lunedì 29 aprile 2019



Propaganda elettorale e ‘valori’ antifascisti



Sentenza 2019



I principi affermati nella XII disposizione transitoria e finale della Costituzione (che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista) e  nell’art. 1 della legge 645/1952 (c.d. legge “Scelba”, che, nel dare attuazione alla predetta norma costituzionale, ha individuato come manifestazioni esteriori di ricostituzione del partito fascista il perseguire finalità antidemocratiche proprie del partito fascista attraverso, tra l’altro, la minaccia o l'uso della violenza quale metodo di lotta politica, il propugnare la soppressione delle libertà costituzionali, lo svolgere propaganda razzista, l’esaltare principi, fatti e metodi propri del predetto partito, il compiere manifestazioni esteriori di carattere fascista e il denigrare la democrazia, le sue istituzione o i “valori della Resistenza”) costituiscono un limite alla libertà di manifestazione del pensiero, di riunione e di associazione degli individui, le quali non possono esplicarsi in forme che denotino un concreto tentativo di raccogliere adesioni ad un progetto di ricostituzione del disciolto partito fascista e trovano precipua applicazione in materia di propaganda politica ed elettorale

Quando si richieda di esercitare attività di propaganda politica ed elettorale in spazi pubblici, sottraendoli, sia pure temporaneamente, all’uso pubblico per destinarli all’utilizzo privato, non appare irragionevole che l’amministrazione richieda, al fine di valutare la meritevolezza dell’interesse dedotto, una dichiarazione di impegno al rispetto dei valori costituzionali e, in particolare, dei limiti costituzionali alla libera manifestazione del pensiero connessi al ripudio dell’ideologia autoritaria fascista e all’adesione ai valori fondanti l’assetto democratico della Repubblica italiana, quali quelli dell’antifascismo e della Resistenza.; e ciò anche al fine dell’eventuale revoca della concessione in caso di violazione dell’impegno assunto

Non è censurabile il comportamento del Comune che, a fronte dell’assenza di un effettivo impegno del richiedente al rispetto dei valori costituzionali dell’antifascismo, ha ritenuto insussistenti i presupposti di interesse pubblico per la concessione di spazi pubblici per finalità private di propaganda politica [nel caso deciso, a fronte del fac-simile di dichiarazione, predisposto dal Comune, in cui il richiedente doveva dichiarare “di ripudiare il fascismo e il nazismo”e “di aderire ai valori dell'antifascismo posti alla base della Costituzione repubblicana, ovvero i valori di libertà, di democrazia, di eguaglianza, di pace, di giustizia sociale e di rispetto di ogni diritto umano, affermatisi nel nostro Paese dopo una ventennale opposizione democratica alla dittatura fascista e dopo i 20 mesi della Lotta di Liberazione dal nazifascismo”, la richiedente aveva “omesso, volutamente, la parte di dichiarazione relativa al “ripudio del fascismo e del nazismo” e all’adesione “ai valori dell’antifascismo””]







FATTO
1. Con deliberazione …, il consiglio comunale di X, preso atto del ripetersi sempre più frequente di “manifestazioni promosse da organizzazioni neofasciste, portatrici di idee e di valori che si collocano al di fuori del perimetro costituzionale”, impegnava l’amministrazione “a non concedere spazi o suolo pubblici a coloro i quali non garantiscano di rispettare i valori sanciti dalla Costituzione, professando e/o praticando comportamenti fascisti, razzisti e omofobi”, dando mandato di adeguare i regolamenti comunali a quanto espresso nell’atto di indirizzo, in particolare “subordinando la concessione di suolo pubblico, spazi e sale di proprietà del Comune, a dichiarazione esplicita di rispetto dei valori antifascisti sanciti dall’ordinamento repubblicano”.
2. Con successiva deliberazione …, la giunta comunale di X dava mandato ai competenti uffici comunali di richiedere, a fronte di istanze di concessione del suolo pubblico o di utilizzo di spazi e sale di proprietà comunale, la presentazione da parte dei richiedenti di una dichiarazione espressa, redatta ai sensi e per gli effetti degli artt. 46 e 47 del DPR 445/2000, del seguente testuale tenore:
“Il sottoscritto (…) dichiara (…):
- “di ripudiare il fascismo e il nazismo;
- di aderire ai valori dell'antifascismo posti alla base della Costituzione repubblicana, ovvero i valori di libertà, di democrazia, di eguaglianza, di pace, di giustizia sociale e di rispetto di ogni diritto umano, affermatisi nel nostro Paese dopo una ventennale opposizione democratica alla dittatura fascista e dopo i 20 mesi della Lotta di Liberazione dal nazifascismo; (…)”.
3. Con istanza del .., la signora Y, agendo “in nome e per conto di …”, chiedeva al Comune di X l’autorizzazione ad occupare il suolo pubblico con un gazebo di mt 2 x 2 in via … per tredici giorni non consecutivi, festivi e prefestivi, compresi tra il … e il …, al fine dichiarato di svolgere “propaganda politica e di promozione delle attività politiche e del pensiero politico della sig.ra Y”.
4. Alla propria istanza, la richiedente allegava la seguente dichiarazione: “La sottoscritta (…) dichiara di riconoscersi nei valori della Costituzione, di non voler ricostituire il disciolto Partito Fascista, di non voler effettuare propaganda razzista o comunque incitante all’odio”, nonché “di impegnarsi a rispettare tutte le leggi ed i regolamenti del nostro ordinamento giuridico”.
5. Con atto del …, gli uffici comunicavano alla richiedente che l’iter autorizzativo dell’istanza era stato “sospeso” dal momento che all’istanza era stata allegata una dichiarazione difforme dal modello-tipo approvato dall’amministrazione con le predette deliberazioni, invitando l’interessata a regolarizzare la dichiarazione e precisando che l’autorizzazione sarebbe stata rilasciata non appena fosse stata trasmessa la dichiarazione in questione.
6. La ricorrente presentava proprie osservazioni, contestando la legittimità della richiesta dell’Amministrazione e rifiutando di rendere la dichiarazione nei termini pretesi dall’amministrazione.
7. Alla luce di quanto sopra, con provvedimento notificato il 23 gennaio 2019 l’amministrazione dichiarava l’istanza “improcedibile”, non essendo stato prodotto il documento richiesto.
8. Con ricorso notificato il 15 marzo 2019 e depositato il 20 marzo successivo, l’interessata impugnava dinanzi a questo TAR il suddetto provvedimento di “improcedibilità”, unitamente alle presupposte delibere del consiglio comunale n. 125/2017 e della giunta comunale n. 164/2018, e ne chiedeva l’annullamento, previa sospensione cautelare, sulla base di cinque motivi, con i quali deduceva vizi di violazione di legge e di eccesso di potere sotto plurimi profili.
9. Il Comune di X si costituiva in giudizio con articolata memoria difensiva, eccependo preliminarmente l’inammissibilità del ricorso in ragione della tardiva impugnazione degli atti presupposti, divenuti ormai inoppugnabili, e in subordine, nel merito, contestando il fondamento del ricorso e chiedendone il rigetto.
10. All’udienza in camera di consiglio del 10 aprile 2019, dopo la discussione dei difensori delle parti, il collegio si riservava di definire il giudizio con sentenza in forma semplificata, sussistendone i presupposti di legge e sentite, sul punto, le parti costituite.
DIRITTO
Si può prescindere dall’esame dell’eccezione preliminare formulata dalla difesa comunale, dal momento che il ricorso è manifestamente infondato nel merito.
1. Con il primo motivo, la ricorrente ha dedotto l’illegittimità degli atti impugnati per violazione degli articoli 2, 3, 17, 18 e 21 della Costituzione in materia di tutela dei diritti fondamentali, di eguaglianza, diritto di riunione, di associazione, di manifestazione del pensiero e di associazione in partiti politici; tali principi, secondo la ricorrente, non consentirebbero di subordinare l’esercizio dei diritti civili e politici a dichiarazioni di adesione ai valori dell’antifascismo, ai valori repubblicani e a quelli della Resistenza; la libera manifestazione del pensiero e il “foro interno” di ciascun cittadino non possono essere coartati attraverso l’obbligo di adesione a valori predeterminati, secondo modelli tipici dei regimi totalitari; all’atto della domanda di concessione del suolo pubblico, la ricorrente ha dichiarato di aderire ai valori della Costituzione italiana e di non avere intenzione di ricostituire il disciolto Partito Fascista, e tanto deve essere ritenuto sufficiente; secondo la ricorrente, l’amministrazione non potrebbe imporre ai cittadini di aderire a non meglio identificati “valori dell’antifascismo” che non sono richiamati in alcuna parte del testo costituzionale, né a “ripudiare il fascismo e il nazismo”, atteso che il ripudio attinge alla sfera interna dell’individuo, che non può essere coartata dall’amministrazione in assenza di comportamenti e manifestazioni esteriori che si pongano in contrasto con le norme costituzionali e con le leggi dello Stato.
La censura è infondata.
1.1. I valori dell’antifascismo e della Resistenza e il ripudio dell’ideologia autoritaria propria del ventennio fascista sono valori fondanti la Costituzione repubblicana del 1948, non solo perché sottesi implicitamente all’affermazione del carattere democratico della Repubblica italiana e alla proclamazione solenne dei diritti e delle libertà fondamentali dell’individuo, ma anche perché affermati esplicitamente sia nella XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista, sia nell’art. 1 della legge “Scelba” n. 645 del 20 giugno 1952, che, nel dare attuazione alla predetta norma costituzionale, ha individuato come manifestazioni esteriori di ricostituzione del partito fascista il perseguire finalità antidemocratiche proprie del partito fascista attraverso, tra l’altro, la minaccia o l'uso della violenza quale metodo di lotta politica, il propugnare la soppressione delle libertà costituzionali, lo svolgere propaganda razzista, l’esaltare principi, fatti e metodi propri del predetto partito, il compiere manifestazioni esteriori di carattere fascista e il denigrare la democrazia, le sue istituzione o i “valori della Resistenza”; inoltre, l'art 5 della stessa legge Scelba n. 645/1952 punisce le manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, quando siano compiute durante eventi pubblici.
1.2. I principi affermati nelle predette norme costituiscono un limite alla libertà di manifestazione del pensiero, di riunione e di associazione degli individui, le quali non possono esplicarsi in forme che denotino un concreto tentativo di raccogliere adesioni ad un progetto di ricostituzione del disciolto partito fascista.
1.3. Si tratta di principi che, per evidenti motivi, trovano precipua applicazione in materia di propaganda politica ed elettorale.
1.4. In tale contesto, allorquando si richieda di esercitare attività di propaganda politica ed elettorale in spazi pubblici, sottraendoli, sia pure temporaneamente, all’uso pubblico per destinarli all’utilizzo privato, non appare irragionevole che l’amministrazione richieda, al fine di valutare la meritevolezza dell’interesse dedotto, una dichiarazione di impegno al rispetto dei valori costituzionali e, in particolare, dei limiti costituzionali alla libera manifestazione del pensiero connessi al ripudio dell’ideologia autoritaria fascista e all’adesione ai valori fondanti l’assetto democratico della Repubblica italiana, quali quelli dell’antifascismo e della Resistenza.; e ciò anche al fine dell’eventuale revoca della concessione in caso di violazione dell’impegno assunto. E benchè, nel caso di specie, il modello di dichiarazione predisposto dall’amministrazione comunale non appaia scevro da qualche ridondanza, non per questo è possibile rilevarne un profilo di illegittimità, tenuto conto anche della forte valenza simbolica, oltre che amministrativa, che l’amministrazione ha inteso riconnettervi e che giustifica qualche eccesso di enfasi.
1.5. Nel caso di specie la ricorrente ha richiesto all’amministrazione comunale, “quale attivista e delegata” dell’associazione “…”, la concessione del suolo pubblico nella via … – peraltro, una via pubblica di forte valenza evocativa, perchè intestata a martiri della Resistenza e dell’antifascismo – per svolgere attività di propaganda politica; ma, alla richiesta dell’amministrazione di rendere la dichiarazione di impegno predisposta dalla giunta comunale, ne ha resa una diversa, nella quale ha sì dichiarato “di riconoscersi nei valori della Costituzione, di non voler ricostruire il disciolto Partito Fascista, di non voler effettuare propaganda razzista o comunque incitante all’odio”, nonché “di impegnarsi a rispettare tutte le leggi ed i regolamenti del nostro ordinamento giuridico”, ma ha omesso, volutamente, la parte di dichiarazione relativa al “ripudio del fascismo e del nazismo” e all’adesione “ai valori dell’antifascismo”.
1.6. Dichiarare di aderire ai valori della Costituzione, ma nel contempo rifiutarsi di aderire ai valori che alla Costituzione hanno dato origine e che sono ad essa sottesi, implicitamente ed esplicitamente, significa vanificare il senso stesso dell’adesione, svuotandola di contenuto e privandola di ogni valenza sostanziale e simbolica.
1.7. Non appare pertanto censurabile il comportamento del Comune che, a fronte dell’assenza di un effettivo impegno della ricorrente al rispetto dei valori costituzionali dell’antifascismo, ha ritenuto insussistenti i presupposti di interesse pubblico per la concessione di spazi pubblici per finalità private di propaganda politica.
La censura va quindi disattesa.
2. Con il secondo motivo la ricorrente ha dedotto vizi di violazione di legge e di eccesso di potere per sviamento; l’amministrazione avrebbe utilizzato in materia sviata i propri poteri in materia di occupazione del suolo pubblico, i quali sarebbero previsti dalla legge per finalità prettamente fiscali e di tutela della viabilità e della sicurezza pubblica; l’amministrazione avrebbe invece perseguito una finalità estranea al paradigma normativo, quella di estorcere ai cittadini dichiarazioni di adesione ideologica ad una “carta di valori” predeterminata.
Anche tale censura è infondata.
2.1. La disciplina dell’occupazione del suolo pubblico è demandata ai Comuni, sia in ordine alla individuazione dei presupposti che in ordine alla determinazione del canone. La legge, in particolare, non predetermina le finalità in vista delle quali può essere attribuito a privati l’uso esclusivo del suolo pubblico, ma rimette ai Comuni il potere di regolamentarle e valutarle caso per caso, in funzione della meritevolezza dell’interesse perseguito e della sua idoneità a giustificare la sottrazione temporanea del bene pubblico all’utilizzo collettivo.
2.2. E’ stato affermato, al riguardo, che la concessione di suolo pubblico “esige sempre e comunque una decisione ponderata in ordine al bilanciamento dell'interesse pubblico con quelli privati eventualmente confliggenti, di cui dare conto nella motivazione, stante il loro carattere discrezionale, con la conseguenza che la P.A., prima di concederla, deve, attraverso apposita istruttoria, effettuare una accurata ricognizione degli interessi coinvolti” (T.A.R. Lazio-Roma, sez. II , 25 luglio 2017 n. 8934).
2.3. Nel caso di specie, la concessione del suolo pubblico è stata richiesta dalla ricorrente al fine dichiarato di effettuazione di attività di propaganda politica. L’amministrazione, nel richiedere, al fine di valutare l’assentibilità dell’istanza, una dichiarazione preventiva di adesione ai valori costituzionali dell’antifascismo e di ripudio del fascismo e del nazismo, ha bilanciato correttamente l’interesse privato della ricorrente a svolgere attività di propaganda politica con l’interesse pubblico a che ciò avvenga nel doveroso e consapevole rispetto dei valori costituzionali.
3. Con il terzo motivo, la ricorrente ha dedotto l’illegittimità degli atti impugnati per violazione del vigente regolamento comunale di X in materia di concessione di suolo pubblico; ha osservato la ricorrente che tale regolamento non è stato modificato a seguito degli atti impugnati, e, allo stato, non contiene alcuna norma che imponga la presentazione di una dichiarazione di adesione ai valori dell’antifascismo per poter ottenere uno spazio pubblico.
Anche tale censura è infondata.
Il diniego impugnato è stato adottato in ossequio a quanto previsto dal consiglio comunale con la deliberazione n. ….
Il consiglio comunale è l’organo competente ad approvare e modificare i regolamenti comunali.
Nel caso di specie, la delibera …7 ha dettato un indirizzo di carattere generale ed astratto che, benchè non inserito formalmente all’interno del testo regolamentare, è tuttavia idoneo ad integrarlo ab externo, sia in ragione della sua natura sostanzialmente regolamentare sia in considerazione dell’organo che l’ha adottato.
4. Con il quarto motivo, la ricorrente ha dedotto la violazione degli artt. 46 e 47 del DPR n. 445 del 28 dicembre 2000; tali norme, richiamate nella dichiarazione-tipo predisposta dalla giunta comunale, prevedono che le dichiarazioni sostitutive di certificazioni possano attestare unicamente “stati e qualità”, non opinioni politiche; l’amministrazione avrebbe quindi imposto una autocertificazione di carattere ideologico contraria ad ogni legge.
La censura non ha fondamento.
4.1. Benchè il modello di dichiarazione predisposto dall’amministrazione richiami, in effetti, gli artt. 46 e 47 del DPR 445/2000, la dichiarazione richiesta dall’amministrazione non è una vera dichiarazione sostitutiva di certificazione, ma una dichiarazione di impegno del privato al rispetto dei principi costituzionali e dei valori ad essi sottesi, in funzione della valutazione di meritevolezza dell’interesse perseguito dal richiedente attraverso l’utilizzo del suolo pubblico.
4.2. Il richiamo alle norme citate è quindi improprio, ma giuridicamente inconferente.
5. Infine, con il quinto motivo la ricorrente ha dedotto la violazione dell’art. 48 comma 2 del DPR 445/2000, il quale prevede che, ai fini della redazione di dichiarazioni sostitutive, gli interessati hanno la facoltà, e non l’obbligo, di avvalersi dei moduli predisposti dall’amministrazione; la ricorrente ha reso effettivamente una dichiarazione sostitutiva di adesione ai valori della Costituzione, sia pure utilizzando un modulo diverso da quello predisposto dall’amministrazione, per cui l’amministrazione avrebbe dovuto ritenere assolto l’obbligo previsto dalle delibere di giunta e di consiglio.
Anche quest’ultima censura è infondata.
5.1. La ragione per la quale l’amministrazione ha respinto l’istanza della ricorrente non risiede nel fatto che la dichiarazione non sia stata resa utilizzando il modello predisposto dall’amministrazione, ma nella circostanza che il suo contenuto non corrispondeva a quanto richiesto dall’amministrazione, non contenendo, in particolare, né il ripudio del fascismo e del nazismo né l’adesione della richiedente ai valori dell’antifascismo.
6. In conclusione, alla luce delle considerazioni di cui sopra, il ricorso va respinto.
7. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
8. Attesa la manifesta infondatezza del ricorso, va respinta anche la domanda della ricorrente di ammissione al patrocinio a spese dello Stato.
P.Q.M.
Il … definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite in favore del Comune di X, che liquida in € 2.000,00 (duemila/00), oltre oneri accessori.
Respinge la domanda della ricorrente di ammissione al patrocinio a spese dello Stato.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

