lunedì 23 dicembre 2019


In tema di censimento della popolazione – Sentenza Tar 2019

In tema di censimento generale della popolazione, l’impianto normativo, ivi compreso quello comunitario, vigente non contiene in alcun punto l’obbligo di risolvere le aporie tra il dato anagrafico e quello rilevato a seguito del censimento dando prevalenza al primo di questi fattori. Anzi, dal contesto legislativo e regolamentare sopra sintetizzato, appare chiaro che l’attività di rilevazione censuaria mira a ricostruire, sulla base delle rilevazioni effettuate e attraverso l’utilizzo di criteri statistici, il dato della popolazione legale in termini quanto più possibile corrispondenti alla popolazione reale. Per tale motivo, il dato anagrafico, pur costituendo il punto di partenza dell’analisi censuaria, non può assurgere anche a strumento di regolazione delle antinomie e dei conflitti riscontrati in fase di rilevazione, in quanto ciò contrasterebbe con la funzione tipica del censimento che, invece, è volta a stimare con il miglior grado di approssimazione, sulla base di regole tecniche di natura statistica, l’effettiva consistenza della popolazione nazionale [aggiunge il Collegio che: a) “nel caso in esame, l’Istat ha dovuto risolvere una ipotesi di “duplicazione intercomunale”, che ricorre quando lo stesso individuo viene rilevato più volte, nell’ambito del censimento, tra Comuni differenti. A tal fine, ha adoperato criteri predefiniti, come risulta dalla nota metodologica che è stata pubblicata sul “sito internet” dell’Istituto, che chiarisce tutte le fasi che interessano il “processo di produzione della popolazione legale”. Il paragrafo 4 della nota si occupa specificatamente delle regole deterministiche seguite per il controllo e la correzione dei “duplicati”, e dà conto anche dei vari metodi seguiti per l’eliminazione degli stessi. Dunque, l’affermazione del Comune resistente secondo cui l’Istat avrebbe operato in assenza di criteri predefiniti ovvero individuandoli ex post ha la consistenza di una mera congettura, smentita dal contenuto della predetta nota”; b) “la scelta delle regole statistiche da approntare, inoltre, è espressione della discrezionalità tecnica adoperata dall’Istat, che è sindacabile sono in caso di manifesta abnormità o illogicità. Il Comune di M., invece, pretende di sostituire a tali regole un criterio di altro tipo, avulso dalle finalità della rilevazione censuaria e incentrato sul concetto di dimora abituale, che non è conferente rispetto alla attività di correzione delle duplicazioni”]

In tema di censimento generale della popolazione, non è ammessa una attività da parte dei Comuni di “controvalidazione” dei dati rilevati dall’Istat,  perché l’elaborazione effettuata per il tramite di precise regole statistiche non può essere messa in discussione attraverso ipotetici controlli “in loco”[ricorda il Collegio  “come l’articolo 46 del D.P.R n. 223/1989, recante il regolamento anagrafico, preveda, l’obbligo delle amministrazioni comunali, a seguito del censimento, di attivarsi ai fini della revisione delle anagrafi, con il dichiarato fine di “accertare la corrispondenza quantitativa e qualitativa dei dati anagrafici con quelli censuari” e come “la revisione, ai sensi del comma 3, “viene effettuata secondo modalità tecniche stabilite nell’occasione dall’Istituto centrale di statistica”; cosicché “è chiaro che in presenza di uno scostamento tra il dato della popolazione legale e le risultanze anagrafiche, ne consegue necessariamente una rettifica del registro anagrafico e non è, invece, consentito procedere, come prospettato dal Comune ricorrente, alla correzione del dato della popolazione legale”]

