice
competente di uno Stato membro non deve tenere conto, in sede di attuazione di
tale disposizione in un determinato caso in materia di responsabilità genitoriale,
né dell’incidenza di un possibile trasferimento di detto caso a un’autorità
giurisdizionale di un altro Stato membro sul diritto di libera circolazione
delle persone interessate diverse dal minore interessato, né del motivo per il
quale la madre di tale minore si è avvalsa di tale diritto, prima che detto
giudice fosse adito, salvo che considerazioni di questo tipo siano tali da
ripercuotersi in modo negativo sulla situazione di tale minore.
SENTENZA DELLA CORTE (Terza Sezione)
27 ottobre 2016
Nella causa C‑428/15,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale
proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dalla Supreme Court
(Corte Suprema, Irlanda), con decisione del 31 luglio 2015, pervenuta in
cancelleria il 4 agosto 2015, nel procedimento
Child
and Family Agency
contro
J.D.,
con l’intervento di:
R.P.D.,
LA CORTE
(Terza Sezione),
composta da L. Bay Larsen, presidente di sezione,
M. Vilaras, J. Malenovský (relatore), M. Safjan e D. Šváby,
giudici,
avvocato generale: M. Wathelet
cancelliere: L. Hewlett, amministratore principale
vista la fase scritta del procedimento e in seguito
all’udienza del 12 maggio 2016,
considerate le osservazioni presentate:
– per la Child and Family Agency, da
L. Jonker, solicitor, T. O’Leary, SC, e D. Leahy, barrister;
– per
J.D., da I. Robertson, solicitor, M. de Blacam, SC, e G. Lee, BL;
– per il
minore R.P.D., da G. Irwin, solicitor, G. Durcan, SC,
S. Fennell, BL, e N. McDonnell, BL;
– per
l’Irlanda, da E. Creedon e L. Williams nonché da A. Joyce, in
qualità di agenti, assistiti da A. Carroll, BL;
– per il
governo ceco, da M. Smolek e J. Vláčíl, in qualità di agenti;
– per il
governo slovacco, da B. Ricziová, in qualità di agente;
– per la Commissione europea,
da M. Wilderspin, in qualità di agente,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale,
presentate all’udienza del 16 giugno 2016,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1 La
domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 15
del regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003,
relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in
materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il
regolamento (CE) n. 1347/2000 (GU 2003, L 338, pag. 1, e
rettifica in GU 2013, L 82, pag. 63).
2 Tale
domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la Child and Family Agency
(Agenzia per l’infanzia e la famiglia, Irlanda; in prosieguo: l’«Agenzia») e la
sig.ra J.D. in merito alla sorte del secondo figlio di quest’ultima, il
minore in tenera età R.
Contesto normativo
3 I
considerando 5, 12, 13 e 33 del regolamento n. 2201/2003 enunciano:
«(5) Per
garantire parità di condizioni a tutti i minori, il presente regolamento
disciplina tutte le decisioni in materia di responsabilità genitoriale, incluse
le misure di protezione del minore, indipendentemente da qualsiasi nesso con un
procedimento matrimoniale.
(...)
(12) È
opportuno che le regole di competenza in materia di responsabilità genitoriale
accolte nel presente regolamento si informino all’interesse superiore del
minore e in particolare al criterio di vicinanza. Ciò significa che la
competenza giurisdizionale appartiene anzitutto ai giudici dello Stato membro
in cui il minore risiede abitualmente, salvo ove si verifichi un cambiamento
della sua residenza o in caso di accordo fra i titolari della responsabilità
genitoriale.
(13) Nell’interesse
del minore, il presente regolamento consente al giudice competente, a titolo
eccezionale e in determinate condizioni, di trasferire il caso al giudice di un
altro Stato membro se quest’ultimo è più indicato a conoscere del caso.
Tuttavia, in questo caso, il giudice adito in seconda istanza non dovrebbe
essere autorizzato a trasferire il caso a un terzo giudice.
(...)
(33) Il
presente regolamento riconosce i diritti fondamentali e osserva i principi
sanciti in particolare dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
In particolare, mira a garantire il pieno rispetto dei diritti fondamentali del
bambino quali riconosciuti dall’articolo 24 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea».
4 L’articolo
1 del regolamento n. 2201/2003, intitolato «Campo di applicazione»,
prescrive quanto segue:
«1. Il presente
regolamento si applica, indipendentemente dal tipo di autorità giurisdizionale,
alle materie civili relative:
(...)
b) all’attribuzione,
all’esercizio, alla delega, alla revoca totale o parziale della responsabilità
genitoriale.
2. Le materie di cui
al paragrafo 1, lettera b), riguardano in particolare:
a) il diritto
di affidamento e il diritto di visita;
(...)
d) la
collocazione del minore in una famiglia affidataria o in un istituto;
(...)».
5 L’articolo
2, punto 7, di tale regolamento stabilisce che, ai fini dello stesso, deve
intendersi per:
«“responsabilità genitoriale”: i diritti e doveri di cui
è investita una persona fisica o giuridica in virtù di una decisione
giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore riguardanti la persona o i
beni di un minore. Il termine comprende, in particolare, il diritto di
affidamento e il diritto di visita».
6 Il
capo II di detto regolamento, intitolato «Competenza», comprende fra l’altro
una sezione 2, intitolata «Responsabilità genitoriale», che prevede, agli
articoli da 8 a 15, una serie di regole riguardanti la competenza delle
autorità giurisdizionali degli Stati membri in materia.
7 L’articolo
8 di tale regolamento, intitolato «Competenza generale», al paragrafo 1
dispone, in particolare, quanto segue:
«Le autorità giurisdizionali di uno Stato membro sono
competenti per le domande relative alla responsabilità genitoriale su un
minore, se il minore risiede abitualmente in quello Stato membro alla data in
cui sono adit[e]».
8 A
termini dell’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003, intitolato
«Trasferimento delle competenze a una autorità giurisdizionale più adatta a
trattare il caso»:
«1. In via
eccezionale le autorità giurisdizionali di uno Stato membro competenti a
conoscere del merito, qualora ritengano che l’autorità giurisdizionale di un
altro Stato membro con il quale il minore abbia un legame particolare sia più
adatt[a] a trattare il caso o una sua parte specifica e ove ciò corrisponda
all’interesse superiore del minore, possono:
a) interrompere
l’esame del caso o della parte in questione e invitare le parti a presentare
domanda all’autorità giurisdizionale dell’altro Stato membro conformemente al
paragrafo 4 oppure
b) chiedere
all’autorità giurisdizionale dell’altro Stato membro di assumere la competenza
ai sensi del paragrafo 5.
2. Il paragrafo 1 è
applicabile:
a) su
richiesta di una parte o
b) su
iniziativa dell’autorità giurisdizionale o
c) su
iniziativa di un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con cui il
minore abbia un legame particolare, conformemente al paragrafo 3.
Il trasferimento della causa può tuttavia essere
effettuato su iniziativa dell’autorità giurisdizionale o su richiesta di
un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro soltanto se esso è
accettato da almeno una delle parti.
3. Si ritiene che il
minore abbia un legame particolare con uno Stato membro, ai sensi del paragrafo
1, se tale Stato membro
a) è divenuto
la residenza abituale del minore dopo che l’autorità giurisdizionale di cui al
paragrafo 1 è stata adita; o
b) è la
precedente residenza abituale del minore; o
c) è il paese
di cui il minore è cittadino; o
d) è la
residenza abituale di uno dei titolari della responsabilità genitoriale; o
e) la causa
riguarda le misure di protezione del minore legate all’amministrazione, alla
conservazione o all’alienazione dei beni del minore situati sul territorio di
questo Stato membro.
4. L’autorità
giurisdizionale dello Stato membro competente a conoscere del merito fissa un
termine entro il quale le autorità giurisdizionali dell’altro Stato membro
devono essere adite conformemente al paragrafo 1.
Decorso inutilmente tale termine, la competenza continua
ad essere esercitata dall’autorità giurisdizionale preventivamente adita ai
sensi degli articoli da 8 a 14.
5. Le autorità
giurisdizionali di quest’altro Stato membro possono accettare la competenza,
ove ciò corrisponda, a motivo delle particolari circostanze del caso,
all’interesse superiore del minore, entro 6 settimane dal momento in cui sono
adite in base al paragrafo 1, lettere a) o b). In questo caso, l’autorità
giurisdizionale preventivamente adita declina la propria competenza. In caso
contrario, la competenza continua ad essere esercitata dall’autorità
giurisdizionale preventivamente adit[a] ai sensi degli articoli da 8 a 14.
6. Le autorità
giurisdizionali collaborano, ai fini del presente articolo, direttamente ovvero
attraverso le autorità centrali nominate a norma dell’articolo 53».
Procedimento principale e questioni pregiudiziali
9 La
sig.ra D. è cittadina del Regno Unito.
10 Il
suo primo figlio è stato collocato in un istituto nel Regno Unito nel corso del
2010, in seguito a constatazioni secondo cui la sig.ra D., da un lato,
soffriva di un disturbo di personalità qualificato come «comportamento
asociale» e, dall’altro, aveva dato prova di violenza fisica verso tale figlio.
11 Mentre
risiedeva sempre in tale Stato membro, la sig.ra D. si è sottoposta, il 27
agosto 2014, a un esame prenatale organizzato dalle autorità di tutela
dell’infanzia del suo luogo di residenza in previsione della nascita del suo
secondo figlio, R., e ciò in ragione dei suoi precedenti medici e familiari. Da
questo esame è emerso fra l’altro che la sig.ra D. aveva dato prova di
affetto verso il suo primo figlio, che attendeva la nascita di R. con un
atteggiamento positivo e che aveva preso provvedimenti in previsione di tale
nascita e che, in particolare, aveva manifestato la volontà di collaborare con
gli assistenti sociali al riguardo. Le autorità competenti hanno tuttavia
ritenuto che, al momento della nascita, R. avrebbe dovuto essere affidato a una
famiglia affidataria, nell’attesa dell’avvio di una procedura di adozione da
parte di terzi.
12 La
sig.ra D. ha quindi risolto il proprio contratto di locazione e ha venduto
i propri beni nel Regno Unito, per stabilirsi in Irlanda il 29 settembre 2014.
R. è nato in tale secondo Stato membro il 25 ottobre 2014. Entrambi vi
risiedono da allora.
13 Poco
dopo la nascita di R., l’Agenzia ha chiesto alla District Court (Corte
distrettuale, Irlanda) competente di ordinare che il minore fosse oggetto di un
provvedimento di affido. Tale domanda è stata tuttavia respinta con la
motivazione che le prove de relato provenienti dal Regno Unito sulle quali
l’Agenzia si basava erano irricevibili.
14 La Circuit Court (Corte
circondariale, Irlanda) competente, adita con un appello presentato
dall’Agenzia, ha disposto l’affidamento provvisorio di R. presso una famiglia
affidataria. Tale misura è stata regolarmente rinnovata da allora. La
sig.ra D. ha tuttavia ottenuto il beneficio del diritto di visita regolare
a suo figlio, di cui ella ha usufruito.
15 L’Agenzia
ha peraltro chiesto alla High Court (Alta Corte, Irlanda) che il giudizio nel
merito fosse trasferito alla High Court of Justice (England & Wales) [Alta
Corte di Giustizia (Inghilterra e Galles), Regno Unito], in applicazione
dell’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003. Tale domanda è stata
sostenuta dal tutore ad litem di R.
16 Con
una sentenza del 26 marzo 2015, la High Court (Alta Corte) ha autorizzato l’Agenzia
a chiedere alla suddetta autorità giurisdizionale di esercitare la sua
competenza riguardo al caso di cui trattasi.
17 La
sig.ra D. ha chiesto di essere autorizzata ad appellarsi avverso tale
sentenza direttamente dinanzi alla Supreme Court (Corte Suprema, Irlanda), che
ha accolto la sua richiesta, dopo aver sentito le parti.
18 Nella
sua decisione di rinvio, la
Supreme Court (Corte Suprema) si chiede, innanzitutto, se
l’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003 sia applicabile a un caso
avente ad oggetto una procedura di affidamento avviata sulla base del diritto
pubblico, come quello con cui è adito, malgrado il fatto che, attualmente,
nessuna procedura sia pendente nel Regno Unito e che una dichiarazione di
competenza delle autorità giurisdizionali di tale Stato membro necessiti
quindi, a valle, che le autorità di tutela dell’infanzia di detto Stato membro
accettino di prendere in carico il caso di R., avviando una simile procedura
sulla base del loro diritto interno.
19 Inoltre,
il giudice del rinvio si interroga su come interpretare la nozione di
«interesse superiore del minore» enunciata all’articolo 15 del regolamento
n. 2201/2003. Secondo detto organo, tale articolo non esige che il giudice
normalmente competente a conoscere di un determinato caso proceda, qualora
preveda di trasferirlo a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro
che reputi più indicata a conoscerne, a un esame completo dell’interesse
superiore del minore. Lo stesso ritiene che il giudice di norma competente
debba piuttosto eseguire una valutazione sommaria di tale questione, alla luce
del principio secondo cui è nell’interesse superiore del minore che sia
l’autorità giurisdizionale più indicata a valutare la situazione a procedervi,
con l’obbligo per l’organo giurisdizionale dell’altro Stato membro di
effettuare un’analisi più approfondita.
20 Infine,
il giudice del rinvio si interroga sugli elementi di cui tenere conto
nell’ambito di una tale valutazione sommaria. A tal riguardo, egli sottolinea
che del tutto legittimamente la sig.ra D. ha lasciato il Regno Unito per
stabilirsi in Irlanda prima della nascita di R., pur chiedendosi se non sia
comunque possibile tenere conto del fatto che il suo trasferimento è stato
motivato dal timore che il figlio le fosse sottratto dai servizi di tutela
dell’infanzia del primo di tali Stati membri.
21 In
tale contesto, la
Supreme Court (Corte Suprema) ha deciso di sospendere il
procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se
l’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003 si applichi alle domande di
diritto pubblico in materia di cura dei minori presentate da un’autorità locale
in uno Stato membro, qualora, se il giudice di un altro Stato membro si
dichiara competente, si renda necessario l’avvio di un procedimento distinto su
iniziativa di un organo differente ai sensi di un ordinamento nazionale
diverso, ed eventualmente, se non probabilmente, vertente su circostanze di
fatto diverse.
2) In caso
affermativo, in che misura, eventualmente, un organo giurisdizionale dovrebbe
tenere conto del verosimile impatto di una domanda ai sensi dell’articolo 15,
se accolta, sulla libera circolazione dei soggetti interessati.
3) Qualora
l’“interesse superiore del minore”, di cui all’articolo 15, paragrafo 1, del
regolamento n. 2201/2003, si riferisca unicamente alla decisione relativa
al foro competente, quali fattori relativi a tale nozione un organo
giurisdizionale possa prendere in considerazione, che non siano già stati
esaminati al fine di stabilire se un altro giudice sia “più adatto”.
4) Se un
giudice, ai sensi dell’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003, possa
prendere in considerazione il diritto sostanziale, le norme procedurali o la
prassi giurisprudenziale dello Stato membro di cui trattasi.
5) In che
misura un giudice nazionale, ai fini dell’articolo 15 del regolamento
n. 2201/2003, dovrebbe tenere conto delle circostanze specifiche della
fattispecie, ivi compresa l’intenzione della madre di sottrarsi ai servizi
sociali del suo Stato di residenza, e quindi di dare alla luce il figlio in un
altro paese con un sistema di servizi sociali che considera a lei più
favorevoli.
6) Quali siano
precisamente gli elementi che un organo giurisdizionale nazionale deve prendere
in considerazione per stabilire quale giudice sia il più adatto a esaminare il
caso».
Procedimento dinanzi alla Corte
22 Il
giudice del rinvio ha chiesto che la causa beneficiasse del procedimento
pregiudiziale d’urgenza previsto dall’articolo 23 bis dello Statuto della
Corte di giustizia dell’Unione europea e dall’articolo 107 del regolamento di
procedura della Corte.