domenica 28 aprile 2019


TRE RELAZIONI DELLA COMMISSIONE EUROPEA IN TEMA DI IMMIGRAZIONE

Relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio 29 marzo 2019, n. COM(2019) 160,  sulla direttiva 2011/98/UE relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro



Relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio 29 marzo 2019, n. COM(2019) 161,  sull'applicazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo


Relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio 29 marzo 2019, n. COM(2019) 162,   sull'attuazione della direttiva 2003/86/CE relativa al diritto al ricongiungimento familiare

mercoledì 24 aprile 2019


Procedure concorsuali e (rapporti di) ‘familiarità’: una (discutibile) sentenza della Consulta



Corte cost. 9 aprile 2019, n. 78

Sono infondate, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera b), ultimo periodo, della legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario), nella parte in cui non prevede – tra le condizioni che impediscono la partecipazione ai procedimenti di chiamata dei professori universitari – il rapporto di coniugio con un docente appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata, ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo, sollevate dal Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione Sicilia, con ordinanza 8 febbraio 2018, n. 76 [Osserva la Corte: a) che “nell’intervento legislativo in esame, che pure ha introdotto procedure selettive, non solo nazionali, ma anche locali, volte a meglio tutelare l’imparzialità della selezione, le previste situazioni di rigida incandidabilità sono espressione di un bilanciamento fra il diritto di ogni cittadino a partecipare ai concorsi universitari e le ragioni dell’imparzialità, che è tutto improntato alla prevalenza di tali ragioni”; b) che il coniugio “richiede … un diverso bilanciamento”, ponendo  “ a fronte dell’imparzialità non soltanto il diritto a partecipare ai concorsi, ma anche le molteplici ragioni dell’unità familiare, esse stesse costituzionalmente tutelate” (sotto questo profilo, sono  indubitabili “ le peculiarità del vincolo matrimoniale rispetto a tutte le altre situazioni personali contemplate dalla disposizione censurata”, posto che, da un lato  “il matrimonio scaturisce di frequente da una relazione che, nell’università come altrove, si forma nell’ambiente di lavoro dove si radicano le prospettive future di entrambe le parti”, dall’altro,  “si caratterizza per l’elemento volontaristico, viceversa mancante negli altri rapporti considerati, e comporta convivenza, responsabilità e doveri di cura reciproca e dei figli, così come previsto dal codice civile”);  c) che “la considerazione di tali elementi differenziali vale a giustificare, su un piano di ragionevolezza, il trattamento riservato dalla disposizione censurata al vincolo derivante dal matrimonio”; infatti, “se, da un lato, la comune residenza coniugale costituisce elemento di garanzia dell’unità familiare, dall’altro lato, la presenza dell’elemento volontaristico può rendere eludibile e, quindi, priva di effetti, la eventuale previsione normativa dell’incandidabilità del coniuge, frustrandone così le stesse finalità”; d) che “appare dunque più aderente alle esigenze qui in gioco un bilanciamento che affidi la finalità di garantire l’imparzialità, la trasparenza e la parità di trattamento nelle procedure selettive a meccanismi meno gravosi, attinenti ai componenti degli organi cui è rimessa la valutazione dei candidati” (sotto questo profilo, si ricorda che “nell’art. 51 cod. proc. civ. è stata individuata l’espressione dell’obbligo costituzionale d’imparzialità nelle procedure di accesso all’impiego pubblico” e che “in tale articolo, là dove lo si è voluto, il coniugio è esplicitamente regolato, accanto al rapporto di parentela e di affinità fino al quarto grado”; e) come sia “significativo che, in altri sistemi giuridici vicini al nostro, da un lato, vengono promossi percorsi accademici che favoriscono l’unità familiare, e dall’altro lato, che qui maggiormente rileva, l’esigenza di preservare l’accesso alla carriera accademica da possibili condizionamenti è soddisfatta attraverso meccanismi diversi dalla drastica previsione dell’incandidabilità”; f) che, in definitiva, “l’attuale regolazione delle situazioni che precludono la partecipazione alle procedure di chiamata costituisce, dunque, il risultato di un bilanciamento non irragionevole tra la pluralità degli interessi in gioco]



SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera b), ultimo periodo, della legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario), promosso dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, nel procedimento vertente tra l’Università degli studi di Catania e L. L. e altra, con ordinanza dell’8 febbraio 2018, iscritta al n. 63 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visti gli atti di costituzione di L.L.  e dell’Università degli studi di Catania, l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e l’atto di intervento di D.F.;
udito nella udienza pubblica del 5 marzo 2019 il Giudice relatore Giuliano Amato;
uditi gli avvocati OMISSIS


Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza depositata l’8 febbraio 2018, il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera b), ultimo periodo, della legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario), nella parte in cui non prevede – tra le condizioni che impediscono la partecipazione ai procedimenti di chiamata dei professori universitari – il rapporto di coniugio con un docente appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata, ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo.
Ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata violerebbe, in primo luogo, l’art. 3 Cost. per l’irragionevolezza insita nella mancata previsione del rapporto di coniugio tra le situazioni ostative alla partecipazione alle procedure selettive, a fronte della espressa previsione del rapporto di affinità, il quale presuppone il rapporto coniugale.
Sarebbe violato anche l’art. 97 Cost., per contrasto con il principio di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa.
2.– Il giudizio a quo ha per oggetto l’impugnazione della sentenza con cui il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania, ha annullato la nomina della vincitrice della procedura selettiva indetta dall’Università degli studi di Catania per la chiamata di un professore di prima fascia, sul rilievo del rapporto di coniugio tra la vincitrice ed altro professore, appartenente allo stesso dipartimento che aveva richiesto l’attivazione della procedura.
Alla pronuncia di annullamento il TAR è pervenuto applicando, in via di interpretazione estensiva, l’art. 18, primo comma, lettera b), ultimo periodo, della legge n. 240 del 2010, il quale vieta la partecipazione ai procedimenti di chiamata di coloro che abbiano un grado di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso, con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la stessa chiamata, ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo, ma non prevede espressamente il rapporto di coniugio. La successiva lettera c) del medesimo art. 18 estende il divieto in esame al conferimento di assegni di ricerca, alla stipulazione dei contratti di cui al successivo art. 24 e, più in generale, ai «contratti a qualsiasi titolo erogati dall’ateneo». Esso è stato, altresì, ritenuto applicabile dal Consiglio di Stato e dallo stesso Consiglio di giustizia amministrativa anche ai procedimenti per chiamata diretta.
Il giudice a quo osserva che alcune pronunce della giurisprudenza amministrativa, anche di secondo grado, hanno interpretato estensivamente il divieto, includendovi anche il rapporto di coniugio. In questo caso, infatti, la familiarità tra giudicante e giudicato sarebbe della massima intensità. Secondo questa giurisprudenza, sarebbe quindi irragionevole la mancata previsione, quale causa di incompatibilità, del rapporto di coniugio, a fronte della espressa previsione dell’affinità, che lo presuppone.
Tuttavia, ad avviso del giudice a quo, si tratterebbe di un indirizzo non consolidato, tale da non assurgere a diritto vivente, rispetto al quale sarebbe viceversa preminente la differenza tra coniugio e parentela, nonché tra coniugio e affinità.
Pur essendo il rapporto di coniugio presupposto di quello di affinità, il rimettente ritiene che alla manifesta irragionevolezza della lacuna normativa non si possa ovviare in via interpretativa. A ciò osterebbe, da un lato, la natura tassativa della disposizione che limita la libertà di accesso ai concorsi pubblici e, dall’altro lato, il complessivo ordinamento delle procedure concorsuali, secondo il quale le cause di esclusione fondate su un presumibile conflitto di interessi devono costituire l’extrema ratio, ossia laddove non siano possibili altri strumenti per evitarlo.
L’unica via per rimediare a questa irragionevole lacuna sarebbe, dunque, rappresentata dall’incidente di legittimità costituzionale dell’art. 18, primo comma, lettera b), ultima parte, nella parte in cui non vieta la partecipazione ai procedimenti di chiamata a coloro che sono in rapporto di coniugio con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata, ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo.
3.– Con memoria depositata il 16 maggio 2018, si è costituita L.L., parte appellata nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale. In via subordinata, ha chiesto che la disposizione censurata sia ritenuta conforme agli artt. 3 e 97 Cost., ove interpretata in modo da ricomprendere anche il rapporto di coniugio tra le cause ostative alla partecipazione alle procedure selettive per la chiamata dei professori.
La parte privata costituita osserva che la disciplina in esame è finalizzata alla prevenzione della disparità di trattamento fra gli aspiranti all’accesso a posti di professore e ricercatore nelle università. Essa è volta ad evitare, anche in astratto, il pericolo di alterazione della imparzialità, non essendo richiesta la prova dell’influenza che i rapporti familiari considerati possano avere sulla procedura selettiva. Questo obiettivo avrebbe una valenza generale, mirando ad assicurare la piena trasparenza di ogni pubblica procedura selettiva. La comunanza di interessi, la solidarietà e la frequentazione che distinguono tali rapporti sono considerate dal legislatore un ostacolo all’imparzialità della selezione concorsuale.
La parte privata costituita rileva che, sebbene non espressamente previsto come causa di esclusione, il rapporto di coniugio è già stato incluso dalla giurisprudenza amministrativa tra le situazioni genetiche dell’incompatibilità, sul rilievo del concetto di familiarità, che trova la massima intensità proprio fra i coniugi.
Peraltro, questa interpretazione estensiva del divieto può essere ritenuta incompatibile con la natura derogatoria attribuita alla disposizione. Al riguardo, è richiamata la sentenza n. 473 del 1993, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 62 del codice di procedura penale del 1930, nella parte in cui non prevedeva che giudici in rapporto di coniugio tra loro non potessero esercitare nello stesso procedimento funzioni anche separate o diverse. In questo caso, la norma è stata ritenuta eccezionale, e non interpretabile estensivamente, sul presupposto che essa costituisce un limite alla pienezza della funzione del giudice. Analogamente, nel caso in esame, la natura derogatoria della disposizione censurata andrebbe individuata nel limite che essa pone alla libertà di accesso ai concorsi e di ricerca di un lavoro.
3.1.– In via subordinata, la parte costituita propone una lettura della disposizione censurata che consentirebbe, in via interpretativa, di superare la questione di costituzionalità.
È richiamato, a questo riguardo, il contenuto immediatamente precettivo dell’art. 97 Cost., che detta la regola dell’accesso per concorso ai pubblici impieghi e che, allo stesso tempo, impone all’amministrazione di agire in modo imparziale.
Ad avviso della parte costituita, non sarebbe sostenibile neppure la natura eccezionale della disposizione censurata, poiché dall’art. 97 Cost. non si ricava una garanzia del diritto di partecipare ai concorsi per tutti coloro che abbiano le competenze richieste. L’esclusione dal concorso di coloro che si trovano in determinate relazioni con l’ente, ritenute tali da condizionarne la scelta, non costituirebbe affatto una deroga, ma sarebbe una diretta traduzione della ratio che ispira l’art. 97 Cost., affinché il concorso sia veramente pubblico e risponda ad un interesse generale, con esclusione di ogni privilegio particolare, quale può derivare dall’influenza esercitabile dai congiunti sugli organi che procedono alla selezione.
Sarebbe, dunque, possibile e doverosa un’interpretazione conforme all’art. 97 Cost., del quale la disposizione censurata costituirebbe attuazione. Essa potrebbe, infatti, essere interpretata estensivamente, in modo da comprendere anche il rapporto di coniugio fra le ipotesi ostative alla partecipazione ai concorsi per la chiamata dei professori universitari.
3.1.2.– D’altra parte, neppure qualificando la disposizione censurata come eccezionale o derogatoria vi sarebbe un divieto assoluto di darne un’interpretazione estensiva, laddove ciò non ne muti la ratio, né risulti ridotta l’area di applicabilità della norma derogata, ma sia individuata la reale portata della norma derogatrice (sono richiamate le sentenze n. 153 del 2017, n. 111 del 2016, n. 6 del 2014, n. 275 del 2005, n. 27 del 2001, n. 431 del 1997, n. 86 del 1985 e le ordinanze n. 103 del 2012, n. 203 del 2011, n. 144 del 2009 e n. 10 del 1999).
Sarebbe dunque ragionevole e coerente con la ratio dell’intervento legislativo riferire il divieto anche al rapporto di coniugio, come fonte della medesima incompatibilità che muove dal concetto di familiarità, la quale trova la massima intensità fra coniugi. La ratio che ha ispirato la legge n. 240 del 2010 sarebbe proprio quella di assicurare l’imparzialità del reclutamento e avanzamento di carriera nel settore universitario, in conformità al principio di uguaglianza e al canone di ragionevolezza, che ne costituisce il corollario.
4.– L’Università degli studi di Catania, parte appellante nel giudizio a quo, ha chiesto, in via principale, che la presente questione sia dichiarata inammissibile o comunque non fondata.
4.1.– Ad avviso della parte costituita, il legislatore avrebbe intenzionalmente omesso di ricomprendere i coniugi nella disposizione che limita l’accesso ai concorsi universitari. Il coniugio presenta, infatti, significativi profili differenziali, tali da giustificare un trattamento legislativo diversificato.
La comune residenza coniugale costituisce elemento fondamentale di garanzia dell’unità familiare, tale da distinguere la condizione dei coniugi da quella dei parenti e affini, per i quali non esiste alcuna esigenza di vita in comune. Pertanto, escludendo i coniugi dal divieto in esame, il legislatore avrebbe inteso tutelare, con una disciplina differenziata, situazioni diverse rispetto a quelle dei parenti e degli affini, in armonia con l’art. 3 Cost. ed il canone della ragionevolezza.
Il divieto previsto dalla disposizione censurata sarebbe volto a rafforzare l’imparzialità nel reclutamento dei docenti, in un ragionevole bilanciamento con l’interesse all’unità familiare. Viceversa, sarebbe discriminatorio ed irragionevole, oltre che in contrasto con gli artt. 2, 29, 30, 31 e 51 Cost., un divieto che costringesse uno dei due coniugi a scegliere tra il rapporto coniugale, l’unità familiare e le legittime aspettative professionali.
Si fa inoltre rilevare che in alcuni settori scientifico-disciplinari non esisterebbe neppure la possibilità di chiedere il trasferimento in altro dipartimento, essendo molte discipline presenti in un unico dipartimento. In questi casi, si porrebbe l’alternativa tra la rinuncia alle proprie aspirazioni professionali e la conclusione del matrimonio.
Nel bilanciamento tra le esigenze dell’uguaglianza e imparzialità che presidiano l’azione amministrativa e quelle dell’unità della famiglia dovrebbe essere attribuita prevalenza a queste ultime. D’altra parte, al fine di garantire l’imparzialità sarebbe stato sufficiente delimitare il rischio di conflitto d’interessi in concreto, anziché configurare una fattispecie di radicale incandidabilità. In molti altri ambiti, infatti, il pericolo di condizionamento è risolto attraverso gli istituti dell’astensione e della ricusazione. L’art. 51 del codice di procedura civile costituirebbe, infatti, un modello generale per risolvere in concreto possibili ipotesi di conflitto di interessi o di “condizionamento parentale”.
4.2.– In via subordinata, la difesa della parte appellante ha dedotto l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 51, 97, 29, 30 e 31 Cost., laddove essa sia interpretata nel senso di ricomprendere anche il coniugio tra le situazioni ostative della partecipazione alle procedure in esame.
Ciò sacrificherebbe ingiustamente le aspettative di vita familiare e di crescita professionale dei docenti che rientrano nell’ambito di applicazione del divieto. Per costoro, le scelte di vita della coppia e della famiglia ne uscirebbero perturbate, essendo costretti ad allontanarsi dal nucleo familiare, ovvero dal proprio percorso professionale. Il sacrificio imposto al coniuge sarebbe molto più gravoso di quello che può risentire un altro familiare, non tenuto al rispetto del vincolo di coabitazione.
Il divieto per i coniugi sarebbe, del resto, assolutamente irragionevole e sproporzionato, poiché lo stesso effetto potrebbe essere ottenuto con l’applicazione degli istituti dell’astensione e della ricusazione, che scongiurano il rischio di conflitto d’interessi in concreto, senza pregiudicare il necessario bilanciamento tra diritto al lavoro e tutela della famiglia.
5.– Con atto depositato il 15 maggio 2018, è intervenuto nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque infondate.
In via preliminare, l’interveniente eccepisce l’inammissibilità della questione per l’omessa sperimentazione di un’esegesi adeguatrice del dato normativo, nel senso di ravvisare nel rapporto di coniugio una situazione genetica della medesima incompatibilità espressamente prevista dalla disposizione censurata.
Tale interpretazione conforme è già stata offerta dal Consiglio di Stato, che è pervenuto a questo risultato rilevando che un’incompatibilità riferita ad un grado di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso, si fonda sul possibile affievolimento del principio di eguaglianza e della conseguente par condicio dei candidati, che deriva dalla familiarità tra giudicante e giudicato, familiarità che è di massima intensità nel caso del coniuge, considerato anche il suo obbligo di coabitazione.
Il divieto in questione sarebbe volto a garantire il pieno rispetto dei principi di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione, assicurati anche dagli obblighi di astensione e ricusazione previsti dagli artt. 51 e 52 cod. proc. civ. e, per le commissioni di concorso, dall’art. 11 del d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487 (Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi). Inoltre, il medesimo divieto sarebbe volto a salvaguardare l’immagine, la reputazione e il decoro delle università, assicurando che le procedure di chiamata dei professori universitari siano imparziali ed obiettive non solo in concreto, ma, soprattutto, che appaiano tali anche in astratto.
6.– Con atto depositato l’8 febbraio 2019, fuori termine, è intervenuto D.F., chiedendo che la questione in esame sia dichiarata inammissibile, o comunque non fondata.
6.1.– A sostegno della propria legittimazione a partecipare al giudizio costituzionale, l’interveniente deduce di avere chiesto, nell’ambito di un diverso giudizio amministrativo, l’annullamento di un provvedimento di diniego di un incarico di docenza universitaria, determinato dal rilievo del rapporto di coniugio con altro docente del medesimo dipartimento.


