martedì 31 marzo 2015





Elezioni amministrative, le istruzioni per la presentazione e l’ammissione delle candidature

Dal sito del Ministero dell’Interno la news del 31 marzo 2015

Sono state pubblicate, disponibili online, le istruzioni per la per la presentazione e l’ammissione delle candidature all'elezione diretta del sindaco e del consiglio comunale, per le elezioni amministrative del prossimo 31 maggio.
Le istruzioni hanno lo scopo di fornire ai competenti organi un’opportuna guida nel compimento delle operazioni relative alla presentazione e all’ammissione delle candidature per la elezione alla carica di sindaco e di consigliere comunale.
Nella pubblicazione vengono illustrate le norme che regolano il procedimento per la preparazione e la presentazione delle candidature nonché per l’esame delle candidature stesse da parte delle commissioni e delle sottocommissioni elettorali circondariali.
La materia è trattata unitariamente per le due categorie - previste dalla vigente legislazione - dei comuni con popolazione sino a 15.000 abitanti e dei comuni con popolazione superiore a detto limite; quando siano necessarie istruzioni distinte (per le differenze conseguenti ai diversi sistemi elettorali adottati), sono predisposte, di volta in volta, opportune avvertenze.
La presentazione delle candidature alla carica di sindaco e delle liste di candidati alla carica di consigliere comunale potrà essere effettuata soltanto presso le segreterie dei comuni nei quali si svolgeranno le elezioni nei giorni di venerdì 1º maggio, dalle ore 8 alle 20 e sabato 2 maggio, dalle ore 8 alle 12.




Elezioni del presidente della giunta e del consiglio regionale del Veneto di domenica 31 maggio 2015


Calendario elettorale

http://elezioni.regione.veneto.it/calendario-elettorale


lunedì 30 marzo 2015





Camera dei Deputati, Interpellanza urgente n. 2-00909 degli On.li Gigli e Dellai sulle iniziative finalizzate a consentire la cancellazione dai registri dello stato civile delle trascrizioni dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, Seduta di venerdì 27 marzo 2015


GIAN LUIGI GIGLI. Grazie, Presidente. Signor Viceministro, in Italia l’istituto del matrimonio si fonda, com’è noto, sull’articolo 107 del codice civile e prevede esplicitamente la diversità di sesso dei coniugi. Questo tipo di interpretazione, peraltro, è stata autorevolmente richiamata, in epoche recenti e a più riprese, dalla Corte costituzionale, per esempio con la sentenza n.138 del 2010, quando la Corte ha affermato che l’articolo 29 della Costituzione si riferisce alla nozione di matrimonio definita dal codice civile come unione tra persone di sesso diverso e questo – ha aggiunto la Corte – non può essere superato con interpretazioni «creative» da parte di sindaci o di singoli magistrati.
Non solo: la Corte è ritornata, anche più recentemente, con la sentenza dell’11 giugno 2014, n.170, su questo importante tema e ha affermato che, cito testualmente: «La nozione di matrimonio presupposta dal costituente (cui conferisce tutela l’articolo 29 della Costituzione) è quella stessa definita dal codice civile del 1942, che stabiliva e tuttora stabilisce che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso», segnalando, quindi, il requisito dell’eterosessualità del matrimonio.  È vero che la Corte ha anche stabilito che tra le formazioni sociali alle quali l’articolo 2 della Costituzione pure dà tutela rientra anche l’unione omosessuale; è vero anche che, come la stessa Corte ha riconosciuto, il Parlamento ha alcune iniziative – sappiamo che, proprio ieri, è stato incardinato in Commissione giustizia del Senato il testo ufficiale del disegno di legge che andrà in discussione –, tuttavia, resta il fatto che la legge, allo stato, è quella che è: io, almeno, così la interpreto.
Di fronte a quello che si stava profilando in alcune città, il suo Ministero, signor Viceministro, già dal 7 ottobre 2014, aveva ritenuto opportuno intervenire con una circolare del Ministro Alfano, con la quale si disponeva l’intrascrivibilità dei matrimoni tra persone dello stesso sesso contratti all’estero, quindi, l’intrascrivibilità nei registri dello stato civile italiano. Ciò nonostante, undici giorni dopo, il 18 ottobre 2014, il sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha tranquillamente sorvolato su questa circolare e ha provveduto a trascrivere il matrimonio di alcune persone dello stesso sesso.
Il prefetto di Roma, evidentemente su disposizione anche del Ministero, aveva disposto
successivamente, il 31 ottobre 2014, l’annullamento delle trascrizioni nel registro dello stato civile
di Roma. Il comune di Roma – anche un’associazione, se non erro – ha ricorso contro questo decreto ministeriale e, in data 9 marzo 2015, il tribunale amministrativo regionale del Lazio è intervenuto.
Al di là di quello che la stampa ha detto, quello che, in realtà, il tribunale amministrativo del Lazio ha scritto è che conferma tutta quella che è la normativa in materia di matrimoni, ma rileva – se così ho ben capito – un vizio di natura esclusivamente procedurale, cioè non sarebbe, a parere del tribunale del Lazio, competenza o, comunque, in potere del prefetto e, quindi, anche del Ministero dell’interno, arrivare all’annullamento della trascrizione dei matrimoni, in quanto il prefetto avrebbe solo la possibilità di disporre le annotazioni di rettificazioni operate dall’autorità giudiziaria. In definitiva, una trascrizione nel registro degli atti del matrimonio può essere espunta o rettificata, secondo il TAR del Lazio, solo in forza di un provvedimento dell’autorità giudiziaria e non anche adottando un provvedimento amministrativo da parte dell’amministrazione centrale. Quindi, il Ministero non potrebbe esercitare un potere di sovraordinazione rispetto al sindaco, che pure opera in quanto ufficiale dello stato civile.
A questo punto – ed è qui il senso di questa interpellanza –, cosa fare, signor Viceministro? È corretta la ricostruzione che noi stiamo dando di questa vicenda, innanzitutto? E com’è possibile muoversi per evitare che nel Paese vi sia una sorta di realtà a macchia di leopardo, nella quale interpretazioni più o meno fantasiose della legge possono essere tranquillamente lasciate sedimentare, senza che nessuno faccia alcunché per censurarle e per rettificarle?  Io credo che qualcosa, tuttavia, bisognerebbe fare, perché è vero che stiamo legiferando in Parlamento, ma è altrettanto vero che, rispetto ad eventi che, tra l’altro, hanno avuto grande risonanza pubblica – non è che siano passati sotto banco, sono stati «strombazzati» addirittura in televisione, hanno avuto davvero una platea e un’eco estremamente grandi –, ebbene, rispetto ad eventi del genere, credo che, se la legge ha ancora un senso, qualcuno – mi dirà lei chi – dovrebbe farla rispettare.
Questa è almeno la mia visione, perché resta incontrovertibile, da tutto quello che abbiamo detto, tribunale amministrativo regionale del Lazio compreso, ma soprattutto, direi, Corte costituzionale e codice civile, che è nullo il matrimonio celebrato all’estero tra persone dello stesso sesso, perché privo dei requisiti sostanziali che sono idonei a produrre, quali atti di matrimonio, un effetto giuridico nell’ordinamento italiano. Attendo con piacere la sua risposta.

FILIPPO BUBBICO, Viceministro dell’interno. Signor Presidente, con l’interpellanza all’ordine del giorno gli onorevoli Gigli e Dellai richiamano la sentenza del 9 marzo scorso con cui il TAR Lazio ha sostanzialmente statuito che la trascrizione nei registri dello stato civile dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, celebrati all’estero, possa essere cancellata o rettificata solo in forza di un provvedimento dell’autorità giudiziaria. Gli onorevoli interpellanti sottolineano come tale pronuncia abbia riguardato una questione meramente procedurale, senza scalfire il dato sostanziale da loro ritenuto incontrovertibile: l’illegittimità di siffatte trascrizioni.
È appena il caso di rilevare – incidentalmente – come nei mesi scorsi l’Amministrazione
dell’interno, rispondendo a vari atti di sindacato ispettivo, abbia espresso l’avviso della sussistenza
in capo al prefetto – fermo restando il potere dell’autorità giudiziaria – della titolarità del potere di annullamento d’ufficio delle trascrizioni illegittimamente eseguite; potere collegato direttamente
alle funzioni di vigilanza del prefetto sull’ordinata tenuta dei registri dello stato civile e costituente la tipica manifestazione di una sovraordinazione gerarchica del prefetto medesimo al sindaco quale ufficiale di Governo.
Tale posizione, che si ritiene fondata su validi argomenti giuridici, è oggetto in questi giorni di ulteriori approfondimenti alla luce della sentenza sopra richiamata, che non ha ancora acquisito l’autorità propria del giudicato.
Venendo al tema principale dell’interpellanza, confermo che l’orientamento del Ministero dell’interno sulle unioni omosessuali e sulla trascrizione di quelle celebrate all’estero è ispirato al presupposto che l’intera disciplina dell’istituto del matrimonio sia fondata sulla diversità di sesso dei coniugi.
Tale posizione è suffragata dal consolidato orientamento assunto dalla Corte costituzionale sulla base dell’articolo 29 della Costituzione, che, come emerge anche dai lavori preparatori dell’Assemblea costituente, fa riferimento al matrimonio «nel significato tradizionale di detto istituto».
Secondo il Giudice delle leggi, le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio, né sono destinatarie della medesima disciplina dettata per quest’ultimo, ragion per cui, come precisato dalla Corte di cassazione, il matrimonio omosessuale è inidoneo a produrre lo stesso effetto giuridico nell’ordinamento nazionale.
Riguardo all’accesso delle coppie omosessuali al matrimonio, la medesima Corte si è espressa sia per l’assenza di obblighi internazionali gravanti sull’Italia, sia per l’inesistenza nella legislazione nazionale di irragionevoli discriminazioni, in quanto le unioni tra persone dello stesso sesso sono comunque oggetto di tutela come «formazioni sociali», ai sensi dell’articolo 2 della Costituzione.  Per il complesso delle ragioni che ho esposto in sintesi, le coppie omosessuali non possono, al momento, far valere né il diritto a contrarre matrimonio né il diritto alla trascrizione delle unioni celebrate all’estero. Del resto, sottolineo che anche il TAR Lazio, nella citata sentenza, si è conformato a questo consolidato orientamento.
Quanto alla specifica richiesta degli onorevoli interpellanti, concernente l’adozione di opportune iniziative anche di tipo normativo volte a consentire all’autorità giudiziaria di intervenire sui registri dello stato civile, rilevo che l’ordinamento già prevede la possibilità per l’interessato di ottenere la cancellazione di un atto indebitamente trascritto nei registri dello stato civile, proponendo ricorso al tribunale competente. Un analogo potere di iniziativa compete anche al procuratore della Repubblica. Sotto questo specifico profilo, quindi, il sistema appare compiuto e non si ravvisa la necessità di un intervento normativo.
Quanto, poi, al dibattito politico e alle iniziative legislative, già l’onorevole Gigli ha ricordato quanto la questione sia all’attenzione del Parlamento e di quanto, anche, la coscienza civile di questo Paese richieda che la questione venga affrontata e risolta. Anche in questo senso confermo l’orientamento del Ministero dell’interno a rispettare la legge e ad agire perché non si determini, in questo campo, un’attività che non sia coerente con l’ordinamento, mettendo in discussione principi costituzionalmente garantiti e ben disciplinati dalle nostre leggi.


GIAN LUIGI GIGLI. Signor Presidente, signor viceministro, la ringrazio molto e apprezzo ogni riga, ogni passaggio di ciò che lei ha detto, che totalmente sottoscrivo e condivido. Ciò detto, però, il problema resta. Apprezzo anche che il suo Ministero stia approfondendo una sentenza che ancora non è passata in giudicato e, quindi, ne deduco che stia anche valutando l’eventualità di un ricorso avverso questa sentenza. Resta però il fatto, come dicevo, che vi è una situazione di evidente illegittimità in diverse città italiane per quanto riguarda i registri dello stato civile, al punto tale che una nota costituzionalista, mi riferisco alla professoressa Barbara Pezzini, in un recente intervento sul Corriere della Sera, ha ammesso, correttamente, pur essendo lei a favore di un riconoscimento, che, nell’attuale situazione, in relazione a questi interventi in gran parte di natura pubblicitaria (basti pensare a quello di Roma per il quale furono richiamate in Campidoglio tutte le televisioni in una situazione che, poi, lo stesso sindaco ammise, qualche giorno dopo, di fronte alle critiche, sia stata solo di tipo dimostrativo, senza alcuna valenza reale), qualche cosa occorre fare, per evitare che questo Paese si possa poi trovare in una situazione di registri di stato civile risolti a macchia di leopardo con qualunque sindaco che può, a questo punto, inventarsi le cose più strambe e senza una reale possibilità, da parte del Ministero, di intervenire direttamente, vista la sentenza del tribunale amministrativo della regione Lazio.
Ciò detto e prendendo atto di quello che lei in conclusione ha richiamato – ovvero la convinzione da parte del suo Ministero che esista già il quadro normativo per potere rimettere in discussione queste trascrizioni attraverso un’azione diretta degli interessati o un’azione dei tribunali – io le faccio però un domanda. Mi chiedo e chiedo a lei: che cosa bisogna fare a questo punto? Dobbiamo arrivare al fatto che singoli cittadini o associazioni chiedano ai tribunali di intervenire, visto che i procuratori della Repubblica non lo fanno di propria iniziativa? Dovranno essere singole associazioni o singoli cittadini a farsi parte proattiva presso i tribunali ed eventualmente arrivare – non lo so, lo dico provocatoriamente – a una denuncia per omissione di atti di ufficio, se la magistratura e l’autorità giudiziaria poi non interviene? Oppure non sarebbe, forse, meglio che magari fossero a questo punto i prefetti proprio, ovvero il suo Ministero – visto che il tribunale amministrativo del Lazio ha detto che è competenza dell’autorità giudiziaria – a chiedere ai tribunali di competenza di intervenire perché queste trascrizioni possano essere, con note a margine, dichiarate invalide?  Questa è la domanda, che mi dispiace farle in corso di replica, ma che rimane tuttavia come un quesito aperto. Infatti credo che esista anche una responsabilità politica nel lasciare le cose come stanno, perché lasciare le cose come stanno, serve esattamente a coloro che in qualche modo vogliono forzare il quadro costituzionale, da lei correttamente richiamato. Vogliono forzarlo perché la nuova legge in itinere eventualmente richiami in causa anche norme che sembrerebbero essere non percorribili secondo la Costituzione.
Ebbene, io la ringrazio – ripeto – sentitamente per la correttezza della sua risposta. Mi permetto, tuttavia, di lasciarla con questo quesito e con questo dubbio: dobbiamo farcene carico come singoli cittadini o non è meglio che l’autorità competente, che ha rilevato questa illegittimità, chieda a chi di dovere, in questo caso alla magistratura, di intervenire?