OMISSIS
FATTO
Con il ricorso in epigrafe, il Comune di M. impugna, chiedendone l’annullamento, il D.P.R. 6 novembre 2012, recante la “determinazione della popolazione legale della Repubblica in base al 15° Censimento generale della popolazione e delle abitazioni del 9 ottobre 2011, emesso in esecuzione dell’art. 50, comma 5, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito dalla Legge 30 luglio 2010 n. 122”, nella parte in cui dichiara che la popolazione legale del Comune ricorrente alla data anzidetta e fino al censimento successivo è di 29.984 abitanti.
Al primo motivo, parte ricorrente, dopo avere premesso di avere compilato nella fase “precensuaria”, come richiesto dall’Istat, un apposito “bilancio”, redigendo il modello predisposto dal medesimo Istituto, dal quale risultava che il Comune contava 30.080 abitanti, lamenta la mancata individuazione dei criteri adottati dall’Istat nell’esecuzione della validazione dei dati trasmessi dal Comune.
Sostiene, quindi, che da verbali di accertamento eseguiti dal Corpo di Polizia Municipale del Comune risulterebbe l’errore compiuto dall'Istituto di statistica nella fase di validazione dei dati raccolti dall’ente comunale e trasmessi al suddetto Istituto per mezzo del relativo bilancio.
Afferma, inoltre, che il censimento avrebbe dovuto eseguirsi prendendo quale unico punto di riferimento le dichiarazioni rese dai cittadini attraverso i questionari consegnati ai rilevatori comunali e, qualora fossero emerse irregolarità, esse avrebbero dovuto essere risolte, in ossequio alle disposizioni comunitarie e nazionali, attraverso un confronto incrociato dei dati contenuti nelle liste anagrafiche comunali.
Nel secondo mezzo di gravame, il Comune lamenta la violazione e mancata applicazione del Regolamenti CE n. 763/2008 e n. 1201/2009, nonché dei principi desumibili dagli articoli 10, comma 1, e 11 della Costituzione. Dalle predette fonti si evincerebbe l’obbligo di fare riferimento, ai fini censuari, del concetto di “dimora abituale” e di adoperare quale criterio discretivo, nei casi dubbi, quello della residenza legale o dichiarata nei registri.
Al terzo motivo, si deduce la violazione del D.L. n. 50/2010, con il quale è stato indetto il censimento, nonché del piano generale di censimento (“PGC”) adottato dall’Istat in forza di tale decreto legge. La fonte legislativa non sarebbe stata rispettata nella parte in cui prevede il “confronto contestuale tra dati rilevati al censimento e dati contenuti nelle anagrafi della popolazione residente”, mentre il PGC sarebbe stato disatteso nella misura in cui imponeva che il campo di osservazione fosse costituito “dalla popolazione dimorante abitualmente, ossia residente (…)”.
Si sono costituite le amministrazioni intimate, chiedendo la reiezione del ricorso siccome infondato.
Alla camera di consiglio del 10 aprile 2013, la domanda cautelare presentata unitamente al ricorso è stata respinta, in ragione della rilevata ragionevolezza del criterio adottato dall’Istat ai fini dell’assegnazione a un ente comunale di quei soggetti che avevano compilato più questionari, dichiarando in ciascuno un diverso Comune di appartenenza. La decisione cautelare è stata confermata in appello, ove, oltre a rilevare l’assenza di un pregiudizio grave e irreparabile, si è osservato che l’attività dell’Istat è “caratterizzata da un alto grado di discrezionalità tecnica” e che, ad una cognizione propria della fase cautelare, non risultavano presenti profili di “evidente illogicità, errore sui presupposti o travisamento di fatto” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, ord. 31 luglio 2013, n. 3078).
In vista dell’udienza di trattazione del merito della controversia, parte ricorrente ha depositato una memoria difensiva, insistendo nell’accoglimento del ricorso.
Alla udienza pubblica del 20 novembre 2019 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
Il ricorso è infondato.
Occorre premettere che la funzione tipica del censimento generale della popolazione, demandato all’Istat, è quella di “fotografare”, avuto riguardo a un preciso momento temporale, i fenomeni di carattere demografico, economico e sociale riguardanti la nazione. Tra le norme che attribuiscono rilevanza al dato censuario sono di particolare importanza gli articoli 56 e 57 della Costituzione, secondo cui ai fini della ripartizione dei seggi elettorali si fa riferimento, per l’appunto, alla popolazione risultante “dall’ultimo censimento”.
La disciplina della modalità di svolgimento del 15° censimento generale della popolazione del 9 ottobre 2011, oggetto della presente controversia, si rinviene da un coacervo di norme, alcune di rango comunitario (i Regolamenti CE n. 763/2008 e n. 1201/2009) e altre nazionali, quali, in primo luogo, l’art. 50 del decreto legge 31 maggio 2010 n. 78, convertito con modificazioni nella legge 30 luglio 2010 n. 122, con cui è stato indetto il censimento in questione. La richiamata disposizione ha previsto che le concrete modalità di svolgimento delle operazioni censuarie fossero definite nel Piano Generale di Censimento (“PGC”), successivamente adottato con la deliberazione n. 6 del Presidente dell’Istat del 18 febbraio 2011.
Il PGC prevedeva, per i profili di interesse, che i Comuni inviassero la lista anagrafica della popolazione residente riferita al 31 dicembre 2010, sottoposta a validazione dell’Istat; successivamente alla somministrazione e compilazione dei questionari alle famiglie inserite nelle liste, i Comuni avrebbero provveduto alla revisione dei questionari sulla base di specifiche istruzioni fornite dall’Istituto. Infine, a chiusura delle operazioni di rilevazione, i Comuni avrebbero provveduto “alla compilazione e trasmissione all’Istat di bilanci ad hoc relativi agli esiti del confronto censimento-anagrafe” (cfr. art. 2.2. del PGC). Avuto riguardo a questa specifica attività, l’art. 22 del Piano prevedeva che i bilanci “ad hoc” compilati dai Comuni sarebbero stati “validati” dall’Istat contestualmente al processo di determinazione della popolazione legale e che, in conformità all’art. 46 del D.P.R. 30 maggio 1989, recante il regolamento anagrafico della popolazione residente, gli enti comunali avrebbero effettuato “l’aggiornamento e la revisione delle anagrafi della popolazione residente sulla base delle notizie raccolte in occasione del Censimento (…)”.
Tanto premesso, l’odierna controversia ha ad oggetto il dato della popolazione legale riguardante il Comune di M. , come risultante dal Censimento, e segnatamente lo scostamento tra il numero di abitanti indicato dall’ente ricorrente nel bilancio trasmesso all’Istat (pari a 30.080) e quello risultante all’esito della validazione dell’Istituto di statistica (29.984). Il Comune sostiene che, appresi i nominativi dei soggetti “cancellati” dalla lista di abitanti trasmessa all’Istat, ha effettuato taluni accertamenti, dai quali risulterebbe che il maggior numero degli abitanti “sottratti” da quello della popolazione legale sarebbe, invero, costituito da soggetti residenti o comunque abitualmente dimoranti presso il territorio comunale.
Al primo motivo di impugnazione sostiene, quindi, che la determinazione dell’Istat sarebbe affetta da travisamento dei fatti, nonché viziata dalla mancata individuazione dei criteri seguiti nell’attività di rilevazione, in quanto almeno 48 soggetti avrebbero dovuto essere ricompresi nel computo totale della popolazione, sulla base delle rilevazioni fatte dal Comune.
Comunque, deduce al secondo mezzo, eventuali anomalie riscontrate avrebbero dovuto risolversi, sulla base della disciplina normativa che regola la materia, e in particolare del Regolamento CE n. 763/2008, sulla base del criterio della “dimora abituale” e, quindi, della residenza legale.
Ciò anche in conformità del PGC che invece, si deduce nel terzo mezzo di gravame, non sarebbe stato rispettato, nella parte in cui stabilisce, all’art. 2, che il “campo di osservazione” del censimento è costituito dalla popolazione dimorante abitualmente, ossia residente, come definita dall’art. 43 del Codice civile e dall’art. 3 del D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223.
Le tesi del Comune ricorrente non possono essere accolte, in quanto presuppongono una inversione logica dell’attività di verifica e confronto tra il dato della popolazione legale e quello delle risultanze anagrafiche.
L’impianto normativo, ivi compreso quello comunitario, sopra sintetizzato non contiene, infatti, in alcun punto l’obbligo di risolvere le aporie tra il dato anagrafico e quello rilevato a seguito del censimento dando prevalenza al primo di questi fattori. Anzi, dal contesto legislativo e regolamentare sopra sintetizzato, appare chiaro che l’attività di rilevazione censuaria mira a ricostruire, sulla base delle rilevazioni effettuate e attraverso l’utilizzo di criteri statistici, il dato della popolazione legale in termini quanto più possibile corrispondenti alla popolazione reale. Per tale motivo, il dato anagrafico, pur costituendo il punto di partenza dell’analisi censuaria, non può assurgere anche a strumento di regolazione delle antinomie e dei conflitti riscontrati in fase di rilevazione, in quanto ciò contrasterebbe con la funzione tipica del censimento che, invece, è volta a stimare con il miglior grado di approssimazione, sulla base di regole tecniche di natura statistica, l’effettiva consistenza della popolazione nazionale.
Nel caso in esame, l’Istat ha dovuto risolvere una ipotesi di “duplicazione intercomunale”, che ricorre quando lo stesso individuo viene rilevato più volte, nell’ambito del censimento, tra Comuni differenti. A tal fine, ha adoperato criteri predefiniti, come risulta dalla nota metodologica che è stata pubblicata sul “sito internet” dell’Istituto, che chiarisce tutte le fasi che interessano il “processo di produzione della popolazione legale”. Il paragrafo 4 della nota si occupa specificatamente delle regole deterministiche seguite per il controllo e la correzione dei “duplicati”, e dà conto anche dei vari metodi seguiti per l’eliminazione degli stessi. Dunque, l’affermazione del Comune resistente secondo cui l’Istat avrebbe operato in assenza di criteri predefiniti ovvero individuandoli ex post ha la consistenza di una mera congettura, smentita dal contenuto della predetta nota.
La scelta delle regole statistiche da approntare, inoltre, è espressione della discrezionalità tecnica adoperata dall’Istat, che è sindacabile sono in caso di manifesta abnormità o illogicità. Il Comune di M. , invece, pretende di sostituire a tali regole un criterio di altro tipo, avulso dalle finalità della rilevazione censuaria e incentrato sul concetto di dimora abituale, che non è conferente rispetto alla attività di correzione delle duplicazioni.
Deve, inoltre, osservarsi che l’Istat ha rappresentato nella propria memoria difensiva che nel bilancio del Comune di M.  sono stati rilevati in totale 205 casi di duplicazione intercomunale, di cui, all’esito della validazione dell’Istat, 109 sono stati attribuiti al Comune ricorrente e 96 ad altri Comuni. Dunque, paradossalmente, pure ricorrendo al (non consentito) criterio della “dimora abituale”, il Comune di M.  si vedrebbe assegnato comunque un numero di abitanti inferiore a quello ritenuto di sua spettanza.
La circostanza, poi, che a seguito delle operazioni censuarie si determini uno scostamento – che tra l’altro, nella odierna vicenda, appare di portata limitata – tra il dato della popolazione legale e quello anagrafico costituisce un fenomeno in una certa misura fisiologica e che, anzi, dimostra l’importanza dell’uso dello strumento del censimento, ai fini della successiva rettifica delle anagrafi (in termini, cfr. OMISSIS).
Deve, inoltre, osservarsi come non sia ammessa una attività da parte dei Comuni di “controvalidazione” dei dati rilevati dall’Istat, proprio perché l’elaborazione effettuata per il tramite di precise regole statistiche non può essere messa in discussione attraverso ipotetici controlli “in loco”. In proposito, deve rammentarsi come l’articolo 46 del D.P.R n. 223/1989, recante il regolamento anagrafico, preveda, l’obbligo delle amministrazioni comunali, a seguito del censimento, di attivarsi ai fini della revisione delle anagrafi, con il dichiarato fine di “accertare la corrispondenza quantitativa e qualitativa dei dati anagrafici con quelli censuari”. La revisione, ai sensi del comma 3, “viene effettuata secondo modalità tecniche stabilite nell’occasione dall’Istituto centrale di statistica”. In definitiva, è chiaro che in presenza di uno scostamento tra il dato della popolazione legale e le risultanze anagrafiche, ne consegue necessariamente una rettifica del registro anagrafico e non è, invece, consentito procedere, come prospettato dal Comune ricorrente, alla correzione del dato della popolazione legale.
In conclusione, alla luce di quanto sopra esposto, il ricorso non può trovare accoglimento.
Le spese di lite, in ragione della peculiarità e parziale novità della vicenda, possono compensarsi tra le parti.
OMISSIS