Considerato in diritto
1.– Il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera b), ultimo periodo, della legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario), nella parte in cui non prevede – tra le condizioni che impediscono la partecipazione ai procedimenti per la chiamata dei professori universitari – il rapporto di coniugio con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata, ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo.
Ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata violerebbe, in primo luogo, l’art. 3 Cost., per l’irragionevolezza insita nella mancata previsione del coniugio tra le situazioni che precludono la partecipazione alle procedure selettive, a fronte della espressa esclusione dei soggetti legati dal rapporto di affinità, il quale presuppone il rapporto di coniugio.
Sarebbe violato anche l’art. 97 Cost., per contrasto con il principio di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa.
2.– In via preliminare, va dichiarata l’inammissibilità dell’intervento ad opponendum di D.F.
L’atto di intervento è stato depositato l’8 febbraio 2019, oltre il termine di 20 giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’atto introduttivo del giudizio, previsto dall’art. 4, comma 4, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, giacché la pubblicazione della suddetta ordinanza del Consiglio di giustizia amministrativa è avvenuta nella Gazzetta Ufficiale n. 17 del 26 aprile 2018.
Secondo il costante orientamento di questa Corte, il termine previsto dal richiamato art. 4, comma 4, deve ritenersi perentorio e non ordinatorio, con la conseguenza che l’intervento avvenuto dopo la sua scadenza è inammissibile (ex plurimis, sentenze n. 99 del 2018, n. 303 del 2010, n. 263 e n. 215 del 2009).
3.– Non sono ammissibili le deduzioni svolte dall’Università degli studi di Catania, in ordine alla denunciata violazione degli artt. 2, 4, 29, 30, 31 e 51 Cost., in quanto volte ad estendere il thema decidendum definito dall’ordinanza di rimessione, ponendo in dubbio la legittimità costituzionale della disposizione in esame, ove interpretata nel senso di includere il coniugio tra le cause ostative.
La giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nell’ordinanza di rinvio; non possono, pertanto, essere presi in considerazione, oltre i limiti in questa fissati, ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto della stessa ordinanza (ex plurimis, sentenze n. 248, n. 120, n. 27, n. 4 del 2018, n. 251, n. 250, n. 35 e n. 29 del 2017).
4.– Non è fondata l’eccezione di inammissibilità della questione formulata dall’Avvocatura generale dello Stato per l’omessa sperimentazione di un’interpretazione conforme ai principi costituzionali.
Infatti, nel censurare l’irragionevolezza della mancata previsione del rapporto di coniugio ai fini della partecipazione alle procedure di chiamata, il giudice a quo dà atto dell’orientamento giurisprudenziale, secondo il quale la disposizione censurata deve essere interpretata in modo costituzionalmente orientato, nel senso che si trovano in posizione di incompatibilità anche coloro che sono legati da rapporto di coniugio con uno dei soggetti indicati nello stesso art. 18.
Tale percorso ermeneutico, tuttavia, viene consapevolmente scartato dal rimettente, il quale ritiene che alla manifesta irragionevolezza della lacuna normativa non si possa ovviare in via interpretativa. A ciò osterebbe sia la tassatività della previsione dei casi di esclusione, in quanto limitativa della libertà di accesso ai concorsi pubblici, sia il complessivo ordinamento delle procedure concorsuali, secondo il quale l’esclusione fondata su presumibili conflitti di interessi dovrebbe costituire l’extrema ratio, ove non siano possibili altri strumenti per evitare il conflitto di interessi.
Tali considerazioni del rimettente sono sufficienti ad escludere l’inammissibilità della questione per non avere sperimentato l’interpretazione conforme, che risulta valutata e consapevolmente esclusa dal giudice a quo.
Al riguardo, la giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che il fatto che il giudice a quo abbia consapevolmente reputato che il tenore letterale della disposizione censurata imponga un’interpretazione e ne impedisca altre, eventualmente conformi a Costituzione, non è ragione di inammissibilità, dato che «la verifica dell’esistenza e della legittimità di interpretazioni alternative, che il rimettente abbia ritenuto di non poter fare proprie, è questione che attiene al merito del giudizio e non alla sua ammissibilità» (ex plurimis, sentenze n. 240 del 2018, n. 194, n. 69, n. 53, n. 42 del 2017, n. 95 del 2016, n. 221 del 2015).
Nel caso in esame, non osta, quindi, all’ammissibilità delle questioni la possibilità di interpretazioni alternative, come prospettate da alcune pronunce dei giudici amministrativi e da alcune parti del giudizio.
5.– Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera b), ultimo periodo, della legge n. 240 del 2010, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., non sono fondate.
5.1.– La disposizione censurata si inserisce all’interno della disciplina delle procedure di chiamata dei professori universitari, attraverso le quali gli atenei provvedono alla copertura dei posti di professore di prima e di seconda fascia. Si tratta di procedure di valutazione comparativa, che presuppongono il conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale e possiedono le caratteristiche del concorso, finalizzato alla scelta del miglior candidato in relazione al posto da ricoprire.
In particolare, all’art. 18, primo comma, lettera b), ultimo periodo, sono elencate le condizioni che precludono la partecipazione ai procedimenti di chiamata. Sono espressamente esclusi «coloro che abbiano un grado di parentela o affinità fino al quarto grado compreso con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione».
Nella prospettazione del rimettente, questo elenco evidenzierebbe una lacuna. Non è contemplato, infatti, il coniuge di chi sia già inserito nel dipartimento coinvolto nelle procedure indicate. È viceversa previsto, quale situazione ostativa, il rapporto di affinità, il quale presuppone il coniugio. Sotto il profilo testuale, quindi, il coniugio non ricade nel divieto in esame e sull’irragionevolezza di questa omissione si appuntano le censure del giudice a quo.
5.2.– Nell’ambito della disciplina delle modalità di accesso e di avanzamento nella carriera accademica, le preclusioni introdotte dalla disposizione censurata sono volte a garantire l’imparzialità delle procedure. Attraverso la previsione di limitazioni riferite alla situazione soggettiva dei possibili candidati, la legge n. 240 del 2010 ha inteso rafforzare, in termini assoluti e preclusivi, le garanzie di imparzialità della scelta dell’amministrazione. Sino all’introduzione della disciplina in esame, ad evitare il pericolo di condizionamenti nello svolgimento della procedura era valso, invece, l’obbligo di astensione del soggetto che si trovasse in situazione di incompatibilità (art. 51 del codice di procedura civile, richiamato dall’art. 11 del d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487, «Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi»). Nelle cause di incompatibilità, e nei modi di farle valere, di cui all’art. 51 cod. proc. civ., la giurisprudenza amministrativa ha individuato un modello generale, estensibile a tutti i campi dell’azione amministrativa, quale applicazione dell’obbligo costituzionale d’imparzialità nelle procedure di accesso ad impieghi pubblici.
Nell’intervento legislativo in esame, che pure ha introdotto procedure selettive, non solo nazionali, ma anche locali, volte a meglio tutelare l’imparzialità della selezione, le previste situazioni di rigida incandidabilità sono espressione di un bilanciamento fra il diritto di ogni cittadino a partecipare ai concorsi universitari e le ragioni dell’imparzialità, che è tutto improntato alla prevalenza di tali ragioni. Che essa non includa il coniugio come motivo di incandidabilità degli aspiranti alla chiamata non può ritenersi irragionevole. Il coniugio richiede, infatti, un diverso bilanciamento. Esso pone a fronte dell’imparzialità non soltanto il diritto a partecipare ai concorsi, ma anche le molteplici ragioni dell’unità familiare, esse stesse costituzionalmente tutelate.
Sono infatti fuor di dubbio le peculiarità del vincolo matrimoniale rispetto a tutte le altre situazioni personali contemplate dalla disposizione censurata. Il matrimonio scaturisce di frequente da una relazione che, nell’università come altrove, si forma nell’ambiente di lavoro dove si radicano le prospettive future di entrambe le parti. Si caratterizza per l’elemento volontaristico, viceversa mancante negli altri rapporti considerati, e comporta convivenza, responsabilità e doveri di cura reciproca e dei figli, così come previsto dal codice civile.
La considerazione di tali elementi differenziali vale a giustificare, su un piano di ragionevolezza, il trattamento riservato dalla disposizione censurata al vincolo derivante dal matrimonio. Se, da un lato, la comune residenza coniugale costituisce elemento di garanzia dell’unità familiare, dall’altro lato, la presenza dell’elemento volontaristico può rendere eludibile e, quindi, priva di effetti, la eventuale previsione normativa dell’incandidabilità del coniuge, frustrandone così le stesse finalità.
Appare dunque più aderente alle esigenze qui in gioco un bilanciamento che affidi la finalità di garantire l’imparzialità, la trasparenza e la parità di trattamento nelle procedure selettive a meccanismi meno gravosi, attinenti ai componenti degli organi cui è rimessa la valutazione dei candidati. Come già osservato, nell’art. 51 cod. proc. civ. è stata individuata l’espressione dell’obbligo costituzionale d’imparzialità nelle procedure di accesso all’impiego pubblico. E in tale articolo, là dove lo si è voluto, il coniugio è esplicitamente regolato, accanto al rapporto di parentela e di affinità fino al quarto grado.
È inoltre significativo che, in altri sistemi giuridici vicini al nostro, da un lato, vengono promossi percorsi accademici che favoriscono l’unità familiare, e dall’altro lato, che qui maggiormente rileva, l’esigenza di preservare l’accesso alla carriera accademica da possibili condizionamenti è soddisfatta attraverso meccanismi diversi dalla drastica previsione dell’incandidabilità.
L’attuale regolazione delle situazioni che precludono la partecipazione alle procedure di chiamata costituisce, dunque, il risultato di un bilanciamento non irragionevole tra la pluralità degli interessi in gioco. La disposizione censurata non si pone, dunque, in contrasto con il parametro di cui all’art. 3 Cost., né lede i principi di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost.


per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile l’intervento di D.F.;
2) dichiara non fondate la questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera b), ultimo periodo, della legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario), sollevate dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 marzo 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Giuliano AMATO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 9 aprile 2019.

giovedì 18 aprile 2019


Mancata elezione del consigliere comunale a seguito dell’errata  attribuzione dei seggi (accertata in s.g.) – Risarcibilità del danno


Sentenza aprile 2019

Nei giudizi elettorali avanti al giudice amministrativo, l'individuazione della pubblica amministrazione cui spetta la qualità di parte necessaria va effettuata in base al criterio di imputazione dei risultati della consultazione elettorale medesima e non con riferimento al criterio dell'imputazione formale. Conseguentemente, legittimato passivo è necessariamente l’Ente civico sul quale si riverberano gli effetti dell’annullamento o della conferma della proclamazione degli eletti. Tuttavia, il giudizio in esame è un giudizio risarcitorio, nel quale il risultato delle elezioni si atteggia a mero presupposto di fatto. La legittimazione passiva, pertanto, appartiene allo Stato, posto che l'attività dell’Ufficio Centrale Elettorale è attività di natura amministrativa, compiuta da organi amministrativi temporanei, facenti parte della pubblica amministrazione statale, ed allo Stato, perciò, deve in tesi imputarsi la responsabilità derivante dal fatto causativo del danno posto in essere dai componenti di tali uffici [aggiunge il Collegio“che la responsabilità civilistica per fatti commessi da un Organo straordinario dello Stato, qual è l’Ufficio Centrale Elettorale, sottoposto alle disposizioni di legge ed al rispetto delle istruzioni ministeriali, non può che essere attribuita allo Stato, in base al criterio dell’imputazione personale degli atti compiuti ed al rapporto funzionale che si instaura tra i componenti dell’ufficio medesimo e lo Stato”]