Regione Veneto, Elezioni regionali 2015. Istruzioni relative alla presentazione e all’ammissione delle liste provinciali di candidati alla carica di consigliere regionale ed alle candidature alla carica di presidente della giunta regionale


http://elezioni.regione.veneto.it/news?_spp_detailId=2859894








Elezioni regionali lombarde (del 2010): invalidità delle operazioni elettorali priva di riflessi sugli organi, per scioglimento anticipato del consiglio regionale ed insediamento di altri organi politici

Cons. di Stato, V, 27 marzo 2015, n. 1603


Qualora, medio tempore, si siano dissolti gli organi elettivi la cui proclamazione ha costituito oggetto del giudizio, per una causa autonoma e indipendente dalla volontà delle parti e dalle statuizioni di giudici amministrativi (nel caso deciso: per l’avvenuto scioglimento anticipato del consiglio regionale e l’insediamento di altri organi politici), all’accertamento dell’invalidità delle operazioni elettorali non può – logicamente – conseguire il loro annullamento, essendosi esauriti tutti gli effetti (non potendo essere determinate in s.g. le implicazioni di tale declaratoria di illegittimità).



OMISSIS

FATTO e DIRITTO
1. L’impugnata sentenza del T.a.r. per la Lombardia – Milano - Sezione IV, n. 7592 del 20 dicembre 2010 ha dichiarato inammissibile il ricorso principale e irricevibili i motivi aggiunti proposti dai signori Marco Cappato e Lorenzo Lipparini, nella qualità di cittadini elettori, per ottenere l’annullamento delle elezioni per il rinnovo del consiglio regionale della Lombardia svoltesi il 28 e 29 marzo 2010.
2. Su appello degli originari ricorrenti soccombenti in prime cure, questa Sezione, con la sentenza non definitiva n. 5345 del 22 settembre 2011 (e con la connessa ordinanza n. 5387 del 27 settembre 2011), in riforma della sentenza di primo grado:
a) ha dichiarato ammissibile il ricorso principale e tempestivi i motivi aggiunti;
b) ha respinto tutti i motivi, ad eccezione di quello incentrato sulla falsità di un rilevante numero di sottoscrizioni apposte in calce alla presentazione della lista «Per la Lombardia»;
c) ha sospeso il processo in attesa della conclusione del giudizio pendente innanzi alla Corte Costituzionale (ancorché relativo ad altro contenzioso elettorale), avente ad oggetto le disposizioni normative che precludevano e precludono al giudice amministrativo di accertare, anche solo incidentalmente, la falsità degli atti pubblici nel giudizio amministrativo in materia elettorale;
3. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 304 del 5 novembre 2011, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale degli art. 8, 2º comma, 77, 126, 127, 128, 129, 130 e 131 cod. proc. amm. (d. leg. 2 luglio 2010, n. 104), 7 r.d. 30 dicembre 1923, n. 2840, 41, 42 e 43 r.d. 17 agosto 1907, n. 642, 28, comma terzo, e 30, secondo comma, r.d. 26 giugno 1924 n. 1054, 7, terzo comma, ultima parte, e 8 l. 6 dicembre 1971 n. 1034, nonché dell’art. 2700 c.c., nella parte in cui precludevano e precludono al giudice amministrativo di accertare, anche solo incidentalmente, la falsità degli atti pubblici nel giudizio amministrativo in materia elettorale, in riferimento agli art. 24, 76, 97, 103, 111, 113 e 117 Cost.
4. Con la sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili n. 5943 del 16 aprile 2012, è stato dichiarato inammissibile il ricorso proposto dalla regione Lombardia contro la menzionata sentenza non definitiva del Consiglio di Stato n. 5345 del 2011.
5. Con la sentenza di questa Sezione n. 3400 dell’11 giugno 2012:
a) è stata assodata la tempestività dell’istanza di prosecuzione del processo proposta dagli appellanti;
b) è stata respinta la richiesta degli appellanti volta all’esame immediato dell’ultimo motivo di ricorso. concernente la falsità delle sottoscrizioni a sostegno della presentazione della lista «Per la Lombardia» e la conseguente esclusione della medesima lista dalla competizione elettorale;
c) è stato sospeso il presente giudizio in attesa della decisione del giudice civile sulla querela di falso presentata dai signori Marco Cappato e Lorenzo Lipparini.
6. Con istanza depositata nella segreteria di questa Sezione in data 31 dicembre 2012, i signori Daniele Belotti, Dario Bianchi, Davide Boni, Renzo Bossi, Claudio Bottari, Cesare Bossetti, Fabrizio Cecchetti, Angelo Ciocca, Jari Colla, Giosué Frosio, Andrea Gibelli, Stefano Galli, Giangiacomo Longoni, Alessandro Marelli, Massimiliano Orsatti, Roberto Pedretti, Ugo Parolo, Luciana Ruffinelli, Massimiliano Romeo, Pierluigi Toscani – consiglieri del gruppo consiliare della “Lega Nord Padania” già costituiti in giudizio – hanno sollecitato la declaratoria di improcedibilità dell’appello per sopravvenuta carenza di interesse poiché nelle more del giudizio era stato sciolto il consiglio regionale della Lombardia.
7. Con decreto presidenziale n. 10 del 24 gennaio 2013. è stato ordinato agli istanti di notificare a tutte le altre parti costituite la richiesta di improcedibilità dell’appello, con termine per l’incombente di dieci giorni decorrenti dalla comunicazione del medesimo decreto.
8. Rimasto inevaso il su menzionato incombente, con decreto presidenziale n. 698, dell’11 giugno 2013, l’appello è stato dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse «Visto l’atto depositato il 31 dicembre 2012, con il quale parte ricorrente ha dichiarato di non avere più interesse al ricorso», con compensazione delle spese di lite;
9. Con istanza depositata il 18 giugno 2013, i signori Cappato e Lipparini hanno chiesto la revoca del su menzionato decreto n. 698 del 2013, in quanto frutto di una evidente svista; successivamente hanno proposto tempestiva opposizione ai sensi dell’art. 85, co. 3, c.p.a. (notificata il 10 luglio 2013 e depositata il 17 luglio 2013), insistendo per la revoca del decreto e la fissazione dell’udienza di merito; in data 19 dicembre 2013 hanno depositato la sentenza del Tribunale di Milano, sezione VI civile, n. 5363 del 17 aprile 2013 (corredata di attestazione di passaggio in giudicato), che ha dichiarato false 723 sottoscrizioni apposte negli elenchi di presentazione della lista «Per la Lombardia».
10. La difesa del signor Roberto Formigoni e quella della regione Lombardia hanno dedotto, sotto plurime angolazioni, l’infondatezza dell’opposizione, chiedendone il rigetto.
11. Con ordinanza di questa Sezione, n. 5255 del 23 ottobre 2014, l’opposizione è stata accolta ed è stata fissata l’udienza di merito del 24 febbraio 2015 per la discussione del ricorso in appello.
Si riportano le argomentazioni poste a sostegno della menzionata ordinanza: «in linea generale, come enunciato dalla consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato (da ultimo sul punto Ad. plen., 25 febbraio 2014, n. 9; Sez. IV, 10 febbraio 2014, n. 616; Sez. IV, Sez. V, 3 giugno 2013, n. 3035; Sez. IV, 9 maggio 2013, n. 2511; Sez. III, 14 marzo 2013, n. 1534; Sez. VI, 22 febbraio 2013, nn. 1089 e 1094, cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a):
I) l’azione di annullamento davanti al giudice amministrativo è soggetta – sulla falsariga del processo civile – a tre condizioni fondamentali (titolo, interesse ad agire, legittimazione attiva/passiva), che devono sussistere al momento della proposizione della domanda e permanere fino al momento della decisione finale;
II) tale assetto è coerente con la funzione svolta dalle condizioni dell’azione nei processi di parte, innervati come sono dal principio della domanda e dal suo corollario rappresentato dal principio dispositivo; tali condizioni (ed in particolare il c.d. titolo e l’interesse ad agire), assolvono una funzione di filtro in chiave deflattiva delle domande proposte al giudice, fino ad assumere l’aspetto di un controllo di meritevolezza dell’interesse sostanziale in gioco, alla luce dei valori costituzionali ed internazionali rilevanti, veicolati dalle clausole generali fondamentali sancite dagli artt. 24 e 111 Cost.; tale scrutinio di meritevolezza, costituisce, in quest’ottica, espressione del più ampio divieto di abuso del processo, inteso come esercizio dell’azione in forme eccedenti o devianti, rispetto alla tutela attribuita dall’ordinamento, lesivo del principio del giusto processo apprezzato come risposta alla domanda della parte secondo una logica che avversi ogni inutile e perdurante appesantimento o prolungamento del giudizio al fine di approdare, attraverso la riduzione dei tempi della giustizia, ad un processo che risulti anche giusto ma solo per chi effettivamente necessita della risposta di giustizia;
III) il controllo sulla sussistenza delle condizioni dell’azione e la disponibilità della relativa statuizione appartiene al giudice e non alle parti e deve essere effettuato in modo rigoroso per evitare, da un lato, il rischio del diniego di giustizia, dall’altro, un uso irragionevole di risorse indisponibili e tradizionalmente “scarse” (quelle che attengono appunto all’esercizio della giurisdizione), ponendo in essere un’attività processuale diseconomica, in chiaro contrasto con il principio della ragionevole durata del processo;
q) in particolare, avuto riguardo all’accertamento ed alla conseguente declaratoria della sopravvenuta carenza di interesse alla coltivazione del giudizio, è consolidata la massima secondo cui:
I) solo una situazione di fatto o di diritto nuova che muti radicalmente il quadro esistente al momento della proposizione del ricorso giustifica la declaratoria di sopravvenuta carenza di interesse ad agire;
II) in presenza del dissolvimento degli effetti del provvedimento impugnato, il riscontro operato dal giudice deve essere teso a rilevare la reale, certa e definitiva inutilità della sentenza non residuando più in capo al ricorrente la possibilità di ritrarre benefici anche di ordine morale e risarcitorio;
III) è sufficiente a radicare la permanenza dell’interesse alla pronuncia la dimostrazione di un interesse risarcitorio collegato ad un danno, come previsto oggi dall’art. 34, co. 3, c.p.a. (cfr. Cons. St., Sez. V, 23 aprile 2014, n. 2063; Sez. IV, 28 dicembre 2012, n. 6703), ovvero l’interesse ad ottenere una statuizione sulle spese ove non sia possibile fare ricorso al criterio di indagine della c.d. soccombenza virtuale (Cons. St., Sez. IV, 11 dicembre 2001, n. 6192);
IV) relativamente all’interesse morale l’indagine deve essere compiuta con particolare rigore onde evitare il rischio di trasformare quella amministrativa in una sorta di giurisdizione di diritto oggettivo;
r) i principi sopra esposti devono essere declinati con particolare prudenza in relazione alle controversie in materia elettorale specie allorquando, come nel caso di specie, sia stata proposta un’azione popolare; è pacifico che la scelta della legge di attribuire la legittimazione straordinaria anche a coloro che non sono candidati ad elezioni, da un lato, ha fatto venir meno la necessità di assodare la sussistenza della legittimazione al ricorso e della legitimatio ad causam, dall’altro, stante il carattere eccezionale di tale norma, non esime il giudice dall’accertamento rigoroso della permanenza dell’interesse ad agire; la tesi consolidata (e risalente, cfr. Cons. St., Sez. V, 26 giugno 1993, n. 741; 21 dicembre 1992, n. 1544; 8 aprile 1987, n. 228), è nel senso che il completamento del periodo di durata dell’organo elettivo (ovvero il suo scioglimento anticipato), intervenuto nelle more del giudizio avente ad oggetto le operazioni elettorali correlate a quello specifico mandato elettorale, rende il ricorso proposto da candidati non eletti, avverso la proclamazione, improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse; ovviamente, ove allegato da parte di questi ultimi un interesse risarcitorio, il giudice amministrativo dovrà doverosamente pronunciarsi sulla validità delle operazioni elettorali ai sensi dell’art. 34, co. 3, c.p.a.; per quanto concerne l’attore popolare, tale esigenza è assente ab origine (non potendo comunque vantare alcuna aspettativa all’ufficio onorario); tale oggettiva situazione fattuale, tuttavia, non consente di obliterare sempre e comunque, l’interesse ad agire dell’attore popolare, tenuto conto che comunque l’invalidità delle operazioni elettorali è lesiva di valori costituzionali fondamentali (compendiati dall’art. 48 Cost.); in tal caso per poter accertare in modo rigoroso la permanenza o meno dell’interesse ad agire, occorre discernere all’interno dei vizi di legittimità prospettati a fondamento della domanda di annullamento: se le censure proposte in giudizio si appuntano su fatti che ex se esprimono un disvalore così forte da configurare un illecito (civile o penale), deve ritenersi che, in via del tutto eccezionale, permanga l’interesse ad agire, anche dopo il venir meno dell’organo elettivo; tale soluzione costituisce un punto di equilibrio fra due opposte esigenze entrambe di rango costituzionale: quella all’impiego razionale delle scarse risorse giudiziarie in ossequio al principio di ragionevole durata del processo e del giusto processo, e quella tesa ad evitare che la durata del giudizio amministrativo - a cagione della soluzione imposta dalla legge e corroborata dalla Corte costituzionale per cui l’accertamento penalistico o civile della falsità rilevanti in sede di operazioni elettorali è comunque inibita al giudice amministrativo – ridondi in danno di chi, in attuazione di un dovere civico, ha sostenuto impegni economici e temporali rilevanti a tutela del valore dell’esercizio democratico e legale del voto;
s) facendo applicazione dei su esposti principi nel particolare caso di specie, emerge l’interesse (ad agire) dei ricorrenti affinché il processo si concluda con una decisione di merito, invero:
I) sussiste una aspettativa, di indole endo processuale, a che il giudizio sia deciso secondo il rito ordinario dell’udienza pubblica (sulla cui pregnanza costituzionale e internazionale è sufficiente rinviare ai principi richiamati da Cons. St., Sez. V, 27 gennaio 2014, n. 401), dato che i ricorrenti non hanno mai dichiarato la sopravvenuta carenza di interesse alla coltivazione del ricorso;
II) sussiste un interesse dei ricorrenti (anche questo frustrato dal rito speciale culminato nell’emanazione del decreto oggetto della presente opposizione) a che la causa sia decisa nel merito onde vedersi riconosciuto il favore delle spese di lite in caso di eventuale vittoria, anche in applicazione del criterio della c.d. soccombenza virtuale».
12. Con le memorie conclusionali e di replica depositate in vista dell’udienza pubblica del 24 febbraio 2015, la regione Lombardia e il signor Roberto Formigoni hanno sostenuto che:
a) il venir meno degli organi regionali, insediatisi all’esito delle operazioni elettorali impugnate, rende impossibile la soddisfazione dell’interesse istituzionale all’annullamento della correlata proclamazione, mentre l’interesse pubblico alla regolare composizione ed al retto funzionamento degli organi in questione risulta in concreto salvaguardato dal rinnovo della compagine consiliare in conseguenza delle elezioni del 24 e 25 febbraio 2013; pertanto, l’annullamento delle elezioni regionali del 2010 non potrebbe più produrre alcun effetto sulla composizione degli organi di governo regionali;
b) non è configurabile alcun interesse morale in capo all’attore popolare, perché altrimenti si rischierebbe di trasformare quella amministrativa in una giurisdizione di diritto oggettivo;
c) in ogni caso tale interesse è stato soddisfatto dalla sentenza passata in giudicato del Tribunale civile di Milano in data 17 aprile 2013, recante l’accertamento della falsità di 723 sottoscrizioni, nonché dalla sentenza del Tribunale penale di Milano in data 28 novembre 2014, recante la condanna alla pena della reclusione dei cinque imputati del falso elettorale;
d) non sussiste un interesse patrimoniale (identificabile nella ripartizione dell’onere delle spese processuali), in quanto tutti i motivi di censura sono stati a suo respinti dalla sentenza non definitiva di questa Sezione n. 5345 del 2011, mentre ogni questione relativa alla falsità delle sottoscrizioni, in conseguenza della sentenza della Corte costituzionale n. 304 del 2011, è stata affidata alla giurisdizione del giudice ordinario.
13. Gli appellanti hanno replicato agli argomenti esposti dalle controparti insistendo per l’accoglimento del gravame e la condanna alle spese di lite, secondo la misura indicata nei prospetti versati in giudizio (oltre trentamila,00 euro per ciascuna notula).
14. La causa è stata trattenuta in decisione all’udienza pubblica del 24 febbraio 2015.
15. L’appello è fondato e deve essere accolto nei limiti meglio precisati in prosieguo.
16. In ordine logico, il Collegio deve esaminare l’eccezione di improcedibilità del gravame per sopravvenuta carenza di interesse, reiterata dalle difese del Signor Formigoni e della regione Lombardia.
16.1. Gli argomenti posti a sostegno dell’eccezione non sono suscettibili di favorevole esame in quanto:
a) la su riportata ordinanza di questa Sezione - n. 5255 del 2014 - è stata univoca nel riconoscere, sotto plurime prospettive, la sussistenza dell’interesse ad agire (morale e patrimoniale) in una vicenda, come quella in esame, caratterizzata da peculiari aspetti;
b) in quest’ottica il Collegio ribadisce, sinteticamente, che: I) l’interesse ad agire d’indole morale deriva dal carattere di illiceità (penale e civile) che ha connotato il vizio di legittimità posto a sostegno dell’impugnativa elettorale; II) l’interesse ad agire d’indole patrimoniale deriva dalla necessità di stabilire con certezza, all’esito di una regolare udienza pubblica, la fondatezza della pretesa azionata con l’impugnativa elettorale onde distribuire il carico delle spese di ben due gradi di giudizio;
c) la pubblicazione delle richiamate sentenze del Tribunale civile e del Tribunale penale di Milano – recanti, rispettivamente, l’accertamento della falsità delle sottoscrizioni e la condanna degli autori di tali fatti – è intrinsecamente inidonea a soddisfare l’interesse ad agire (morale) dei ricorrenti poiché quest’ultimo è strettamente correlato all’oggetto del giudizio impugnatorio, ovvero all’accertamento della validità o meno della competizione elettorale tenutasi nei giorni 28 e 29 marzo 2010; in quest’ottica è evidente che i contenuti e gli effetti delle sentenze del giudice ordinario si collocano, in via immeditata e diretta, su piani logici e processuali diversi da quelli propri del giudizio amministrativo, sebbene abbiano costituito (il giudicato civile per la precisione), l’antecedente logico ineludibile della definizione di quest’ultimo;
d) il sistema processuale – ritenuto conforme alla Costituzione dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 304 del 2011 - non incide sulla regola tendenzialmente inderogabile - ai sensi del novellato art. 92, co. 2, c.p.c. applicabile al processo amministrativo ex art. 26, co. 1, c.p.a. - del carico delle spese sulla parte soccombente.
Per completezza il Collegio evidenzia che il signor Roberto Formigoni, sia in sede civile che in sede penale, non è stato riconosciuto responsabile della falsificazione delle sottoscrizioni depositate in sede amministrativa a sostengo della presentazione della lista «Per la Lombardia».
17. Può scendersi, infine, all’esame dell’ultimo residuo mezzo posto a base dell’appello, concernente l’accertamento della invalidità delle operazioni elettorali in quanto inficiate dalla falsità delle sottoscrizioni poste a sostegno della «Lista per la Lombardia».
17.1. Il mezzo è fondato.
17.2. Risulta per tabulas - e non è stato oggetto di contestazione specifica dalle controparti costituite – che, sottraendo alle 3.918 firme a suo tempo dichiarate dagli autenticatori le 723 firme riconosciute false dal giudicato civile, la lista «Per la Lombardia» non avrebbe raggiunto il numero di sottoscrizioni minime (pari a 3.500) richiesto dalla legge per la presentazione della lista; da qui l’erroneità dell’ammissione della lista in questione alla competizione elettorale e l’invalidità delle successive operazioni elettorali culminate nella proclamazione delle eletti al consiglio regionale e del candidato signor Roberto Formigoni alla presidenza della giunta regionale.
17.2. Il Collegio rileva che si sono dissolti medio tempore gli organi elettivi la cui proclamazione ha costituito oggetto del presente giudizio, per una causa autonoma e indipendente dalla volontà delle parti e dalle statuizioni di giudici amministrativi (cioè l’avvenuto scioglimento anticipato del consiglio regionale e l’insediamento di altri organi politici).
Pertanto, all’accertamento della invalidità delle operazioni elettorali non può logicamente conseguire il loro annullamento, essendosi esauriti tutti gli effetti (non potendo essere determinate in questa sede le implicazioni di tale declaratoria di illegittimità).
18. In conclusione, in riforma della sentenza impugnata l’appello deve essere accolto, con le precisazioni dianzi illustrate.
19. Le spese di entrambi i gradi di giudizio, regolamentate secondo l’ordinario criterio della soccombenza, sono liquidate in dispositivo tenuto conto dei parametri stabiliti dal regolamento 10 marzo 2014, n. 55, e dei due autonomi prospetti di liquidazione depositati rispettivamente dagli avvocati Bucello e Viola (in data 23 gennaio 2015) e dall’avvocato Pesce (in pari data), i cui importi sono stati solo genericamente contestati dalle controparti, fermo restando che ai sensi dell’art. 8, co. 1, del menzionato d.m. n. 55 «nella liquidazione a carico del soccombente sono computati i compensi per un solo avvocato».
Devono essere compensate le spese relative al rapporto processuale corrente fra gli appellanti e l’Ufficio centrale regionale presso la Corte d'appello di Milano (in quanto organo straordinario e dunque non individuato dall’art. 130 c.p.a. come destinatario della notificazione del ricorso), nonché fra i medesimi e tutte le altre parti evocate in giudizio, ma che non si sono costituite e non hanno dunque assunto una posizione antagonista rispetto a quella dei ricorrenti; tali parti, in realtà, a fronte della domanda di rettifica delle operazioni elettorali precisata in appello (pagina 44 dell’atto di gravame), non hanno acquisito la qualità di controinteressati (perché appartenenti a liste diverse da quella vincitrice e da quella collegate per la elezione del presidente), e dunque la notificazione del gravame nei loro confronti deve intendersi essere stata effettuata a titolo di mera litis denuntiatio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto:
a) accoglie l’appello n. 495 del 2011 e, per l'effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, accoglie il ricorso di primo grado nrg. 1138/2010 e dichiara illegittima la proclamazione degli eletti e le presupposte operazioni elettorali per il rinnovo del consiglio regionale della Lombardia svoltesi il 28 e 29 marzo 2010;
b) condanna le parti appellate costituite, compresa la regione Lombardia (escluso l’Ufficio centrale regionale presso la Corte d'appello di Milano), in solido fra loro, a rifondere in favore dei signori Marco Cappato e Lorenzo Lipparini le spese e gli onorari di ambedue i gradi di giudizio che liquida in complessivi euro 20.000/00 (ventimila/00), oltre accessori di legge (I.V.A., C.P.A. e 15% a titolo di rimborso di spese generali).
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.