martedì 17 dicembre 2019




Cons. di Stato, I, 2019

Le controversie relative ad un’iscrizione anagrafica appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, non esercitando nella materia de qua l’amministrazione comunale alcun potere discrezionale. L’iscrizione (e la cancellazione) anagrafica si configurano infatti come atti dovuti in presenza dei presupposti stabiliti dalla legge, in relazione ai quali spetta all’amministrazione un mero potere di accertamento: tali controversie conseguentemente concernono situazioni di diritto soggettivo e non di interesse legittimo [per effetto del suddetto principio, il massimo organo consultivo reputa inammissibile il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica avverso il rigetto – prefettizio – del ricorso gerarchico contro il provvedimento dell’ufficiale d’anagrafe, di conferma dell’iscrizione (anagrafica) dei figli minori presso la residenza della madre]


LA SEZIONE
Vista la relazione prot. n. 4266 del 9/8/2019, con la quale il Ministero dell'interno - Dipartimento per gli affari interni e territoriali ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto;
Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Daniele Ravenna;

Premesso:
Il ricorrente, padre separato di due figli minori, impugna il decreto prefettizio indicato in oggetto, che ha respinto il suo ricorso gerarchico (cd. “ricorso anagrafico”) avverso il provvedimento del -OMISSIS-, che - accogliendo una richiesta della madre - ha disposto il trasferimento della residenza dei figli senza darne preavviso allo stesso ricorrente.
In un primo momento egli, con ricorso anagrafico al prefetto, aveva lamentato la omessa comunicazione di avvio del procedimento. Il prefetto aveva quindi ordinato al Comune, con provvedimento del 5/7/2018, di effettuare la comunicazione e rimetterlo in termini.
Il ricorrente, a seguito della comunicazione effettuata dall’amministrazione locale, comunicava il diniego del proprio consenso al trasferimento della residenza.
Ciò nondimeno il Comune, con nuovo provvedimento, confermava l’iscrizione anagrafica come richiesta dalla madre, sul presupposto di quanto deciso dall’autorità giudiziaria sulla “collocazione prevalente” dei minori presso la madre.
L’interessato presentava dunque nuovo ricorso anagrafico, che il prefetto ha respinto con il provvedimento qui impugnato.
Ad avviso del ricorrente, il decreto prefettizio sarebbe viziato per manifesta contraddittorietà con il precedente provvedimento della stessa Prefettura del 5/7/2018, nel quale si indicavano espressamente i criteri di carattere generale ai quali l’ente locale avrebbe dovuto attenersi e, in particolare, la necessità di applicare quanto previsto dall’art. 337-ter c.c. in materia di “comune accordo” fra i genitori.
Un secondo motivo di illegittimità sarebbe rinvenibile nel fatto che il decreto della corte di appello di -OMISSIS- del 9/5/2016 (relativo alla “collocazione prevalente” dei minori presso la madre), essendo già noto all’amministrazione comunale, non avrebbe potuto configurare quella “circostanza nuova e sopravvenuta” che il Comune parrebbe aver posto a fondamento del proprio provvedimento.
Ulteriore motivo di illegittimità, asserisce il ricorrente, sarebbe rinvenibile nel rilievo conferito alla considerazione - a suo avviso inesatta e comunque non rilevante ai fini della residenza anagrafica - per cui la corte di appello di -OMISSIS- avrebbe stabilito la “collocazione prevalente” dei minori presso la madre.
Il Ministero, dopo aver richiamato le controdeduzioni della Prefettura, la quale ha argomentato per la infondatezza dei singoli motivi di ricorso, eccepisce in via pregiudiziale la inammissibilità del ricorso stesso per difetto di giurisdizione in base a consolidati orientamenti della giurisprudenza e ricorda che tale indicazione giurisprudenziale è stata riportata in apposita circolare ministeriale n. 17 del 4/7/2011.
Successivamente all’invio della relazione ministeriale, è pervenuta direttamente alla Sezione, a mezzo PEC, una nota del ricorrente, nella quale questi respinge l’eccezione di inammissibilità dedotta dal Ministero, sull’argomento che, in calce al provvedimento prefettizio impugnato, è espressamente indicata, in apposita clausola, la facoltà di impugnare il provvedimento stesso, oltre che avanti il G.O. e il G.A., anche mediante ricorso straordinario, entro il termine di 120 giorni. Ribadisce poi, nel merito, la fondatezza delle proprie doglianze.
Considerato:
Il ricorso va dichiarato inammissibile.
In fattispecie del tutto assimilabile, infatti, si è statuito che: “Non vi è invero ragione per discostarsi dal consolidato indirizzo giurisprudenziale a mente del quale le controversie relative ad un’iscrizione anagrafica appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, non esercitando nella materia de qua l’amministrazione comunale alcun potere discrezionale (Cass. SS.UU. 19 giugno 2000, n. 449).
L’iscrizione (e la cancellazione) anagrafica si configurano infatti come atti dovuti in presenza dei presupposti stabiliti dalla legge, in relazione ai quali spetta all’amministrazione un mero potere di accertamento: tali controversie conseguentemente concernono situazioni di diritto soggettivo e non di interesse legittimo.” (ex multis Consiglio di Stato, Sez. V., sentenza n. 310 del 23/01/2015).
Il ricorso è, pertanto, inammissibile ai sensi dell’art. 7, comma 8, del codice del processo amministrativo approvato con d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104, secondo cui “il ricorso straordinario è ammesso unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa”.
Infatti, come detto, la presente controversia non spetta alla giurisdizione amministrativa, ma alla giurisdizione ordinaria.
D’altro canto la circostanza che il provvedimento impugnato rechi in calce l’erronea indicazione circa la sua impugnabilità (anche) mediante ricorso straordinario – così come non incide sulla validità del provvedimento medesimo ma rappresenta una mera irregolarità – così non è idonea a immutare il riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo.
In costante applicazione dell’orientamento espresso da questo Consiglio (ex multis, Cons. Stato, Sez. I, n.670 del 2017) preso atto del fatto che il ricorso straordinario “è tendenzialmente giurisdizionale nella sostanza, anche se formalmente amministrativo” (Cons. Stato, Sez. riun. I e II, parere 7 maggio 2012 n. 2131; per l’assimilazione ai rimedi di tipo giurisdizionale si vedano anche Cons. Stato, A. P., 6 maggio 2013 n. 9), nella fattispecie oggetto della presente decisione deve trovare applicazione quanto stabilito dall’articolo 11 c.p.a..
Conseguentemente, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute, sono fatti salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda proposta con il presente ricorso straordinario se la parte riproporrà la domanda innanzi al giudice ordinario entro il termine perentorio di tre mesi dalla notificazione della decisione adottata dal Presidente della Repubblica.
P.Q.M.
Esprime il parere che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, fatta salva la facoltà della parte ricorrente di riproporre la domanda, nel termine assegnato, innanzi al giudice ordinario competente.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, commi 1, 2 e 5 d. lgs. 30 giugno 2003 n. 196, manda alla Segreteria di procedere, in caso di riproduzione in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, all'oscuramento delle generalità dei minori, dei soggetti esercenti la patria potestà o la tutela e di ogni altro dato idoneo ad identificare i medesimi interessati riportati sul provvedimento.