La responsabilità da provvedimento illegittimo risponde ad un modello speciale, non riconducibile ai modelli di responsabilità che operano nel settore del diritto civile [aggiunge il Collegio che “la peculiarità dell'attività amministrativa - che deve svolgersi nel rispetto di regole procedimentali e sostanziali a tutela dell'interesse pubblico - rende speciale …anche il sistema della responsabilità da attività illegittima”]

L’illegittima attività dell’Ufficio Elettorale Centrale (recte: l’errata interpretazione della normativa in materia di ripartizione/attribuzione dei seggi da cui è derivata l’illegittima attività), da cui è derivata la mancata proclamazione alla carica di consigliere comunale, impedendo l’esercizio  del munus pubblico, configura la sussistenza di un danno ingiusto esclusivamente con riferimento alla perdita della possibilità di partecipare alla vita politica attiva del Comune in qualità di consiglieri comunali, come tale risarcibile sub specie di danno non patrimoniale, ai sensi dell'art. 2059 c.c., non anche quale (ingiusto) danno patrimoniale, attesa la natura indennitaria e l’indissolubile collegamento con l’effettivo svolgimento del mandato elettorale della funzione [quanto al danno patrimoniale, il Collegio reputa corretta la determinazione “in via equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c., attesa l’impossibilità di ancorarlo ad un qualsiasi parametro di natura economica”, quantificando l’importo, anche alla luce del fatto che gli interessati  “sono stati reintegrati nelle loro funzioni dopo sette mesi, … “in € 1.000,00 (mille) ciascuno, oltre interessi legali dal momento della pubblicazione della sentenza”]


mercoledì 17 aprile 2019


Corte di Giustizia UE 14 marzo 2019, n. C-557/17, Y.Z. e a. (Fraude dans le regroupement familial)

Rinvio pregiudiziale – Diritto al ricongiungimento familiare – Direttiva 2003/86/CE – Articolo 16, paragrafo 2, lettera a) – Articolo 17 – Revoca del permesso di soggiorno del familiare di un cittadino di un paese terzo – Status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo – Direttiva 2003/109/CE – Articolo 9, paragrafo 1, lettera a) – Perdita di tale status – Frode – Assenza di conoscenza della frode












1)      L’articolo 16, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare, dev’essere interpretato nel senso che, nel caso in cui ai fini del rilascio di permessi di soggiorno ai familiari del cittadino di un paese terzo siano stati prodotti documenti falsificati, la circostanza che detti familiari non fossero a conoscenza del carattere fraudolento di tali documenti non osta a che lo Stato membro interessato proceda, in applicazione di tale disposizione, alla revoca di detti permessi. In conformità all’articolo 17 di tale direttiva, spetta tuttavia alle autorità nazionali competenti effettuare preliminarmente un esame individualizzato della situazione di tali familiari, procedendo a una valutazione equilibrata e ragionevole di tutti gli interessi in gioco.

2)      L’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, dev’essere interpretato nel senso che, nel caso in cui lo status di soggiornante di lungo periodo sia stato concesso a cittadini di paesi terzi in base a documenti falsificati, la circostanza che detti cittadini non fossero a conoscenza del carattere fraudolento di tali documenti non osta a che lo Stato membro interessato proceda, in applicazione di tale disposizione, alla revoca di detto status.