23 Il
14 agosto 2015, la Corte
ha deciso, dopo aver sentito l’avvocato generale, di non accogliere tale
domanda, dopo aver rilevato che le circostanze esposte a supporto della stessa
non dimostravano l’urgenza richiesta per giustificare l’applicazione di detto
procedimento.
24 È
stato disposto, tuttavia, che detta causa fosse decisa in via prioritaria, in
applicazione dell’articolo 53, paragrafo 3, del regolamento di procedura.
Sulle domande di riapertura della fase orale
25 In
seguito alla presentazione delle conclusioni dell’avvocato generale il 16
giugno 2016, l’Agenzia e l’Irlanda hanno chiesto, con atti depositati presso la
cancelleria della Corte, rispettivamente, il 5 ed il 19 agosto 2016, che fosse
disposta la riapertura della fase orale del procedimento, facendo valere la
necessità di chiarire la presentazione del quadro procedurale della controversia
oggetto del procedimento principale, come effettuata dal giudice del rinvio.
26 A
tal riguardo, l’articolo 83 del regolamento di procedura prevede che la Corte possa, sentito
l’avvocato generale, disporre in qualsiasi momento la riapertura della fase
orale del procedimento, in particolare se non si ritiene sufficientemente
edotta.
27 Nel
caso di specie, la Corte,
sentito l’avvocato generale, si ritiene tuttavia sufficientemente edotta, dato
che gli elementi necessari ai fini della decisione sono presenti nel fascicolo
e che gli interessati hanno potuto prendere posizione al riguardo sia per
iscritto che oralmente. Non occorre, pertanto, disporre la riapertura della
fase orale del procedimento.
Sulle questioni pregiudiziali
Sulla prima questione
28 Con
la prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 15
del regolamento n. 2201/2003 debba essere interpretato nel senso che si
applica in presenza di un ricorso in materia di tutela dei minori presentato
sulla base del diritto pubblico dalla competente autorità di uno Stato membro,
come nel procedimento principale, qualora la dichiarazione di competenza di un
organo giurisdizionale di un altro Stato membro necessiti, a valle, dell’avvio,
da parte di un’autorità di tale altro Stato membro, ai sensi del suo diritto
interno e alla luce di circostanze di fatto eventualmente diverse, di un
procedimento distinto da quello avviato nel primo Stato membro.
29 Innanzitutto,
occorre rilevare, da un lato, che l’articolo 15 del regolamento
n. 2201/2003 rientra nella sezione 2 del capo II di detto regolamento, il
quale stabilisce un insieme di regole di competenza nelle cause in materia di
responsabilità genitoriale, e, dall’altro, che tale articolo prevede una regola
di competenza specifica e derogatoria alla regola di competenza generale che
designa le autorità giurisdizionali del luogo di residenza abituale del minore
come giudici competenti a conoscere del merito di tali casi, enunciata
all’articolo 8 del medesimo regolamento.
30 Tenuto
conto dell’impianto sistematico della sezione 2 del capo II del regolamento
n. 2201/2003 e della posizione occupata dall’articolo 15, si deve
considerare che l’ambito di applicazione materiale di tale articolo è lo stesso
di quello di tutte le regole di competenza enunciate in detta sezione e, in
particolare, dell’articolo 8 di detto regolamento (v., in tal senso, sentenza
del 19 novembre 2015, P, C‑455/15 PPU, EU:C:2015:763, punto 44).
31 A
tal riguardo, è vero che dalla formulazione dell’articolo 1, paragrafi 1 e 2,
del regolamento n. 2201/2003 risulta che tali regole di competenza si
applicano alle «materie civili» relative all’attribuzione, all’esercizio, alla
delega ed alla revoca totale o parziale della responsabilità genitoriale, come
definita all’articolo 2, punto 7, del medesimo regolamento.
32 Tuttavia,
la Corte ha già
dichiarato, a più riprese, che le regole di competenza previste dal regolamento
n. 2201/2003 in materia di responsabilità genitoriale devono essere interpretate,
alla luce del considerando 5 di tale regolamento, nel senso che si applicano a
cause in materia di responsabilità genitoriale aventi ad oggetto misure di
protezione del minore, anche nel caso in cui queste ultime siano considerate,
ai sensi dell’ordinamento interno di uno Stato membro, rientranti nel diritto
pubblico (v., in tal senso, sentenze del 27 novembre 2007, C, C‑435/06,
EU:C:2007:714, punti 34 e da 50 a 51; del 2 aprile 2009, A, C‑523/07,
EU:C:2009:225, punti 24 e da 27 a 29, nonché del 26 aprile 2012, Health Service
Executive, C‑92/12 PPU, EU:C:2012:255, punti 60 e 61).
33 Da
quanto precede deriva che l’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003 si
applica nel caso di un ricorso in materia di tutela dei minori presentato sulla
base del diritto pubblico dalla competente autorità di uno Stato membro e
avente ad oggetto l’adozione di misure relative alla responsabilità
genitoriale.
34 Inoltre,
riguardo alla questione se l’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003
possa essere applicato nel caso in cui la dichiarazione di competenza di un
organo giurisdizionale di un altro Stato membro necessiti, a valle, dell’avvio,
da parte di un’autorità di tale altro Stato membro, ai sensi del suo diritto
interno e alla luce di circostanze di fatto eventualmente diverse, di un
procedimento distinto da quello avviato nel primo Stato membro, occorre
sottolineare che dal paragrafo 1 di detto articolo risulta che una
dichiarazione di questo tipo è subordinata alla condizione che l’organo
giurisdizionale di cui trattasi sia stato adito con una domanda presentata o
dalle parti in causa o dal giudice competente di tale primo Stato membro.
35 Per
contro, non risulta né da tale articolo né da alcun altro articolo del
regolamento n. 2201/2003 che una siffatta domanda, presentata dalle parti
in causa o dal giudice di uno Stato membro di norma competente, sia soggetta a
una condizione procedurale che si aggiunga a quella indicata al punto
precedente.
36 Ciò
posto, dato che una norma di procedura nazionale secondo cui la dichiarazione
di competenza di un organo giurisdizionale di un altro Stato membro necessita,
a valle, dell’avvio, da parte di un’autorità di tale Stato membro, di un
procedimento distinto da quello avviato nel primo Stato membro, può essere
messa in atto solo in seguito alla decisione con cui il giudice di tale primo
Stato membro di norma competente ha chiesto il trasferimento del caso a un
organo giurisdizionale di un altro Stato membro in applicazione del paragrafo 1
dell’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003 e alla decisione mediante
cui quest’altro organo giurisdizionale si è dichiarato competente sulla base
del paragrafo 5 del medesimo articolo, essa non può ritenersi ostativa
all’adozione di tali decisioni.
37 Inoltre,
l’articolo 15 del regolamento n. 2201/2003 non osta a che l’avvio di un
procedimento distinto da parte dell’autorità dell’altro Stato membro induca,
eventualmente, l’organo giurisdizionale di tale altro Stato membro a tenere
conto di circostanze di fatto diverse da quelle che avrebbero potuto essere
considerate dal giudice inizialmente competente. Al contrario, una simile
ipotesi attiene al meccanismo di trasferimento a un organo giurisdizionale più
adatto istituito da tale articolo.
38 Per
i suddetti motivi, alla prima questione occorre rispondere che l’articolo 15
del regolamento n. 2201/2003 deve essere interpretato nel senso che si
applica in presenza di un ricorso in materia di tutela dei minori presentato
sulla base del diritto pubblico dalla competente autorità di uno Stato membro e
avente ad oggetto l’adozione di misure relative alla responsabilità
genitoriale, come quello di cui al procedimento principale, qualora la
dichiarazione di competenza di un organo giurisdizionale di un altro Stato membro
necessiti, a valle, dell’avvio, da parte di un’autorità di tale altro Stato
membro, ai sensi del suo diritto interno e alla luce di circostanze di fatto
eventualmente diverse, di un procedimento distinto da quello avviato nel primo
Stato membro.
Sulle terza, sulla quarta e sulla sesta questione
39 Con
la terza, la quarta e la sesta questione, il giudice del rinvio chiede in
sostanza come interpretare e articolare le nozioni di autorità giurisdizionale
«più adatta» e di «interesse superiore del minore» di cui all’articolo 15,
paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003.
40 L’articolo
15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 prevede che le autorità
giurisdizionali di uno Stato membro competenti a conoscere del merito di un
caso possono chiedere il trasferimento di tale caso o di una sua parte
specifica a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale
il minore abbia un legame particolare, ove ritengano che quest’ultima sia più
adatta a trattarla e ove ciò corrisponda all’interesse superiore del minore.
41 Poiché
le nozioni di autorità giurisdizionale «più adatta» e di «interesse superiore
del minore» ai sensi di tale disposizione non sono definite da alcun’altra
disposizione del regolamento n. 2201/2003, occorre interpretarle tenendo
conto del contesto nel quale si collocano e degli obiettivi perseguiti da detto
regolamento.
42 Si
deve preliminarmente osservare che, a termini del considerando 12 del
regolamento n. 2201/2003, le regole di competenza dettate da quest’ultimo
in materia di responsabilità genitoriale sono ispirate all’interesse superiore
del minore.
43 La
necessità che il trasferimento di un caso a un’autorità giurisdizionale di un
altro Stato membro corrisponda all’interesse superiore del minore costituisce,
come sostanzialmente rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 70 delle sue
conclusioni, un’espressione del principio cardine su cui, da un lato, si è
basato il legislatore nella concezione di tale regolamento e che, dall’altro,
deve guidare la sua attuazione nelle cause in materia di responsabilità
genitoriale ad esso assoggettate (v., in tal senso, sentenze dell’11 luglio
2008, Rinau, C‑195/08 PPU, EU:C:2008:406, punto 51; del 1° ottobre
2014, E., C‑436/13, EU:C:2014:2246, punto 45, e del 12 novembre 2014, L, C‑656/13,
EU:C:2014:2364, punto 48).
44 A
tal riguardo, si deve altresì rilevare che, nel contesto del regolamento
n. 2201/2003, la considerazione dell’interesse superiore del minore è
volta a garantire il rispetto dei diritti fondamentali del bambino, come si
evince dal considerando 33 di tale regolamento (v., in tal senso, sentenze del
23 dicembre 2009, Detiček, C‑403/09 PPU, EU:C:2009:810, punti da 53 a 55,
e del 5 ottobre 2010, McB., C‑400/10 PPU, EU:C:2010:582, punto 60).
45 Al
fine di garantire che sia preso in considerazione l’interesse superiore del
minore in sede di attuazione delle regole di competenza sancite dal regolamento
n. 2201/2003 in materia di responsabilità genitoriale, il legislatore
dell’Unione si è avvalso, come risulta dal considerando 12 di tale regolamento,
del criterio di vicinanza.
46 In
forza di tale criterio, la competenza delle autorità giurisdizionali degli
Stati membri in materia di responsabilità genitoriale è di norma determinata,
conformemente all’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003,
dal luogo di residenza abituale del minore alla data in cui esse sono adite.
47 Tuttavia,
l’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 consente il
trasferimento di un determinato caso a un’autorità giurisdizionale di uno Stato
membro diverso da quello a cui appartiene l’autorità giurisdizionale di norma
competente, fermo restando che, come risulta dal considerando 13 del medesimo
regolamento, un siffatto trasferimento deve rispondere a condizioni specifiche,
da un lato, e può avvenire solo in casi eccezionali, dall’altro.
48 Pertanto,
la regola del trasferimento a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato
membro sancita all’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003
costituisce una regola di competenza speciale e derogatoria rispetto a quella
di competenza generale enunciata all’articolo 8, paragrafo 1, di tale
regolamento, cosicché essa dev’essere interpretata restrittivamente (v., per
analogia, sentenze del 23 dicembre 2009, Detiček, C‑403/09 PPU,
EU:C:2009:810, punto 38, e del 21 ottobre 2015, Gogova, C‑215/15,
EU:C:2015:710, punto 41).
49 Ciò
posto, l’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 dev’essere
interpretato nel senso che l’autorità giurisdizionale di uno Stato membro
normalmente competente a conoscere di una controversia deve, per poter
chiederne il trasferimento a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato
membro, riuscire a contrastare la forte presunzione in favore del mantenimento
della propria competenza derivante da tale regolamento, come rilevato
dall’avvocato generale al paragrafo 90 delle sue conclusioni.
50 Più
in particolare, occorre ricordare, in primo luogo, che, ai sensi dell’articolo
15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003, il trasferimento di un caso
in materia di responsabilità genitoriale, da parte di un’autorità
giurisdizionale di uno Stato membro, può essere effettuato unicamente in favore
di un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore
interessato abbia un «legame particolare».
51 Al
fine di dimostrare la sussistenza di un siffatto legame in un determinato caso,
occorre fare riferimento agli elementi elencati, in modo tassativo,
all’articolo 15, paragrafo 3, lettere da a) ad e), del regolamento
n. 2201/2003. Ne consegue che i casi privi di tali elementi devono essere
ab origine esclusi dal meccanismo di trasferimento.
52 Ebbene,
si deve constatare che tali elementi attestano tutti – se non in modo esplicito,
quantomeno dal punto di vista sostanziale – una vicinanza tra il minore
interessato dal caso e uno Stato membro diverso da quello cui appartiene
l’autorità giurisdizionale competente a conoscere dello stesso sulla base
dell’articolo 8, paragrafo 1, di tale regolamento.
53 Infatti,
i primi due elementi riguardano la residenza acquisita dal minore nell’altro
Stato membro interessato anteriormente o successivamente all’adizione
dell’autorità giurisdizionale di norma competente. Il terzo elemento riguarda
la cittadinanza di tale minore. Il quarto elemento fa derivare, nei casi
pertinenti, il legame di detto minore con l’altro Stato membro in ragione dei
beni che questi detiene nel suo territorio. Infine, il quinto elemento verte
sul legame di vicinanza che il minore ha con un determinato Stato a motivo dei
suoi parenti.
54 Alla
luce della natura dei suddetti elementi, si deve osservare che, in sede di
applicazione dell’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 a
un determinato caso, l’autorità giurisdizionale competente deve comparare
l’entità e l’intensità del legame di vicinanza «generale» che lo connette al
minore interessato, ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 2, di detto
regolamento, con quelle del legame di vicinanza «particolare» attestato da uno
o più degli elementi enunciati all’articolo 15, paragrafo 3, di tale
regolamento e sussistenti, nel caso di specie, tra tale minore e determinati
altri Stati membri.
55 Ciò
posto, l’esistenza di un «legame particolare» ai sensi dell’articolo 15,
paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003, pertinente alla luce delle
circostanze del caso, tra il minore e un altro Stato membro non pregiudica
necessariamente, di per sé, la questione relativa a se, oltre a ciò,
un’autorità giurisdizionale di detto altro Stato membro sia «più adatta a
trattare il caso» rispetto al giudice competente, ai sensi di tale
disposizione, né tantomeno, in senso affermativo, la questione se il
trasferimento del caso a tale autorità giurisdizionale corrisponda all’interesse
superiore del minore.
56 Pertanto,
spetta in secondo luogo ancora all’autorità giurisdizionale competente
stabilire se, all’interno dell’altro Stato membro con cui il minore detiene un
legame particolare, esista un’autorità giurisdizionale più adatta a trattare il
caso.