All’Adunanza plenaria la verifica d’ufficio e in sede contenziosa dei presupposti per l’accesso generalizzato se non sussistono i presupposti per l’accesso ordinario


Accesso ai documenti – Contratti della Pubblica amministrazione – Concorrente utilmente collocato in graduatoria – Accesso agli atti relativi alla fase esecutiva delle prestazioni – Interesse – Dubbio in giurisprudenza - Rimessione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.

Accesso ai documenti – Accesso generalizzato - Contratti della Pubblica amministrazione – Concorrente utilmente collocato in graduatoria – Accesso agli atti relativi alla fase esecutiva delle prestazioni – Interesse – Dubbio in giurisprudenza - Rimessione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.

Accesso ai documenti – Contratti della Pubblica amministrazione – carenza dei presupposti per l’accesso ordinario - Esistenza dei presupposti per l’accesso generalizzato – Verifica in sede amministrativa e contenziosa – Dubbio in giurisprudenza - Rimessione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.

E’ rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione se sia configurabile, o meno, in capo all’operatore economico, utilmente collocato nella graduatoria dei concorrenti, determinata all’esito della procedura di evidenza pubblica per la scelta del contraente, la titolarità di un interesse giuridicamente protetto, ai sensi dell’art. 22, l. n. 241 del 1990, ad avere accesso agli atti della fase esecutiva delle prestazioni, in vista della eventuale sollecitazione del potere dell’amministrazione di provocare la risoluzione per inadempimento dell’appaltatore e il conseguente interpello per il nuovo affidamento del contratto, secondo le regole dello scorrimento della graduatoria (1).
E’ rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione se la disciplina dell’accesso civico generalizzato di cui al d.lgs. n. 33 del 2013, come modificato dal d.lgs. n. 97 del 2016, sia applicabile, in tutto o in parte, in relazione ai documenti relativi alle attività delle amministrazioni disciplinate dal codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, di inerenti al procedimento di evidenza pubblica e alla successiva fase esecutiva, ferme restando le limitazioni ed esclusioni oggettive previste dallo stesso codice (2).
E’ rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione se, in presenza di un’istanza di accesso ai documenti espressamente motivata con esclusivo riferimento alla disciplina generale di cui alla l. n. 241 del 1990, o ai suoi elementi sostanziali, l’amministrazione, una volta accertata la carenza del necessario presupposto legittimante della titolarità di un interesse differenziato in capo al richiedente, ai sensi dell’art. 22, l. n. 241 del 1990, sia comunque tenuta ad accogliere la richiesta, qualora sussistano le condizioni dell’accesso civico generalizzato di cui al d.lgs. n. 33 del 2013; se, di conseguenza, il giudice, in sede di esame del ricorso avverso il diniego di una istanza di accesso motivata con riferimento alla disciplina ordinaria di cui alla l. n. 241 del 1990 o ai suoi presupposti sostanziali, abbia il potere-dovere di accertare la sussistenza del diritto del richiedente, secondo i più ampi parametri di legittimazione attiva stabiliti dalla disciplina dell’accesso civico generalizzato (3).

(1) Ha chiarito la Sezione che secondo l’interpretazione invalsa in ordine ai presupposti legittimanti l’accesso ordinario, la situazione giuridica suscettibile di legittimare l’istanza ostensiva, sia nella sua configurazione “finale” (nella specie, connessa all’affidamento del servizio a seguito dello scioglimento del rapporto contrattuale con l’impresa aggiudicataria), sia in quella “procedimentale” (intesa, nella fattispecie in esame, alla sollecitazione ed al controllo delle modalità di esercizio da parte della P.A. del suo potere di risoluzione del contratto con l’aggiudicataria e di “interpello” della seconda classificata), deve quantomeno correlarsi ad una attuale e concreta prospettazione dei suoi presupposti costitutivi (relativi, nella specie, al “grave inadempimento” dell’impresa affidataria): presupposti che, essendo finalizzati a conferire i necessari requisiti di “concretezza” ed “attualità” all’interesse legittimante, devono preesistere all’istanza di accesso (proprio perché si tratta di verificarne, dal punto di vista dell’Amministrazione destinataria dell’istanza e in via succedanea nella sede giudiziale, la ammissibilità e fondatezza), e non (eventualmente) emergere successivamente al soddisfacimento dell’azionato interesse conoscitivo.
Nella suindicata direzione interpretativa milita il precedente di questo Consiglio di Stato, Sez. V, n. 3398 dell’11 giugno 2012, laddove statuisce nel senso che “nel caso di specie, l’interesse azionato che fonderebbe l’accesso non risulta concreto, poiché non ne viene precisata e specificata la natura; la circostanza di essere il secondo graduato nella procedura di gara per l’affidamento del contratto, non giustifica certo una richiesta generalizzata di accesso di tutti gli atti attinenti alla fase esecutiva (…). Il Collegio deve, conclusivamente, precisare che, con riferimento agli atti attinenti alla fase esecutiva del rapporto, manca in radice un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso, come correttamente ha evidenziato il TAR, in palese assenza di una prospettiva di risoluzione del rapporto e in assenza di un interesse al subentro, peraltro neppure rappresentabile in termini di certezza (trattandosi di facoltà discrezionale rimessa alla stazione appaltante stessa); ciò esclude la configurabilità di un interesse della seconda classificata a conoscere la correttezza o meno dell'esecuzione contrattuale da parte dell'aggiudicatario della gara, attesa la sua estraneità al rapporto contrattuale in essere e ai possibili esiti della sua esecuzione (ex art. 1372 c.c.)”. Sull’opposto versante interpretativo, tuttavia, non può farsi a meno di evidenziare che la seconda classificata, proprio in virtù di tale posizione, non è assimilabile ad un quisque de populo, ai fini dell’attivazione dell’iniziativa ostensiva: quella posizione, infatti, funge da presupposto attributivo di un “fascio” di situazioni giuridiche, di carattere oppositivo o sollecitatorio, finalizzate alla salvaguardia di un interesse tutt’altro che emulativo, in quanto radicato sulla valida – anche se non pienamente satisfattiva – partecipazione alla gara.
In siffatto contesto, ed anche in considerazione dell’idoneità dell’accesso ad integrare un autonomo “bene della vita”, distinto dalle utilità conseguibili mediante le iniziative attivabili a seguito del suo utile esperimento, l’interesse dell’impresa seconda classificata ad avere accesso agli atti della fase esecutiva, in vista della sollecitazione dell’eventuale potere risolutorio e di quello consequenziale di “interpello” della stazione appaltante, potrebbe non presentare tratti significativamente divergenti, anche ai fini della sua giuridica tutelabilità, rispetto all’incontestabile interesse ostensivo della medesima concorrente a conoscere i documenti relativi all’offerta presentata dalla aggiudicataria, indipendentemente dalla già acquisita conoscenza dei vizi del procedimento di gara, in vista della eventuale impugnazione del provvedimento di aggiudicazione: in entrambi i casi perseguendosi l’interesse al subentro nella posizione di affidataria della commessa e distinguendosi essi solo in relazione alla natura del potere di sostituzione della prima graduata spettante all’Amministrazione, siccome vincolato in un caso e discrezionale nell’altro.