Sindaco: divieto del terzo mandato consecutivo


Cass. 26 marzo 2015, n. 6128


La ratio del divieto del terzo mandato consecutivo alla carica di sindaco è di evitare l’alterazione della par conditio alle elezioni successive alla seconda e le rendite di posizione nelle funzioni di governo locale, in caso di successione reiterata del candidato che abbia già compiuto un doppio mandato consecutivo, anche perché è allora che può profilarsi un più incisivo vantaggio al fine di conseguire di nuovo la carica di sindaco; rispetto a tale intento, non incide sull’operatività del divieto, la gestione commissariale durante uno dei mandati (tranne che non si renda applicabile l’eccezione prevista dal terzo comma dell’art. 51 T.U.E.L.)

domenica 29 marzo 2015





Elezioni Regionali in Veneto

D.P.G.R. (Veneto) del 27 marzo 2015 (B.U.R. 27 marzo 2015, n. 30),  Indizione delle elezioni del Consiglio regionale e del Presidente della Giunta regionale del Veneto ed attribuzione dei seggi alle circoscrizioni elettorali.

Il Presidente
Premesso che l’articolo 122 della Costituzione attribuisce alle Regioni la competenza a disciplinare con legge il sistema elettorale regionale nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge dello Stato e che la legge 2 luglio 2004, n. 165 recante “Disposizioni di attuazione dell’art. 122, primo comma, della Costituzione” stabilisce, tra gli altri, i principi fondamentali in materia di sistema di elezione del Presidente della Giunta e dei consiglieri regionali;
Visto che - al fine di realizzare le condizioni previste dall'articolo 7, comma 1, del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, in tema di c.d. election day e di ottenere i conseguenti risparmi di spesa - con l’articolo 1, comma 501, della legge 23 dicembre 2014, n. 190 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)” e con successivo decreto legge n. 27 del 17 marzo 2015, è stato modificato l’articolo 5, comma 1, della legge 165/2004, che ora così testualmente dispone: “Gli organi elettivi delle regioni durano in carica per cinque anni, fatta salva, nei casi previsti, l’eventualità dello scioglimento anticipato del Consiglio regionale. Il quinquennio decorre per ciascun Consiglio dalla data della elezione e le elezioni dei nuovi Consigli hanno luogo non oltre i sessanta giorni successivi al termine del quinquennio o nella domenica compresa nei sei giorni ulteriori.”;
Preso atto che, come comunicato con circolare del Ministero dell’Interno n. 9/2015 del 24 marzo 2015, con Decreto del 19 marzo 2015 il Ministro dell’Interno ha fissato la data di svolgimento del turno annuale ordinario di elezioni amministrative per domenica 31 maggio 2015;
Visto lo Statuto regionale approvato con la legge regionale statutaria 17 aprile 2012, n. 1, in particolare gli articoli 34 e 51 che dispongono, rispettivamente, sull’elezione e la composizione del Consiglio regionale e sull’elezione del Presidente della Giunta;
Vista la legge regionale 16 gennaio 2012, n. 5 “Norme per l’elezione del Presidente della Giunta e del Consiglio regionale” e ss.mm. e ii., ed in particolare i seguenti articoli:
- articolo 2, il quale prevede che il numero dei consiglieri regionali è determinato con riferimento alla popolazione residente definita in base ai risultati ufficiali dell’ultimo censimento generale e che fanno, inoltre, parte del Consiglio regionale il Presidente della Giunta regionale e il candidato alla carica di Presidente che ha conseguito un numero di voti validi immediatamente inferiore a quello del candidato proclamato eletto Presidente;
- articolo 4, il quale stabilisce che il territorio regionale è ripartito in circoscrizioni elettorali corrispondenti alle province di Belluno, Padova, Rovigo, Treviso, Venezia, Verona e Vicenza, e precisa le modalità per la ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni medesime;
- articolo 11, che dispone che le elezioni del Consiglio regionale e del Presidente della Giunta, “che hanno luogo nel periodo che intercorre tra il 15 maggio e il 15 giugno”, sono indette con Decreto del Presidente della Giunta regionale in carica, provvedimento che comprende, oltre alla convocazione dei comizi elettorali, anche l’indicazione del numero dei seggi attribuiti a ciascuna circoscrizione elettorale; il Decreto è comunicato immediatamente ai Sindaci dei Comuni della Regione, che ne danno notizia agli elettori con un manifesto che deve essere affisso quarantacinque giorni prima della data stabilita per le elezioni, nonché ai Presidenti dei Tribunali nella cui giurisdizione sono i Comuni capoluogo di Provincia della Regione e al Presidente della Corte d’Appello del capoluogo della Regione; il Decreto è inoltre pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione almeno sessanta giorni prima del giorno delle elezioni;
Vista la legge 17 febbraio 1968, n. 108 “Norme per la elezione dei Consigli regionali delle Regioni a statuto normale” e ss.mm. e ii.;
Vista la legge 23 febbraio 1995, n. 43 “Nuove norme per la elezione dei consigli delle regioni a statuto ordinario” e ss.mm. e ii.;
Visto l’articolo 7, comma 1, del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, in tema di c.d. election day;
Visto il Decreto del Presidente della Repubblica 6 novembre 2012 recante “Determinazione della popolazione legale della Repubblica in base al 15° censimento generale della popolazione e delle abitazioni del 9 ottobre 2011, ai sensi dell’articolo 50, comma 5, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122.”;
decreta
  1. le premesse costituiscono parte integrante e sostanziale del presente atto;
  1. di convocare per domenica 31 maggio 2015 i comizi per l’elezione del Consiglio regionale e del Presidente della Giunta regionale del Veneto, atteso che con Decreto del Ministro dell’Interno del 19 marzo 2015 sono state indette per la stessa data le elezioni amministrative;
  1. di indicare, per ciascuna circoscrizione elettorale provinciale, il seguente numero di seggi, attribuito a seguito del riparto risultante dalla tabella allegata (Allegato A) al presente Decreto:
·         Circoscrizione elettorale di Belluno    2 seggi
 