57 A
tal fine, il giudice competente deve stabilire se il trasferimento del caso a
tale altra autorità giurisdizionale sia idoneo ad apportare un valore aggiunto
reale e concreto, per quanto riguarda l’adozione di una decisione riguardante
il minore, rispetto all’ipotesi del suo mantenimento davanti ad esso. In tale
contesto può tenere conto, fra gli altri elementi, delle norme di procedura
dell’altro Stato membro, come quelle applicabili alla raccolta delle prove necessarie
al trattamento del caso. Per contro, il giudice competente non dovrebbe
prendere in considerazione, ai fini di una tale valutazione, il diritto
sostanziale di detto altro Stato membro che sarebbe eventualmente applicabile
da parte dell’autorità giurisdizionale di quest’ultimo, nell’ipotesi in cui il
caso le fosse trasferito. Infatti, una considerazione siffatta contrasterebbe
con i principi della fiducia reciproca tra Stati membri e del reciproco
riconoscimento delle decisioni giudiziarie sui quali si basa il regolamento
n. 2201/2003 (v., in tal senso, sentenze del 23 dicembre 2009, Detiček, C‑403/09 PPU,
EU:C:2009:810, punto 45, nonché del 15 luglio 2010, Purrucker, C‑256/09,
EU:C:2010:437, punti 70 e 71).
58 In
terzo e ultimo luogo, la necessità che il trasferimento corrisponda
all’interesse superiore del minore implica che il giudice competente si
accerti, alla luce delle circostanze concrete del caso, che il trasferimento da
esso previsto in favore di un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro
non rischi di ripercuotersi negativamente sulla situazione del minore
interessato.
59 A
tal fine, il giudice competente deve valutare l’eventuale incidenza negativa
che un simile trasferimento potrebbe avere sui rapporti affettivi, familiari e
sociali del minore interessato dal caso o sulla situazione materiale di
quest’ultimo.
60 In
tale contesto, il giudice competente può altresì decidere, sulla base
dell’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003, di chiedere
il trasferimento non già dell’intero caso ma soltanto di una parte specifica
del medesimo, qualora ciò sia giustificato dalle circostanze che lo
caratterizzano. Una simile facoltà può, in particolare, essere contemplata ove
il legame di vicinanza con un altro Stato membro non riguardi direttamente il
minore in quanto tale, bensì uno dei titolari della responsabilità genitoriale,
per il motivo enunciato all’articolo 15, paragrafo 3, lettera d), del
regolamento n. 2201/2003.
61 Alla
luce delle considerazioni sin qui svolte, occorre risolvere la terza, la quarta
e la sesta questione dichiarando che l’articolo 15, paragrafo 1, del
regolamento n. 2201/2003 deve essere interpretato nel senso che:
– per
poter stabilire che un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il
quale il minore ha un legame particolare è più adatta, il giudice competente di
uno Stato membro deve accertarsi che il trasferimento del caso a detta autorità
giurisdizionale sia idoneo ad apportare un valore aggiunto reale e concreto al
trattamento dello stesso, in particolare tenendo conto delle norme di procedura
applicabili in detto altro Stato membro;
– per
poter stabilire che un siffatto trasferimento corrisponde all’interesse
superiore del minore, il giudice competente di uno Stato membro deve in
particolare accertarsi che tale trasferimento non rischi di ripercuotersi
negativamente sulla situazione del minore.
Sulla seconda e sulla quinta questione
62 Con
la seconda e la quinta questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza se
l’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 debba essere
interpretato nel senso che il giudice competente di uno Stato membro deve
tenere conto, in sede di attuazione di tale disposizione in un determinato caso
in materia di responsabilità genitoriale, dell’incidenza di un possibile
trasferimento di tale caso a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato
membro sul diritto di libera circolazione delle persone interessate o del
motivo per il quale la madre del minore interessato si sia avvalsa di questo
diritto, prima che detto giudice fosse adito.
63 A
tal riguardo, si deve ricordare che, come osservato al punto 42 della presente
sentenza, la prescrizione prevista all’articolo 15, paragrafo 1, del
regolamento n. 2201/2003 è ispirata, analogamente alle altre regole di
competenza previste da tale regolamento in materia di responsabilità
genitoriale, all’interesse superiore del minore, e che la questione relativa a
se, in un caso determinato, il trasferimento del caso corrisponda a detto
interesse superiore implica in particolare, come osservato al punto 58 della
presente sentenza, la verifica che un tale trasferimento non rischi di
ripercuotersi negativamente sulla situazione del minore interessato.
64 Ne
deriva che il rischio di ripercussioni negative di un possibile trasferimento
del caso sul diritto di libera circolazione del minore interessato fa parte
degli elementi che devono essere presi in considerazione in sede di attuazione
dell’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003.
65 Per
contro, le considerazioni relative ad altre persone interessate dal caso non
sono destinate, in via di principio, a essere prese in considerazione, salvo
che siano anch’esse rilevanti al fine di valutare il suddetto rischio per il
minore.
66 Di
conseguenza, l’eventuale incidenza di un siffatto trasferimento sul diritto
alla libera circolazione delle altre persone interessate, ivi inclusa la madre
del minore di cui trattasi, non può essere presa in considerazione dal giudice
competente, salvo che sia tale da ripercuotersi in modo negativo sulla
situazione di tale minore. Lo stesso vale per il motivo per il quale la madre
del minore si è avvalsa del suo diritto di libera circolazione prima che fosse
adito il giudice competente.
67 Alla
seconda e alla quinta questione occorre pertanto rispondere che l’articolo 15,
paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 deve essere interpretato nel
senso che il giudice competente di uno Stato membro non deve tenere conto, in
sede di attuazione di tale disposizione in un determinato caso in materia di
responsabilità genitoriale, né dell’incidenza di un possibile trasferimento di
detto caso a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro sul diritto
di libera circolazione delle persone interessate diverse dal minore
interessato, né del motivo per il quale la madre di tale minore si è avvalsa di
tale diritto, prima che detto giudice fosse adito, salvo che considerazioni di
questo tipo siano tali da ripercuotersi in modo negativo sulla situazione di
tale minore.
Sulle spese
68 Nei
confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce
un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire
sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni
alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione)
dichiara:
1) L’articolo 15
del regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003,
relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in
materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il
regolamento (CE) n. 1347/2000, deve essere interpretato nel senso che si
applica in presenza di un ricorso in materia di tutela dei minori presentato
sulla base del diritto pubblico dalla competente autorità di uno Stato membro e
avente ad oggetto l’adozione di misure relative alla responsabilità
genitoriale, come quello di cui al procedimento principale, qualora la
dichiarazione di competenza di un organo giurisdizionale di un altro Stato
membro necessiti, a valle, dell’avvio, da parte di un’autorità di tale altro
Stato membro, ai sensi del suo diritto interno e alla luce di circostanze di
fatto eventualmente diverse, di un procedimento distinto da quello avviato nel
primo Stato membro.
2) L’articolo 15,
paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 deve essere interpretato nel
senso che:
– per
poter stabilire che un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il
quale il minore ha un legame particolare è più adatta, il giudice competente di
uno Stato membro deve accertarsi che il trasferimento del caso a detta autorità
giurisdizionale sia idoneo ad apportare un valore aggiunto reale e concreto al
trattamento dello stesso, in particolare tenendo conto delle norme di procedura
applicabili in detto altro Stato membro;
– per
poter stabilire che un siffatto trasferimento corrisponde all’interesse
superiore del minore, il giudice competente di uno Stato membro deve in
particolare accertarsi che tale trasferimento non rischi di ripercuotersi
negativamente sulla situazione del minore.
3) L’articolo 15,
paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 deve essere interpretato nel
senso che il giudice competente di uno Stato membro non deve tenere conto, in
sede di attuazione di tale disposizione in un determinato caso in materia di
responsabilità genitoriale, né dell’incidenza di un possibile trasferimento di
detto caso a un’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro sul diritto
di libera circolazione delle persone interessate diverse dal minore
interessato, né del motivo per il quale la madre di tale minore si è avvalsa di
tale diritto, prima che detto giudice fosse adito, salvo che considerazioni di
questo tipo siano tali da ripercuotersi in modo negativo sulla situazione di
tale minore.
Firme
Dal sito http://curia.europa.eu
PANOZZO,
Legge 94/2009 - Prime osservazioni alle
modifiche al TU immigrazione: il reato di ingresso e soggiorno irregolare in
Italia, (25 luglio 2009), in www.cittadinistranieri.it
Elezioni regionali – Diritto di elettorato attivo – Azione di
accertamento - giurisdizione ordinaria.
Cass., Sez. Un., 20
ottobre 2016, n. 21262
Spetta alla giurisdizione ordinaria la cognizione di una domanda, promossa
prima e al di fuori dell’avvio del procedimento elettorale, di accertamento del
diritto di elettorato attivo, asseritamene leso dalle previsioni di una legge
regionale disciplinante le modalità di attribuzione dei seggi nel consiglio
regionale, in quanto il giudice ordinario è il giudice naturale dei diritti
fondamentali e, tra questi, dei diritti politici (1).
(1) Con la sentenza in epigrafe le
Sezioni Unite della Corte di Cassazione, chiamate a pronunciarsi in sede di
regolamento preventivo di giurisdizione, hanno confermato l’orientamento
giurisprudenziale secondo cui spetta al giudice ordinario la cognizione delle
azioni aventi ad oggetto il diritto fondamentale di elettorato attivo.
Nel caso di specie, si trattava di un’azione, proposta da
alcuni cittadini dinanzi al Tribunale ordinario di Perugia, per l’accertamento
del diritto "di esercitare il proprio diritto di voto libero, eguale,
personale e diretto, così come attribuito e garantito nel suo esercizio dalla
Costituzione italiana e dalle vigenti norme di diritto internazionale
convenzionale", in relazione al quale gli attori chiedevano di
sollevare la questione di costituzionalità della legge della Regione Umbria 23
febbraio 2015, n, 4, in materia di elezione dei Consiglio regionale e del
Presidente della Giunta regionale.
Essi assumevano, infatti, che la citata legge regionale
attribuirebbe un premio di maggioranza eccedente, istituirebbe un anomalo
premio di minoranza, assegnerebbe i seggi in base ai voti del candidato e non
della lista e ripartirebbe il premio secondo criteri non conformi ai parametri
evocati.
Le Sezioni unite hanno quindi ritenuto che la cognizione di
detta controversia, promossa prima ed al di fuori dell'avvio del procedimento
elettorale per il rinnovo degli organi elettivi della Regione, spettasse alla
giurisdizione del giudice ordinario, perché il petitum sostanziale della
domanda investiva la tutela del diritto fondamentale di elettorato attivo ed il
giudice ordinario è il giudice naturale dei diritti fondamentali e, tra questi,
dei diritti politici.
Questi i passaggi fondamentali della decisione:
a) la controversia non
ricade nell'ambito della giurisdizione amministrativa sul contenzioso
elettorale, di cui agli artt. 126, 129 e 130 c.p.a., poiché la giurisdizione
che tali disposizioni assegnano al giudice amministrativo ha ad oggetto le sole
«operazioni elettorali», ossia la regolarità delle forme procedimentali di
svolgimento delle elezioni (che comprendono tutti gli atti del complesso
procedimento elettorale, dall'emanazione dei comizi elettorali sino alla
proclamazione degli eletti), rispetto alle quali i singoli vantano situazioni
soggettive che hanno consistenza di interesse legittimo, non di diritto
soggettivo;
b) né può ritenersi che
la giurisdizione del giudice amministrativo in materia elettorale di cui agli
artt. 126, 129 e 130 c.p.a. rientri tra i casi di giurisdizione esclusiva,
atteso che essa non è ricompresa nell’elenco (tassativo) di cui all’art. 133
c.p.a. e che una attribuzione al giudice amministrativo, in quest'ambito, della
giurisdizione su diritti, e diritti fondamentali, proprio in quanto derogatoria
del criterio di riparto costituzionalmente delineato dall'art. 103, primo
comma, Cost., avrebbe richiesto una legge specifica, da emanarsi peraltro
nel rispetto dei principi e dei limiti fissati dalla sentenza
costituzionale n. 204 del 2004;
c) l'appartenenza della
presente controversia alla cognizione del giudice amministrativo, infine, non
può neppure ricavarsi in via interpretativa dalla sentenza della Corte costituzionale
n. 110 del 2015 (in Foro it. 2015, parte I, col. 2618 con nota di
richiami e in Giur. cost. 2015, 3, 876 con nota di Sorrentino.), con la
quale la questione incidentale di costituzionalità relativa alla previsione di
una soglia di sbarramento per l’elezione dei rappresentanti al Parlamento
europeo è stata dichiarata inammissibile, in quanto - in quel caso - la
pronuncia di inammissibilità è stata motivata in relazione alla carenza del
requisito della pregiudizialità costituzionale, essendosi in presenza di
una domanda di accertamento astratta, incardinata al di fuori di una
determinata vicenda elettorale, e non è invece stata posta in dubbio la
giurisdizione del giudice remittente (Tribunale ordinario) e dunque la sua
legittimazione a proporre la questione di costituzionalità;
d) pertanto, deve ritenersi
attribuita all'autorità giudiziaria ordinaria la cognizione delle controversie
nelle quali si fanno valere posizioni di diritto soggettivo, quali quelle che
si riconnettono al diritto di elettorato attivo o che concernono
ineleggibilità, decadenze e incompatibilità;
e) la circostanza che
potrebbe – in ipotesi - non esservi spazio, per un'azione di accertamento mero
del contenuto del diritto di voto, per mancanza di interesse ad agire, non è
questione che rileva ai fini della individuazione del giudice munito di potestas
iudicandi, ma attiene, semmai, al diverso ambito ammissibilità della causa
così come proposta, che spetta al giudice adito valutare.
Per completezza si segnala:
1) Per quanto attiene al riparto di giurisdizione tra
autorità giudiziaria ordinaria e giudici amministrativi nell’ambito del
contenzioso elettorale (in relazione alla disciplina di cui al previgente art.
6 della legge n. 1034 del 1971), l’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato 24 novembre 2005, n. 10, in Foro it. 2006, III, 255, con nota di
richiami, la quale ha affermato che sussiste la giurisdizione del giudice
amministrativo ogniqualvolta si ricorra per l’annullamento di determinazioni
amministrative attinenti alle operazioni elettorali, ferma la spettanza al
giudice ordinario delle "controversie concernenti l’ineleggibilità, le
decadenze e le incompatibilità, ossia le questioni che vertono su diritti
soggettivi perfetti".
2) Si veda inoltre Cass., s.u., ord., 4 maggio 2004,
n. 8469, Foro it., Rep. 2004, voce Elezioni, n. 111, in termini,
nella quale la corte ha ulteriormente rilevato che la giurisdizione del giudice
ordinario non trova limitazioni o deroghe per il caso in cui la questione di
eleggibilità venga introdotta mediante impugnazione del provvedimento del
consiglio sulla convalida degli eletti, o di impugnazione dell’atto di
proclamazione, o di impugnazione del provvedimento di decadenza, perché anche
in tali ipotesi la decisione verte non sull’annullamento dell’atto
amministrativo, bensì sul diritto soggettivo perfetto inerente all’elettorato
attivo o passivo (cfr. Cass., s.u., ord., 29 luglio 2003, n. 11646, id.,
Rep. 2003, voce cit., n. 95; 12 marzo 2003, n. 3601, ibid., n. 94.
nonché Cass., s.u., 1 luglio 1992, n. 8084 – citata dalla sentenza in commento
- secondo la quale la competenza dei tribunali amministrativi regionali a
«decidere sui ricorsi concernenti controversie in materie di operazioni per le
elezioni dei consigli comunali, provinciali e regionali» si caratterizza per la
pertinenza delle operazioni "a situazioni giuridiche soggettive che hanno
la consistenza del mero interesse legittimo", e si è conseguentemente
escluso che alla giurisdizione amministrativa in tali controversie potesse
"riconoscersi carattere esclusivo", costituendo essa, piuttosto,
"una applicazione dei criteri generali di riparto della giurisdizione fra
giudice ordinario e giudice amministrativo").
3) La Corte
cost., nella sentenza n. 259 del 2009 (in Foro it. 2009, parte I, col.
3271, con nota di richiami), citata dalla sentenza in commento, resa a
proposito di una questione circa la giurisdizione in materia di diritto di
elettorato passivo e in particolare di candidature per l’elezione alla Camera
dei deputati, ha anch’essa affermato che la giurisdizione del giudice
amministrativo in materia di contenzioso elettorale non potesse essere
qualificata come giurisdizione esclusiva, occorrendo a tal fine una specifica
legge.