(2) Ha chiarito la Sezione che qualora si ritenesse che il concorrente secondo graduato sia privo di un interesse differenziato che lo legittima all’esercizio del diritto di accesso ordinario, ai sensi della legge n. 241/1990, nei riguardi degli atti afferenti alla fase esecutiva dell’appalto, diventerebbe necessario affrontare una seconda questione, anch’essa di evidente rilievo generale, concernente l’applicabilità del nuovo istituto dell’accesso civico generalizzato, disciplinato dall’art. 5, d.lgs. n. 33 del 2013, come novellato dal d.lvo n. 97 del 2016, nella materia dei contratti pubblici, tanto nella fase di scelta del contraente, quanto nella successiva fase di esecuzione delle prestazioni.
Il diritto di accesso civico generalizzato, infatti, si caratterizza proprio perché del tutto sganciato dal collegamento con una posizione giuridica differenziata. L’operatore economico, al pari di qualsiasi altro soggetto, potrebbe esercitare tale diritto anche al semplice scopo di verificare la correttezza dell’operato dell’amministrazione, indipendentemente dall’esigenza di proteggere una particolare situazione giuridica soggettiva.
La Sezione ha ritenuto necessario chiarire se l’amministrazione prima e il giudice dopo abbiano il potere, o il dovere, di riqualificare l’istanza di accesso presentata dal richiedente, secondo i parametri della indifferenziata legittimazione soggettiva attiva dell’accesso civico.
In punto di fatto, la parte appellante, facendo leva sulla sua qualità (differenziata) di impresa partecipante alla gara e collocatasi in seconda posizione nella graduatoria conclusiva, nel perseguimento della suindicata finalità di subentrare all’impresa aggiudicataria nello svolgimento del servizio in oggetto, sembra avere inteso (implicitamente) invocare le pertinenti disposizioni della l. n. 241 del 1990 e non quelle, caratterizzate dal carattere “adespota” dell’interesse legittimante l’accesso, regolatrici del accesso civico (esercitabile, come si è visto, da “chiunque”).
Alla soluzione della questione nel senso del carattere non preclusivo della qualità “differenziata” spesa dalla richiedente l’accesso, ai fini della applicazione (in via subordinata) della normativa in tema di accesso civico, potrebbe indurre, in primo luogo, il rilievo secondo cui compete all’Amministrazione - ed, in seconda battuta, al giudice - inquadrare sub specie iuris la domanda del privato, di cui sia univocamente identificabile il contenuto sostanziale (recte, nella specie, la ragione e l’oggetto della pretesa ostensiva): sì che, anche la presenza nell’istanza di accesso di espresse indicazioni normative (nel caso concreto, comunque, assenti) non potrebbe reputarsi suscettibile di vincolare le sue determinazioni (né, di riflesso, le valutazioni del giudice), dovendo aversi di mira l’obiettivo primario di verificare la fondatezza dell’istanza alla luce del complessivo tessuto ordinamentale, in vista del soddisfacimento dell’interesse ostensivo finale del richiedente (sempre che, naturalmente, l’istanza non contenga univoche indicazioni volitive del richiedente nel senso dell’applicazione dell’una o dell’altra disciplina regolatrice dell’accesso).
Del resto, e con diretto riferimento al caso di specie, la stessa Amministrazione, esprimendosi – con la nota impugnata in primo grado – in senso negativo in ordine alla duplice possibile prospettazione della pretesa ostensiva, ha ritenuto che entrambe fossero enucleabili, senza incorrere in forzature interpretative o qualificatorie, dall’istanza della parte appellante. Lo stesso Ente, pertanto, ha attribuito all’oggetto dell’istanza un contenuto ampio, ovvero comprensivo delle due possibili configurazioni del diritto di accesso, che non potrebbe essere ricusato in sede giudiziale dall’Amministrazione appellata, se non incorrendo nel divieto di venire contra factum proprium (non potendo invece invocarsi in tema di accesso, almeno qualora si ritenga che venga in rilievo una posizione di diritto soggettivo del richiedente, l’irretrattabilità del provvedimento, anche in punto di definizione contenutistica dell’istanza del cittadino, se non nelle forme dell’autotutela).
Peraltro, in via generale, se una domanda del cittadino difetti di un requisito per poter trovare soddisfacimento alla stregua di una determinata fattispecie normativa, o comunque non lo possieda col grado di intensità all’uopo richiesto, ciò non esclude che essa possa essere esaminata secondo una diversa fattispecie tipica, che quel requisito non contempli affatto.
In senso opposto, tuttavia, potrebbe sottolinearsi che l’accesso civico è testualmente finalizzato (cfr. art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33 del 2013, così come novellato dall'art. 6, comma 1, d.lgs. n. 97 del 25 maggio 2016) allo “scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico”: siffatta connotazione finalistica dell’accesso de quo, quindi, impronterebbe “in positivo” l’istituto, inducendo ad escluderne l’applicazione ogniqualvolta il promotore dell’iniziativa ostensiva abbia espressamente fatto valere una legittimazione di carattere “egoistico” (ovvero dichiarato di agire, come nella specie, a tutela di un interesse di carattere individuale).
Ha aggiunto la Sezione che tutta la nuova normativa in materia di trasparenza, del resto, è incentrata sull’idea della massima collaborazione tra l’amministrazione e i cittadini.
La soluzione formalista, che conduca alla reiezione dell’accesso per il mancato richiamo alla disciplina dell’accesso civico si porrebbe in totale contraddizione con questi principi.
D’altro canto, il rigetto non attribuirebbe all’amministrazione alcun concreto vantaggio, poiché il richiedente potrebbe poi reiterare l’istanza, fondandola sul decreto n. 22 del 2013. Questa duplicazione di istanze e procedimenti comporterebbe costi non solo per il privato, ma anche per la stessa amministrazione.
Si deve aggiungere che la “conversione” dell’istanza non sembra comportare pregiudizi per i terzi, dal momento che la disciplina del decreto n. 33 del 2013 risulta, nel suo complesso, decisamente più garantista degli interessi privati che possono essere posti in pericolo dall’esercizio del diritto di accesso.