·         Circoscrizione elettorale di Padova    9 seggi
 
·         Circoscrizione elettorale di Rovigo    2 seggi
 
·         Circoscrizione elettorale di Treviso    9 seggi
 
·         Circoscrizione elettorale di Venezia    9 seggi
 
·         Circoscrizione elettorale di Verona    9 seggi
 
·         Circoscrizione elettorale di Vicenza    9 seggi
  1. di comunicare immediatamente il presente Decreto, ai sensi dell’articolo 11, comma 4, lettera a) della legge regionale n. 5/2012, ai Sindaci dei Comuni della Regione che ne danno notizia agli elettori con un manifesto che deve essere affisso quarantacinque giorni prima della data stabilita per le elezioni;
  1. di comunicare immediatamente il presente Decreto, ai sensi dell’articolo 11, comma 4, lettere b) e c) della legge regionale n. 5/2012, ai Presidenti dei Tribunali nella cui giurisdizione sono i Comuni capoluogo di Provincia della Regione e al Presidente della Corte d’Appello di Venezia;
  1. di incaricare la Segreteria Generale della Programmazione del coordinamento delle attività necessarie a dare esecuzione al presente atto, come peraltro già disposto nel decreto n. 2 del 13 febbraio 2015 del medesimo Segretario Generale;
  1. di pubblicare il presente atto nel Bollettino Ufficiale della Regione.
Luca Zaia
http://bur.regione.veneto.it/BurvServices/pubblica/DettaglioDecretoPGR.aspx?id=295106

venerdì 27 marzo 2015





Domenica 31 maggio 2015 elezioni amministrative

Dal sito del Ministero dell’Interno, si riporta la news datata 27 marzo 2015:

“Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ha fissato, con proprio decreto firmato il 19 marzo u.s., la data di svolgimento del turno annuale ordinario di elezioni amministrative nelle regioni a statuto ordinario per domenica 31 maggio 2015.

L’eventuale turno di ballottaggio avrà luogo domenica 14 giugno.

Tanto si ribadisce alla luce di alcuni articoli di stampa pubblicati in questi giorni” (…di cui avevamo dato conto in un precedente post…ndA).

Qui il decreto:

http://www.interno.gov.it/it/notizie/domenica-31-maggio-2015-elezioni-amministrative





giovedì 26 marzo 2015





Circolare Prefettura Avellino 17 marzo 2015, n. 2050, Elezioni dei Comitati degli italiani all’estero (COMITES) indette per il 17 aprile 2015. Esercizio dell’opzione degli elettori residenti all’estero entro il termine del 18 marzo 2015. Adempimenti dei comuni. ai . fini dell’ammissione al voto per corrispondenza

La legge 23 ottobre 2003, n. 286, all’articolo 14, comma 1, ha introdotto, per le elezioni dei Comitati degli italiani all’estero (COMITES), la modalità di voto per corrispondenza che ha trovato applicazione in occasione delle elezioni del 26 marzo 2004.

Le prossime elezioni dei predetti Comitati, indette per il 17 aprile 2015, si svolgeranno con l’ammissione al voto degli elettori che abbiano fatto pervenire, all’ufficio consolare di riferimento, domanda di iscrizione nell’elenco elettorale almeno trenta giorni prima della data stabilita per le votazioni e cioè entro il 18 marzo c.a. (legge 23 dicembre 2014, n. 190, articolo 1, comma 323).

Il Ministero dell’Interno ha fornito tempestivamente al Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, a cui fa capo l’organizzazione tecnica delle predette consultazioni, l’elenco degli aventi diritto al voto, di cuiall’articolo 5 della legge 27 dicembre 2001, n. 459, aggiornato

Peraltro, con riferimento alle domande fatte pervenire agli Uffici consolari da parte di cittadini che non risultino iscritti, per qualsiasi motivo, nel suddetto elenco, i Consolati stessi, al fine dell’eventuale ammissione consolare al voto di cui agli articoli 19 e 20 del D.P.R. n. 395 del 2003, e della conseguente iscrizione dei nominativi di cui trattasi nell’elenco aggiunto, stanno attivando, direttamente presso i comuni interessati, la procedura per gli accertamenti relativi alla mancanza di cause ostative al voto nei confronti dei soggetti richiedenti.

La stessa procedura potrebbe essere utilizzata anche per verificare se siano in possesso dell’elettorato attivo i candidati alla predetta elezione che risultino eventualmente omessi dall’elenco degli elettori.  Pertanto, le SS.LL. vorranno adempiere alle suddette richieste dei Consolati entro il termine di ventiquattro ore previsto dal citato art. 19 del D.P.R. n. 395/03; quanto sopra, ai fini dell’ammissione al voto di tutti gli aventi diritto.



La legge 7 aprile 2014, n. 56, Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni (c.d. legge Delrio), secondo la Consulta


Corte cost. 26 marzo 2015, n. 50

SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi da 4 a 19, 21, 22, 25, 42, 48, da 54 a 58, da 60 a 65, 67, da 69 a 79, 81, 83, da 89 a 92, 95, 105, 106, 117, 124, 130, 133 e 149 della legge 7 aprile 2014, n. 56 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni), promosso dalle Regioni Lombardia, Veneto, Campania e Puglia con ricorsi notificati il 4-10, il 4, il 6 (spedito per la notifica) e il 6-12 giugno 2014, depositati in cancelleria il 6, il 13 e il 16 giugno 2014 ed iscritti ai nn. 39, 42, 43 e 44 del registro ricorsi 2014.
Visti gli atti di costituzione, di cui uno fuori termine, del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 24 febbraio 2015 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli;
uditi gli avvocati Francesco Saverio Marini per la Regione Lombardia, Luca Antonini e Luigi Manzi per la Regione Veneto, Beniamino Caravita di Toritto per la Regione Campania, Marcello Cecchetti per la Regione Puglia e gli avvocati dello Stato Pio Marrone e Massimo Massella Ducci Teri per il Presidente del Consiglio dei ministri.


Ritenuto in fatto
1.– Le Regioni Lombardia, Veneto, Campania e Puglia, con i ricorsi in epigrafe, hanno proposto varie questioni di legittimità costituzionale della legge 7 aprile 2014, n. 56 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni) che, complessivamente, investono cinquantotto commi del suo articolo 1.
Le disposizioni censurate – per i motivi dalle singole ricorrenti, rispettivamente, illustrati ed in relazione ai parametri corrispondentemente evocati (dei quali specificamente si dirà nel Considerato in diritto) – sono, in particolare, quelle di cui ai seguenti commi del predetto art. 1:
– da 5 a 19, 21, 22, 25, 42 e 48, sulla istituzione e disciplina delle «Città metropolitane»;
– da 54 a 58, da 60 a 65, 67, da 69 a 79, 81 e 83, sulla ridefinizione dei confini territoriali e del perimetro delle competenze delle Province («In attesa della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione»);
– da 89 a 92 e 95, concernenti modalità e tempistiche del procedimento di riordino delle funzioni ancora attribuite alle Province ed allo scorporo di quelle ad esse sottratte e riassegnate ad altri enti;
– 4, 105, 106, 117, 124, 130 e133, in tema di unioni e fusioni di Comuni;
– 149, sulla prevista predisposizione, da parte del Ministro per gli affari regionali, di «appositi programmi di attività», per accompagnare e sostenere l’applicazione degli interventi di riforma.
2.– In tutti i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, contestando la fondatezza di ciascuna delle questioni sollevate, sulla base di plurime argomentazioni (delle quali anche si dirà nel Considerato in diritto).
3.– Nella imminenza della udienza di discussione, ciascuna delle Regioni ricorrenti ha depositato memoria; e, nei quattro correlativi giudizi, l’Avvocatura dello Stato ha depositato, a sua volta, altrettante memorie.