4) In termini non dissimili, sempre in relazione al diritto
di elettorato passivo e dunque alla diversa questione della spettanza alla
giurisdizione ordinaria dell’azione volta alla impugnazione del decreto
prefettizio che, a norma dell’art. 11 D.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235, dispone
la sospensione della carica elettiva (nella specie di sindaco) a seguito della
condanna penale dell’eletto, le Sezioni Unite si sono di recente espresse,
affermando che spetta al giudice ordinario la tutela del diritto
soggettivo di elettorato passivo, che non si esaurisce con la partecipazione
all’elezione, ma si estende allo svolgimento della funzione elettiva
(cfr. Cass. civ., ord., sez. un., 28 maggio 2015, n. 11131, in Foro it.,
2016, I, 413).
5) In tema di contenzioso elettorale in generale, si rinvia
per gli approfondimenti ivi contenuti alle news dell’US del 12
maggio 2016 e del 23
agosto 2016, concernenti rispettivamente le ordinanze di rimessione del Tar
Milano n. 841 del 28 aprile 2016 circa la mancata estensione del rito
processuale elettorale alle elezioni per la costituzione del Consiglio
metropolitano e del Cons.
St. 23 agosto 2016, n. 3673, concernente la legge elettorale per le
elezioni europee e i dubbi di costituzionalità sulla soglia di sbarramento del
4%.
Dal sito
https://www.giustizia-amministrativa.it/cdsintra/cdsintra/Notiziasingola/index.html?p=NSIGA_4160170
Il testo integrale dell’ordinanza si può leggere nel sito http://www.italgiure.giustizia.it/sncass/
sabato 29 ottobre 2016
Cause ostative al
riconoscimento della sentenza straniera di divorzio – Art. 64 lett. e) della l.
218/1995 – Sentenza di separazione personale e sentenza di divorzio
Cass. 27 ottobre 2016, n. 21741
Tra statuizione sulla
separazione personale dei coniugi e sentenza di divorzio sussistono differenze
in ordine alla causa petendi, al petitum e agli effetti (delle due pronunce)
OMISSIS
Oggetto di essa (…censura … ndA)
è l’applicabilità nella specie della causa ostativa al riconoscimento della
sentenza di divorzio emessa a C. prevista dall’art. 64 lettera e) della 1.
n. 218 del 1995. La disposizione prevede
che la pronuncia straniera non deve essere contraria ad altra sentenza
pronunciata da un giudice italiano e passata in giudicato. La ratio
consiste nell’evitare anche con riferimento alle sentenze straniere il
contrasto tra giudicati ed il bis in idem. La verifica deve essere svolta in
ordine alle parti, al rapporto dedotto in giudizio, al contenuto della decisione
ed ai suoi effetti.
L’identità delle parti è fuori
discussione. Il rapporto dedotto in entrambi i giudizi è il vincolo
matrimoniale. La situazione giuridica
dedotta nei due giudizi non è tuttavia sovrapponibile. Nella separazione
personale la parte ricorrente (o le parti) azionano il diritto a vedere
accertata l’irreversibilità della loro crisi coniugale, una verifica che
costituisce condizione necessaria ai fini dell’esercizio del diritto allo
scioglimento definitivo del vincolo, ottenibile mediante il giudizio di
divorzio. Tale ulteriore passaggio non è, tuttavia, obbligato ben potendo le
parti scegliere di mantenere in essere il vincolo, nonostante l’accertamento
giudiziale della sussistenza dei requisiti di legge per la separazione
personale. Ciò costituisce un ulteriore indicatore della diversità della causa petendi ed introduce alle più
rilevanti diversità riscontrabili in ordine al petitum ed agli effetti del giudicato separativo e divorzile. Il
provvedimento sul vincolo proprio del giudizio di separazione personale incide
sui diritti e doveri conseguenti al matrimonio, come rilevabile dal disposto
dell’art. 146 secondo comma, modificando il titolo ed il contenuto dei doveri
di assistenza propri della solidarietà coniugale. Gli effetti della statuizione
separativa non determinano però lo scioglimento del vincolo, per il quale è
necessaria la successiva pronuncia di divorzio. Quest’ultima travolge il
giudicato formatosi sul vincolo con la pronuncia di separazione e, se esteso
anche ai provvedimenti consequenziali, sostituisce definitivamente i propri a
quelli in precedenza assunti in sede di separazione personale. Ne consegue la
non assimilabilità della causa petendi,
del petitum e degli effetti delle due
pronunce sia se limitate al vincolo sia se riguardanti anche i provvedimenti
economici. Pertanto non può effettuarsi alcuna comparazione tra le sentenze,
quella emessa in Italia e quella C.na, al fine di valutare la sussistenza di un
contrasto tra giudicati. Né, con
riferimento al parametro di cui all’art. 64 lettera e) della 1. n. 218 del 1995
riveste alcuna incidenza la previsione contenuta nell’accordo separativo
omologato e riportata nel dispositivo della sentenza passata in giudicato, con
la quale si dà atto della rinuncia alla prosecuzione del giudizio di divorzio
instaurato a C.. Tale presa d’atto non costituisce l’oggetto di un accertamento
giudiziale ma la mera riproduzione di una intervenuta manifestazione di volontà
non idonea al giudicato e non comparabile ex art. 64 lettera e) 1. n. 218 del
1995. La non vincolatività della rinuncia non deriva come erroneamente ritenuto
in ricorso (ed anche nella sentenza impugnata) dalla natura di provvedimento di
volontaria giurisdizione dell’atto nel quale è contenuta, risultando invece
l’intero accordo separativo trasfuso nel dispositivo della sentenza di separazione
giudiziale, ma dalla sua peculiare
natura giuridica di atto volontario abdicativo (peraltro secondo la cronologia
dei giudizi emergente ex actis da
riferirsi ad un giudizio proposto nel 2011 presumibilmente riassunto o
reintrodotto successivamente), come tale non assimilabile ad una statuizione
giudiziale.
La decisione impugnata non ha
fatto buon governo dei principi sopra esposti avendo limitato il proprio
sindacato sul riconoscimento della sentenza c. al parametro della contraddittorietà
tra la dichiarazione di rinuncia e il giudicato separativo, senza considerare
la diversità degli effetti dei due giudizi e la non idoneità della parte di
dispositivo relativa alla rinuncia a passare in giudicato.
L’accoglimento del primo motivo
determina l’assorbimento del secondo motivo del ricorso principale e dell’unico
motivo del ricorso incidentale, rimanendo al giudice di merito, escluso il
contrasto tra giudicati, da esaminare, anche officiosamente, gli altri
parametri di riconoscimento della sentenza di divorzio c. previsti dall’art. 64 sopra citato.
La sentenza impugnata, in
conclusione, deve essere cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Perugia in
diversa composizione perché provveda anche sulle spese processuali del presente
giudizio..
OMISSIS
PANOZZO,
Legge 94/2009 - Prime osservazioni alle modifiche
al TU immigrazione: l’ ingresso ed il soggiorno (artt. 4, 4 bis, 5 e 6), il
permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo (art. 9), il
ricongiungimento familiare (art. 29), (25 luglio 2009), in www.cittadinistranieri.it
Circolare Ministero dell’Interno
– Dip. Pubblica Sicurezza 26 ottobre 2016, n. 43699, Sentenza del Consiglio di Stato, Sezione Terza, N. 4487/2015 REG.PROV.
COLL. E N. 7047/2016 REG. RIC. del 26 ottobre 2016, di conferma della sentenza
n. 060095 del 24 maggio scorso del Tar del Lazio, di annullamento del DM
6.10.2011
http://www.stranieriinitalia.it/images/circointerno27ottobre2016.pdf
venerdì 28 ottobre 2016
PANOZZO,
Il reingresso in Italia nella disciplina
dell’immigrazione, (29 giugno 2009), in www.cittadinistranieri.it
giovedì 27 ottobre 2016
La sentenza del Consiglio di Stato sul contributo per il
rilascio/rinnovo del permesso di soggiorno
Cons. di Stato, III, 26 ottobre 2016, n. 4487
La stretta interrelazione tra le competenze
legislative degli Stati membri e quelli dell’Unione, nel diritto
dell’immigrazione, rende indispensabile e sempre più frequente una
compenetrazione tra l’ordinamento eurounitario e quello nazionale, in un
processo osmotico, che induca il primo, da un lato, a recepire progressivamente
i valori di civiltà giuridica e di solidarietà sociale più elevati comuni alla
maggior parte, se non a tutti, gli Stati membri, così innalzando il livello
minimo di tutela dei diritti fondamentali dei richiedenti soggiorno (o asilo)
nell’ambito del territorio dell’Unione, e dall’altro il secondo a farsi
plasmare e conformare dai principî del diritto dell’Unione, quali enucleati
dall’attività interpretativa della Corte. [In tale ottica, aggiunge il
Collegio, “sempre più spesso la
Corte di Giustizia incide, proprio per questa stretta e indissolubile
interrelazione, anche sulla normativa dei singoli Stati che disciplina i
permessi di breve durata, come per esempio e da ultimo sulla legislazione
spagnola relativa ai permessi di breve soggiorno richiesti dai cittadini di
Stati terzi per eccezionali ragioni, laddove la Corte ha chiarito che l’art.
20 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso osta alla normativa
nazionale in forza della quale la concessione di un permesso di soggiorno viene
automaticamente negata, per il solo motivo che egli ha precedenti penali, al
cittadino di uno Stato terzo, genitore di minori cittadini dell’Unione, dei
quali ha l’affidamento esclusivo, qualora tale diniego produca la conseguenza
di costringere detti minori a lasciare il territorio dell’Unione europea (sentenza
della Corte di Giustizia del 13 settembre 2016, in C-165/14)”; e “questo
Consiglio non può che prendere atto dell’opera interpretativa della
giurisprudenza della Corte di Giustizia, tesa ad affermare la primazia del
diritto euroeunitario e a preservarne l’effetto utile dal non adeguato o non
proporzionato esercizio del potere legislativo dei singoli Stati anche nelle
(e, non di rado, per il tramite delle) materie attribuite alla loro competenza]
Qualora la Corte di Giustizia dell’Unione europea dichiari
l’incompatibilità del diritto nazionale con i Trattati e la ‘legislazione
eurounitaria’, il giudice interno – e, in particolar modo, il Consiglio di
Stato quale giudice di ultima istanza ai sensi dell’art. 267, par. 3, TFUE – è
tenuto a disapplicare o, meglio, a non applicare il diritto dello Stato
giudicato dalla Corte contrastante con i Trattati e detta ‘legislazione’
Deve essere disapplicata, per effetto della
sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 2 settembre 2015, in
C-309/14, la disposizione dell’art. 5, comma 2-ter, del d. lgs. 286/1998, nella misura in cui
fissa gli importi dei contributi richiesti per tutti i permessi di soggiorno da
un minimo di € 80,00 ad un massimo di € 200,00, in quanto costituenti nel loro
complesso un ostacolo, per il loro importo eccessivamente elevato, ai diritti
conferiti ai cittadini stranieri richiedenti i permessi UE di lungo soggiorno.
E’, conseguentemente, illegittimo il Decreto Ministeriale (Ministero
dell’Economia e delle Finanze) 6 ottobre 2011 (G.U. 31 dicembre 2011, n. 304) Contributo
per il rilascio ed il rinnovo del permesso di soggiorno, limitatamente agli articoli 1, comma 1, 2, commi 1 e 2 (nella sola
parte in cui si riferiscono al contributo di cui al precedente art.1), e 3.
Le Amministrazioni competenti devono
rideterminare l’importo dei contributi, nell’esercizio della loro
discrezionalità, in modo tale che la loro equilibrata e proporzionale
riparametrazione non costituisca un ostacolo all’esercizio dei diritti
riconosciuti dalla direttiva n. 2003/109/CE [precisa il Collegio che: a) secondo
l’effetto conformativo proprio del presente giudicato, esse ridetermineranno
con apposito decreto i contributi ora per allora; b) compete “alle predette
Amministrazioni, nel rinnovato esercizio della loro discrezionalità, stabilire,
secondo i principî dettati dal diritto nazionale ed eurounitario e in sintonia
con le competenti istituzioni europee (anche al fine di scongiurare ulteriori
procedure di infrazione da parte della Commissione), an, quando e quomodo degli eventuali rimborsi agli interessati
per le somme versate in eccedenza rispetto al dovuto”]
1. Le odierne appellate, CGIL - Confederazione Generale
Italiana del Lavoro (di qui in avanti, per brevità, CGIL) ed INCA – Istituto
Nazionale Confederale di Assistenza – CGIL (di qui in avanti, per brevità,
INCA), hanno impugnato avanti al T.A.R. per il Lazio, sede di Roma, il decreto
del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 6 ottobre 2011, adottato di
concerto con il Ministero dell’Interno e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.
304 del 31 dicembre 2011, concernente il «Contributo per il rilascio ed il
rinnovo del permesso di soggiorno».
1.1. Tale decreto è stato adottato dalle Amministrazioni, come
meglio si dirà, in attuazione degli artt. 5, comma 2-ter, e 14-bis
del d. lgs. n. 286 del 1998.
1.2. Il decreto oggetto di impugnativa ha fissato gli oneri
contributivi per il rilascio e per il rinnovo dei permessi di soggiorno nel
seguente modo:
- € 80,00 per i permessi di soggiorno di durata superiore a tre
mesi ed inferiore o pari ad un anno;
- € 100,00 per i permessi di soggiorno di durata superiore ad
un anno e inferiore o pari a due anni;
- € 200,00 per il rilascio del permesso di soggiorno CE per
soggiornanti di lungo periodo e per i richiedenti il permesso di soggiorno ai
sensi dell’art. 27, comma 1, lett. a), del decreto legislativo 25 luglio 1998,
n. 286 e successive modifiche e integrazioni.
1.3. Le odierne appellate hanno dedotto in primo grado tre
distinte censure:
a) l’illegittimità costituzionale degli artt. 5, comma
2-ter, e 14-bis del d. lgs. n. 286 del 1998, come introdotti
dall’art. 1, comma 22, lett. b) e n), della l. n. 94 del 2009, per violazione
dei principî di eguaglianza e di ragionevolezza, di capacità contributiva, di
imparzialità (artt. 3, 53 e 97 Cost.) nonché per violazione dell’art. 9 della
convenzione O.I.L. n. 143 del 1975 (artt. 10, comma 2, e 117, comma 1, Cost.);
b) la violazione dei principi di ragionevolezza,
efficienza, economicità, imparzialità e buon andamento della pubblica
amministrazione (art. 97 Cost.; art. 1 della l. n. 241 del 1990), nonché
l’eccesso di potere per l’illogicità manifesta e per sviamento;
c) la violazione e la falsa applicazione dell’art. 14-bis,
comma 2, del d. lgs. n. 286 del 1998 in ordine alla destinazione della c.d.
“quota residua” del gettito derivante dal contributo, la violazione dell’art.
97 Cost. in relazione al principio di buon andamento dell’azione
amministrativa, l’irragionevolezza e l’illogicità manifesta e l’eccesso di
potere.
1.4. Si sono costituiti nel primo grado del giudizio il
Ministero dell’Economia e delle Finanze e il Ministero dell’Interno, i quali
hanno eccepito, preliminarmente, l’inammissibilità del ricorso per il difetto
di legittimazione attiva in capo alle ricorrenti e, nel merito, l’infondatezza
delle censure proposte nel ricorso.
1.5. Con l’ordinanza n. 5290 del 20 maggio 2014 il T.A.R. per il
Lazio, sede di Roma, ritenuta preliminarmente la legittimazione attiva in capo
alle associazioni sindacali, odierne appellate, ha rimesso alla Corte di
Giustizia dell’Unione europea la questione incidentale di compatibilità con il
diritto eurounitario della normativa italiana che disciplina la materia dei
contributi previsti per il rinnovo o il rilascio dei permessi di soggiorno.