(3) Ha chiarito la Sezione che qualora l’Adunanza Plenaria dovesse risolvere in senso affermativo il (secondo) quesito sottopostole, assumerebbe infine rilievo dirimente, ai fini dell’esito della controversia, la complessa questione interpretativa inerente alla natura del rapporto tra la disciplina sul accesso civico e la disciplina dell’accesso ordinario, nella specifica materia dell’accesso agli atti relativi alle procedure di evidenza pubblica ed alla fase esecutiva del rapporto contrattuale con l’impresa aggiudicataria.
La giurisprudenza è prevalentemente orientata nel senso di ritenere che i due sistemi normativi coesistano, nell’attuale complessivo regime della trasparenza dell’attività amministrativa, siccome finalizzati a regolare due istituti autonomi, muniti di propri elementi caratterizzanti.
Con recente sentenza (Sez. V, n. 1817 del 20 marzo 2019), il Consiglio di Stato ha infatti chiarito che “si tratta di istituti che - lungi dal configurare un unico diritto - concretano un insieme di sistemi di garanzia, tra loro diversificati, corrispondenti ad altrettanti livelli soggettivi di pretesa alla trasparenza da parte dei soggetti pubblici (arg. ex art. 5, comma 11 d.lgs. n. 33/2013, che prefigura, scolpendo la salvezza della disciplina codificata dalla l. n. 241/1990) un regime di convivenza di plurime “forme di accesso”). Onde il “sistema” dell’accesso alle informazioni pubbliche si presenta articolato e frastagliato, esibendo una multiformità tipologica, resa ancora più articolata dalla presenza di discipline speciali e settoriali, connotate di proprie peculiarità e specificità”.
Con il medesimo precedente, è stato altresì evidenziato che l’accesso civico o generalizzato, a differenza dell’accesso documentale “classico”, “sotto il profilo oggettivo, realizza il massimo della “estensione” (in quanto riferito non solo a documenti, ma anche a meri dati e anche ad elaborazioni informative), graduata tra l’accesso generico (che legittima l’ostensione di informazioni che già avrebbero dovuto essere, in quanto tali, pubblicate) e l’accesso universale (e “totale”, che non soffre di limitazioni contenutistiche”, mentre “sul piano dell’”intensità”, si tratta – nondimeno – di pretese meno incisive di quelle veicolate dall’accesso documentale (posto che – in presenza di controinteressi rilevanti – lo scrutinio di necessità e proporzionalità appare orientato dalla massimizzazione della tutela della riservatezza e della segretezza, in danno della trasparenza)”.
La suddetta impostazione sistematica, va aggiunto, trova il suo avallo legislativo espresso nel disposto dell’art. 5, comma 1, d.lgs. n. 33 del 2013, a mente del quale “restano fermi gli obblighi di pubblicazione previsti dal Capo II, nonché le diverse forme di accesso degli interessati previste dal Capo V della l. 7 agosto 1990, n. 241”.
Tuttavia, a fronte della suindicata ricostruzione dei rapporti tra le due discipline
cui deve aggiungersi, per quanto di interesse in relazione allo specifico oggetto della controversia, quella speciale di cui all’art. 53 del codice n. 50 del 2016), non può omettersi di menzionarne un’altra, di segno alternativo, secondo la quale il d.lgs. n. 33 del 2013, come novellato dal d.lgs. n. 97 del 2016, avrebbe rivisitato, in chiave liberalizzante, l’unitaria materia dell’accesso, la quale troverebbe quindi la sua attuale regolamentazione in un quadro normativo composito, dal punto di vista della fonte produttiva, che costituirebbe la risultante di un complesso processo di abrogazione-coordinamento-integrazione, affidato essenzialmente all’interprete e frutto dell’”atterraggio” (non compiutamente disciplinato in tutti i suoi risvolti applicativi dal legislatore attraverso appositi sistemi di raccordo) delle nuove (ed, in certo senso, dirompenti) disposizioni di cui al d.lgs. n. 97 del 2016 sul terreno normativo “classico” di cui alla originaria l. n. 241 del 1990.
Secondo tale diverso approccio sistematico, il d.lgs. n. 33 del 2013 non avrebbe esautorato del tutto la previgente l. n. 241 del 1990 né espunto dall’ordinamento le specifiche forme di accesso dalla stessa disciplinate: e tuttavia queste, unitamente all’istituto di nuovo conio dell’accesso civico, concorrerebbero alla configurazione di un diritto unitario, pur connotato dalla molteplicità delle sue concrete manifestazioni attuative, la cui ratio complessiva ed aggiornata riposerebbe nella necessità di apprestare strumenti penetrativi differenziati nelle maglie informative della P.A., al fine di meglio calibrare la forza del principio di trasparenza in ragione della diversità delle situazioni in cui venga concretamente invocato e della eterogeneità degli interessi di volta in volta coinvolti.
Ha ancora chiarito la Sezione che Chiarito che - secondo la già più volte richiamata interpretazione prevalente - l’accesso civico e quello ordinario coesistono nel nostro ordinamento, al pari delle rispettive disposizioni regolatrici, l’art. 5 bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013, nel suo rinvio alle “vigenti disposizioni” che presuppongono, ai fini dell’accesso, il rispetto di “specifiche condizioni, modalità e limiti”, non sembra poter essere semplicisticamente inteso come affermativo della necessità di richiedere, ai fini dell’ostensione dei documenti in determinati ambiti/materie (come, appunto, quella delle procedure di evidenza pubblica e della relativa fase esecutiva, in cui vige una disposizione che richiama espressamente la l. n. 241 del 1990), il possesso della situazione legittimante ex art. 22, l. n. 241 del 1990: tale interpretazione, infatti, assume a suo presupposto proprio quella che dovrebbe essere, invece, la conclusione del ragionamento ermeneutico, ovvero la perdurante vigenza, nella predetta materia e quale esclusiva fonte regolatrice dell’accesso ad essa relativo, della l. n. 241 del 1990 (dando essa, in altre parole, per scontato che la suddetta materia, con riferimento all’istituto dell’accesso, sia rimasta immune dall’avvento innovatore del d.lgs. n. 97 del 2016).
Inoltre, l’impossibilità di istituire un immediato “ponte” dispositivo tra l’art. 5 bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013 e l’art. 53, comma 1, scaturisce dalla diversa portata delle due previsioni: l’una intesa a fare salva la vigenza delle disposizioni che prevedono “specifiche condizioni, modalità o limiti” all’accesso, l’altra recante un rinvio generale ed onnicomprensivo alla l. n. 241 del 1990.
Consegue da tale rilievo che disposizioni come l’art. 53, le quali, oltre ad essere previgenti (al d.lgs. n. 97 del 2016), fanno indistinto riferimento alle previsioni in tema di accesso di cui alla l. n. 241 del 1990, non potrebbero essere ricondotte alla clausola di salvezza di cui all’art. 5 bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013, scontrandosi il carattere generale del primo, siccome riguardante l’intero complesso normativo di cui alla l. n. 241/1990, ed il carattere analitico del secondo, concernente “specifiche condizioni, modalità o limiti” previsti dalla vigente disciplina in tema di accesso.
Né, del resto, sarebbe plausibile ritenere che la clausola di cui all’art. 5 bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013, ed in particolare il rinvio da esso operato alle “specifiche condizioni, modalità o limiti”, si presti ad essere intesa ed applicata in modo differenziato: come relativa, cioè, (anche) alla suindicata limitazione soggettiva, laddove specifiche discipline (come nella specie, per ipotesi, l’art. 53, comma 1) contengano un generico richiamo alla l. n. 241 del 1990, ed estranea ad essa, qualora nessuna previsione vi sia (e si tratti solo di applicare, nel suo proprio ambito operativo, la disciplina in tema di accesso civico).
In tale seconda ipotesi, infatti, la disposizione non potrebbe sicuramente essere invocata, come già rilevato, al fine di affermare la vigenza, anche in riferimento all’accesso civico, di quelle “limitazioni” che, per il loro carattere tipizzante lo specifico istituto dell’accesso ordinario (come quella connessa alla necessaria legittimazione soggettiva del richiedente), non si prestano ad essere trasposte all’altro, a pena di snaturamento dello stesso.
Per concludere, potrebbe anzi ipotizzarsi – rimettendo all’Adunanza Plenaria ogni valutazione finale sul punto – che l’art. 5 bis, comma 3, d.lgs. n. 33 del 2013, nel suo rinvio ai “casi in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti”, rechi supporto all’interpretazione opposta a quella che lo invoca al fine di giustificare l’inapplicabilità dell’accesso civico alla materia disciplinata dal Codice degli Appalti.
Invero, il generico riferimento normativo all’”accesso” – comprensivo di quello civico e di quello ordinario – sembra deporre nel senso che il legislatore ha una visione sostanzialmente unitaria dell’istituto dell’accesso, sebbene disciplinandone in maniera diversa le singole declinazioni attuative.
Ebbene, se così è (recte, fosse), la disposizione potrebbe essere invocata proprio al fine di ribadire che le due richiamate discipline in tema di accesso concorrono in ciascun ambito materiale specifico, ferma restando la necessità di rispettare quelle “specifiche condizioni, modalità o limiti” previsti dalla l. n. 241 del 1990: ai quali, però, non sarebbero riconducibili quelli che, come la necessaria legittimazione soggettiva del richiedente, non possono essere trasferiti entro il dominio applicativo dell’accesso civico, senza dare luogo alla radicale negazione dello stesso.

lunedì 16 dicembre 2019



Accesso alle riproduzioni audio-video delle prove orali di un concorso


Accesso ai documenti – Riproduzione audio video – Prove orali di pubblico concorso – E’ accessibile.