Edizione provvisoria
SENTENZA DELLA CORTE (Quarta Sezione)
14 marzo 2019
Nella causa C‑557/17,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Raad van State (Consiglio di Stato, Paesi Bassi), con decisione del 20 settembre 2017, pervenuta in cancelleria il 22 settembre 2017, nel procedimento
Staatssecretaris van Veiligheid en Justitie
contro
Y.Z.,
Z.Z.,
Y.Y.
LA CORTE (Quarta Sezione),
composta da T. von Danwitz, presidente della Settima Sezione, facente funzione di presidente della Quarta Sezione, K. Jürimäe, C. Lycourgos (relatore), E. Juhász e C. Vajda, giudici,
avvocato generale: P. Mengozzi
cancelliere: M. Ferreira, amministratrice principale
vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 5 luglio 2018,
considerate le osservazioni presentate:
–        per Y.Z., Z.Z. e Y.Y., da M. Strooij e A.C.M. Nederveen, advocaten;
–        per il governo dei Paesi Bassi, da M.K. Bulterman, M.H.S. Gijzen e J.M. Hoogveld, in qualità di agenti;
–        per il governo polacco, da B. Majczyna, in qualità di agente;
–        per la Commissione europea, da R. Troosters e C. Cattabriga, in qualità di agenti,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 4 ottobre 2018,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1        La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 16, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare (GU 2003, L 251, pag. 12), e dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo (GU 2004, L 16, pag. 44).
2        Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra lo Staatssecretaris van Veiligheid en Justitie (Segretario di Stato alla sicurezza e alla giustizia, Paesi Bassi; in prosieguo: il «Segretario di Stato») e Y.Z., Z.Z. e Y.Y. (in prosieguo, rispettivamente: il «padre», il «figlio» e la «madre»), in merito a talune decisioni del Segretario di Stato che hanno revocato i permessi di soggiorno concessi a Y.Z., Z.Z. e Y. Y, ingiungendo loro di lasciare immediatamente il territorio Paesi Bassi e vietando loro il reingresso.
 Contesto normativo
 Diritto dell’Unione
 La direttiva 2003/86
3        I considerando 2 e 4 della direttiva 2003/86 così recitano:
«(2)      Le misure in materia di ricongiungimento familiare dovrebbero essere adottate in conformità con l’obbligo di protezione della famiglia e di rispetto della vita familiare che è consacrato in numerosi strumenti di diritto internazionale. La presente direttiva rispetta i diritti fondamentali ed i principi riconosciuti in particolare nell’articolo 8 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
(…)
(4)      Il ricongiungimento familiare è uno strumento necessario per permettere la vita familiare. Esso contribuisce a creare una stabilità socioculturale che facilita l’integrazione dei cittadini di paesi terzi negli Stati membri, permettendo d’altra parte di promuovere la coesione economica e sociale, obiettivo fondamentale della Comunità, enunciato nel trattato».
4        Ai sensi dell’articolo 1 di tale direttiva:
«Lo scopo della presente direttiva è quello di fissare le condizioni dell’esercizio del diritto al ricongiungimento familiare di cui dispongono i cittadini di paesi terzi che risiedono legalmente nel territorio degli Stati membri».
5        L’articolo 2 della direttiva di cui trattasi così dispone:
«Ai fini della presente direttiva, si intende per:
(…)
c)            “soggiornante”: il cittadino di un paese terzo legalmente soggiornante in uno Stato membro che chiede o i cui familiari chiedono il ricongiungimento familiare;
d)      “ricongiungimento familiare”: l’ingresso e il soggiorno in uno Stato membro dei familiari di un cittadino di un paese terzo che soggiorna legalmente in tale Stato membro, al fine di conservare l’unità familiare, indipendentemente dal fatto che il legame familiare sia anteriore;
(…)».
6        L’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2003/86 così recita:
«In virtù della presente direttiva e subordinatamente alle condizioni stabilite al capo IV e all’articolo 16, gli Stati membri autorizzano l’ingresso e il soggiorno dei seguenti familiari:
a)      il coniuge del soggiornante;
b)      i figli minorenni del soggiornante e del coniuge (…);
(…)».
7        L’articolo 5, paragrafo 2, primo comma, di tale direttiva prevede quanto segue:
«La domanda [di ingresso e di soggiorno] deve essere corredata da documenti che comprovano i vincoli familiari e il rispetto delle condizioni previste dagli articoli 4 e 6 e, nel caso siano applicabili, dagli articoli 7 e 8 (…)».
8        L’articolo 7, paragrafo 1, di detta direttiva dispone quanto segue:
«Al momento della presentazione della domanda di ricongiungimento familiare, lo Stato membro interessato può chiedere alla persona che ha presentato la richiesta di dimostrare che il soggiornante dispone:
(…)
c)      di risorse stabili e regolari sufficienti per mantenere se stesso e i suoi familiari senza ricorrere al sistema di assistenza sociale dello Stato membro interessato (…)».
9        L’articolo 13, paragrafo 3, della direttiva 2003/86 così recita:
«Il periodo di validità dei permessi di soggiorno concessi al familiare o ai familiari non può in linea di principio andare oltre la data di scadenza del permesso di soggiorno del soggiornante».
10      L’articolo 16, paragrafi 2 e 3, di tale direttiva così dispone:
«2.      Gli Stati membri possono inoltre respingere la domanda d’ingresso e di soggiorno ai fini del ricongiungimento familiare, oppure ritirare o rifiutare il rinnovo del permesso di soggiorno dei familiari se è accertato che:
a)      sono state utilizzate informazioni false o ingannevoli, sono stati utilizzati documenti falsi o falsificati, ovvero è stato fatto ricorso alla frode o ad altri mezzi illeciti;
(…)
3.      Gli Stati membri possono ritirare o rifiutare di rinnovare il permesso di soggiorno di un familiare quando sia posto fine al soggiorno del soggiornante e il familiare non sia ancora titolare del diritto al permesso di soggiorno autonomo in virtù dell’articolo 15».
11      L’articolo 17 della citata direttiva recita:
«In caso di rigetto di una domanda, di ritiro o di mancato rinnovo del permesso di soggiorno o di adozione di una misura di allontanamento nei confronti del soggiornante o dei suoi familiari, gli Stati membri prendono nella dovuta considerazione la natura e la solidità dei vincoli familiari della persona e la durata del suo soggiorno nello Stato membro, nonché l’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo paese d’origine».
 La direttiva 2003/109
12      I considerando 2, 4, 6 e 12 della direttiva 2003/109 così recitano:
«(2)      Nella riunione straordinaria di Tampere del 15 e del 16 ottobre 1999, il Consiglio europeo ha affermato che occorre ravvicinare lo status giuridico dei cittadini di paesi terzi a quello dei cittadini degli Stati membri e che, alle persone che soggiornano regolarmente in un determinato Stato membro per un periodo da definirsi e sono in possesso di un permesso di soggiorno di lunga durata, lo Stato membro dovrebbe garantire una serie di diritti uniformi e quanto più simili a quelli di cui beneficiano i cittadini dell’Unione europea.
(…)
(4)      L’integrazione dei cittadini di paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri costituisce un elemento cardine per la promozione della coesione economica e sociale, obiettivo fondamentale della Comunità enunciato nel trattato.
(…)
(6)      La condizione principale per ottenere lo status di soggiornante di lungo periodo dovrebbe essere la durata del soggiorno nel territorio di uno Stato membro. Dovrebbe trattarsi di un soggiorno legale ed ininterrotto, a testimonianza del radicamento del richiedente nel paese in questione (…).
(…)
(12)      Per costituire un autentico strumento di integrazione sociale, lo status di soggiornante di lungo periodo dovrebbe valere al suo titolare la parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro in una vasta gamma di settori economici e sociali sulle pertinenti condizioni definite dalla presente direttiva».
13      L’articolo 4, paragrafo 1, di tale direttiva dispone quanto segue:
«Gli Stati membri conferiscono lo status di soggiornante di lungo periodo ai cittadini di paesi terzi che hanno soggiornato legalmente e ininterrottamente per cinque anni nel loro territorio immediatamente prima della presentazione della pertinente domanda».
14      L’articolo 5, paragrafo 1, della citata direttiva prevede quanto segue:
«Gli Stati membri richiedono ai cittadini di paesi terzi di comprovare che dispongono, per sé e per i familiari a carico:
a)      di risorse stabili e regolari, sufficienti al sostentamento loro e dei loro familiari, senza fare ricorso al sistema di assistenza sociale dello Stato membro interessato (…).
(…)».
15      L’articolo 7, paragrafo 1, primo comma, della direttiva 2003/109 è formulato come segue:
«Per ottenere lo status di soggiornante di lungo periodo, il cittadino di paese terzo interessato presenta domanda alle autorità competenti dello Stato membro in cui soggiorna. La domanda è corredata della documentazione comprovante conformemente alla legislazione nazionale la sussistenza delle condizioni di cui agli articoli 4 e 5 (…)».
16      Ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, di tale direttiva:
«Lo status di soggiornante di lungo periodo è permanente, fatto salvo l’articolo 9».
17      L’art. 9 della direttiva di cui trattasi così dispone:
«1.      I soggiornanti di lungo periodo non hanno più diritto allo status di soggiornante di lungo periodo nei casi seguenti:
a)      constatazione dell’acquisizione fraudolenta dello status di soggiornante di lungo periodo;
(…)
7.      Quando la revoca o la perdita dello status di soggiornante di lungo periodo non comporta l’allontanamento, lo Stato membro autorizza l’interessato a rimanere nel suo territorio se soddisfa le condizioni previste nel suo diritto interno e/o se questi non costituisce una minaccia per l’ordine pubblico e la pubblica sicurezza».
 La decisione n. 1/80
18      L’articolo 7, primo comma, della decisione n. 1/80 del Consiglio di associazione, del 19 settembre 1980, relativa allo sviluppo dell’associazione e acclusa all’Accordo che crea un’associazione tra la Comunità economica europea e la Turchia, firmato il 12 settembre 1963 ad Ankara dalla Repubblica di Turchia, da un lato, nonché dagli Stati membri della CEE e dalla Comunità, dall’altro, e che è stato concluso, approvato e confermato a nome di quest’ultima dalla decisione 64/732/CEE del Consiglio, del 23 dicembre 1963 (GU 1964, 217, pag. 3685), prevede quanto segue:
«I familiari che sono stati autorizzati a raggiungere un lavoratore turco inserito nel regolare mercato del lavoro di uno Stato membro:
–        hanno il diritto di rispondere – fatta salva la precedenza ai lavoratori degli Stati membri della Comunità – a qualsiasi offerta di impiego, se vi risiedono regolarmente da almeno tre anni;
–        beneficiano del libero accesso a qualsiasi attività dipendente di loro scelta se vi risiedono regolarmente da almeno cinque anni».
 Il diritto dei Paesi Bassi
19      L’articolo 14, paragrafo 1, della wet tot algehele herziening van de Vreemdelingenwet (legge recante completa revisione della legge sugli stranieri), del 23 novembre 2000 (Stb. 2000, n. 495; in prosieguo: la «legge del 2000»), prevede quanto segue:
«Il nostro Ministro è competente:
a)       ad accogliere, respingere o escludere senza esame la domanda volta a ottenere un permesso di soggiorno a durata determinata;
(…)».
20      L’articolo 18, paragrafo 1, di tale legge dispone quanto segue:
«Una domanda diretta a ottenere la proroga della validità di un permesso di soggiorno a durata determinata di cui all’articolo 14 può essere respinta quando:
(…)
c)       lo straniero ha fornito informazioni inesatte o non ha fornito informazioni laddove tali informazioni avrebbero comportato il rigetto della domanda iniziale di ottenimento o di proroga;
(…)».
21      L’articolo 19 di detta legge è formulato come segue:
«Il permesso di soggiorno a durata determinata può essere revocato per i motivi di cui all’articolo 18, paragrafo 1, ad eccezione di quello previsto alla lettera b) (...)».
22      Ai sensi dell’articolo 45a, paragrafo 1, della legge del 2000:
«Il nostro Ministro è competente:
a)      ad accogliere, respingere o escludere senza esame la domanda volta a ottenere un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo;
b)      a revocare un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo».
23      L’articolo 45d, paragrafo 3, di tale legge prevede quanto segue:
«Il permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo – UE è revocato qualora:
(…)
b)      il permesso di soggiorno sia stato ottenuto in maniera fraudolenta».
 Procedimento principale e questioni pregiudiziali
24      A decorrere dal 29 marzo 2001 il padre, cittadino cinese, ha ottenuto un permesso di soggiorno ordinario a tempo determinato nei Paesi Bassi, nell’ambito delle sue presunte attività di dirigente di una società, e poi, con decorrenza dal 28 aprile 2006, un permesso di soggiorno ordinario a tempo indeterminato in tale Stato membro. Tali permessi di soggiorno sono stati rilasciati esclusivamente in base al diritto nazionale.
25      Il 31 gennaio 2002, la madre ed il figlio, rispettivamente moglie del padre e figlio minorenne della coppia, nato nel 1991 – anch’essi cittadini cinesi – hanno ottenuto permessi di soggiorno ordinari a tempo determinato nel suddetto Stato membro in forza dell’articolo 14 della legge del 2000. Tali permessi sono stati rilasciati nell’ambito di un ricongiungimento familiare con il padre, ai sensi della direttiva 2003/86. Con decorrenza dal 18 ottobre 2006, alla madre e al figlio sono stati rilasciati permessi di soggiorno ordinari a tempo indeterminato nello stesso Stato membro, recanti l’annotazione «soggiornante CE di lungo periodo», in forza degli articoli 20 e 21 della legge del 2000, sostituiti e riprodotti, sostanzialmente, all’articolo 45a di tale legge, che traspongono nell’ordinamento giuridico dei Paesi Bassi gli articoli 7 e 8 della direttiva 2003/109.
26      Con diverse decisioni del 29 gennaio 2014, il Segretario di Stato ha revocato con efficacia retroattiva, da un lato, i differenti permessi di soggiorno ordinari rilasciati al padre, con la motivazione che la presunta occupazione svolta da quest’ultimo era fittizia in quanto la società da cui dipendeva non esercitava alcuna attività, e che tali permessi erano quindi stati ottenuti in maniera fraudolenta. Dall’altro lato, il Segretario di Stato ha revocato con efficacia retroattiva anche i permessi di soggiorno a tempo determinato rilasciati alla madre e al figlio nell’ambito del ricongiungimento familiare, nonché i permessi di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo rilasciati a questi ultimi. Con tali decisioni il Segretario di Stato ha inoltre ingiunto al padre, alla madre e al figlio di lasciare immediatamente il territorio dei Paesi Bassi e ha adottato un divieto di reingresso nei loro confronti.
27      Per quanto riguarda, più in particolare, i permessi di soggiorno regolari a tempo determinato della madre e del figlio, revocati in applicazione dell’articolo 18, paragrafo 1, lettera c), e dell’articolo 19 della legge del 2000, che danno attuazione nel diritto interno all’articolo 16, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2003/86, il Segretario di Stato ritiene che essi siano stati acquisiti in maniera fraudolenta, dal momento che sono stati rilasciati in base alle attestazioni fraudolente sull’occupazione del padre. Lo stesso varrebbe anche per i permessi di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo della madre e del figlio. In effetti, da un lato, tali permessi sono stati ottenuti in base all’inesatto presupposto che la madre e il figlio beneficiassero, prima della concessione di detti permessi, di un soggiorno regolare nei Paesi Bassi. Dall’altro lato, le attestazioni fraudolente sull’occupazione del padre sono state anch’esse prodotte ai fini di tale rilascio per far credere che la madre e il figlio disponessero di risorse stabili, regolari e sufficienti, dal momento che in nessun momento questi ultimi avrebbero avuto a disposizione tali risorse in modo autonomo.