1.6. Il giudice nazionale ha in particolare investito la Corte di Giustizia, in via
interpretativa, della questione se i principî stabiliti dalla direttiva del
Consiglio n. 2003/109/CE e successive modifiche ed integrazioni, anche alla
luce dell’orientamento interpretativo già manifestato dalla Corte su analoga
questione nella sentenza del 26 aprile 2012 in C-508/10, ostino ad una
normativa, come quella delineata in Italia dall’art. 5, comma 2-ter, del
d. lgs. n. 286 del 1998, nella parte in cui dispone che la richiesta di
rilascio e di rinnovo del permesso di soggiorno è sottoposta al versamento di
un contributo, il cui importo è fissato in un minimo di € 80,00 e in un massimo
di € 200,00 con decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, di
concerto con il Ministero dell’Interno, e fissa un importo minimo del
contributo pari ad otto volte circa il costo per il rilascio di una carta di
identità nazionale.
1.7. Con la sentenza del 2 settembre 2015 in C-309/14, la Corte di Giustizia
dell’Unione europea, pronunciandosi sulla questione pregiudiziale sollevata dal
T.A.R. per il Lazio con la menzionata ordinanza n. 5290 del 20 maggio 2014, ha
affermato che la direttiva n. 2003/109/CE del 25 novembre 2003, relativa allo status
dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, osta ad
una normativa nazionale, come quella qui controversa, che impone ai cittadini
di Paesi terzi - che chiedono il rilascio o il rinnovo del permesso di
soggiorno nello Stato membro considerato - di pagare un contributo di importo
variabile tra € 80,00 ed € 200,00, in quanto tale contributo, nella misura
prevista, è sproporzionato rispetto alla finalità perseguita dalla direttiva ed
è idoneo a creare un ostacolo all’esercizio dei diritti conferiti da
quest’ultima.
1.8. Dopo la pronuncia del giudice europeo, la causa è stata
ritualmente riassunta dalle ricorrenti, ai sensi dell’art. 80 c.p.a., ed è
stata chiamata per la definizione del merito avanti al T.A.R. per l’udienza
pubblica del 1° marzo 2016, ove è stata discussa dai rispettivi difensori e
trattenuta in decisione dal Collegio di prime cure.
1.9. Il T.A.R. per il Lazio, con la sentenza n. 6095 del 24
marzo 2016, ha preso atto della pronuncia della Corte di Giustizia e ha
ritenuto la fondatezza del ricorso nella parte in cui ha dedotto la radicale
illegittimità dell’imposizione del contributo de quo, che non troverebbe
fondamento nella normativa eurounitaria nell’interpretazione datane dalla Corte
di Giustizia.
1.10. Assorbiti pertanto tutti gli altri motivi di ricorso,
aventi sostanzialmente un valore subordinato rispetto a quello accolto, il
primo giudice ha annullato l’art. 1, comma 1, l’art. 2, commi 1 e 2, nella sola
parte in cui si riferiscono al contributo di cui all’art. 1, e l’art. 3 del
D.M. 6 ottobre 2011, perché aventi tutti quale presupposto la radicale
illegittimità dell’istituzione del contributo.
2. Avverso tale sentenza e avverso la presupposta ordinanza
collegiale n. 5290 del 20 maggio 2014 del T.A.R. per il Lazio (nella parte in
cui è stata respinta l’eccezione, formulata dalle Amministrazioni resistenti in
primo grado, di inammissibilità del ricorso introduttivo per difetto di
legittimazione attiva in capo alle organizzazioni sindacali, odierne
appellate), hanno proposto appello, previa sospensione anche inaudita altera
parte, la Presidenza
del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Interno e il Ministero
dell’Economia e delle Finanze, i quali hanno chiesto, previa sospensione, la
riforma dei provvedimenti giurisdizionali qui impugnati, con conseguente
reiezione del ricorso proposto in primo grado da CGIL ed INCA.
2.1. Le Amministrazioni appellate, in particolare, hanno
dedotto due specifici motivi, che saranno di seguito singulatim
esaminati, rispettivamente relativi:
a) al difetto di legittimazione attiva in capo alle
associazioni sindacali, ricorrenti in primo grado;
b) all’erroneità dell’interpretazione che il primo giudice
ha dato della sentenza della Corte di Giustizia, estendendone gli effetti anche
alla previsione del contributo previsto per i contributi di breve durata e non,
invece, ai soli permessi UE di lungo soggiorno, gli unici disciplinati dalla
direttiva n. 2003/109/CE.
2.2. Con il decreto n. 3903 del 14 settembre 2016 il Presidente
della III Sezione, accogliendo l’istanza cautelare proposta inaudita altera
parte dalle Amministrazioni appellanti, ha sospeso l’esecutività della
sentenza impugnata ed ha fissato, contestualmente, la camera di consiglio del
13 ottobre 2016 per la trattazione collegiale dell’istanza.
2.3. Si sono costituite le associazioni sindacali, odierne
appellate, con memoria difensiva depositata il 15 settembre 2016, per resistere
all’appello proposto dalle Amministrazioni e alla domanda incidentale da esse
proposta.
2.4. È altresì intervenuta ad opponendum nel presente
giudizio di appello, con atto ex art. 97 c.p.a. depositato il 10 ottobre
2016, l’ASGI – Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, quale
associazione iscritta nel Registro delle associazioni e degli enti che svolgono
attività nel campo della lotta alle discriminazioni per razza e per origine
etnica ai sensi dell’art. 5 del d. lgs. n. 215 del 2003.
2.5. Nella camera di consiglio del 13 ottobre 2016, fissata con
il menzionato decreto presidenziale n. 3903 del 2016 per l’esame della domanda
cautelare proposta dalle Amministrazioni appellanti, il Collegio, sentite le
parti e ritenuto di poter decidere la controversia anche nel merito, ai sensi
dell’art. 60 c.p.a., ha trattenuto la causa in decisione.
3. Ritiene la
Sezione che l’appello delle Amministrazioni è infondato e
deve essere respinto.
4. Preliminarmente deve essere dichiarato inammissibile
l’intervento ad opponendum formulato dall’ASGI nel presente grado del
giudizio.
4.1. L’Adunanza plenaria di questo Consiglio, nelle sentenze n.
1 e n. 9 del 2015, ha di recente ribadito che la valutazione della
legittimazione dell’intervento nel giudizio di appello deve essere compiuta
avendo riguardo alla posizione che avrebbe assunto la parte rispetto alla lite
in primo grado.
4.2. Conseguentemente, rispetto all’appello proposto
dall’Amministrazione, l’intervento in appello ha la stessa funzione e incontra
gli stessi limiti dell’intervento ad adiuvandum, nel primo grado di
giudizio, rispetto al ricorso proposto contro il provvedimento
dell’Amministrazione.
4.3. È principio ormai consolidato nella giurisprudenza di
questo Consiglio, e proprio riaffermato nelle due pronunce citate dell’Adunanza
plenaria, che l’intervento ad adiuvandum in primo grado presuppone la
titolarità di una posizione giuridica dipendente da quella dedotta dal
ricorrente in giudizio, ad essa accessoria (Cons. St., Ad. plen., n. 1 del
2015), e non autonoma, poiché in questa seconda ipotesi l’interveniente ad
adiuvandum, titolare di posizione autonoma, avrebbe dovuto impugnare il
provvedimento ritenuto lesivo, non potendo eludere con l’intervento ad
adiuvandum il termine decadenziale previsto dalla legge per contestare gli
atti illegittimi (v., ex plurimis, Cons. St., sez. IV, 29 febbraio 2016,
n. 853).
4.4. Questo principio rileva anche per l’intervento ad
opponendum nel secondo grado di giudizio rispetto all’appello
dell’Amministrazione, corrispondente ad un non consentito intervento ad
adiuvandum in primo grado per il soggetto titolare di posizione autonoma.
4.5. Ne segue che l’intervento ad opponendum dell’ASGI,
quale titolare di un interesse, quantomeno morale, autonomo e non già
dipendente rispetto a quello fatto valere in primo grado dalle ricorrenti CGIL
ed INCA, deve essere dichiarato inammissibile.
5. Ciò premesso in via preliminare, quanto alla corretta
instaurazione del contraddittorio nel presente grado di giudizio, occorre ora
esaminare nel merito i due motivi proposti dalla Presidenza del Consiglio dei
Ministri, dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dal Ministero
dell’Interno.
6. Con il primo motivo (pp. 11-15 del ricorso) le
Amministrazioni appellanti censurano l’ordinanza collegiale n. 5290 del 20
maggio 2014 del T.A.R. per il Lazio nella parte in cui è stata respinta
l’eccezione, formulata dalle stesse in primo grado, di inammissibilità del
ricorso introduttivo per il difetto di legittimazione attiva in capo alle
organizzazioni sindacali, odierne appellate.
6.1. Nel costituirsi avanti al T.A.R. per il Lazio, le
Amministrazioni resistenti avevano eccepito, in particolare, che la situazione
soggettiva azionata dalle organizzazioni sindacali – e, cioè, il
diritto/interesse a non soggiacere al pagamento di un contributo che si assume
essere illegittimo e, comunque, “iniquo” e “sproporzionato” per il rilascio e/o
il rinnovo del permesso di soggiorno – configurerebbe un diritto individuale
appartenente non al sindacato CGIL e nemmeno al patronato INCA, ma ai singoli
cittadini stranieri, dei quali tali organizzazioni non hanno la rappresentanza
né legale né volontaria.
6.2. Il primo giudice, disattendendo l’eccezione nella citata
ordinanza collegiale n. 5290 del 20 maggio 2014, ha invece attribuito decisiva
rilevanza alle finalità statutarie perseguite da tali organizzazioni e, cioè, a
quelle inerenti alla tutela degli interessi collettivi della categoria degli
stranieri extracomunitari.
6.3. Questa conclusione è tuttavia contestata dalle odierne
appellanti che, nel richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale
secondo cui il sindacato non può agire in giudizio per far valere interessi
propri degli associati, rilevano in senso contrario che la situazione giuridica
soggettiva azionata in primo grado configurerebbe, con ogni evidenza, un
diritto individuale che non appartiene alle organizzazioni sindacali, ma ai
singoli cittadini stranieri, dei quali le medesime organizzazioni sindacali non
hanno la rappresentanza né legale né volontaria.
6.4. Nel caso di specie, quindi, le organizzazioni sindacali,
odierne appellate, avrebbero sostanzialmente agito quali “sostituti
processuali” dei singoli cittadini extracomunitari, al di fuori dei casi
previsti dalla legge (art. 81 c.p.c.), per tutelare situazioni soggettive di
cui questi sono titolari propri ed esclusivi e, in particolare, il diritto di
non soggiacere a contributi “iniqui” o “sproporzionati”.
6.5. Contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice,
infatti, gli obiettivi che si prefigge la CGIL, a norma dell’art. 2 del suo Statuto,
sarebbero di per sé inidonei a fondarne la legittimazione ad agire nel presente
giudizio, poiché la stessa legittimazione ad agire non può essere rimessa ad
una mera autoqualificazione formale statutaria, ma deve essere stabilita
esclusivamente in base all’effettiva natura della situazione soggettiva di cui
si lamenta la lesione che, nella specie, avrebbe indubbia portata individuale.
6.6. Al più, deducono le odierne appellanti, le organizzazioni
sindacali sarebbero portatrici di un interesse, morale o di mero fatto, che ne
avrebbe legittimato l’intervento volontario ad adiuvandum nell’ambito
del giudizio promosso dallo straniero cittadino di Paesi terzi, ma non
sarebbero legittimate ad agire autonomamente in giudizio a tutela di diritti o
degli interessi di cui sono titolari esclusivi i singoli cittadini di Paesi
terzi, tenuti al versamento del contributo contestato.
6.7. Le suesposte considerazioni varrebbero, a fortiori,
per il patronato INCA che, a norma di legge (art. 8, comma 3, della l. n. 152
del 2001), in tanto può agire in nome e per conto dei propri assistiti in
quanto abbia ricevuto da costoro una specifica procura sostanziale ad
negotia, nel caso di specie mancante.
6.8. Pertanto, secondo le Amministrazioni, si dovrebbe
dichiarare l’inammissibilità del ricorso proposto in prime cure dalle
associazioni sindacali, odierne appellate, per difetto di legittimazione attiva
in capo a queste.
7. Il motivo è infondato e deve essere respinto.
7.1. Il primo giudice, nell’ordinanza n. 5290 del 20 maggio
2014, anzitutto ha correttamente rilevato che un’organizzazione sindacale,
quale è la CGIL,
non può agire per la difesa di singole posizioni o di interessi di una sola
parte degli iscritti, ma è ben legittimata ad agire in giudizio a tutela delle
prerogative della stessa organizzazione sindacale, quale istituzione
esponenziale di una categoria di lavoratori e degli stessi interessi collettivi
della stessa categoria, unitariamente considerata.
7.2. Tale orientamento è conforme alla consolidata
giurisprudenza di questo Consiglio, la quale afferma che le associazioni
sindacali sono legittimate a difendere in sede giurisdizionale gli interessi di
categoria dei soggetti, di cui hanno la rappresentanza istituzionale o di
fatto, solo quando venga invocata la violazione di disposizioni poste a tutela
della intera categoria, non anche quando si verta su questioni concernenti
singoli iscritti ovvero su questioni capaci di dividere la categoria in
posizioni contrastanti (Cons. Stato, sez. IV, 27 aprile 2005, n. 1240).
7.3. L’interesse collettivo della associazione sindacale deve
identificarsi con l’interesse di tutti gli appartenenti alla categoria
unitariamente considerata e non con gli interessi dei singoli associati o di
gruppi di associati (v., ex plurimis, Cons. St., sez. VI, 12 dicembre
2006, n. 7346; Cons. St., sez. V, 9 luglio 2007, n. 4692).
7.4. Se si riconoscesse all’associazione di categoria la
legittimazione ad agire anche in questi ultimi casi, infatti, si avrebbe una
vera e propria sostituzione processuale in violazione dell’art. 81 c.p.c.,
secondo cui nessuno può fare valere in giudizio in nome proprio un diritto
altrui se non nei casi espressamente previsti dalla legge (Cons. St., sez. IV, 2 aprile 2004, n. 1826; Cons. St., sez. V,
29 dicembre 2009, n. 8918; Cons.
St., sez. III, 7 marzo 2012, n. 1301; Cons. St., sez. V,
3 luglio 2013, n. 3033).
7.5. Si è anche precisato, da diversa angolatura ma,
sostanzialmente, secondo la stessa prospettiva, che il sindacato è legittimato
ad impugnare atti concernenti singoli iscritti solo se ed in quanto i
provvedimenti concretino anche una lesione dell’interesse collettivo
statutariamente tutelato, risolvendosi altrimenti l’azione in una non
consentita sostituzione processuale (v., ex plurimis, Cons. St., sez.
III, 26 maggio 2014, n. 2682).
7.6. Ora nel caso di specie la CGIL ha impugnato il D.M. 6 ottobre 2011, che ha
determinato, in via generale, gli importi dei contributi previsti dal Ministero
dell’Economia e delle Finanze per il rilascio e il rinnovo del permesso di
soggiorno richiesto dai cittadini stranieri, facendo valere un interesse
collettivo dell’intera categoria di tali lavoratori e non già il singolo
interesse di ciascuno di essi.
7.7. L’utilità che l’organizzazione sindacale si ripromette di
conseguire, mediante l’annullamento del D.M., è in favore dell’intera categoria
di tali lavoratori, indipendentemente dal beneficio che, in diversa misura, ne
possano conseguire i singoli cittadini richiedenti, dovendo qui rammentarsi l’antico
insegnamento secondo il quale l’interesse collettivo, di cui l’organizzazione
sindacale si fa portatrice, è la sintesi e non la somma dei
singoli interessi facenti capo agli iscritti.