Considerato in diritto
1.– Con i quattro ricorsi in epigrafe, che per la comunanza o connessione dei rispettivi oggetti, possono riunirsi per essere congiuntamente esaminati, le Regioni Lombardia, Veneto, Campania e Puglia impugnano, complessivamente, cinquantotto commi dell’art. 1 della legge 7 aprile 2014, n. 56 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni), per contrasto con i parametri (congiuntamente o disgiuntamente evocati) di cui agli artt. 1, 2, 3, 5, 48, 97, 114, 117, commi secondo, lettera p), terzo e quarto, 118, 119, 120, 123, primo comma, 133, primo e secondo comma, 136 e 138 della Costituzione, oltreché all’art. 117, primo comma Cost., in relazione agli artt. 3 e 9 della Carta europea dell’autonomia locale, firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985, ratificata e resa esecutiva con legge 30 dicembre 1989, n. 439.
A ciascun ricorso resiste il Presidente del Consiglio dei ministri per il tramite dell’Avvocatura generale dello Stato; ma il suo atto di costituzione nel giudizio instaurato dalla Regione Lombardia va dichiarato inammissibile, perché proposto oltre il termine perentorio di cui all’art 19, terzo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti la Corte costituzionale, risultando depositato il 22 luglio 2014 e, quindi, il 31° giorno successivo alla scadenza del termine medesimo stabilito per il deposito del ricorso principale.
2.– Disaggregate dai singoli ricorsi e riaggregate – in relazione ai profili di coincidenza o complementarietà delle disposizioni impugnate e dei parametri, in relazione a queste evocati – le questioni proposte dai ricorrenti, rispettivamente, coinvolgono:
– la disciplina delle istituite «Città metropolitane», per quanto attiene ai commi da 5 a 19, 21, 22, 25, 42 e 48 del suddetto art. 1 della legge n. 56 del 2014;
– la ridefinizione dei confini territoriali e del quadro delle competenze delle Province, «in attesa della riforma del titolo V, parte seconda, della Costituzione», quanto ai commi da 54 a 58, da 60 a 65, 67, da 69 a 79, 81 e 83 del medesimo art. 1;
– il procedimento di riallocazione delle funzioni “non fondamentali” delle Province (commi da 89 a 92 e 95 del citato articolo);
– la disciplina delle unioni e fusioni di Comuni (commi 4, 105, 106, 117, 124, 130 e 133);
– la prevista predisposizione di «appositi programmi di attività», di fonte ministeriale, per sostenere gli «interventi di riforma» di cui alla legge impugnata, e per la «attuazione di quanto previsto dall’art. 9 del decreto-legge 6 luglio 2012 n. 95 [Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini], convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012 n. 135» (comma 149).
3.– Il primo gruppo di norme sottoposte al vaglio di costituzionalità attiene, come evidenziato, alla istituzione e disciplina dell’ente territoriale, così detto di «area vasta», delle «Città metropolitane» (funzionale al prefigurato disegno finale di soppressione delle Province con fonte legislativa di rango costituzionale).
3.1.– Si tratta, in particolare, delle disposizioni di cui ai seguenti commi della legge n. 56 del 2014:
– 5, che istituisce le Città metropolitane di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria, e qualifica i principi della correlativa disciplina «di grande riforma economica e sociale», con riguardo alle aree metropolitane da adottare dalle Regioni autonome, in conformità ai rispettivi statuti;
– 6, che disegna il territorio delle Città metropolitane in coincidenza «con quello della provincia omonima», facendo salva «l’iniziativa dei comuni, ivi compresi i comuni capoluogo delle province limitrofe […] per l’adesione alla città metropolitana»;
– 7, 8 e 9, individuativi degli organi di dette «città» [«a) il sindaco metropolitano; b) il consiglio metropolitano; c) la conferenza metropolitana»] e delle correlative funzioni;
− 10 e 11, sulle materie disciplinate dallo statuto, con previsione di delegabilità di specifiche funzioni (da Comuni od unioni) alla Città metropolitana e viceversa;
– 12 e 18, sulla tempistica per la costituzione delle Città metropolitane;
– 13, sulla composizione e modalità di elezione di una conferenza statutaria per la redazione di una proposta di statuto della Città metropolitana;
– 14, sulla temporanea e limitata prorogatio dei poteri di Presidenti e Giunte delle Province in carica alla data di entrata in vigore della legge n. 56 del 2014;
– 15, sulle prime elezioni del Consiglio metropolitano;
– 16, sulla successione delle Città metropolitane, nei rapporti attivi e passivi, e nell’esercizio delle funzioni, delle Province omonime, cui subentrano;
– 17, sulla procedura del potere sostitutivo ex art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), «in caso di mancata approvazione dello statuto entro il 30 giugno 2015»;
– 19, per il quale «il sindaco metropolitano è di diritto il sindaco del comune capoluogo»;
− 21, sulla durata in carica del Consiglio metropolitano e sul termine relativo all’indizione delle nuove elezioni dello stesso Consiglio metropolitano, in caso di rinnovo del Consiglio del comune capoluogo;
– 22, sulla condizione della previa articolazione, in più Comuni, del territorio del Comune capoluogo, ai fini della eleggibilità diretta (ove statutariamente prevista) del sindaco e del Consiglio metropolitano;
– 25, sulla composizione del «consiglio metropolitano» (eletto dai sindaci e dai consiglieri dei Comuni della Città metropolitana);
– 42, sulla conferenza metropolitana, «composta dal sindaco metropolitano, che la convoca e la presiede, e dai sindaci dei comuni appartenenti alla città metropolitana»;
– 48, sulle disposizioni e sul trattamento economico applicabili al personale delle Città metropolitane.
3.2.– Nell’economia delle numerose censure formulate dalle Regioni ricorrenti con riguardo al quadro delle sopra citate disposizioni, rilievo preliminare (e potenzialmente assorbente) assumono, nell’ordine, quella che denuncia il contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., sul presupposto che la istituzione e la disciplina delle Città metropolitane non rientri in alcuno dei tre ambiti di competenza legislativa statale individuati tassativamente nella richiamata norma costituzionale; e quella che deduce la violazione dell’art. 133, primo comma, Cost., per il quale − ai fini del mutamento delle circoscrizioni provinciali e della perimetrazione delle Città metropolitane nell’ambito di una Regione − lo Stato potrebbe intervenire con proprie leggi, ma solo “su iniziativa dei Comuni sentita la stessa Regione” e, quindi, all’esito di un procedimento legislativo cosiddetto “rinforzato”, nella specie, viceversa, omesso.
3.2.1.– Ulteriori (subordinate) censure sono, poi in particolare, rivolte alle disposizioni afferenti ai commi 7, 8, 9, 19, 25 e 42 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, per supposta violazione degli artt. 1, 5, 48, 114 e 117, primo comma, Cost. (quest’ultimo in relazione al parametro interposto costituito dall’art. 3, comma 2, della Carta europea dell’autonomia locale), nella parte in cui le previste istituzione e disciplina della Città metropolitana quale nuovo ente territoriale con un modello di governo di secondo grado, caratterizzato totalmente da organi elettivi indiretti, si assume che verrebbe a risultare in contrasto con il principio della rappresentanza politica democratica e con quello della sovranità popolare, suscettibili, invece, di essere, derogati soltanto con legge costituzionale, mediante l’osservanza del procedimento di revisione aggravata previsto dall’art. 138 Cost.
3.2.2.– Le Regioni Lombardia e Veneto hanno anche prospettato la illegittimità costituzionale dei commi 7, 8, 9, 16, 19, 21, 25 e 42 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, per violazione degli artt. 3, 5, 117, primo comma, e 118 Cost., sul presupposto che le censurate disposizioni contrasterebbero con il principio di autonomia degli enti territoriali locali, con quello di rappresentatività e democraticità (non risultando prevista l’elezione di almeno un organo collegiale a suffragio universale e diretto), oltre che con quelli di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, la cui lesione discenderebbe dalla disposta attribuzione della regolamentazione dell’allocazione delle funzioni amministrative di detti nuovi enti territoriali alla competenza statale, in dispregio della riserva legislativa conferita alle Regioni.
La Regione Lombardia ha, altresì, espresso il dubbio di violazione anche dell’art. 119 Cost. (oltre che dello stesso art. 117, primo comma, Cost., in relazione al parametro interposto individuato nell’art. 9 della Carta europea dell’autonomia locale), nella parte in cui le disposizioni denunciate si porrebbero in contrasto con il principio di necessaria democraticità del governo delle autonomie locali, sotto l’ulteriore profilo del riconoscimento della loro autonomia finanziaria e della loro autorità impositiva.
3.2.3.– Per contrasto con gli artt. 114, secondo comma, e 120, secondo comma, Cost., la Regione Puglia ha poi denunciato l’incostituzionalità del comma 17 (in correlazione anche ai successivi commi 81 e 83) dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, in ragione della prospettata illegittimità della previsione dell’esercizio del potere sostitutivo straordinario dello Stato per l’eventualità della mancata realizzazione della potestà statutaria delle Province e delle Città metropolitane.
3.2.4.– In riferimento ai parametri di cui agli artt. 1, 3, 48, 114, 117, primo comma, e 118 Cost., la Regione Lombardia ha censurato poi il comma 19 del predetto art. 1, quanto alla adottata soluzione per cui il sindaco del Comune capoluogo è di diritto il sindaco della Città metropolitana.
Le Regioni Puglia e Campania hanno esteso l’impugnativa al successivo comma 22, per il profilo delle gravosità degli adempimenti e delle condizioni cui è subordinata la possibilità di successiva elezione diretta del sindaco metropolitano.
3.2.5.− A sua volta, la disposizione di cui al sopra citato comma 48 – relativa alla applicazione al personale metropolitano delle disposizioni vigenti per il personale delle Province – sarebbe, secondo la Regione Puglia, «incostituzionale nella misura in cui si riferisce anche alla disciplina inerente il rapporto d’ufficio, oltre che a quella concernente il rapporto di servizio, da ritenersi di competenza statale in virtù del titolo di intervento “ordinamento civile”».
3.2.6.– La medesima Regione Puglia, denuncia, infine, i commi 10 e 11, lettere b) e c), e, parallelamente, il comma 89, lettera a), dell’art. 1 della legge in esame, nella parte in cui disciplinerebbero aspetti organizzativi delle Città metropolitane (e delle Province) diversi da quelli concernenti gli «organi di governo» (art. 117, secondo comma, lettera p, Cost.); i commi 9 e 11 (e 89), in quanto regolerebbero funzioni delle Città metropolitane (e delle Province) non riconducibili alla competenza dello Stato in materia di funzioni fondamentali o nelle altre materie di competenza esclusiva di quest’ultimo (art. 118, secondo comma, Cost.).
3.3.− L’Avvocatura dello Stato ha contestato la fondatezza di ciascuna delle riferite censure sulla premessa di fondo della riconducibilità delle norme impugnate alla competenza statuale, in merito alla istituzione delle Città metropolitane, a suo avviso implicata nell’art. 114 Cost.; sostenendo il sostanziale rispetto, altresì, del procedimento di cui all’art. 133, primo comma, Cost., per quanto attiene alla correlativa conformazione territoriale, la legittimità dell’adottato modello di governo, di secondo grado, del nuovo ente territoriale; ed escludendo, infine, la violazione dei parametri evocati dalle ricorrenti con riguardo ai sopra menzionati singoli specifici aspetti disciplinatori dell’ente medesimo.
3.4.− Le questioni sin qui esaminate non sono fondate.
3.4.1.− Non fondata è, innanzitutto, la preliminare questione di competenza sollevata dalle ricorrenti sul presupposto che la mancata espressa previsione della “istituzione delle città metropolitane” nell’ambito di materia riservato alla legislazione esclusiva dello Stato ex art. 117, comma secondo, lettera p), Cost. ne comporti l’automatica attribuzione alla rivendicata competenza regionale esclusiva, in applicazione della clausola di residualità di cui al quarto comma dello stesso art. 117.
Se esatta fosse, invero, una tale tesi si dovrebbe pervenire, per assurdo, alla conclusione che la singola Regione sarebbe legittimata a fare ciò che lo Stato “non potrebbe fare” in un campo che non può verosimilmente considerarsi di competenza esclusiva regionale, quale, appunto, quello che attiene alla costituzione della Città metropolitana, che è ente di rilevanza nazionale (ed anche sovranazionale ai fini dell’accesso a specifici fondi comunitari).
E ciò a maggior ragione ove si consideri che con riguardo al nuovo ente territoriale, le Regioni non avrebbero le competenze, che l’evocato art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., riserva in via esclusiva allo Stato, nella materia «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali».
Correttamente, dunque, ha rilevato in contrario, nelle sue difese, l’Avvocatura dello Stato che il novellato art. 114 Cost., nel richiamare al proprio interno, per la prima volta, l’ente territoriale Città metropolitana, ha imposto alla Repubblica il dovere della sua concreta istituzione. È proprio, infatti, tale esigenza costituzionale che fonda la competenza legislativa statale relativa alla istituzione del nuovo ente, che non potrebbe, del resto, avere modalità di disciplina e struttura diversificate da Regione a Regione, senza con ciò porsi in contrasto con il disegno costituzionale che presuppone livelli di governo che abbiano una disciplina uniforme, almeno con riferimento agli aspetti essenziali.
D’altro canto, le Città metropolitane istituite dalla legge n. 56 del 2014, sono destinate a subentrare integralmente alle omonime Province esistenti, la cui istituzione è di competenza statale.
Quanto, infine, alla censura della Regione Campania − per cui l’individuazione specifica delle nove province da trasformare in Città metropolitane, con esclusione di un procedimento generale per l’istituzione delle stesse, renderebbe la disposizione impugnata una legge-provvedimento, e comporterebbe, per ciò, violazione dei principi costituzionali di ragionevolezza (art. 3), di proporzionalità e di imparzialità (art. 97) − è agevole rilevare, in contrario, che quella impugnata, individua non una sola, ma tutte le Province in relazione alle quali è stata, al momento, ritenuta opportuna la trasformazione in Città metropolitane. Si tratta, pertanto, di una legge a carattere innegabilmente generale che, nell’istituire le Città metropolitane, contiene anche l’elenco di quelle effettivamente con essa istituite.
Ed a riprova di ciò rileva anche il fatto che la normativa in esame costituisce, come detto, principio di grande riforma economica e sociale per le Regioni a statuto speciale, ai sensi del comma 5, ultimo periodo, dell’impugnato art. 1 della legge n. 56 del 2014.
Otto su dieci delle istituite Città metropolitane sono, peraltro, già nell’esercizio delle loro funzioni, e gli statuti di sei di queste sono già stati approvati alla data del 31 dicembre 2014.
3.4.2.− A sua volta non fondata è anche la successiva questione procedimentale, per asserito contrasto – con il precetto di cui all’art. 133, primo comma, Cost. − della disposizione individuativa del territorio della Città metropolitana (fatto coincidere «con quello della provincia omonima»), di cui al comma 6 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014.
Con la legge in esame il legislatore ha inteso realizzare una significativa riforma di sistema della geografia istituzionale della Repubblica, in vista di una semplificazione dell’ordinamento degli enti territoriali, senza arrivare alla soppressione di quelli previsti in Costituzione. L’intervento − che peraltro ha solo determinato l’avvio della nuova articolazione di enti locali, al quale potranno seguire più incisivi interventi di rango costituzionale − è stato necessariamente complesso.
Ciò giustifica la mancata applicazione delle regole procedurali contenute nell’art. 133 Cost., che risultano riferibili solo ad interventi singolari, una volta rispettato il principio, espresso da quelle regole, del necessario coinvolgimento delle popolazioni locali interessate, anche se con forme diverse e successive, al fine di consentire il predetto avvio in condizioni di omogeneità sull’intero territorio nazionale.
Il denunciato comma 6 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, non manca, infatti, di prevedere espressamente «l’iniziativa dei comuni, ivi compresi i comuni capoluogo delle province limitrofe», ai fini dell’adesione (sia pure ex post) alla Città metropolitana, il che per implicito comporta la speculare facoltà di uscirne, da parte dei Comuni della Provincia omonima; e, a tal fine, la stessa norma dispone che sia sentita la Regione interessata e che, in caso di suo parere contrario, sia promossa una «intesa» tra la Regione stessa ed i comuni che intendono entrare nella (od uscire dalla) Città metropolitana. E ciò testualmente, «ai sensi dell’articolo 133, primo comma, della Costituzione» e «nell’ambito della procedura di cui al predetto articolo 133». Il che autorizza una lettura del citato comma 6 conforme al parametro in esso richiamato: lettura, questa, costituzionalmente adeguata che, per un principio di conservazione, non può non prevalere su quella, contra Constitutionem, presupposta dalle Regioni ricorrenti.
3.4.3.− Anche il modello di governo di secondo grado adottato dalla legge n. 56 del 2014 per le neoistituite Città metropolitane supera il vaglio di costituzionalità in relazione a tutti i parametri evocati dalle quattro ricorrenti.
Il tentativo delle difese regionali − di ricondurre l’utilizzazione del termine “sovranità” al concetto di sovranità popolare, di cui al secondo comma dell’art. 1 Cost., e di identificare la sovranità popolare con gli istituti di democrazia diretta e con il sistema rappresentativo che si esprime anche nella (diretta) partecipazione popolare nei diversi enti territoriali − è già stato, infatti, ritenuto «non condivisibile» da questa Corte, nella sentenza n. 365 del 2007.
La natura costituzionalmente necessaria degli enti previsti dall’art. 114 Cost., come «costitutivi della Repubblica», ed il carattere autonomistico ad essi impresso dall’art. 5 Cost. non implicano, infatti, ciò che le ricorrenti pretendono di desumerne, e cioè l’automatica indispensabilità che gli organi di governo di tutti questi enti siano direttamente eletti.
Con la sentenza n. 274 del 2003 e la successiva ordinanza n. 144 del 2009, è stata, del resto, esclusa la totale equiparazione tra i diversi livelli di governo territoriale e si è evidenziato come proprio i principi di adeguatezza e differenziazione, nei ricorsi in esame più volte evocati, comportino la possibilità di diversificare i modelli di rappresentanza politica ai vari livelli.