28      Secondo il Segretario di Stato, la circostanza che la madre e il figlio fossero o meno a conoscenza della frode commessa dal padre e del carattere fraudolento delle attestazioni sull’occupazione di quest’ultimo è irrilevante.
29      Con una decisione del 4 maggio 2015, il Segretario di Stato ha respinto il reclamo proposto dal padre, dalla madre e dal figlio avverso le decisioni del 29 gennaio 2014.
30      Investito di un ricorso avverso la decisione del 4 maggio 2015, con sentenza del 31 maggio 2016 il rechtbank Den Haag (Tribunale dell’Aia, Paesi Bassi) ha stabilito che il Segretario di Stato aveva revocato giustamente i diversi permessi di soggiorno del padre nonché, da un lato, i permessi di soggiorno ordinari a tempo determinato della madre e del figlio, in applicazione dell’articolo 16, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2003/86, e, dall’altro, i permessi di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo di questi ultimi ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2003/109. Per contro, tale Tribunale ha considerato il ricorso fondato in quanto il Segretario di Stato non aveva debitamente esposto le ragioni per le quali la revoca dei permessi di soggiorno accordati al figlio non violava il diritto alla vita privata garantito dall’articolo 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU»).
31      Il Segretario di Stato, da un lato, e il padre, la madre e il figlio, dall’altro, hanno proposto appello avverso tale sentenza dinanzi al giudice del rinvio.
32      Tale giudice ha accolto l’appello proposto dal Segretario di Stato.
33      Detto giudice ha infatti stabilito che quest’ultimo non era incorso in errore nel ritenere, in considerazione dei diversi interessi in gioco, che la revoca dei permessi di soggiorno rilasciati al figlio non violasse l’articolo 8 della CEDU. Egli ha aggiunto che l’articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»), cui occorre attribuire lo stesso significato e la stessa portata che sono conferiti all’articolo 8 della CEDU, non conduceva ad una diversa valutazione.
34      Con riguardo all’appello incidentale proposto dal padre, dalla madre e dal figlio, il giudice del rinvio rileva che è pacifico che il padre ha ottenuto i suoi permessi di soggiorno a tempo determinato e a tempo indeterminato in maniera fraudolenta, dal momento che la sua occupazione era fittizia. Pertanto, la controversia verte soltanto sulle conseguenze della frode sul diritto di soggiorno della madre e del figlio.
35      A quest’ultimo riguardo, tale giudice sottolinea, da un lato, che è pacifico che le attestazioni fraudolente sull’occupazione prodotte dal padre per dimostrare che disponeva di risorse stabili, regolari e sufficienti ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2003/86, sono alla base del rilascio e della proroga dei permessi di soggiorno ordinari a tempo determinato della madre e del figlio. Orbene, il padre non avrebbe mai potuto disporre di tali risorse, in quanto la sua occupazione era fittizia. Peraltro, detto giudice rileva che la madre ed il figlio non hanno ottenuto un permesso di soggiorno autonomo ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 1, di tale direttiva, in quanto nel diritto dei Paesi Bassi un tale permesso di soggiorno è limitato a motivi umanitari non temporanei, e la madre e il figlio non ne hanno mai richiesto il rilascio.
36      Per quanto riguarda, dall’altro lato, i permessi di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo rilasciati alla madre e al figlio, il giudice del rinvio sottolinea che è altresì pacifico che il soggiorno di questi ultimi nel territorio dei Paesi Bassi prima dell’ottenimento di tali permessi era fondato sulla frode del padre. Di conseguenza, si basava su una frode anche il presupposto secondo il quale essi soddisfacevano la condizione di un soggiorno legale di cinque anni sul territorio di uno Stato membro, prevista all’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2003/109. Inoltre, detti permessi sono stati ottenuti in base alle attestazioni fraudolente sull’occupazione del padre, che sono state prodotte ai fini di tale ottenimento.
37      Tuttavia, secondo tale giudice, nel caso di specie occorre partire dalla premessa che la madre e il figlio ignoravano le condotte fraudolente del padre, dal momento che il Segretario di Stato non solo non ha affermato che essi ne fossero a conoscenza, ma ha inoltre considerato che tale aspetto era irrilevante.
38      Detto giudice si chiede se, in tali circostanze, il Segretario di Stato potesse validamente revocare, da un lato, i permessi di soggiorno a tempo determinato rilasciati alla madre e al figlio, conformemente all’articolo 16, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2003/86, e, dall’altro, i permessi di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo rilasciati a questi ultimi, in applicazione dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2003/109.
39      In tali circostanze, il Raad van State (Consiglio di Stato, Paesi Bassi) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1)      Se l’articolo 16, paragrafo 2, parte iniziale e lettera a), della direttiva [2003/86] debba essere interpretato nel senso che esso osta alla revoca di un permesso di soggiorno rilasciato nel contesto del ricongiungimento familiare nel caso in cui il rilascio di detto titolo di soggiorno sia basato su dati fraudolenti, laddove il familiare non era a conoscenza della natura fraudolenta di detti dati.
2)      Se l’articolo 9, paragrafo 1, parte iniziale e lettera a), della direttiva [2003/109] debba essere interpretato nel senso che esso osta alla revoca dello status di soggiornante di lungo periodo nel caso in cui l’acquisizione di tale status sia fondata su dati fraudolenti, laddove il soggiornante di lungo periodo non era a conoscenza della natura fraudolenta di detti dati».
 Sulle questioni pregiudiziali
 Sulla prima questione
40      Con la sua prima questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 16, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2003/86 debba essere interpretato nel senso che osta a che uno Stato membro revochi i permessi di soggiorno che sono stati rilasciati ai familiari di un cittadino di un paese terzo in applicazione di tale direttiva, con la motivazione che per ottenere tali permessi di soggiorno sono stati prodotti documenti falsificati, nell’ipotesi in cui i suddetti familiari ignorassero il carattere fraudolento di tali documenti.
41      Per rispondere a tale questione occorre ricordare che, in forza dell’articolo 4, paragrafo 1, lettere a) e b), della direttiva 2003/86, gli Stati membri autorizzano l’ingresso e il soggiorno, in conformità a tale direttiva, del coniuge del soggiornante e dei figli minorenni del soggiornante e del coniuge. Ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, di tale direttiva, la domanda di ingresso e di soggiorno è corredata dei documenti che comprovano il rispetto delle condizioni previste in particolare all’articolo 7 della stessa direttiva, il cui paragrafo 1, lettera c), prevede che lo Stato membro interessato può chiedere alla persona che ha presentato la richiesta di dimostrare che il soggiornante dispone di risorse stabili e regolari sufficienti per mantenere se stesso e i suoi familiari senza ricorrere al sistema di assistenza sociale di tale Stato membro.
42      L’articolo 16, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2003/86 prevede che gli Stati membri possono ritirare il permesso di soggiorno di un familiare se è accertato che sono state utilizzate informazioni false o ingannevoli, sono stati utilizzati documenti falsi o falsificati, ovvero è stato fatto ricorso alla frode o ad altri mezzi illeciti.
43      Dalla formulazione di tale disposizione emerge che, in via di principio, gli Stati membri possono ritirare tale permesso qualora per ottenerlo siano stati prodotti documenti falsificati o sia stato fatto ricorso alla frode. La suddetta disposizione non individua la persona che ha fornito o utilizzato tali documenti o che ha commesso tale frode, né esige che il familiare interessato fosse a conoscenza di quest’ultima. Da tale formulazione emerge anche che il semplice utilizzo a questi stessi fini di informazioni false o di documenti falsi, in particolare al fine di far credere che il soggiornante disponesse di risorse stabili, regolari e sufficienti ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera c), di tale direttiva, è sufficiente per fondare una decisione di revoca del permesso di soggiorno dei familiari, senza che l’articolo 16, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2003/86 esiga la dimostrazione di un intento fraudolento da parte di tali familiari o la conoscenza da parte loro della falsità di tali informazioni o di tali documenti.
44      Tale interpretazione è corroborata da una lettura sistematica dell’articolo 16, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2003/86.
45      I motivi di revoca del permesso di soggiorno previsti da tale disposizione sono infatti identici ai motivi di rigetto di una domanda di ingresso e di soggiorno. Detta disposizione prevede, in tal senso, che l’utilizzo di informazioni false o ingannevoli o di documenti falsi o falsificati nonché il ricorso alla frode o ad altri mezzi illeciti costituiscono motivo non solo di revoca del permesso di soggiorno rilasciato, ma anche di rigetto di tale domanda. Tali motivi devono dunque essere interpretati allo stesso modo in entrambi i casi. Orbene, come ha sottolineato il governo dei Paesi Bassi, l’effetto utile della medesima disposizione impone che uno Stato membro possa respingere la domanda di ingresso e di soggiorno di un familiare qualora a sostegno di tale domanda vengano prodotti documenti falsi o falsificati, quand’anche tale familiare ignorasse il carattere falso o falsificato di tali documenti.
46      Peraltro, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, nella quale il soggiornante ha commesso una frode, data l’importanza centrale del soggiornante nel sistema istituito dalla direttiva 2003/86, risponde agli obiettivi perseguiti da tale direttiva ed alla ratio ad essa sottesa che tale frode abbia ripercussioni sul processo di ricongiungimento familiare e che, in particolare, essa infici i permessi di soggiorno rilasciati ai familiari di tale soggiornante, quand’anche questi ultimi non fossero a conoscenza della frode commessa.
47      Dal considerando 4 della direttiva 2003/86 risulta infatti che essa persegue l’obiettivo generale di facilitare l’integrazione negli Stati membri dei cittadini dei paesi terzi – ossia dei soggiornanti – consentendo la vita familiare grazie al ricongiungimento (sentenza del 21 aprile 2016, Khachab, C‑558/14, EU:C:2016:285, punto 26 e giurisprudenza ivi citata). Da tale obiettivo, nonché da una lettura d’insieme di tale direttiva, in particolare dell’articolo 13, paragrafo 3, e dell’articolo 16, paragrafo 3, deriva che, finché i familiari di cui trattasi non abbiano acquisito un diritto di soggiorno autonomo ai sensi dell’articolo 15 di tale direttiva, il loro diritto di soggiorno è un diritto derivato da quello del soggiornante, finalizzato a favorire l’integrazione di quest’ultimo. Alla luce di quanto precede, uno Stato membro deve poter considerare che la frode commessa dal soggiornante pregiudica il processo di ricongiungimento familiare nel suo complesso, in particolare il diritto di soggiorno derivato dei familiari di tale soggiornante e, su tale base, revocare ai suddetti familiari il loro permesso di soggiorno, quand’anche questi ultimi non fossero a conoscenza della frode commessa. Ciò vale a maggior ragione quando, come nel caso di specie, la frode commessa inficia la regolarità del diritto di soggiorno del soggiornante.
48      A quest’ultimo riguardo, occorre aggiungere che, ai sensi dell’articolo 1 della direttiva 2003/86, lo scopo della medesima è quello di fissare le condizioni dell’esercizio del diritto al ricongiungimento familiare di cui dispongono i cittadini di paesi terzi che risiedono legalmente nel territorio degli Stati membri. Ne consegue che tale diritto è riservato a questi cittadini, il che è confermato dalla definizione della nozione di «ricongiungimento familiare» di cui all’articolo 2, lettera d), di tale direttiva. Orbene, il cittadino di un paese terzo – quale il padre nel procedimento principale – cui siano stati ritirati con effetto retroattivo i permessi di soggiorno, a motivo della loro acquisizione fraudolenta, non può essere considerato come soggiornante legalmente sul territorio di uno Stato membro. Risulta quindi giustificato a priori che un tale cittadino non possa beneficiare del suddetto diritto e che i titoli di soggiorno rilasciati ai suoi familiari sulla base di detta direttiva possano essere revocati.
49      Nella fattispecie, è pacifico, da un lato, che è stata commessa una frode da parte del padre, il quale ha prodotto attestazioni sull’occupazione falsificate per dimostrare che disponeva di risorse stabili e regolari, sufficienti per mantenere se stesso e i suoi familiari e che, dall’altro lato, tali attestazioni sono state fornite al fine di ottenere i titoli di soggiorno dei suoi familiari, vale a dire la madre ed il figlio, sebbene questi ultimi ignorassero il carattere fraudolento delle suddette attestazioni.
50      In tali circostanze, dall’interpretazione delle disposizioni dell’articolo 16, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2003/86 che figura al punto 43 della presente sentenza emerge che la frode commessa dal padre e l’utilizzo di attestazioni sull’occupazione false o falsificate al fine di dimostrare che il padre disponeva di risorse stabili, regolari e sufficienti ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera c), di tale direttiva sono a priori idonee a giustificare la revoca dei titoli di soggiorno che sono stati ottenuti dalla madre e dal figlio sulla base della suddetta direttiva.
51      Ciò premesso, come ha rilevato l’avvocato generale ai paragrafi 27 e 28 delle sue conclusioni, la revoca di un permesso di soggiorno in applicazione dell’articolo 16, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2003/86 non può avvenire in modo automatico. In effetti, dall’utilizzo dei termini «possono (...) ritirare» contenuti in tale disposizione, risulta che gli Stati membri dispongono di un margine di discrezionalità in merito a tale revoca. A tal proposito, lo Stato membro interessato deve, in conformità con l’articolo 17 di tale direttiva, effettuare preliminarmente un esame individualizzato della situazione del familiare di cui trattasi, procedendo a una valutazione equilibrata e ragionevole di tutti gli interessi in gioco (v., in tal senso, sentenze del 6 dicembre 2012, O e a., C‑356/11 e C‑357/11, EU:C:2012:776, punto 81, nonché del 21 aprile 2016, Khachab, C‑558/14, EU:C:2016:285, punto 43).