7.8. Bene ha rilevato il primo giudice, in questo senso, che
l’associazione sindacale risulta senz’altro titolare di una posizione
soggettiva che la legittima ad agire per tutelare l’interesse dei cittadini
stranieri che hanno trovato una più o meno stabile occupazione in Italia,
costituendo tale occupazione uno dei presupposti principali per il rilascio dei
titoli di soggiorno, e che intendono quali lavoratori stranieri concretizzare
la loro aspettativa restando sul territorio dello Stato al fine di poter
proseguire nello svolgimento della loro attività di lavoro.
7.9. Questo interesse rientra pacificamente, come ha pure
rilevato il primo giudice nell’ordinanza n. 5290 del 20 maggio 2014 (pp. 8-9),
tra le ampie finalità statutarie della CGIL, atteso che l’art. 2 dello Statuto
della CGIL prevede che essa consideri «la solidarietà attiva tra i
lavoratori di tutti i Paesi, e le loro organizzazioni sindacali
rappresentative, un fattore decisivo per la pace, per l’affermazione dei
diritti umani, civili e sindacali e della democrazia politica, economica e
sociale, per l’indipendenza nazionale e la piena tutela dell’identità culturale
ed etnica di ogni popolo» e che essa affermi «il valore della
solidarietà in una società senza privilegi e discriminazioni, in cui sia
riconosciuto il diritto al lavoro, alla salute, alla tutela sociale, il
benessere sia equamente distribuito, la cultura arricchisca la vita di tutte le
persone, rimuovendo gli ostacoli politici, sociali ed economici che impediscono
alle donne e agli uomini native/i e immigrate/i di decidere – su basi di pari
diritti ed opportunità, riconoscendo le differenze – della propria vita e del
proprio lavoro».
7.10. L’interesse collettivo di cui la CGIL è portatrice consiste
anche nella rimozione di quegli ostacoli sociali ed economici che impediscono
ai lavoratori stranieri – sulla base di pari diritti ed opportunità con i
lavoratori “nativi” – di potere orientare le proprie scelte di vita e di lavoro
senza subire sperequazioni e discriminazioni, eventualmente derivanti anche
dall’imposizione, da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze, di un
contributo eccessivamente oneroso e sproporzionato per ottenere o rinnovare il
permesso di soggiorno.
7.11. Non vi è dubbio, come anche ha rilevato il T.A.R., che
questo ampio interesse, ben lungi dal legittimarsi sulla base di una asserita
“autoinvestitura” dell’organizzazione sindacale, possa porsi e legittimamente
perseguire in via giudiziale l’obiettivo di proteggere lo straniero dinanzi
all’esercizio di un potere amministrativo, seppure di tipo ampiamente – ma non
illimitatamente, come si dirà – discrezionale come avviene per i permessi di
soggiorno, con particolare riguardo al rispetto delle regole e degli oneri
stabiliti da parte delle Amministrazioni competenti a carico degli stranieri
richiedenti il permesso.
7.12. Ne discende che la statuizione del primo giudice, nel
ritenere sussistente la legittimazione attiva in capo alla CGIL a contestare il
decreto ministeriale che ha determinato i contributi richiesti ai lavoratori
stranieri per il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno, è pienamente
conforme al costante orientamento di questo Consiglio, cristallizzato nella regula
iuris secondo cui le associazioni di categoria sono legittimate «a
difendere in sede giurisdizionale gli interessi di categoria dei soggetti di
cui hanno la rappresentanza istituzionale ogniqualvolta si tratti di
perseguire, comunque, il conseguimento di vantaggi, sia pure di carattere
puramente strumentale, giuridicamente riferibili alla categoria, con l’unico
limite derivante dal divieto di occuparsi di questioni concernenti i singoli
iscritti, ovvero capaci di dividere la categoria in posizioni disomogenee»
(v. ex plurimis, oltre alle sentenze dianzi citate,Cons. St., sez. III,
27 aprile 2015, n. 2150).
8. Parimenti sussistente, per le medesime ragioni appena
esposte, è la legittimazione attiva in capo all’altra ricorrente in primo
grado, nonché odierna appellata, l’INCA, quale ente di patronato soggetto alle
disposizioni della legge 30 marzo 2001, n. 152, recante la «Nuova disciplina
per gli istituti di patronato e di assistenza sociale».
8.1. Soccorrono, oltre alle suddette ragioni che qui si
richiamano ad evitare inutili ripetizioni contrarie all’obbligo di sintesi
prescritto dal codice di rito (art. 3, comma 2, c.p.a.), le specifiche
previsioni della appena citata l. n. 152 del 2001, pure opportunamente
menzionate dal T.A.R. nell’ordinanza n. 5290 del 20 maggio 2014 (p. 10) e, in
particolare, gli artt. 7 e 8 di tale legge.
8.2. Lo Statuto dell’INCA prevede infatti, nell’art. 2, che
tale ente svolga attività di consulenza e di assistenza in favore di
lavoratori, pensionati, cittadini italiani, stranieri ed apolidi presenti sul
territorio nazionale, «per il conseguimento in Italia e all’estero delle
prestazioni di qualsiasi genere in materia di sicurezza sociale, di
immigrazione e emigrazione, previste da leggi, regolamenti, statuti, contratti
collettivi ed altre fonti normative, erogate da amministrazioni e enti
pubblici, da enti gestori di fondi di previdenza complementare o da Stati
esteri nei confronti dei cittadini italiani o già in possesso della
cittadinanza italiana, anche se residenti all’estero» (art. 7, comma 1,
della l. n. 152 del 2001).
8.3. Ai sensi del successivo art. 8, comma 1, della l. n. 152
del 2001, le attività di consulenza, di assistenza e di tutela degli istituti
di patronato riguardano:
a) il conseguimento, in Italia e all’estero, delle
prestazioni in materia di previdenza e quiescenza obbligatorie e di forme
sostitutive e integrative delle stesse;
b) il conseguimento delle prestazioni erogate dal
Servizio sanitario nazionale;
c) il conseguimento delle prestazioni di carattere
socio-assistenziale, comprese quelle in materia di emigrazione e immigrazione;
d) il conseguimento, in Italia e all’estero, delle
prestazioni erogate dai fondi di previdenza complementare, anche sulla base di
apposite convenzioni con gli enti erogatori.
8.4. L’ampiezza di tali compiti, che fanno dei patronati «persone
giuridiche di diritto privato che svolgono un servizio di pubblica utilità»
(art. 1 della l. n. 152 del 2001), fonda e giustifica pienamente nel caso di
specie la legittimazione ad agire dell’INCA in nome e per conto di tutti i
lavoratori stranieri interessati ad ottenere il permesso di soggiorno secondo
legittime condizioni, quantomeno per le elevate finalità di assistenza sociale
che un patronato – qual è l’INCA –ex lege persegue.
8.5. Il primo motivo proposto dalle Amministrazioni appellanti,
quindi, deve essere respinto.
9. Deve a questo punto il Collegio esaminare il secondo e
principale motivo, proposto dalle Amministrazioni appellanti (pp. 15-26 del
ricorso), incentrato sulla violazione e falsa applicazione della direttiva n.
2003/109/CE, sulla violazione e falsa applicazione degli artt. 5, comma 2-ter,
e 9 del d. lgs. n. 286 del 1998 e, soprattutto, sulla errata interpretazione
della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 2 settembre
2015, resa nella causa C-309/14, che ridonderebbe nella violazione o nella
falsa applicazione dell’art. 267 TFUE e dell’art. 5, par. 1 e par. 2, TUE.
9.1. Il primo giudice, deducono le appellanti, ha fondato la
propria decisione sul presupposto che la portata della sentenza della Corte di
Giustizia del 2 settembre 2015 in C-309/14 – proprio su domanda di pronuncia
pregiudiziale da parte dello stesso T.A.R. per il Lazio nel primo grado del
presente giudizio – non sarebbe circoscritta ai soli titoli di soggiorno
“coperti” dalla medesima direttiva n. 2003/109/CE e, cioè, i permessi UE per
soggiornanti di lungo periodo di cui all’art. 9 del d. lgs. n. 286 del 1998, ma
riguarderebbe tutte le tipologie di soggiorno, anche quelle di più breve
durata, previste dall’art. 5, comma 2-ter, del d. lgs. n. 286 del 1998 e
dall’art. 1 del D.M. 6 ottobre 2011.
9.2. Ma questo presupposto, assumono le appellanti, sarebbe
fallace.
9.3. Esse sostengono che la direttiva n. 2003/109/CE ha come
scopo la disciplina del conferimento dello status di soggiornante di
lungo periodo in favore dei cittadini di Paesi terzi, legalmente soggiornanti
nel territorio di uno Stato membro (art. 1), che si trovino nelle condizioni
stabilite dalla stessa direttiva (art. 2).
9.4. Non è invece oggetto della direttiva la disciplina del
regime giuridico dei cittadini dei Paesi terzi che non abbiano titolo ad
acquisire lo status di soggiornante di lungo periodo, o perché non si
trovino nelle condizioni previste o perché non intendano presentare la domanda
per ottenerlo.
9.5. L’estensione degli obblighi e dei principî di cui alla
direttiva 2003/109/CE ai permessi di soggiorno di breve durata rappresenta,
secondo le Amministrazioni appellanti, una operazione ermeneutica «certamente
erronea» (p. 18 del ricorso), che si porrebbe in contrasto con la ratio
della stessa direttiva, quale si desume dal “Considerando” n. 4 della direttiva
stessa.
9.6. Il contrasto che la Corte di Giustizia ha ritenuto di ravvisare tra
la normativa introdotta dall’art. 1, comma 22, della l. n. 94 del 2009 e la
direttiva n. 2003/109/CE, dunque, riguarderebbe soltanto il contributo
stabilito dal D.M. 6 ottobre 2011 per il rilascio del permesso di soggiorno UE
per soggiornanti di lungo periodo di cui all’art. 9 del d. lgs. n. 286 del 1998
e non anche i contributi stabiliti per le altre tipologie di permesso di
soggiorno, in quanto la disciplina di questi ultimi esulerebbe dall’oggetto
della direttiva e, conseguentemente, dalla competenza della Corte di Giustizia
a pronunciarsi, in via pregiudiziale, sull’interpretazione delle norme
eurounitarie ai sensi dell’art. 267 TFUE.
9.7. L’interpretazione recepita dal T.A.R. per il Lazio,
secondo la tesi delle appellanti, sarebbe inaccettabile perché estenderebbe la
competenza delle istituzioni europee ben oltre gli ambiti definiti dal Trattati
e dal diritto derivato, in aperta violazione del principio di attribuzione
sancito dall’art. 5, par. 2, TUE.
9.8. Una lettura della decisione della Corte di Giustizia
conforme al diritto eurounitario imporrebbe, dunque, di ritenere che essa si
sia limitata a statuire l’incompatibilità, rispetto alla direttiva n.
2003/109/CE, della sola previsione relativa al contributo di € 200,00 per il
rilascio dei permessi UE per soggiornanti di lungo periodo.
9.9. Dovrebbero pertanto ritenersi legittime le previsioni del
D.M. impugnato in prime cure che, in relazione al rilascio e al rinnovo dei
permessi di soggiorno diversi da quelli per soggiornanti di lungo periodo,
impongono il versamento di € 80,00 per i permessi di soggiorno di breve durata,
superiore a tre mesi e inferiore ad un anno, di € 100,00 per i permessi di
soggiorno di breve durata, superiore ad un anno e inferiore o pari a due anni,
e di € 200,00 per i permessi di soggiorno di breve durata, fino a due anni, di
cui all’art. 27, comma 1, lett. a), del d. lgs. n. 286 del 1998, richiesti dai
dirigenti e dal personale altamente qualificato.
9.10. Le Amministrazioni appellanti criticano il ragionamento
del primo giudice pure nella parte in cui ha ritenuto che la sentenza della
Corte di Giustizia si riferisca anche a tali permessi per il principio del c.d.
“effetto utile”, in quanto, essendovi tra le condizioni per l’acquisizione
dello status di soggiornante di lungo periodo anche quella del soggiorno
legale e ininterrotto nel territorio di uno Stato membro per cinque anni, gli
ostacoli frapposti al rinnovo del permesso di soggiorno di minore durata si
tradurrebbero in altrettanti ostacoli ad acquisire lo status di
soggiornante di lungo periodo.
9.11. La direttiva non sarebbe volta ad assicurare ai cittadini
di Paesi terzi la maturazione delle condizioni per l’acquisizione dello status
di soggiornante di lungo periodo, poiché né essa né altra normativa
eurounitaria dettano una disciplina generale alla quale gli Stati membri
debbano attenersi nello stabilire i limiti e le condizioni di ammissione dei
cittadini di Paesi terzi per l’ingresso nel territorio nazionale.
9.12. Tale disciplina sarebbe rimessa esclusivamente alla
normativa nazionale degli Stati membri, alla quale, dunque, deve farsi
riferimento anche per quanto concerne la misura del contributo richiesto per il
rilascio delle tipologie di permesso di soggiorno diverse da quella del
permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.
9.13. Ciò risponderebbe pienamente, peraltro, ai principî di
attribuzione e di sussidiarietà, sui quali si fondano la delimitazione e
l’esercizio delle competenze dell’Unione europea in base all’art. 5 TUE.
9.14. In conclusione, ancorché nel dispositivo della sentenza
del 2 settembre 2015 nel procedimento C-309/14 la Corte abbia fatto
riferimento, sinteticamente e indistintamente, a tutti gli importi previsti
dalla normativa nazionale per tutte le tipologie di permesso, anche quelli di
breve durata, le appellanti sostengono che le ragioni giuridiche della
decisione, quali riportate nella motivazione e nel dispositivo, indurrebbero ad
escludere che la decisione possa avere avuto riguardo alla misura del
contributo richiesto per il rilascio e il rinnovo dei permessi ordinari.
10. Il motivo, così esposto e qui riassunto, va respinto,
perché infondato.
11. Occorre muovere, anzitutto, proprio dalla lettura della
sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 2 settembre 2015, in
C-309/14, per rilevare che, al contrario di quanto sostengono le appellanti,
essa abbia inteso riferirsi consapevolmente e deliberatamente, per evidenti e
ben motivate ragioni di ordine logico-sistematico, anche alla misura dei
contributi stabiliti per il rilascio o il rinnovo dei permessi di breve durata,
per quanto non contemplati dalla direttiva n. 2003/109/CE.
11.1. La Corte
di Giustizia analizza, anzitutto, la disciplina dettata dal legislatore
italiano negli artt. 5, comma 2-ter, e 14-bis del d. lgs. n. 286
del 1998, in attuazione della quale è stato emesso il D.M. in questa sede
contestato.
11.2. Giova qui di seguito, per chiarezza e completezza di
analisi, riportarne per esteso il contenuto letterale.
11.3. Il comma 2-ter dell’art. 5 del d. lgs. n. 286 del
1998, introdotto nel T.U. immigrazione dall’art. 1, comma 22, lett. b, della l.
15 luglio 2009, n. 94 (recante «Disposizioni in materia di pubblica
sicurezza»), prevede, anzitutto, che «la richiesta di rilascio e di
rinnovo del permesso di soggiorno è sottoposta al versamento di un contributo,
il cui importo è fissato fra un minimo di 80 e un massimo di 200 euro con
decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro
dell’interno, che stabilisce altresì le modalità del versamento nonché le
modalità di attuazione della disposizione di cui all’articolo 14-bis,
comma 2», mentre «non è richiesto il versamento del contributo per il
rilascio ed il rinnovo del permesso di soggiorno per asilo, per richiesta di
asilo, per protezione sussidiaria, per motivi umanitari».