E nella già richiamata sentenza n. 365 del 2007, è stato ribadito che «né[anche] tra le pur rilevanti modifiche introdotte dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) può essere individuata una innovazione tale da equiparare pienamente tra loro i diversi soggetti istituzionali, che pure tutti compongono l’ordinamento repubblicano, così da rendere omogenea la stessa condizione giuridica di fondo dello Stato, delle Regioni e degli enti territoriali».
D’altra parte già con la sentenza n. 96 del 1968, questa Corte ha affermato la piena compatibilità di un meccanismo elettivo di secondo grado con il principio democratico e con quello autonomistico, escludendo che il carattere rappresentativo ed elettivo degli organi di governo del territorio venga meno in caso di elezioni di secondo grado, «che, del resto, sono prevedute dalla Costituzione proprio per la più alta carica dello Stato».
Ed alla luce di tale principio va escluso che la materia «legislazione elettorale» di Città metropolitane – devoluta alla competenza esclusiva dello Stato ex art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. – si riferisca specificamente ed esclusivamente ad un procedimento di elezione diretta, attesa anche la natura polisemantica dell’espressione usata dal Costituente, come tale riferibile ad entrambi i modelli di «legislazione elettorale».
Né, infine, sussiste la denunciata incompatibilità della normativa impugnata con l’art. 3, comma 2, della Carta europea dell’autonomia locale, invocata dalle ricorrenti − come parametro interposto ai fini della violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. − nella parte in cui prevederebbe che almeno uno degli organi collegiali sia ad elezione popolare diretta.
A prescindere dalla natura di documento di mero indirizzo della suddetta Carta europea, che lascia ferme «le competenze di base delle collettività locali […] stabilite dalla Costituzione o della legge», come riconosciuto nella sentenza di questa Corte n. 325 del 2010, al fine, appunto, di escludere l’idoneità delle disposizioni della Carta stessa ad attivare la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., è comunque decisivo il rilievo che l’espressione usata dalla norma sovranazionale, nel richiedere che i membri delle assemblee siano “freely elected”, ha, sì, un rilievo centrale quale garanzia della democraticità del sistema delle autonomie locali, ma va intesa nel senso sostanziale della esigenza di una effettiva rappresentatività dell’organo rispetto alle comunità interessate.
In questa prospettiva non è esclusa la possibilità di una elezione indiretta, purché siano previsti meccanismi alternativi che comunque permettano di assicurare una reale partecipazione dei soggetti portatori degli interessi coinvolti.
Tali meccanismi, nella specie, sussistono, essendo imposta la sostituzione di coloro che sono componenti “ratione muneris” dell’organo indirettamente eletto, quando venga meno il munus (art. 1, comma 25, ed analogamente, con riguardo ad organi delle Province, commi 65 e 69). E di ciò non è menzione nei ricorsi, che si limitano a porre la questione di costituzionalità in termini generali e astratti, senza alcun riferimento puntuale né alla concreta disciplina né ai compiti attribuiti alle Città metropolitane e alle nuove Province, profilo, quest’ultimo, non irrilevante anche nella prospettiva della Carta europea.
Il comma 22 del denunciato art. 1 espressamente, comunque, dispone che «lo Statuto della città metropolitana può prevedere l’elezione diretta del sindaco e del consiglio metropolitano».
Il procedimento per l’elezione del Consiglio metropolitano è, inoltre, in ogni suo aspetto, puntualmente disciplinato dalle disposizioni di cui ai commi da 26 a 39 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014 e nessuna censura le quattro Regioni ricorrenti hanno rivolto anche a dette disposizioni.
3.4.4.− Superano parimenti la verifica di costituzionalità le ulteriori censurate più specifiche disposizioni disciplinatorie della Città metropolitana:
a) quanto alla figura del sindaco metropolitano, perché, per un verso, la sua individuazione nel sindaco del Comune capoluogo di Provincia, sub comma 19 dell’art. 1 in esame, non è irragionevole in fase di prima attuazione del nuovo ente territoriale (attesi il particolare ruolo e l’importanza del Comune capoluogo intorno a cui si aggrega la Città metropolitana), e non è, comunque, irreversibile, restando demandato, come detto, allo statuto di detta città di optare per l’elezione diretta del proprio sindaco. E, per altro verso, perché la «articolazione territoriale del comune capoluogo in più comuni» − che il successivo comma 22 pone come presupposto per l’elezione diretta del sindaco metropolitano − non viola l’art. 133, secondo comma, Cost., non comprimendo in alcun modo le prerogative del legislatore regionale e non eliminando il coinvolgimento, nel procedimento, delle popolazioni interessate, atteso che la «proposta del Consiglio comunale deve essere sottoposta a referendum tra tutti i cittadini della città metropolitana su base delle rispettive leggi regionali» − né contrasta con l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., essendo il presupposto, di cui si discute, comunque, riconducibile alla competenza statuale esclusiva in materia di «legislazione elettorale […] di […] città metropolitane»;
b) quanto alla conferenza metropolitana − cui il comma 8 (ultimo periodo) attribuisce «poteri propositivi e consultivi» − la censura formulata in ragione del carattere riduttivo di tali attribuzioni, nel contesto del sistema di governo della città metropolitana, è agevolmente superata dalla considerazione che la conferenza può vedersi attribuite ulteriori competenze dallo statuto, atto fondamentale di autorganizzazione dell’ente, il quale viene approvato dalla conferenza stessa; per cui proprio la conferenza si configura, dunque, come organo decisore finale delle proprie competenze, fatte salve quelle riservate in via esclusiva al sindaco metropolitano;
c) quanto al personale delle Città metropolitane, perché la disposizione di cui al comma 48 − che applica allo stesso il trattamento vigente per il personale delle Province, al quale, ove trasferito mantiene «fino al prossimo contratto il trattamento in godimento» − attiene alla sola prima fase del procedimento (per altro già in stato di avanzata attuazione) di riallocazione del personale a seguito del riordino delle funzioni attribuite agli enti coinvolti e dei profili finanziari connessi alla riforma introdotta dalla legge n. 56 del 2014. La quale, nella misura in cui coinvolga la materia «diritto civile», nella quale ricade la disciplina dei contratti in questione, risponde ad un titolo di competenza esclusiva dello Stato;
d) quanto alle «norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente», ivi comprese le attribuzioni degli organi, nonché l’articolazione delle loro competenze – che il comma 10 demanda allo statuto di stabilire – perché ciò che si censura rientra, comunque, nella disciplina complessiva degli «organi di governo» di cui alla lettera p) del comma secondo dell’art. 117, Cost., oltreché – per quanto già detto – in quella relativa alla Città metropolitana di cui all’art. 114 Cost.;
e) quanto alle modalità di organizzazione e di esercizio delle funzioni metropolitane − che i commi 10 e 11, lettere b) e c), fanno rientrare tra i contenuti disciplinatori dello statuto − perché non ha pregio, per le ragioni di cui sopra, la censura che presuppone limitata alla disciplina dei singoli organi di governo la competenza statale relativa alla Città metropolitana;
f) quanto all’esercizio del potere statuale sostitutivo − previsto dal comma 17, «in caso di mancata approvazione dello statuto entro il 30 giugno 2015» − perché detta disposizione, a torto censurata in riferimento agli artt. 114, secondo comma, e 120, secondo comma, Cost., trova la sua giustificazione nell’esigenza di realizzare il principio dell’unità giuridica su tutto il territorio nazionale in merito all’attuazione del nuovo assetto ordinamentale previsto dalla legge n. 56 del 2014.
3.4.5.− Può dichiararsi cessata la materia del contendere con riguardo, infine, alla disposizione di cui al comma 13 che, a distanza di poco più di due settimane (e senza possibilità, dunque, di sua applicazione medio tempore), è stata abrogata dall’art. 19, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 23 giugno 2014, n. 89.
4.− Il secondo gruppo di disposizioni denunciate attiene, come detto, al nuovo modello ordinamentale delle Province (per le quali, tuttavia, è in corso l’approvazione di un progetto − da realizzarsi nelle forme di legge costituzionale − che ne prevede la futura soppressione, con la loro conseguente eliminazione dal novero degli enti autonomi riportati nell’art. 114 Cost., come, del resto, chiaramente evincibile dall’incipit contenuto nel comma 51 dell’art. 1 della legge in esame).
4.1.− Si tratta, in particolare, delle disposizioni di cui ai seguenti commi dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014:
− 54, che definisce organi delle Province «esclusivamente: a) il presidente della provincia, b) il consiglio provinciale; c) l’assemblea dei sindaci»;
− 55, 58 e da 60 a 65, sulle funzioni, sui requisiti di eleggibilità e sulle modalità di elezione, nonché sulle cause di decadenza del Presidente della Provincia;
− 56, sulla assemblea dei sindaci («costituita dai sindaci dei comuni appartenenti alla provincia»);
− 57, sulla possibilità che gli statuti delle Province prevedano, d’intesa con la regione, «la costituzione di zone omogenee per specifiche funzioni, con organismi collegati agli organi provinciali senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica»;
− 67 e da 69 a 78, sulla composizione del Consiglio provinciale e sui requisiti di eleggibilità e modalità di elezione dei consiglieri provinciali;
− 79, sulla elezione del Presidente della Provincia e del Consiglio provinciale «in sede di prima applicazione della presente legge»;
− 81 e 83, sulle «modifiche statutarie conseguenti alla presente legge», demandate al Consiglio provinciale (ed alla approvazione del collegio dei sindaci) ed all’eventuale esercizio del potere sostitutivo ex art. 8 della legge 5 giugno 2013, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3).
4.2.− Anche con riguardo a tale complessivo contesto normativo le ricorrenti convergono nell’ipotizzare la violazione, in primo luogo, degli artt. 5 e 114, oltre che all’art. 117, primo comma, Cost., con riferimento al parametro interposto individuabile nel già richiamato art. 3, comma 2, della cosiddetta Carta europea dell’autonomia locale, sul presupposto che le Province non sarebbero, per l’effetto, più configurate come enti rappresentativi delle popolazioni locali (secondo quanto ancora impone la Costituzione attuale), ma come enti di secondo grado, la cui modalità elettiva degli organi politici comporterebbe la totale esclusione dell’esercizio della sovranità popolare.
Prospettano, inoltre, la violazione dei principi di sussidiarietà verticale e di ragionevolezza, in ragione della ritenuta inversione logica del modello di allocazione/distribuzione delle funzioni amministrative rispetto alla disciplina contemplata dalla Costituzione, con conseguente lesione del principio di necessaria democraticità di governo delle autonomie locali, anche in ordine al riconoscimento della loro autonomia finanziaria e della loro autorità impositiva.
Sostiene, altresì, in particolare la Regione Veneto, che le disposizioni in esame violerebbero gli artt. 1, 48, 5, 97, 114, 117, 118, 119 e 120 Cost., nella parte relativa alla disposta proroga delle gestioni commissariali in corso ed alla legittimazione di proroghe ulteriori.
4.3.− Anche le censure rivolte al riordino delle Province sono non fondate.
4.3.1.− In primo luogo, non pertinente è l’evocazione del parametro di cui all’art. 138 Cost.
Come, infatti, chiarito dalla sentenza n. 220 del 2013, il procedimento di cui al richiamato art. 138 risulterebbe obbligato nel solo caso di soppressione delle Province, e non anche in quello – che, nella specie, viene in rilievo − di riordino dell’ente medesimo.
4.3.2.− A loro volta, le censure rivolte al modello di governo di secondo grado, parimenti adottato per il riordinato ente Provincia, risultano non fondate (anche con riguardo al vulnus che si assume derivante all’autonomia finanziaria, di entrate di spesa, ove riconducibile ad organi non direttamente rappresentativi) sulla base delle medesime ragioni già esposte con riferimento alle Città metropolitane e della considerazione che inerisce, comunque, alla competenza dello Stato − nella materia «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di […] province» (art. 117, secondo comma, lettera p, Cost., − ogni altro denunciato aspetto disciplinatorio, appunto, di detto ente territoriale.
4.3.3.− Quanto, infine, alla proroga dei commissariamenti, non è esatto che questa sarebbe − come si denuncia − sine die.
Il comma 82 dell’art. 1 in esame − nel testo sostituito dall’art. 23, comma 1, lettera f), del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 11 agosto 2014, n. 114 − dispone, infatti, che, per le Province già oggetto di commissariamento, il commissario, a partire dal 1° luglio 2014, muti natura, e cioè, sostanzialmente, decada, dando vita, pur nella coincidenza della persona fisica, ad un organo diverso che, privo dei poteri commissariali, è chiamato ad assicurare, a titolo gratuito, la gestione della fase transitoria solo «per l’ordinaria amministrazione e per gli atti urgenti e indifferibili, fino all’insediamento del presidente della provincia eletto ai sensi dei commi da 58 a 78».
5.− Il terzo gruppo di censure è rivolto al riordino delle funzioni ancora attribuite alle Province ed allo scorporo di quelle attribuite ad altri enti.
5.1.− Si tratta, in particolare, delle disposizioni di cui ai seguenti commi dell’art. 1 della legge in esame:
− 89, sulle funzioni (diverse da quelle “fondamentali”, che «in attesa della riforma del titolo V, parte seconda, della Costituzione» continuano ad essere esercitate dalle Province), che «nell’ambito del processo di riordino sono trasferite dalle province ad altri enti territoriali»;
– 90, sul procedimento per il trasferimento delle funzioni di cui sopra;
– 91, secondo cui «Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, lo Stato e le regioni individuano in modo puntuale, mediante accordo sancito nella Conferenza unificata, le funzioni di cui al comma 89 oggetto del riordino e le relative competenze»;
− 92, sul procedimento e sui criteri generali per «l’individuazione dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative connesse all’esercizio delle funzioni che devono essere trasferite, ai sensi dei commi da 85 a 97, dalle province agli enti subentranti, garantendo i rapporti di lavoro a tempo indeterminato in corso, nonché quelli a tempo determinato in corso fino alla scadenza per essi prevista»;
− 95, per il quale «La regione, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, provvede, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, a dare attuazione all’accordo di cui al comma 91. Decorso il termine senza che la regione abbia provveduto, si applica l’articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131».
5.2.− Al riguardo le quattro ricorrenti − con riferimento ai parametri di cui agli artt. 3, 97, 114, 117, secondo comma, lettera p), e 120 Cost. – denunciano, in particolare, le disposizioni di cui ai commi 89, 90, 91, 92 e 95 (e la Regione Veneto anche quelle di cui ai commi 54, 55, 56, 58, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 67 e da 69 a 79), nella parte in cui dette norme, nel loro complesso, conferirebbero alla legislazione statale, al di fuori della competenza esclusiva nella materia «funzioni fondamentali delle Province», un titolo di competenza illegittimo, appartenendo la legittimazione a stabilire le modalità e le tempistiche per la riallocazione delle funzioni “non fondamentali” delle Province, nonché ad individuare le risorse connesse agli eventuali trasferimenti, alla competenza regionale, alla stregua dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza ed in conformità ai principi di ragionevolezza, dell’opportunità e della coerenza con i fini perseguiti, oltre che di quello del buon andamento dell’azione amministrativa e del principio di leale collaborazione a cui deve informarsi l’esercizio del potere sostitutivo.
Inoltre, i limiti ed i vincoli imposti dal legislatore regionale, fuori dagli ambiti di competenza dello Stato, comprimerebbero, illegittimamente, il potere regionale di individuare il livello di governo più idoneo all’esercizio delle funzioni amministrative di propria competenza.
In particolare, secondo la Regione Puglia, la previsione sub comma 92 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, − per cui «i criteri generali per l’individuatone dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative connesse all’esercizio delle funzioni che devono essere trasferite» siano stabiliti «con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri», ancorché «previa intesa in sede di Conferenza unificata» − violerebbe, a sua volta, gli artt. 3, primo comma, e 118, primo comma, Cost., in quanto volta a determinare una uniforme allocazione di funzioni amministrative agli enti di area vasta in tutte le Regioni, in contrasto con il principio di eguaglianza e di ragionevolezza (che imporrebbe, invece, di distinguere il trattamento giuridico di situazioni non omogenee) e con il principio di differenziazione. E contrasterebbe, altresì, con l’art. 117, terzo comma, Cost., nella parte in cui si rivolgerebbe a funzioni ricadenti nelle materie di competenza concorrente in quanto tale disposizione costituzionale impone che principi fondamentali siano stabiliti dallo Stato, mediante fonte di rango legislativo, e non mediante decreto del Presidente del Consiglio dei ministri.
La medesima disposizione, sub comma 92, è censurata dalla Regione Veneto, per contrasto con gli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost., sul presupposto che implichi un rovesciamento nel procedimento di allocazione delle funzioni, una volta che «la definizione dei criteri del trasferimento delle funzioni fondamentali […] non avviene nella fase di previe disposizioni di legge regionale […] nel rispetto del riparto della competenza previsto dall’art. 117, commi terzo e quarto, della Costituzione […]».
Mentre un vulnus ulteriore ai parametri costituzionali di cui sopra è pressoché concordemente individuata dalle ricorrenti anche con riferimento all’esercizio del potere sostitutivo ricollegato, dal successivo comma 95, al mancato rispetto, da parte delle Regioni, del termine (di sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge n. 56 del 2014) stabilito per la individuazione delle funzioni, non fondamentali, delle Province oggetto del riordino, con le modalità di cui al comma 91 (id est: «sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative […] mediante accordo sancito dalla Conferenza unificata»).
5.3.− L’esame delle questioni che precedono non può prescindere da una sia pur sintetica ricognizione del complessivo quadro normativo, all’interno del quale si collocano le disposizioni come sopra specificatamente denunciate.