Essendo la prova orale di un concorso certamente riconducibile al procedimento concorsuale, la sua riproduzione audio video deve ritenersi accessibile, in quanto documento informatico detenuto da una pubblica amministrazione e concernente attività pubblicistica dalla stessa posta in essere, senza che possa in alcun modo avere rilevanza la circostanza che si tratti di documenti non aventi ad oggetto un atto formato dalla pubblica amministrazione (1).

(1) La Sezione II ter del Tar Lazio ha accolto il ricorso di un concorrente non classificatosi tra i vincitori ad accedere alle riproduzioni audio-video delle prove orali dei concorrenti risultati vincitori.
Il Tar ha pertanto affermato che riproduzione audio video di una prova orale di un concorso deve ritenersi accessibile, in quanto documento informatico detenuto da una pubblica amministrazione e concernente attività pubblicistica dalla stessa posta in essere nell’ambito del procedimento concorsuale, senza che possa in alcun modo avere rilevanza la circostanza che si tratti di documenti non aventi ad oggetto un atto formato dalla pubblica amministrazione.
Quanto alla asserita lesione delle riservatezza, ha chiarito il Tar che in linea di principio sussiste il diritto ad accedere a tutti gli atti della procedura concorsuale e non vi sono limiti ai documenti ostensibili, essendo noto che le domande e i documenti prodotti dai candidati, i verbali, le schede di valutazione e gli stessi elaborati di un concorso pubblico costituiscono documenti rispetto ai quali deve essere esclusa in radice l'esigenza di riservatezza e tutela dei terzi, posto che i concorrenti, prendendo parte alla selezione, hanno acconsentito a misurarsi in una competizione di cui la comparazione dei valori di ciascuno costituisce l'essenza della valutazione (Tar Lazio, sez. III, 10 settembre 2013, n.8199).
In ogni caso, la sentenza ha rilevato che, attesa la specifica natura dei documenti in questione (registrazioni audio-video delle prove orali), qualora dovesse profilarsi un contrasto tra esigenze di privacy dei terzi e il diritto di accesso, trattandosi di accesso per fini di necessità difensive, queste ultime dovrebbe comunque ritenersi prevalenti.
Tuttavia, l’amministrazione potrà adottare accorgimenti tecnici idonei a contemperare l’interesse all’accesso e quello alla riservatezza dei terzi.

Dal sito https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/accesso-alle-riproduzioni-audio-video-delle-prove-orali-di-un-concorso


Corte di Giustizia UE  2019
Rinvio pregiudiziale – Politica dell’immigrazione – Diritto al ricongiungimento familiare – Direttiva 2003/86/CE – Articolo 10, paragrafo 2 – Disposizione facoltativa – Condizioni per l’esercizio del diritto al ricongiungimento familiare – Familiare di un rifugiato non previsto all’articolo 4 – Nozione di “persona a carico”







L’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a che uno Stato membro autorizzi il ricongiungimento familiare della sorella di un rifugiato solo se quest’ultima, a causa del suo stato di salute, non è in grado di sovvenire alle proprie necessità, purché:
–        da un lato, tale incapacità sia valutata tenendo conto della situazione particolare in cui si trovano i rifugiati e dopo un esame individualizzato che tenga conto di tutti gli elementi pertinenti, e
–        dall’altro, sia possibile stabilire, anche tenendo conto della situazione particolare in cui si trovano i rifugiati e dopo un esame individualizzato che tenga conto di tutti gli elementi pertinenti, che il sostegno materiale della persona interessata è effettivamente garantito dal rifugiato o che il rifugiato sembra essere il familiare più idoneo a fornire il sostegno materiale necessario.