11.4. Il successivo art. 14-bis del d. lgs. n. 286 del
1998, introdotto nel T.U. immigrazione dall’art. 1, comma 22, lett. n), della
citata legge n. 94 del 2009, istituisce a sua volta nel comma 1, presso il
Ministero dell’Interno, «un Fondo rimpatri finalizzato a finanziare le spese
per il rimpatrio degli stranieri verso i Paesi di origine ovvero di provenienza»
e destina a tale Fondo, nel comma 2, «la metà del gettito conseguito
attraverso la riscossione del contributo di cui all’articolo 5, comma 2-ter,
nonché i contributi eventualmente disposti dall’Unione europea per le finalità
del Fondo medesimo», assegnando altresì la quota residua del gettito del contributo
di cui all’articolo 5, comma 2-ter, dianzi menzionato, allo stato di
previsione del Ministero dell’Interno, «per gli oneri connessi alle attività
istruttorie inerenti al rilascio e al rinnovo del permesso di soggiorno».
11.5. In attuazione di tali previsioni, il D.M. qui impugnato,
come si è sopra premesso, ha fissato gli importi dei contributi da versare per
il rilascio e il rinnovo di un permesso di soggiorno nel modo seguente:
- € 80,00 per i permessi di soggiorno di durata superiore a tre
mesi ed inferiore o pari ad un anno;
- € 100,00 per i permessi di soggiorno di durata superiore ad
un anno e inferiore o pari a due anni;
- € 200,00 per il rilascio del permesso di soggiorno CE per
soggiornanti di lungo periodo e per i richiedenti il permesso di soggiorno ai
sensi dell’art. 27, comma 1, lett. a), del decreto legislativo 25 luglio 1998,
n. 286 e successive modifiche e integrazioni.
11.6. La Corte
di Giustizia, nel § 26 della sentenza del 2 settembre 2015, mostra l’esatta
consapevolezza, sulla base del quadro della normativa nazionale correttamente
rappresentatole nell’ordinanza di rinvio del T.A.R. per il Lazio, che i singoli
importi dei contributi non si riferiscono tutti e soltanto al rilascio dei
permessi UE per soggiornanti di lungo periodo, ma siano ben diversificati in
base alla specifica finalità e alla singola tipologia del permesso (€ 80,00 per
i permessi di più breve durata, € 100,00 per i permessi di “media” durata, ed €
200,00 per i permessi di lunga durata e quelli di cui all’art. 27, comma 1, del
d. lgs. n. 286 del 1998).
11.7. Il giudice europeo li ha valutati tutti
unitariamente e complessivamente, secondo un ben chiaro ragionamento di ordine
logico-sistematico, poiché nel successivo § 27 della sentenza del 2 settembre
2015, in C-309/14, esso rileva che «l’incidenza economica di un contributo
siffatto può essere considerevole per taluni cittadini di paesi terzi che
soddisfano le condizioni poste dalla direttiva 2003/109 per il rilascio dei
permessi di soggiorno previsti da quest’ultima, e ciò a maggior ragione per il
fatto che, in considerazione della durata di tali permessi, tali cittadini sono
costretti a richiedere il rinnovo dei titoli assai di frequente e che all’importo
di detto contributo può aggiungersi quello di altri tributi previsti dalla
preesistente normativa nazionale, cosicché, in tali circostanze, l’obbligo di
versare il contributo di cui trattasi nel procedimento principale può
rappresentare un ostacolo alla possibilità per i predetti cittadini dei paesi
terzi di far valere i diritti conferiti dalla summenzionata direttiva».
11.8. La Corte
di Giustizia muove anzitutto dall’evidente presupposto che, a norma del diritto
europeo (art. 4 della direttiva n. 2003/109/CE) e nazionale (art. 9, comma 1,
del d. lgs. n. 286 del 1998), il conseguimento del permesso UE per
lungosoggiornanti possa essere richiesto in Italia solo dallo straniero che,
oltre agli altri requisiti richiesti dalla legge, sia «in possesso, da
almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità».
11.9. La necessità di richiedere il rinnovo dei permessi di più
breve durata, perché maturi il quinquennio di legale permanenza sul territorio
italiano richiesto dall’art. 4 della direttiva n. 2003/109/CE e dall’art. 9,
comma 1, del d. lgs. n. 286 del 1998, impone allo straniero di pagare
quantomeno, inizialmente, un contributo minimo di € 80,00 e via via, nel corso
della sua regolare permanenza, quelli successivi per il rinnovo dei permessi,
anche per il superiore importo di € 120,00, fino al pagamento dell’importo
finale, pari ad € 200,00, per ottenere il permesso UE per soggiornanti di lungo
periodo.
11.10. La Corte
di Giustizia ha osservato che ad aggravare tale sistema “contributivo” – già di
per sé oneroso per molti dei cittadini di Paesi terzi intenzionati a
stabilizzare la propria posizione in Italia quale approdo di una situazione
esistenziale che, sovente, li vede muovere da una condizione di pressoché
totale indigenza o anche solo di grave difficoltà economica nei Paesi di
provenienza – si aggiungono gli ulteriori oneri fissi, complessivamente
ammontanti ad € 73,50, richiesti in Italia per il rilascio e il rinnovo di ogni
singolo titolo di soggiorno.
11.11. Le stesse Amministrazioni appellanti opportunamente
ricordano (p. 3 del ricorso), infatti, che ai contributi qui controversi si
assommano gli oneri, imposti indistintamente e per qualsiasi richiesta di
permesso di soggiorno, relativi al costo del premesso di soggiorno in formato
elettronico – € 27,50 previsti dal decreto del Ministero dell’Economia e delle
Finanze, di concerto con il Ministero dell’Interno, del 4 aprile 2006 – nonché
quelli – pari ad € 30,00 fissati dal decreto del Ministero dell’Interno del 12
ottobre 2015 – relativi al servizio di accettazione delle istanze, svolto da
Poste Italiane s.p.a., e infine l’imposta di bollo, pari ad € 16,00.
12. Il giudice europeo - sulla base di una valutazione
complessiva del sistema vigente in Italia per i contributi richiesti agli
stranieri che intendano stabilizzarsi, non già stabilirsi, e richiedere il
permesso UE per il lungo soggiorno - è pervenuto alla conclusione che «la
direttiva 2003/109 osta ad una normativa nazionale, come quella controversa nel
procedimento principale, che impone ai cittadini di paesi terzi che chiedono il
rilascio o il rinnovo di un permesso di soggiorno nello Stato membro
considerato di pagare un contributo di importo variabile tra € 80,00 ed €
200,00, in quanto siffatto contributo è sproporzionato rispetto alla finalità
perseguita ed è atto a creare un ostacolo all’esercizio dei diritti conferiti
da quest’ultima».
12.1. Ora se è pur corretto affermare, come sostiene
l’Avvocatura Generale dello Stato nell’appello qui in esame, che la direttiva
n. 2003/109/CE regoli esclusivamente i permessi UE per soggiornanti di lungo
periodo, non è altrettanto corretto dedurne che il diritto eurounitario sia
estraneo, ed indifferente, al percorso normativo che nel suo complesso ogni
singolo Stato delinea per il conseguimento di tali permessi.
12.2. Se fosse vero che solo il segmento finale di tale
percorso e, cioè, quello esclusivamente concernente la procedura – e il
contributo – per l’ottenimento del permesso UE per i soggiornanti di lungo
periodo debba essere oggetto di normazione eurounitaria e di interpretazione da
parte della Corte di Giustizia, ogni singolo Stato potrebbe introdurre una
normativa sui permessi di più breve soggiorno tanto restrittiva da rendere
sostanzialmente impossibile o eccessivamente oneroso per gli stranieri la
legale permanenza nel loro territorio per i cinque anni necessari a
stabilizzare la loro posizione all’interno dell’Unione europea e a consentirne
l’inserimento nel tessuto socio-economico.
12.3. In questo modo la libertà di stabilimento, che pure la
direttiva n. 2003/109/CE mira a proteggere, diverrebbe puramente teorica
finendo di fatto per essere vanificata, perché – mediante l’introduzione di una
legislazione nazionale relativa ai permessi di più breve durata,
sostanzialmente penalizzante o addirittura proibitiva, già solo a livello
economico, per la stabile permanenza degli stranieri nel territorio nazionale –
l’obiettivo di conseguire i permessi di lunga durata sarebbe un traguardo
irraggiungibile e illusorio per molti di essi, per quanto in possesso di tutti
i requisiti previsti dalla normativa eurounitaria, con evidente elusione delle
finalità perseguite dalla stessa direttiva n. 2003/109/CE.
12.4. Quanto all’aspetto qui controverso dei contributi
richiesti per il rilascio e il rinnovo dei permessi, la Corte di Giustizia ha
evidenziato tale pericolo ed ha censurato nel suo complesso la normativa
italiana sullo straniero intenzionato a stabilizzarsi, avente tutti i requisiti
previsti dalla direttiva, perché tale normativa una serie di ostacoli
sproporzionati rispetto alla finalità perseguita dalla direttiva –
l’inserimento dei lungosoggiornanti – e costituenti un ostacolo all’esercizio
dei diritti che essa loro conferisce.
13. Per la individuazione dell’effettivo contenuto di questa
pronuncia, relativa alla legislazione italiana, rileva un’altra sentenza della
Corte di Giustizia, resa il 26 aprile 2012 in C-508/10, che la Corte ha richiamato nella
sentenza del 2 settembre 2015.
13.1. Nella sentenza del 26 aprile 2012, la Corte di Giustizia, in un
giudizio promosso dalla Commissione, ai sensi dell’art. 258 TFUE, per
inadempimento del Regno dei Paesi Bassi nella regolazione nazionale di questa
delicata materia, ha ben chiarito, nel § 64 e nel § 65, che «gli Stati
membri possono subordinare il rilascio di permessi e titoli di soggiorno ai
sensi della direttiva 2003/109 al pagamento di contributi e che, nel fissare
l’importo di tali contributi, essi dispongono di un margine discrezionale»,
ma ha precisato che il potere discrezionale esercitabile dagli Stati membri in
base alla direttiva n. 2003/109/CE non è illimitato, poiché questi ultimi «non
possono applicare una normativa nazionale tale da compromettere la
realizzazione degli obiettivi perseguiti da una direttiva e, pertanto, da
privare quest’ultima del suo effetto utile».
13.2. Tale fondamentale principio, con il rigoroso richiamo
all’osservanza del c.d. effetto utile, è stato affermato dalla stessa Corte di
Giustizia, proprio con riferimento alla delicata materia dell’immigrazione e
proprio nei confronti dell’Italia, nel caso El Dridi, nella sentenza del
28 aprile 2011, in C-61/11, laddove la
Corte di Giustizia, nel ritenere disapplicabile l’art. 14,
comma 5-ter, del d. lgs. 286 del 1998, il quale puniva con la pena della
reclusione lo straniero che si fosse trattenuto illegalmente nello Stato
nonostante l’ordine di espulsione emesso dal Questore, ha precisato che, «se
è vero che la legislazione penale e le norme di procedura penale rientrano, in
linea di principio, nella competenza degli Stati membri, su tale ambito
giuridico può nondimeno incidere il diritto dell’Unione», perché tali Stati
«non possono applicare una normativa, sia pure di diritto penale, tale da
compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti da una direttiva e da
privare così quest’ultima del suo effetto utile».
13.3. La Corte
di Giustizia, in questo caso, ha affermato che il giudice nazionale debba
disapplicare qualsiasi disposizione di legge (anche di diritto penale,
tradizionalmente rientrante nelle attribuzioni degli Stati membri), quando essa
frustri gli obiettivi della legislazione eurounitaria e li privi del loro
effetto utile.
13.4. Tale principio vale, a fortiori, in questa materia
per le previsioni della legislazione italiana relative ai contributi, quali
prestazioni patrimoniali imposte (art. 23 Cost.), richiesti per i soggiorni di
breve durata che, inscindibilmente legate alla concessione dei permessi UE per
soggiornanti di lungo periodo, incidono fortemente, nel lungo periodo,
sulla realizzazione degli obiettivi perseguiti dalla direttiva n. 2003/109/CE.
13.5. Come rilevato dalla stessa sentenza El Dridi, nel
§ 56, ai sensi rispettivamente del secondo e del terzo comma dell’art. 4, n. 3,
TUE, gli Stati membri, in particolare, «adottano ogni misura di carattere
generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti
dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione» e «si
astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la
realizzazione degli obiettivi dell’Unione», compresi quelli perseguiti
dalle direttive.
13.6. Il principio dell’effetto utile, richiamato espressamente
nella sentenza del 26 aprile 2012, in C-508/10, deve trovare applicazione anche
agli obiettivi perseguiti dalla direttiva n. 2003/109/CE, ove si consideri, tra
l’altro, che:
- la direttiva «rispetta i diritti fondamentali e osserva i
principi riconosciuti segnatamente nella Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e nella Carta
dei diritti fondamentali dell'Unione europea» (“Considerando” n. 3);
- l’integrazione dei cittadini di Paesi terzi stabilitisi a
titolo duraturo negli Stati membri costituisce «un elemento cardine per la
promozione della coesione economica e sociale, obiettivo fondamentale della
Comunità enunciato nel trattato» (“Considerando” n. 4);
- la condizione principale per ottenere lo status di
soggiornante di lungo periodo dovrebbe essere la durata del soggiorno nel
territorio di uno Stato membro (“Considerando” n. 6);
- le considerazioni economiche «non dovrebbero essere un
motivo per negare lo status di soggiornante di lungo periodo»
(“Considerando” n. 9);
- occorre stabilire un sistema di regole procedurali per
l’esame della domanda intesa al conseguimento dello status di
soggiornante di lungo periodo, ma le regole e le procedure, chiare ed eque,
comunque «non dovrebbero costituire un mezzo per ostacolare l’esercizio del
diritto di soggiorno» (“Considerando” n. 10).
14. In ragione di tali principi fondamentali e degli obiettivi
perseguiti dalla direttiva n. 2003/109/CE, ben espressi nei “Considerando”
appena menzionati, la Corte
di Giustizia ha ritenuto il complesso delle regole procedurali fissate dalla
legge italiana - nella sua sistematica connessione e non solo limitandosi al
“segmento” finale del contributo di € 200,00 richiesto per il permesso UE per i
soggiornanti di lungo periodo - un mezzo per ostacolare l’esercizio del diritto
di soggiorno riconosciuto agli stranieri dalla direttiva n. 2003/109/CE.
14.1. I contributi richiesti, per il loro importo, «non
devono avere né per scopo né per effetto di creare un ostacolo al conseguimento
dello status di soggiornante di lungo periodo conferito da tale
direttiva, venendo altrimenti arrecato pregiudizio tanto all’obiettivo
perseguito quanto al suo spirito», poiché tali contributi, aventi una
incidenza economica finanziaria considerevole per i cittadini di Paesi terzi
che soddisfano le condizioni previste dalla direttiva n. 2003/109/CE per il
rilascio dei permessi di lungo soggiorno, «potrebbero privare tali cittadini
della possibilità di far valere i diritti conferiti dalla direttiva in parola,
contrariamente al decimo considerando della medesima», il quale esige che
il sistema delle regole procedurali per l’esame delle domande intese al
conseguimento dello status di soggiornante di lungo periodo non
dovrebbe, appunto, costituire un mezzo per ostacolare l’esercizio del diritto
di soggiorno (§ 70 e § 71 della sentenza della Corte di Giustizia del 26 aprile
2012 in C-508/10).
14.2. Nel caso dei Paesi Bassi, la Corte di Giustizia ha
rilevato che gli importi dei contributi richiesti da quel Regno «variano
all’interno di una forbice il cui valore più basso è all’incirca sette volte
superiore all’importo dovuto per ottenere una carta nazionale d’identità»
(§ 77 della sentenza del 26 aprile 2012 in C-508/10).