I commi da 85 a 96 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014 riguardano le funzioni delle “nuove” Province (in carica nelle more della riforma del Titolo V della Costituzione), indicando quelle “fondamentali” − che rimangono a loro attribuite − e prevedendo, per le altre funzioni esercitate all’atto dell’entrata in vigore della citata legge n. 56 del 2014 (ovvero all’8 aprile 2014), il trasferimento delle stesse ad altri enti territoriali (comma 89).
Nel menzionato complesso di disposizioni viene, in sostanza, disegnato un dettagliato meccanismo di determinazione delle intere funzioni, all’esito del quale la Provincia continuerà ad esistere quale ente territoriale “con funzioni di area vasta”, le quali, peraltro, si riducono a quelle qualificate “fondamentali” (elencate nel comma 85) e a quelle, meramente eventuali, indicate nei commi 88 e 90.
Con riferimento al procedimento di riordino delle funzioni ancora attribuite alle Province e allo scorporo di quelle a tale ente sottratte e riassegnate ad altri enti, si prevede che, entro tre mesi dall’entrata in vigore della legge n. 56 del 2014, in attuazione dell’art. 118 Cost., lo Stato e le Regioni, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, individuino in modo puntuale, mediante accordo sancito in Conferenza unificata, le funzioni di cui al comma 89 oggetto della complessiva riorganizzazione e le relative competenze (comma 91). E ciò avendo riguardo alle seguenti finalità: determinazione dell’ambito territoriale ottimale di esercizio per ciascuna funzione; efficacia nello svolgimento delle funzioni fondamentali da parte dei Comuni e delle Unioni di Comuni; riconoscimento di esigenze unitarie; adozione di forme di avvalimento e deleghe di esercizio tra gli enti territoriali coinvolti nel processo di riordino, attraverso intese o convenzioni.
Allo scopo di rendere concretamente operativo il trasferimento delle funzioni come descritte, nel termine previsto dal comma 91, il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’interno e del Ministro per gli affari regionali, di concerto con i Ministri per la semplificazione e la pubblica amministrazione e dell’economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza unificata, avrebbe dovuto stabilire − con proprio decreto − i criteri generali per l’individuazione dei beni e delle risorse finanziarie, umane (previa consultazione delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative), strumentali e organizzative connesse all’esercizio delle funzioni che sarebbero state trasferite agli enti subentranti, garantendo i rapporti di lavoro in corso.
Nell’eventualità del mancato raggiungimento in sede di Conferenza unificata dell’accordo circa l’individuazione delle funzioni oggetto del riordino (previste dal comma 91), ovvero dell’intesa in ordine alla determinazione dei criteri generali per l’individuazione di quanto contemplato dal comma 92, al Presidente del Consiglio veniva riconosciuta (dal comma 93) la possibilità di disporre quanto necessario con riferimento alle funzioni amministrative delle Province di competenza statale, mentre, in relazione alle funzioni di competenza delle Regioni, queste avrebbero dovuto dare attuazione, entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge n. 56 del 2014, all’accordo relativo all’individuazione delle funzioni da trasferire agli enti subentranti, prevedendosi che, in difetto, sarebbe stato possibile ricorrere all’esercizio del potere sostitutivo di cui all’art. 8 della legge n. 131 del 2003 (comma 95), riguardante l’attuazione dell’art. 120 Cost.
Importanza centrale, nel descritto complesso procedimento di riordino, rivestiva, dunque, l’accordo in Conferenza unificata, quale accordo-quadro demandato all’individuazione, in primo luogo, del concreto perimetro delle funzioni fondamentali (comma 85) e, di conseguenza, alla determinazione delle altre funzioni oggetto di possibile trasferimento. Ed è sulla base di tale accordo che lo Stato e le Regioni avrebbero dovuto emanare gli atti di propria competenza, nel rispetto del riparto delle competenze legislative previsto dalla Costituzione, in modo da ricomporre le funzioni amministrative, in modo organico, a livello di governo ritenuto adeguato.
Più in dettaglio, l’accordo previsto dal comma 91 avrebbe dovuto:
1) prioritariamente, far confluire nei nuovi cataloghi di funzioni fondamentali delle Province e delle Città metropolitane le funzioni amministrative già svolte dalle Province, al fine di salvaguardare l’integrità di funzionamento degli enti, l’organizzazione del lavoro e l’efficienza dei servizi, nonché l’equilibrio finanziario, in modo da sostanziare la portata del comma 85 individuante le funzioni fondamentali residuate (elencate dalla lettera a alla lettera f);
2) individuare e puntualizzare, di conseguenza, quali funzioni diverse da quelle fondamentali sarebbero state rimesse alla legislazione regionale, secondo la competenza per materia prevista dall’art. 117, commi terzo e quarto, Cost. (precisandosi che su tali funzioni l’accordo avrebbe dovuto comunque garantire che il riordino ad opera delle singole Regioni non poteva comportare la costituzione di nuovi enti e agenzie);
3) allo stesso modo, individuare le funzioni nelle materie di competenza legislativa statale, che il d.P.C.m. attuativo avrebbe dovuto, poi, trasferire.
5.4.− I riportati passaggi procedimentali risultano, allo stato, peraltro, già attuati, mediante la conclusione dell’Accordo in Conferenza unificata previsto dal citato comma 91, intervenuto in data 11 settembre 2014 (anziché entro l’8 luglio 2014, come stabilito dalla stessa disposizione).
Con tale accordo è stato, in particolare, convenuto tra lo Stato e le Regioni che:
− ai sensi del comma 89, Stato e Regioni attribuiscono le funzioni provinciali diverse da quelle fondamentali secondo le rispettive competenze, per cui lo Stato può e deve provvedere solo per le funzioni che rientrano nelle materie di propria competenza legislativa esclusiva, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, Cost. (oltre che per quelle specificamente a lui attribuite in materia di tutela delle minoranze), mentre alle Regioni spetta di provvedere per tutte le altre attualmente esercitate dalle Province (punto 9, lettera a);
− quanto alle funzioni il cui riordino spetta alle Regioni, Stato e Regioni prendono atto e condividono che le funzioni attualmente svolte dalle Province che rientrano nelle competenze regionali sono necessariamente differenziate Regione per Regione. Si concorda a tal fine che ciascuna Regione provveda a definire l’elenco delle funzioni fondamentali di cui all’art. 1, comma 85, della legge n. 54 del 2014, e ad operare il riordino nel rispetto dei principi e secondo le modalità concordati nel presente Accordo (punto 9, lettera c);
− lo Stato si impegna ad adottare il d.P.C.m. di cui al comma 92 dell’art. 1 della legge, anche per la parte relativa alle funzioni amministrative degli enti di vasta area di competenza statale, contestualmente alla sottoscrizione dell’Accordo in sede di Conferenza unificata, mentre le Regioni si impegnano ad adottare le iniziative legislative di loro competenza entro il 31 dicembre 2014 (punto 10).
E, proprio in virtù di quest’ultima disposizione, il Presidente del Consiglio dei ministri ha adottato in data 26 settembre 2014, l’apposito decreto per l’individuazione dei criteri fondamentali per la definizione ed il trasferimento dei beni e risorse connessi alle funzioni oggetto del riordino (fondamentali e non), oltreché per la mobilità del personale, garantendosi l’intervento delle associazioni sindacali.
5.5.− In dipendenza dell’attuazione del complesso procedimento delineato nei commi da 89 a 92 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, culminato nell’Accordo sancito nella Conferenza unificata dell’11 settembre 2014 e seguito dall’emissione del d.P.C.m. indicato nel comma 92, può ritenersi venuto meno l’interesse delle Regioni ricorrenti e si può, quindi, dichiarare cessata la materia del contendere sul complesso motivo in esame, sia in virtù della definizione congiunta delle competenze (in relazione al processo di riordino) e della loro ripartizione tra Stato e Regioni in conformità dei titoli di legittimazione stabiliti dalla Costituzione e delle linee direttrici della stessa legge n. 56 del 2014, sia avuto riguardo al rispettato principio di leale collaborazione da parte dello Stato. Atteso che quest’ultimo − proprio al fine di concretizzare il menzionato procedimento complessivo di riorganizzazione delle funzioni – ne ha posto in essere la modalità attuativa rispettando il criterio della stipula dell’Accordo in sede di Conferenza unificata imposto dal comma 91, ispirata dalla necessaria concertazione con le Regioni, sentite previamente le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. In tal modo non già agendo secondo una logica di esercizio di potere unilaterale, bensì di garanzia della esplicazione in una posizione paritaria del ruolo delle Regioni partecipanti all’accordo, e così assicurando il rispetto del predetto fondamentale principio.
5.6.− Non fondata è poi la questione di costituzionalità riferita all’art. 1, commi 17, 81 e 83, della legge n. 56 del 2014 − sollevata dalla Regione Puglia in relazione agli artt. 114, secondo comma, e 120, secondo comma Cost. − con riguardo alla denunciata illegittimità della previsione dell’esercizio del potere sostitutivo straordinario dello Stato per l’eventualità della mancata realizzazione della potestà statutaria delle Province e delle Città metropolitane. E ciò in quanto le norme censurate mirano ad assicurare il necessario principio dell’unità giuridica su tutto il territorio nazionale (finalità, tra le altre, esplicitamente contemplata dal secondo comma dell’art. 120 Cost.) con l’attuazione del nuovo assetto ordinamentale rivisto dalla stessa legge n. 56 del 2014 e perché, in ogni caso, il potere sostitutivo statuale trova il suo fondamento espresso nella legge, dalla quale risulta la definizione dei presupposti sostanziali, e costituisce la manifestazione degli interessi unitari alla cui salvaguardia è propriamente preordinato l’intervento surrogatorio dello Stato (ex plurimis, sentenze n. 121 del 2012; n. 73 e n. 43 del 2004).
Per di più, ove la singola Regione destinataria dell’esercizio del potere sostitutivo del Governo ritenesse l’illegittimità dell’iniziativa statale in via sostitutiva siccome compiuta in difetto delle condizioni normative ed in difformità dei presupposti applicativi statuiti dalla giurisprudenza costituzionale, potrebbe, a tutela della propria autonomia, attivare i rimedi giurisdizionali ritenuti adeguati, ivi compreso il conflitto di attribuzione.
5.7.− Analogamente non fondata è la questione che attiene alla previsione (sub comma 95) del potere sostitutivo dello Stato in caso di inerzia delle Regioni rispetto all’attuazione dell’accordo di cui al comma 91.
E ciò in quanto il procedimento, nel quale si inserisce un tal censurato potere sostitutivo, trova la sua giustificazione nell’esigenza di garantire che le attività attualmente svolte dalle Province siano mantenute in capo ai nuovi enti destinatari, senza soluzione di continuità, nell’interesse dei cittadini e della comunità nazionale.
6. – Il quarto gruppo di questioni ha ad oggetto:
a) le disposizioni che concernono le «unioni di comuni», di cui al comma 4 (che li definisce «enti locali costituiti da due o più comuni per l’esercizio associato di funzioni o servizi di loro competenza») ed ai commi 105 e 106 dell’art. 1 della legge impugnata, sulla correlativa disciplina («L’unione ha potestà statutaria e regolamentare e ad essa si applicano, in quanto compatibili e non derogati con le disposizioni della legge recante disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni, i princìpi previsti per l’ordinamento dei comuni, con particolare riguardo allo status degli amministratori, all’ordinamento finanziario e contabile, al personale e all’organizzazione»);
b) le disposizioni, di cui ai successivi commi 117, 124, 130 e 133 del medesimo art. 1, che disciplinano i procedimenti di fusione di più Comuni in un nuovo Comune e di incorporazione di un Comune in altro contiguo.
6.1.– In particolare, la Regione Campania ha, per un verso, dedotto il supposto difetto del titolo di competenza in capo allo Stato, ravvisando − in ordine alla regolamentazione normativa delle Unioni di Comuni – la sussistenza della competenza regionale residuale in relazione al disposto dell’art. 117, quarto comma, Cost. e, per altro verso, avuto riguardo alle censure attinenti al procedimento di fusione tra Comuni (con specifico riferimento ai commi 22 e 130 dell’art. 1 della legge in questione), ha denunciato la lesione degli artt. 123, primo comma, e 133, secondo comma, Cost., sotto il profilo dell’asserita invasione della competenza regionale nella materia concernente l’istituzione di nuovi enti comunali nell’ambito del suo territorio (così come la modificazione delle inerenti circoscrizioni o delle relative denominazioni), da realizzarsi, oltretutto, garantendo la preventiva audizione delle popolazioni concretamente interessate, e senza trascurare, altresì, la (ritenuta) violazione della riserva statutaria regionale in ordine alla disciplina dei referendum riguardanti le leggi ed i provvedimenti di competenza, per l’appunto, regionale.
La Regione Puglia, dal suo canto, ha dedotto – sia con riferimento alla disciplina delle Unioni tra Comuni che con riguardo a quella della fusione tra gli stessi – l’illegittimità delle relative disposizioni sotto il profilo della ravvisata violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., dovendosi, anche a suo avviso, a proposito di detta materia, ritenere operativa la competenza regionale residuale prevista dal medesimo art. 117 al quarto comma.
6.2.− Anche tali questioni sono non fondate.
6.2.1.– Non è ravvisabile, in primo luogo, la dedotta violazione della competenza regionale con riguardo alle introdotte nuove disposizioni disciplinatrici delle Unioni di Comuni.
Tali unioni − risolvendosi in forme istituzionali di associazione tra Comuni per l’esercizio congiunto di funzioni o servizi di loro competenza e non costituendo, perciò, al di là dell’impropria definizione sub comma 4 dell’art. 1, un ente territoriale ulteriore e diverso rispetto all’ente Comune – rientrano, infatti, nell’area di competenza statuale sub art. 117, secondo comma, lettera p), e non sono, di conseguenza, attratte nell’ambito di competenza residuale di cui al quarto comma dello stesso art. 117.
Per altro verso, le riferite disposizioni – in quanto introducono misure semplificatorie volte al contenimento della spesa pubblica (intervenendo sugli organi, sulla loro composizione, sulla gratuità degli incarichi e sul divieto di avvalersi di una segreteria comunale) − oltre che al conseguimento di obiettivi di maggiore efficienza o migliore organizzazione delle funzioni comunali, riflettono anche principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, non suscettibili, per tal profilo, di violare le prerogative degli enti locali (ex plurimis, sentenze n. 44 e n. 22 del 2014, n. 151 del 2012, n. 237 del 2009).
6.2.2.− Allo stesso modo la disposizione (sub comma 130) relativa alla fusione di Comuni di competenza regionale non ha ad oggetto l’istituzione di un nuovo ente territoriale (che sarebbe senza dubbio di competenza regionale) bensì l’incorporazione in un Comune esistente di un altro Comune, e cioè una vicenda (per un verso aggregativa e, per altro verso, estintiva) relativa, comunque, all’ente territoriale Comune, e come tale, quindi, ricompresa nella competenza statale nella materia «ordinamento degli enti locali», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost.
Ed infatti, l’estinzione di un Comune e la sua incorporazione in un altro Comune incidono sia sull’ordinamento del primo che del secondo, oltre che sulle funzioni fondamentali e sulla legislazione elettorale applicabile.
Dal che la non fondatezza, anche in questo caso, della censura di violazione del titolo di competenza fatto valere dalle ricorrenti, in prospettiva applicativa del criterio residuale di cui al quarto comma dell’art. 117 Cost.
Del pari insussistente è, a sua volta, l’ulteriore violazione degli artt. 123 e 133, secondo comma, Cost. denunciata dalla Regione Campania, con riferimento al medesimo comma 130 (ed in correlazione con il precedente comma 22) dell’art. 1 della legge in esame, riguardante il procedimento di fusione per incorporazione di più Comuni.
Il censurato comma 130 demanda, infatti, la disciplina del referendum consultivo comunale delle popolazioni interessate (quale passaggio indefettibile del procedimento di fusione per incorporazione) proprio alle specifiche legislazioni regionali, rimettendo, peraltro, alle singole Regioni l’adeguamento delle stesse rispettive legislazioni, onde consentire l’effettiva attivazione della nuova procedura, sul presupposto che le disposizioni − di carattere evidentemente generale (e che rimandano, in ogni caso, alle discipline regionali) − contenute nella legge n. 56 del 2014 non siano, di per sé, esaustive. Per cui non risulta scalfita l’autonomia statutaria spettante in materia a ciascuna Regione.
7.− La Regione Campania, con l’ultimo motivo del suo ricorso, ha proposto un’ulteriore, peculiare questione di legittimità costituzionale del comma 149 − nella parte in cui prevede che «Al fine di procedere all’attuazione di quanto previsto dall’articolo 9 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95», il Ministro per gli affari regionali predispone appositi programmi di attività contenenti modalità operative e altre indicazioni – per sospetta violazione degli artt. 97, 117, 118, 123 e 136 Cost. e, ciò sul rilievo che, con la norma censurata, sarebbe stata prevista la “reviviscenza” del richiamato art. 9 del d.l. n. 95 del 2012, malgrado la sua sopravvenuta abrogazione per effetto dell’art. 1, comma 562, lettera a), della legge n. 147 del 2013 e la sua intervenuta dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale ad opera della sentenza n. 236 del 2013 (con conseguente violazione del giudicato costituzionale), oltre che per lesione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite nella materia «organizzazione amministrativa regionale».
7.1.– Anche tale ultima questione non è fondata.
La norma censurata può essere infatti agevolmente interpretata, in senso conforme a Costituzione, considerando la finalità attuativa dell’abrogato art. 9 del d.l. n. 95 del 2012 come inutiliter in essa enunciata, posto che l’obiettivo, che la norma stessa concorrentemente si pone − quello cioè di «accompagnare e sostenere l’applicazione degli interventi di riforma della presente legge» − ne sorregge, di per sé, il contenuto dispositivo: «il Ministro per gli affari regionali predispone, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, appositi programmi di attività contenenti modalità operative e altre indicazioni finalizzate ad assicurare, anche attraverso la nomina di commissari, il rispetto dei termini previsti per gli adempimenti di cui alla presente legge e la verifica dei risultati ottenuti. Su proposta del Ministro per gli affari regionali, con accordo sancito nella Conferenza unificata, sono stabilite le modalità di monitoraggio sullo stato di attuazione della riforma».