52      In forza di quest’ultimo articolo, detto Stato membro deve prendere nella dovuta considerazione la natura e la solidità dei vincoli familiari di tale persona, la durata del soggiorno di quest’ultima nel suo territorio, nonché, soprattutto nel caso di una misura di revoca del permesso di soggiorno, l’esistenza di legami familiari, culturali o sociali di detta persona con il suo paese d’origine.
53      Inoltre, come emerge dal considerando 2 della direttiva 2003/86, le misure in materia di ricongiungimento familiare, quali le misure di revoca del permesso di soggiorno rilasciato ai familiari, devono essere adottate in conformità con i diritti fondamentali, in particolare con il diritto al rispetto della vita privata e familiare, garantito dall’articolo 7 della Carta, che contiene diritti corrispondenti a quelli tutelati dall’articolo 8, paragrafo 1, della CEDU (v., in tal senso, sentenze del 4 marzo 2010, Chakroun, C‑578/08, EU:C:2010:117, punto 44, nonché del 6 dicembre 2012, O e a., C‑356/11 e C‑357/11, EU:C:2012:776, punti 75 e 76). Pertanto, se è vero che lo Stato membro interessato dispone di un certo margine di discrezionalità ai fini dell’esame previsto dall’articolo 17 della direttiva 2003/86, tale esame dev’essere condotto nel rispetto dell’articolo 7 della Carta.
54      Nella fattispecie, quindi, come ha rilevato l’avvocato generale al paragrafo 32 delle sue conclusioni, le autorità nazionali competenti dovevano prendere in considerazione in particolare la durata del soggiorno della madre e del figlio nei Paesi Bassi, l’età di quest’ultimo al momento del suo arrivo in tale Stato membro e l’eventuale circostanza che ivi egli sia stato cresciuto e abbia ricevuto un’istruzione, nonché l’esistenza di legami familiari, economici, culturali e sociali della madre e del figlio con e nel suddetto Stato membro. Esse dovevano altresì prendere in considerazione l’eventuale esistenza di tali legami della madre e del figlio con e nel loro paese di origine, che si valuta in base a circostanze quali, in particolare, una cerchia familiare presente in tale paese, viaggi o periodi di soggiorno in tale paese, oppure attraverso il livello di conoscenza della lingua di detto paese.
55      Come ha rilevato l’avvocato generale al paragrafo 30 delle sue conclusioni, nell’ambito della loro valutazione tali autorità dovevano anche tenere conto della circostanza che nel caso di specie la madre e il figlio non sono essi stessi responsabili della frode commessa dal padre, e che non ne erano a conoscenza.
56       Spetta al giudice del rinvio verificare se le decisioni di cui al procedimento principale, con le quali il Segretario di Stato ha revocato i permessi di soggiorno della madre e del figlio, siano giustificate alla luce delle considerazioni di cui ai punti 51 e 55 della presente sentenza, oppure se, in virtù di tali considerazioni, questi ultimi debbano conservare tali permessi di soggiorno.
57      Alla luce delle suesposte considerazioni, occorre rispondere alla prima questione dichiarando che l’articolo 16, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2003/86 dev’essere interpretato nel senso che, nel caso in cui, ai fini del rilascio di permessi di soggiorno ai familiari di un cittadino di un paese terzo, siano stati prodotti documenti falsificati, la circostanza che tali familiari non fossero a conoscenza del carattere fraudolento di tali documenti non osta a che lo Stato membro interessato proceda, in applicazione di tale disposizione, alla revoca di detti permessi. In conformità all’articolo 17 di tale direttiva, spetta tuttavia alle autorità nazionali competenti effettuare preliminarmente un esame individualizzato della situazione di tali familiari, procedendo ad una valutazione equilibrata e ragionevole di tutti gli interessi in gioco.
 Sulla seconda questione
58      Con la sua seconda questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2003/109, debba essere interpretato nel senso che osta a che uno Stato membro revochi lo status di soggiornante di lungo periodo che è stato concesso a cittadini di un paese terzo in applicazione di tale direttiva con la motivazione che tale status è stato ottenuto mediante documenti falsificati, nell’ipotesi in cui tali cittadini ignorassero il carattere fraudolento di detti documenti.
59      Per rispondere a tale questione occorre ricordare che, in forza dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2003/109, gli Stati membri conferiscono lo status di soggiornante di lungo periodo ai cittadini di paesi terzi che hanno soggiornato legalmente e ininterrottamente per gli ultimi cinque anni nel loro territorio. L’acquisizione di tale status non è tuttavia automatica. Infatti, conformemente all’articolo 7, paragrafo 1, di tale direttiva, il cittadino di un paese terzo deve, a tal fine, presentare domanda alle autorità competenti dello Stato membro in cui soggiorna, domanda che deve essere corredata della documentazione comprovante la sussistenza delle condizioni di cui agli articoli 4 e 5 della suddetta direttiva. In particolare, ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 1, lettera a), della medesima direttiva, egli deve dimostrare di disporre di risorse stabili e regolari, sufficienti al sostentamento suo e dei suoi familiari senza fare ricorso al sistema di assistenza sociale di tale Stato membro.
60      L’articolo 8, paragrafo 1, della direttiva 2003/109 dispone che lo status di soggiornante di lungo periodo è permanente, fatto salvo l’articolo 9 di tale direttiva.
61      A tal proposito, l’articolo 9, paragrafo 1, lettera a) della suddetta direttiva prevede che i soggiornanti di lungo periodo non abbiano più diritto a tale status in caso di constatazione della sua acquisizione fraudolenta. Tale disposizione non individua tuttavia la persona che dev’essere all’origine della frode commessa, né richiede che il soggiornante interessato sia a conoscenza di quest’ultima.
62      Orbene, secondo una giurisprudenza costante della Corte, i soggetti dell’ordinamento non possono avvalersi fraudolentemente delle norme dell’Unione, dato che il principio del divieto della frode costituisce un principio generale del diritto dell’Unione che i soggetti dell’ordinamento sono tenuti a rispettare (v., in tal senso, sentenze del 6 febbraio 2018, Altun e a., C‑359/16, EU:C:2018:63, punti 48 e 49, nonché dell’11 luglio 2018, Commissione/Belgio, C‑356/15, EU:C:2018:555, punto 99). Il diniego o la revoca di un diritto in ragione di fatti fraudolenti non è altro che la mera conseguenza della constatazione secondo la quale, in caso di frode, le condizioni oggettive richieste ai fini dell’ottenimento di tale diritto non sono, in realtà, soddisfatte (v., in tal senso, sentenza del 22 novembre 2017, Cussens e a., C‑251/16, EU:C:2017:881, punto 32).
63      Inoltre, emerge dai considerando 2, 4, 6 e 12 della direttiva 2003/109 che quest’ultima mira a garantire l’integrazione dei cittadini di paesi terzi stabilitisi legalmente e a titolo duraturo negli Stati membri (v., in tal senso, sentenze del 17 luglio 2014, Tahir, C‑469/13, EU:C:2014:2094, punto 32; del 4 giugno 2015, P e S, C‑579/13, EU:C:2015:369, punto 46, nonché del 2 settembre 2015, CGIL e INCA, C‑309/14, EU:C:2015:523, punto 21) e, a tal fine, a ravvicinare i diritti di tali cittadini a quelli di cui godono i cittadini dell’Unione, in particolare assicurando la parità di trattamento con questi ultimi in una vasta gamma di settori economici e sociali. Lo status di soggiornante di lungo periodo permette quindi alla persona cui è attribuito di godere della parità di trattamento nei settori di cui all’articolo 11 della direttiva 2003/119, alle condizioni previste da tale articolo. In forza dell’articolo 14, paragrafo 1, della stessa direttiva, tale status offre altresì al soggiornante di lungo periodo il diritto di soggiornare, per un periodo superiore a tre mesi, nel territorio di qualsiasi Stato membro diverso da quello che gli ha conferito detto status, alle condizioni stabilite dal capo III della suddetta direttiva, e di godere in questo Stato membro, in conformità con l’articolo 21 della medesima direttiva, della parità di trattamento prevista dall’articolo 11.
64      Alla luce degli estesi diritti connessi allo status di soggiornante di lungo periodo, è importante che gli Stati membri possano combattere efficacemente la frode, revocando al beneficiario lo status di soggiornante di lungo periodo che si basi su una frode.
65      Da quanto precede discende che nessuno può pretendere di conservare diritti acquisiti in forza della direttiva 2003/109 mediante una frode, indipendentemente dal fatto che tale frode sia o meno commessa dal beneficiario di tali diritti o nota a quest’ultimo, in quanto l’elemento determinante è che l’acquisizione dei suddetti diritti sia il risultato di una frode.
66      Ne consegue che l’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2003/109 si applica in tutti i casi in cui l’ottenimento dello status di soggiornante di lungo periodo si basa su una frode, vale a dire quando una frode è all’origine di tale ottenimento, chiunque sia la persona che ha commesso tale frode e indipendentemente dal fatto che detto soggiornante ne fosse a conoscenza.
67      In particolare, tale disposizione si applica qualora, come nel procedimento principale, ai fini dell’ottenimento dello status di soggiornante di lungo periodo il soggiornante interessato abbia fornito documenti falsificati per dimostrare che disponeva di risorse stabili e regolari, sufficienti per mantenere se stesso e i suoi familiari, e ciò anche se egli non era all’origine della frode commessa ed ignorava il carattere fraudolento di tali documenti. In un caso del genere, infatti, l’acquisizione di tale status si fonda direttamente su tale frode, di modo che quest’ultima inficia necessariamente detto status.
68      Questa interpretazione non è rimessa in discussione dalla sentenza del 18 dicembre 2008, Altun (C‑337/07, EU:C:2008:744), menzionata dal giudice del rinvio.
69      In tale sentenza, la Corte ha statuito che, a partire dal momento in cui i familiari di un lavoratore turco abbiano acquisito un diritto di soggiorno autonomo in forza dell’articolo 7, primo comma, della decisione n. 1/80, tale diritto non può più essere rimesso in discussione a causa delle irregolarità che, in passato, hanno pregiudicato il diritto di soggiorno di detto lavoratore, irregolarità che nella fattispecie conseguivano al comportamento fraudolento di quest’ultimo (v., in tal senso, sentenza del 18 dicembre 2008, Altun, C‑337/07, EU:C:2008:744, punti 56, 57 e 59). Pertanto, la Corte ha dichiarato, in sostanza, che la frode che viziava il diritto di soggiorno del lavoratore turco non poteva pregiudicare il diritto di soggiorno autonomo dei suoi familiari.
70      Tuttavia, si deve rilevare che le circostanze della causa che ha dato luogo a tale sentenza si distinguono da quelle di cui al procedimento principale. Infatti, conformemente all’articolo 7, primo comma, della decisione n. 1/80, i familiari di un lavoratore turco ottengono un diritto di soggiorno autonomo dopo un periodo di tre anni di residenza nello Stato membro ospitante, senza che sia necessario presentare un’apposita domanda. La Corte non si è perciò pronunciata sulle conseguenze che l’utilizzo di documenti falsificati a sostegno di una tale domanda avrebbe avuto sui diritti delle persone interessate.
71      Orbene, nel caso di specie, emerge dalla decisione di rinvio che le decisioni di cui al procedimento principale, con le quali il Segretario di Stato ha revocato i permessi di soggiornante di lungo periodo della madre e del figlio, si fondano proprio sul fatto che, segnatamente, sono state prodotte attestazioni fraudolente sull’occupazione del padre a sostegno della domanda della madre e del figlio volta ad ottenere lo status di soggiornante di lungo periodo, al fine di far credere che essi disponessero di risorse stabili, regolari e sufficienti, dal momento che, come si è esposto al punto 59 della presente sentenza, l’acquisizione di detto status era possibile solo a seguito di tale domanda.
72      Da quanto precede risulta che, conformemente all’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2003/109, un cittadino di un paese terzo non ha più diritto allo status di soggiornante di lungo periodo previsto da tale direttiva qualora sia accertato che l’acquisizione di detto status era basata su documenti falsificati, quand’anche tale cittadino ignorasse il carattere fraudolento dei documenti.
73      Ciò posto, la perdita dello status di soggiornante di lungo periodo non implica, di per sé, che la persona interessata perda anche il diritto di soggiorno nello Stato membro ospitante, in base al quale essa ha presentato la domanda di concessione di detto status ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/109, e in base al quale essa ha ottenuto tale status in conformità all’articolo 4, paragrafo 1, di tale direttiva, indipendentemente dal fatto che tale diritto di soggiorno sia stato ottenuto in forza del diritto nazionale o del diritto dell’Unione. Tale perdita, pertanto, non ha neanche come conseguenza automatica l’allontanamento dal territorio di tale Stato membro, come risulta dall’articolo 9, paragrafo 7, della direttiva 2003/109. Nel caso in cui, come nel procedimento principale, le persone interessate, ossia la madre ed il figlio, abbiano ottenuto lo status di soggiornante di lungo periodo in base ad un diritto di soggiorno conferito in forza della direttiva 2003/86, spetta al giudice del rinvio, come si è esposto al punto 56 della presente sentenza, verificare se tali persone debbano, conformemente all’articolo 17 di tale direttiva, conservare il permesso di soggiorno che è stato loro rilasciato in forza di quest’ultima.
74      Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve rispondere alla seconda questione dichiarando che l’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2003/109 dev’essere interpretato nel senso che, nel caso in cui lo status di soggiornante di lungo periodo sia stato concesso a cittadini di paesi terzi in base a documenti falsificati, la circostanza che detti cittadini non fossero a conoscenza del carattere fraudolento di tali documenti non osta a che lo Stato membro interessato proceda, in applicazione di tale disposizione, alla revoca di detto status.
 Sulle spese
75      Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara:
1)      L’articolo 16, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare, dev’essere interpretato nel senso che, nel caso in cui ai fini del rilascio di permessi di soggiorno ai familiari del cittadino di un paese terzo siano stati prodotti documenti falsificati, la circostanza che detti familiari non fossero a conoscenza del carattere fraudolento di tali documenti non osta a che lo Stato membro interessato proceda, in applicazione di tale disposizione, alla revoca di detti permessi. In conformità all’articolo 17 di tale direttiva, spetta tuttavia alle autorità nazionali competenti effettuare preliminarmente un esame individualizzato della situazione di tali familiari, procedendo a una valutazione equilibrata e ragionevole di tutti gli interessi in gioco.
2)      L’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, dev’essere interpretato nel senso che, nel caso in cui lo status di soggiornante di lungo periodo sia stato concesso a cittadini di paesi terzi in base a documenti falsificati, la circostanza che detti cittadini non fossero a conoscenza del carattere fraudolento di tali documenti non osta a che lo Stato membro interessato proceda, in applicazione di tale disposizione, alla revoca di detto status.
Dal sito http://curia.europa.eu