14.3. Analoghe considerazioni, ben evidenziate dal T.A.R. per
il Lazio nella sua ordinanza di rinvio, hanno evidentemente guidato la Corte di Giustizia nel
ritenere che i contributi richiesti dalla legislazione italiana, anche quello
di più basso importo (€ 80,00) per il conseguimento del permesso di più breve
durata, siano sproporzionati rispetto alla finalità perseguita dalla direttiva
n. 2003/109/CE e idonei a creare un ostacolo o, se si vuole, un “percorso ad
ostacoli”, nel quinquennio richiesto, all’esercizio dei diritti conferiti da
quest’ultima allo straniero intenzionato a stabilizzarsi (§ 31 della sentenza
del 2 settembre 2015, in C-309/14), ove si consideri peraltro, come ha ritenuto
a p. 19 nell’ordinanza n. 5290 del 20 maggio 2014 il T.A.R. per il Lazio, con
affermazione non specificatamente contestata dalle stesse Amministrazioni
appellanti anche ai sensi e per gli effetti dell’art. 64, comma 2, c.p.a., che
«il costo per il rilascio della carta d’identità ammonta attualmente, nel
nostro Paese, a circa 10 euro», somma otto volte inferiore a quella
prevista per il rilascio del permesso di minor durata.
15. Dal quadro del complesso intreccio del diritto eurounitario
e nazionale sin qui esposto, alla luce dell’interpretazione, vincolante per il
giudice nazionale, datane dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia,
discende dunque la infondatezza delle censure sollevate dalle Amministrazioni
appellanti, e sopra riassunte, in quanto:
a) la
Corte di Giustizia ha motivatamente inteso affermare nella
sentenza del 2 settembre 2015, in C-309/14, l’incompatibilità, nel suo
complesso, della normativa nazionale, che prevede i contributi per il rilascio
e il rinnovo di tutti i permessi di soggiorno in una forbice compresa
tra un minimo di € 80,00 ed un massimo di € 200,00, perché ha ritenuto che il
“tariffario” di tali contributi, di tutti i contributi, sia di ostacolo
all’esercizio dei diritti conferiti dalla direttiva n. 2003/109/CE ai cittadini
stranieri «stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri»
(“Considerando” n. 4) e intenzionati a richiedere il permesso UE di lungo
soggiorno, ma soggetti a ripetuti e sproporzionati contributi, fin da quello
iniziale di € 80,00 e a quelli successivi di importo via via crescente, da
parte della legislazione nazionale, nel quinquennio richiesto dalla stessa
direttiva n. 2003/109/CE (art. 4) e dalla legislazione nazionale attuativa
(art. 9, comma 1, del d. lgs. n. 286 del 1998) per l’ottenimento di tale
permesso;
b) l’importo di tali contributi, anche quello minimo di
€ 80,00, ha infatti una incidenza finanziaria considerevole per i cittadini di
Paesi terzi che soddisfano le condizioni sostanziali previste dalla stessa
direttiva n. 2003/109/CE e compromette gli obiettivi perseguiti da tale
direttiva, privandola del suo effetto utile, soprattutto ove si consideri che
anche l’importo più basso – € 80,00 – tra tutti quelli previsti supera,
comunque, ben oltre le sette volte il costo richiesto nel nostro Paese per il
rilascio della carta di identità ad un cittadino italiano;
c) il diritto eurounitario, anche nella forma del
“diritto vivente” scolpita dall’attività ermeneutica della Corte di Giustizia,
ben può intersecare settori della legislazione nazionale, non strettamente
rientranti nelle propria sfera di competenze, e condizionarne l’applicazione,
laddove le regole poste anche in questi settori – come nel caso di specie
quelle concernenti i contributi per i permessi di breve soggiorno – privino di
effetto utile il diritto eurounitario, facendo sì che i suoi principi e le sue
regole divengano difficilmente applicabili o sostanzialmente inapplicabili nei
singoli Stati;
d) la primazia del diritto eurounitario non comporta
alcuno sconfinamento di questo nelle competenze legislative riservate ai
singoli Stati nazionali, in pretesa violazione del fondamentale principio di
attribuzione sancito dall’art. 5 TUE, quando si tratti di assicurarne l’effetto
utile compromesso da un esercizio di tale competenze che ne renda inapplicabile
o estremamente difficoltosa l’applicazione nei singoli Stati, con lesione dei
diritti riconosciuti direttamente dalla normativa sovranazionale, con efficacia
orizzontale, ai cittadini dell’Unione o anche, come nel caso di specie, agli
stranieri cittadini di Paesi terzi;
e) qualora la
Corte di Giustizia dell’Unione europea, come in questo caso,
dichiari l’incompatibilità del diritto nazionale con i Trattati e la
‘legislazione eurounitaria’, il giudice interno – e, in particolar modo, il
Consiglio di Stato quale giudice di ultima istanza ai sensi dell’art. 267, par.
3, TFUE – è tenuto a disapplicare o, meglio, a non applicare il diritto dello
Stato giudicato dalla Corte contrastante con i Trattati e detta ‘legislazione’;
f) nel caso di specie, deve essere disapplicata, per
effetto della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 2
settembre 2015, in C-309/14, la disposizione dell’art. comma 2-ter
dell’art. 5 del d. lgs. n. 286 del 1998, nella misura in cui fissa gli importi
dei contributi richiesti per tutti i permessi di soggiorno da un minimo
di € 80,00 ad un massimo di € 200,00, in quanto costituenti nel loro complesso
un ostacolo, per il loro importo eccessivamente elevato, ai diritti conferiti
ai cittadini stranieri richiedenti i permessi UE di lungo soggiorno, con
conseguente illegittimità del D.M. qui impugnato, nelle parti già annullate dal
T.A.R.
16.1. Quanto al dubbio sollevato dalle Amministrazioni nelle
ultime pagine del loro appello, va sottolineato che nel suo dispositivo la
sentenza del 2 settembre 2015 della Corte di Giustizia non ha riportato
sinteticamente tutti gli importi, anche quello minimo di € 80,00, per il fatto
che «la sentenza del 2 settembre 20015 nel procedimento C-309/14 è stata
ricalcata sulla sentenza 26 aprile 2012 nel procedimento C-508/10 proposto su
ricorso per inadempimento ai sensi dell’art. 258 del Trattato dalla Commissione
europea contro il Regno dei Paesi Bassi» (p. 25 del ricorso), come invece
sostengono le appellanti.
16.2. Invero già questa stessa circostanza e, cioè, che la
sentenza del 2012 si fosse pronunciata su un ricorso per inadempimento,
promosso dalla Commissione europea ai sensi dell’art. 258 TFUE, e non su una
questione pregiudiziale, sollevata dal giudice nazionale ai sensi dell’art. 267
TFUE come nel presente caso, dimostra sul piano processuale che diverso è stato
il modus procedendi dei due giudizi e che la Corte di Giustizia non abbia
potuto “ricalcare” nemmeno nel dispositivo, con la sua pronuncia del 2015, la
precedente sentenza del 2012.
16.3. Ma anche sul piano sostanziale, quello che più rileva, vi
è una differenza tra le due pronunce, su questo punto non assimilabili, perché
la sentenza del 26 aprile 2012, in C-508/10, ha preso in considerazione solo i
contributi imposti dal Regno dei Paesi Bassi ai richiedenti il permesso UE per
il lungo soggiorno (e ai loro familiari), come si evince dalla lettura del
dispositivo e della motivazione, senza occuparsi dei contributi richiesti per i
permessi di breve durata, mentre la sentenza del 2 settembre 2015, in C-309/14,
si riferisce, al contrario, per tutte le ragioni esposte, all’intero sistema
dei contributi previsti per tutti i permessi di soggiorno in Italia, compresi
quelli di breve durata.
16.4. Anche per tale profilo, dunque, l’appello delle
Amministrazioni risulta infondato.
17. L’intera impostazione dell’appello, mirante – pur
comprensibilmente – a ben demarcare e a difendere le prerogative del
legislatore nazionale e del Governo quanto alla regolazione dei contributi di
più breve periodo, non ha tenuto conto, a livello generale, dell’evoluzione
storica e sistematica del diritto dell’immigrazione costituente, ormai, un corpus
unico e compatto, tipico di un ordinamento c.d. multivello.
17.1. La stretta interrelazione tra le competenze legislative
degli Stati membri e quelli dell’Unione, nel diritto dell’immigrazione, rende
del resto indispensabile e sempre più frequente una compenetrazione tra
l’ordinamento eurounitario e quello nazionale, in un processo osmotico, che
induca il primo, da un lato, a recepire progressivamente i valori di civiltà
giuridica e di solidarietà sociale più elevati comuni alla maggior parte, se
non a tutti, gli Stati membri, così innalzando il livello minimo di tutela dei
diritti fondamentali dei richiedenti soggiorno (o asilo) nell’ambito del
territorio dell’Unione, e dall’altro il secondo a farsi plasmare e conformare
dai principî del diritto dell’Unione, quali enucleati dall’attività
interpretativa della Corte.
17.1. Sempre più spesso la Corte di Giustizia incide, proprio per questa
stretta e indissolubile interrelazione, anche sulla normativa dei singoli Stati
che disciplina i permessi di breve durata, come per esempio e da ultimo sulla
legislazione spagnola relativa ai permessi di breve soggiorno richiesti dai cittadini
di Stati terzi per eccezionali ragioni, laddove la Corte ha chiarito che l’art.
20 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso osta alla normativa
nazionale in forza della quale la concessione di un permesso di soggiorno viene
automaticamente negata, per il solo motivo che egli ha precedenti penali, al
cittadino di uno Stato terzo, genitore di minori cittadini dell’Unione, dei
quali ha l’affidamento esclusivo, qualora tale diniego produca la conseguenza
di costringere detti minori a lasciare il territorio dell’Unione europea
(sentenza della Corte di Giustizia del 13 settembre 2016, in C-165/14).
17.2. Questo Consiglio non può che prendere atto dell’opera
interpretativa della giurisprudenza della Corte di Giustizia, tesa ad affermare
la primazia del diritto euroeunitario e a preservarne l’effetto utile
dal non adeguato o non proporzionato esercizio del potere legislativo dei
singoli Stati anche nelle (e, non di rado, per il tramite delle) materie
attribuite alla loro competenza.
17.3. Per questo anche la dedotta violazione dell’art. 5 TUE,
pur suggestiva, non sussiste, non essendovi stato alcuno “sconfinamento” della
Corte di Giustizia e, più in generale, del diritto eurounitario nelle
competenze riservate al legislatore nazionale.
18. In conclusione la sentenza qui impugnata del T.A.R. per il
Lazio, nell’aver ritenuto che l’effetto utile affermato dalla Corte di
Giustizia si estenda anche ai permessi di più breve durata, è immune da
censura.
19. Deve essere infine esaminata la domanda di rinvio pregiudiziale,
formulata a verbale in via di estremo subordine dai difensori delle odierne
appellate, le quali hanno chiesto che il Consiglio di Stato, ove ritenga
condivisibile l’interpretazione propugnata dalle appellanti con il secondo
motivo di appello, rimetta nuovamente le questioni qui controverse alla Corte
di Giustizia, in applicazione dell’art. 267, comma 3, TFUE.
19.1. La domanda non può trovare accoglimento in quanto ne
difetta il presupposto, per la qui accertata infondatezza della tesi
interpretativa sostenuta dalle Amministrazioni in virtù di tutte le ragioni
sopra esposte, che qui si richiamano per obbligo di sintesi.
19.2. La Corte
di Giustizia, sin dalla sentenza del 6 ottobre 1982, in C-283/81, in sede di
interpretazione della corrispondente disposizione dell’art. 177 del Trattato
(poi trasfusa nell’art. 267, comma 3, TFUE), ha costantemente affermato, del
resto, che tale disposizione deve essere interpretata nel senso che «una
giurisdizione le cui decisioni non sono impugnabili secondo l’ordinamento
interno è tenuta, qualora una questione di diritto comunitario si ponga dinanzi
ad essa, ad adempiere il suo obbligo di rinvio, salvo che non abbia constatato
che la questione non è pertinente, o che la disposizione comunitaria di cui è
causa ha già costituito oggetto di interpretazione da parte della Corte, ovvero
che la corretta applicazione del diritto comunitario si impone con tanta
evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi; la configurabilità di tale
eventualità va valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto
comunitario, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e
del rischio di divergenze di giurisprudenza all’interno della Comunità».
19.3. Nel caso di specie, per le ragioni già esposte, la
questione sollevata con il secondo motivo dell’appello è stata già oggetto di
pronuncia, proprio nel presente giudizio, da parte della Corte di Giustizia, i
cui effetti si estendono anche ai contributi richiesti per i permessi di breve
durata, sicché il rinvio pregiudiziale alla Corte stessa, richiesto in via di
estremo subordine dalle odierne appellate ai sensi dell’art. 267, par. 3, TFUE,
sarebbe superfluo, ai fini del decidere, e contrario, peraltro, al principio
della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.).
20. Infine, va osservato che la mancata riproposizione nella
memoria difensiva depositata il 15 settembre 2016, da parte delle odierne
appellate, delle altre censure proposte in primo grado e non esaminate dal
primo giudice preclude al Collegio il loro esame in questa sede, per il divieto
posto dall’art. 101, comma 2, c.p.a.
21. Conclusivamente, per le ragioni esposte, l’appello proposto
dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal Ministero dell’Interno e dal
Ministero dell’Economia e delle Finanze deve essere respinto, con conferma
della sentenza impugnata.
21.1. In ottemperanza della presente decisione e previa
disapplicazione, nei limiti sopra esplicati, del comma 2-ter dell’art. 5
del d. lgs. n. 286 del 1998, alla luce di quanto stabilito dalla Corte di
Giustizia, le Amministrazioni competenti ridetermineranno l’importo dei
contributi, nell’esercizio della loro discrezionalità, in modo tale che la loro
equilibrata e proporzionale riparametrazione non costituisca un ostacolo
all’esercizio dei diritti riconosciuti dalla direttiva n. 2003/109/CE.
21.2. In particolare, secondo l’effetto conformativo proprio
del presente giudicato, esse ridetermineranno con apposito decreto i contributi
ora per allora alla stregua del consolidato principio secondo il quale,
quando vi è un giudicato amministrativo di annullamento di atti generali in
tema di tariffe, di prezzi o di aliquote, l’Amministrazione ben può determinare
ovvero applicare “ora per allora” il sopravvenuto provvedimento, che mira a
colmare il ‘vuoto’ conseguente alla sentenza amministrativa che abbia annullato
con effetti ex tunc un atto generale (v., ex plurimis, Cass.,
Sez. Un., 1° ottobre 1982, n. 5030; Cons. St., sez. V, 21 ottobre 1997, n. 1145
e, tra le più recenti, Cons. St., sez. III, 7 marzo 2016, n. 927).
21.3. Competerà anche alle predette Amministrazioni, nel
rinnovato esercizio della loro discrezionalità, stabilire, secondo i principî
dettati dal diritto nazionale ed eurounitario e in sintonia con le competenti
istituzioni europee (anche al fine di scongiurare ulteriori procedure di
infrazione da parte della Commissione), an, quando e quomodo degli
eventuali rimborsi agli interessati per le somme versate in eccedenza rispetto
al dovuto.
22. Le spese del presente grado di giudizio, considerata la
novità e la complessità delle questioni qui controverse che hanno imposto il
rinvio pregiudiziale al giudice europeo, possono essere interamente compensate
tra le parti.
23. Rimane definitivamente a carico delle Amministrazioni
appellanti, attesa la loro sostanziale soccombenza, il contributo unificato
richiesto per la proposizione del gravame.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza),
definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto dalla
Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal Ministero dell’Interno e dal
Ministero dell’Economia e delle Finanze, lo respinge e, per l’effetto, conferma
la sentenza impugnata.
Dichiara inammissibile l’intervento spiegato nel presente grado
del giudizio dall’ASGI – Associazione per gli Studi Giuridici
sull’Immigrazione.
Compensa interamente tra le parti le spese del presente grado
di giudizio.
Pone definitivamente a carico della Presidenza del Consiglio
dei Ministri, del Ministero dell’Interno e del Ministero dell’Economia e delle
Finanze il contributo unificato richiesto per la proposizione dell’appello.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità
amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 13
ottobre 2016, con l’intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti, Presidente
Manfredo Atzeni, Consigliere
Massimiliano Noccelli, Consigliere, Estensore
Stefania Santoleri, Consigliere
Raffaello Sestini, Consigliere
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