per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’inammissibilità, per tardività, dell’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri in relazione al giudizio instaurato con il ricorso (iscritto al n. 39 del 2014) proposto dalla Regione Lombardia;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 5, 9, 10, 11, lettere b) e c), 12 e 16, nonché del comma 6, nei sensi di cui in motivazione, dell’art. 1 della legge 7 aprile 2014, n. 56 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni), promosse, in riferimento agli artt. 3, 5, 48, 114, 117, commi secondo, lettera p), e quarto, della Costituzione, dalle Regioni Veneto e Puglia (rispettivamente, con i ricorsi n. 42 e n. 44 del 2014);
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 5 e 12, nonché del comma 6, nei sensi di cui in motivazione, dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, promosse, in riferimento all’art. 133, primo comma, Cost., dalle Regioni Veneto, Campania e Puglia (rispettivamente, con i ricorsi n. 42, n. 43 e n. 44 del 2014), nonché la questione di legittimità costituzionale dei commi da 12 a 18 dello stesso art. 1 della legge n. 56 del 2014, promossa, dalla sola Regione Campania (con il ricorso n. 43 del 2014), in riferimento al medesimo art. 133, primo comma, Cost.;
4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 7, 8, 9, 19, 25 e 42 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, promosse, in riferimento agli artt. 1, 5, 48, 144, e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3, comma 2, della Carta europea dell’autonomia locale, firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985, ratificata e resa esecutiva con legge 30 dicembre 1989, n. 439), da tutte le Regioni ricorrenti; nonché dalle sole Regioni Lombardia e Veneto (con i ricorsi n. 39 e n. 42 del 2014) anche con riferimento agli artt. 3 e 118 Cost. e, soltanto dalla Regione Lombardia (con il ricorso n. 39 del 2014), in riferimento agli art. 119 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 9 della suddetta Carta europea dell’autonomia locale;
5) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dei commi 17, 81 e 83 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, promossa, in riferimento agli artt. 114, secondo comma, e 120, secondo comma, Cost., dalla Regione Puglia (con il ricorso n. 44 del 2014);
6) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del comma 19 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, promossa, in riferimento agli artt. 1, 3, 48, 114, 117, primo comma − in relazione all’art. 3, comma 2, della Carta europea dell’autonomia locale firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985, ratificata e resa esecutiva con legge 30 dicembre 1989, n. 439 − e 118 Cost., dalla Regione Lombardia (con il ricorso n. 39 del 2014);
7) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del comma 22 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, promossa, in riferimento agli artt. 123, primo comma, e 133, secondo comma, Cost., dalla Regione Campania (con il ricorso n. 43 del 2014) e limitatamente al solo art. 133, secondo comma, Cost. dalla Regione Puglia (con il ricorso n. 44 del 2014);
8) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 54, 55, 56, 58, 59, 60, 67 e 69 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, promosse, in riferimento agli artt. 1, 3, 5, 48, 114, 117, primo comma − in relazione all’art. 3, comma 2, della Carta europea dell’autonomia locale −, 118 e 138 Cost., dalle Regioni Lombardia (con il ricorso n. 39 del 2014) e Veneto (con il ricorso n. 42 del 2014);
9) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 54, 55, 56, 58, 59, 60, 67 e 69 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, promosse, in riferimento agli artt. 1, 3, 5, 48, 114, 117, primo comma − in relazione all’art. 9 della Carta europea dell’autonomia locale −, 118, 119 e 138 Cost., dalla Regione Lombardia (con il ricorso n. 39 del 2014) e dalla Regione Veneto (con il ricorso n. 42 del 2014);
10) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 54, 55, 56, 58, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 67, 69, 70, 71, 72, 73, 74, 75, 76, 77, 78 e 79 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, promosse, in riferimento agli artt. 1, 5, 48, 97, 114, 118, 119 e 120 Cost., dalla Regione Veneto (con il ricorso n. 42 del 2014);
11) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dei commi 57 e 89 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, promossa, in riferimento agli 117, commi secondo, lettera p), e quarto, 118, secondo comma, Cost., dalla Regione Puglia (con il ricorso n. 44 del 2014), nonché la questione di legittimità costituzionale dei commi 11 e 89 dell’art. 1 della stessa legge n. 56 del 2014, promossa, in riferimento all’art. 118, primo comma, Cost., dalla medesima Regione Puglia (con il ricorso n. 44 del 2014);
12) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del comma 95 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, promossa, in riferimento agli artt. 3, 97, 114, 117, commi secondo, lettera p), terzo e quarto, 118, secondo comma, 120 e 138 Cost., dalle Regioni Lombardia (con il ricorso n. 39 del 2014), Campania (con il ricorso n. 43 del 2014) e Puglia (con il ricorso n. 44 del 2014);
13) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dei commi 4, 105 e 106 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, promossa, in riferimento agli artt. 117, commi secondo, lettera p), e quarto, e 118 Cost., dalla Regione Campania (con il ricorso n. 43 del 2014), nonché la questione di legittimità costituzionale degli stessi commi 105, lettere a) e b), e 106 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, in riferimento all’art. 117, commi secondo, lettera p), e quarto, Cost., dalla Regione Puglia (con il ricorso n. 44 del 2014);
14) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del comma 130 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, promossa, in riferimento agli artt. 123, primo comma, e 133, secondo comma, Cost., dalla Regione Campania (con il ricorso n. 43 del 2014), nonché la questione di legittimità costituzionale dello stesso comma 130, promossa, in riferimento all’art. 117, commi secondo, lettera p), e quarto, Cost., dalla Regione Puglia (con il ricorso n. 44 del 2014);
15) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 117, 124 e 130 (terzo periodo), nonché del comma 133 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, promosse, in riferimento all’art. 117, commi secondo, lettera p), e quarto, Cost., dalla Regione Puglia (con il ricorso n. 44 del 2014);
16) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale del comma 149 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, promossa, in riferimento agli artt. 97, 117, 118, 123 e 136 Cost., dalla Regione Campania (con il ricorso n. 43 del 2014);
17) dichiara cessata la materia del contendere in relazione alle questioni di legittimità costituzionale dei commi 89, 90, 91 e 92 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, promosse, in riferimento agli artt. 3, 97, 114, 117, commi secondo, lettera p), terzo e quarto, 118, secondo comma, e 138 Cost., da tutte le Regioni ricorrenti (con esclusione, da parte della Regione Puglia, del comma 90);
18) dichiara cessata la materia del contendere in relazione alla questione di legittimità costituzionale del comma 13 dell’art. 1 della legge n. 56 del 2014, promossa, in riferimento all’art. 117, commi secondo, lettera p), e quarto, Cost., dalla Regione Puglia (con il ricorso n. 44 del 2014).