OMISSIS
Sentenza
1        La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 4, paragrafi 2 e 3, e dell’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare (GU 2003, L 251, pag. 12).
2        Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra TB e Bevándorlási és Menekültügyi Hivatal (Ufficio per l’immigrazione e l’asilo, Ungheria) in merito al rigetto da parte di tale ufficio di una domanda di rilascio di un permesso di soggiorno ai fini del ricongiungimento familiare a favore della sorella dell’interessato.
 Contesto normativo
 Diritto dell’Unione
3        I considerando 2, 4 e 8 della direttiva 2003/86 enunciano quanto segue:
«2)      Le misure in materia di ricongiungimento familiare dovrebbero essere adottate in conformità con l’obbligo di protezione della famiglia e di rispetto della vita familiare che è consacrato in numerosi strumenti di diritto internazionale. La presente direttiva rispetta i diritti fondamentali e i principi riconosciuti in particolare nell’articolo 8 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
(...)
4)      Il ricongiungimento familiare è uno strumento necessario per permettere la vita familiare. Esso contribuisce a creare una stabilità socioculturale che facilita l’integrazione dei cittadini di paesi terzi negli Stati membri, permettendo d’altra parte di promuovere la coesione economica e sociale, obiettivo fondamentale della Comunità, enunciato nel trattato.
(...)
8)      La situazione dei rifugiati richiede un’attenzione particolare, in considerazione delle ragioni che hanno costretto queste persone a fuggire dal loro paese e che impediscono loro di vivere là una normale vita familiare. In considerazione di ciò, occorre prevedere condizioni più favorevoli per l’esercizio del loro diritto al ricongiungimento familiare».
4        L’articolo 1 della suddetta direttiva così prevede:
«Lo scopo della presente direttiva è quello di fissare le condizioni dell’esercizio del diritto al ricongiungimento familiare di cui dispongono i cittadini di paesi terzi che risiedono legalmente nel territorio degli Stati membri».
5        L’articolo 3, paragrafo 5, di tale direttiva recita come segue:
«La presente direttiva lascia impregiudicata la facoltà degli Stati membri di adottare o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli».
6        L’articolo 4 della medesima direttiva dispone, ai paragrafi da 1 a 3:
«1.      In virtù della presente direttiva e subordinatamente alle condizioni stabilite al capo IV e all’articolo 16, gli Stati membri autorizzano l’ingresso e il soggiorno dei seguenti familiari:
a)       il coniuge del soggiornante;
b)        i figli minorenni del soggiornante e del coniuge, compresi i figli adottati (...);
c)       i figli minorenni, compresi quelli adottati, del soggiornante, quando quest’ultimo sia titolare dell’affidamento e responsabile del loro mantenimento. (...)
d)       i figli minorenni, compresi quelli adottati, del coniuge, quando quest’ultimo sia titolare dell’affidamento e responsabile del loro mantenimento. (...)
(...)
2.      In virtù della presente direttiva e fatto salvo il rispetto delle condizioni stabilite al capo IV, gli Stati membri possono, per via legislativa o regolamentare, autorizzare l’ingresso e il soggiorno dei seguenti familiari:
a)      gli ascendenti diretti di primo grado del soggiornante o del suo coniuge, quando sono a carico di questi ultimi e non dispongono di un adeguato sostegno familiare nel paese d’origine;
b)      i figli adulti non coniugati del soggiornante o del suo coniuge, qualora obiettivamente non possano sovvenire alle proprie necessità in ragione del loro stato di salute.
3.      Gli Stati membri possono, per via legislativa o regolamentare, autorizzare l’ingresso e il soggiorno ai sensi della presente direttiva, fatto salvo il rispetto delle condizioni definite al capo IV, del partner non coniugato cittadino di un paese terzo che abbia una relazione stabile duratura debitamente comprovata con il soggiornante, o del cittadino di un paese terzo legato al soggiornante da una relazione formalmente registrata, ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, nonché dei figli minori non coniugati, anche adottati, di tali persone, come pure i figli adulti non coniugati di tali persone, qualora obiettivamente non possano sovvenire alle proprie necessità in ragione del loro stato di salute.
Gli Stati membri possono decidere, relativamente al ricongiungimento familiare, di riservare ai partner legati da una relazione formalmente registrata lo stesso trattamento previsto per i coniugi».
7        L’articolo 10 della direttiva 2003/86, contenuto nel suo capo V, che reca il titolo «Ricongiungimento familiare dei rifugiati», così prevede:
«1.      L’articolo 4 si applica alla definizione di familiari con l’eccezione del terzo comma del paragrafo 1 di tale articolo che non si applica ai figli dei rifugiati.
2.      Gli Stati membri possono autorizzare il ricongiungimento di altri familiari non previsti all’articolo 4, qualora essi siano a carico del rifugiato.
3.      Se il rifugiato è un minore non accompagnato, gli Stati membri:
a)      autorizzano l’ingresso e il soggiorno ai fini del ricongiungimento familiare degli ascendenti diretti di primo grado, senza applicare le condizioni previste all’articolo 4, paragrafo 2, lettera a);
b)      possono autorizzare l’ingresso e il soggiorno ai fini del ricongiungimento familiare del suo tutore legale o di altro familiare, quando il rifugiato non abbia ascendenti diretti o sia impossibile rintracciarli».
8        Ai sensi dell’articolo 17 di tale direttiva:
«In caso di rigetto di una domanda, di ritiro o di mancato rinnovo del permesso di soggiorno o di adozione di una misura di allontanamento nei confronti del soggiornante o dei suoi familiari, gli Stati membri prendono nella dovuta considerazione la natura e la solidità dei vincoli familiari della persona e la durata del suo soggiorno nello Stato membro, nonché l’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo paese d’origine».
 Diritto ungherese
9        L’articolo 19 dell’a harmadik országbeli állampolgárok beutazásáról és tartózkodásáról szóló 2007. évi II. törvény (legge n. II del 2007, relativa all’ingresso e al soggiorno dei cittadini di paesi terzi; in prosieguo: la «legge del 2007») dispone quanto segue:
«1.      Può ottenere un’autorizzazione al soggiorno ai fini di ricongiungimento familiare il cittadino di un paese terzo che sia familiare di un cittadino di un paese terzo titolare di un’autorizzazione al soggiorno, all’ingresso, di stabilimento, di stabilimento provvisorio, di stabilimento nazionale o di stabilimento CE, o di una persona che sia titolare, in forza di una legge speciale, di una carta di soggiorno o di una carta di soggiorno permanente (in prosieguo e in via generale: il «soggiornante»).
(...)
4.      Può ottenere un’autorizzazione al soggiorno a fini di ricongiungimento familiare:
a)      il genitore a carico;
b)      il fratello o la sorella e gli ascendenti e discendenti in linea diretta, qualora non siano in grado di provvedere alle proprie necessità a causa del loro stato di salute,
del soggiornante o del suo coniuge o della persona cui sia stata riconosciuta la qualità di rifugiato».
 Procedimento principale e questioni pregiudiziali
10      Il 7 settembre 2015 l’autorità ungherese competente ha riconosciuto a TB lo status di rifugiato. Il 12 gennaio 2016 la sorella di TB ha chiesto alla rappresentanza diplomatica ungherese a Teheran (Iran) un permesso di soggiorno per il ricongiungimento familiare con TB e un visto per entrare in possesso di tale permesso di soggiorno.
11      Tale richiesta è stata respinta da una decisione dell’autorità di primo grado, confermata dall’autorità di secondo grado, in quanto, da un lato, la sorella di TB, per ottenere il permesso di soggiorno richiesto, aveva fornito dati falsi all’autorità competente e in quanto, dall’altro, essa, tenuto conto delle sue qualifiche e del suo stato di salute, non aveva dimostrato che non sarebbe stata in grado di mantenersi a causa del suo stato di salute, fermo restando che, secondo la documentazione medica allegata alla sua domanda, essa soffrirebbe di una depressione che richiedeva un controllo medico regolare.
12      Avverso tale decisione di rigetto TB ha proposto ricorso dinanzi al giudice del rinvio. A sostegno del suo ricorso, egli fa valere, in particolare, che la norma prevista dall’articolo 19, paragrafo 4, lettera b), della legge del 2007, ai sensi della quale il fratello o la sorella di un rifugiato può ottenere un permesso di soggiorno ai fini del ricongiungimento familiare, a condizione che egli non sia in grado di mantenersi a causa del suo stato di salute, viola l’articolo 10, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2003/86.
13      Il giudice nazionale, che dubita della compatibilità di tale norma con l’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86, rileva che la condizione così prevista dall’articolo 19, paragrafo 4, lettera b), non corrisponde a quella prevista da tale articolo 10, paragrafo 2, che consente agli Stati membri di autorizzare il ricongiungimento dei membri della famiglia diversi da quelli di cui all’articolo 4 di tale direttiva, quali i fratelli e le sorelle del rifugiato, purché siano «a suo carico». Pertanto, la condizione di cui all’articolo 19, paragrafo 4, lettera b), corrisponderebbe a quella di cui all’articolo 4, paragrafi 2, lettera b), e 3, di tale direttiva per quanto riguarda il ricongiungimento familiare, non dei fratelli e sorelle del rifugiato, ma dei figli adulti non sposati del richiedente o del coniuge e dei figli adulti non coniugati comuni del richiedente e del partner.
14      Di conseguenza, tale giudice si chiede anzitutto se l’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86 osti a che uno Stato membro, che si avvale della possibilità prevista da tale disposizione autorizzando il ricongiungimento dei familiari diversi da quelli di cui all’articolo 4 di tale direttiva, subordini tale ricongiungimento a condizioni diverse da quelle previste da tale prima disposizione.
15      A tale riguardo, detto giudice rileva che, in una precedente sentenza, la Kúria (Corte suprema, Ungheria) ha dichiarato, senza formulare una domanda di pronuncia pregiudiziale, che la risposta a tale questione dovrebbe essere negativa e che l’articolo 19, paragrafo 4, lettera b), della legge del 2007 non viola pertanto l’articolo 10, paragrafo 2, di cui trattasi.
16      Tuttavia, secondo il giudice del rinvio, se è vero che, conformemente all’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86, gli Stati membri possono autorizzare il ricongiungimento dei membri della famiglia non contemplati dall’articolo 4 di tale direttiva e quindi derogare alla definizione della nozione di «familiare» di cui a detto articolo, essi non potrebbero, per contro, derogare alla condizione prevista da detto articolo 10, paragrafo 2, secondo cui tali membri possono beneficiare del ricongiungimento familiare se sono a carico del rifugiato.
17      In secondo luogo, in caso di soluzione affermativa della questione di cui al punto 14 della presente sentenza, il giudice del rinvio s’interroga sull’interpretazione della nozione di «persona a carico» ai sensi della direttiva 2003/86.
18      A tale riguardo, detto giudice rileva che, nella sua versione nella lingua processuale, l’articolo 10, paragrafo 2, di tale direttiva si riferisce ai familiari a carico del rifugiato («a menekült eltartottjai»), mentre, nella sua versione in lingua inglese, tale disposizione si riferisce a coloro che hanno una relazione di dipendenza con il rifugiato («dependent on the refugee»). Lo stesso dubita che tali espressioni siano pienamente equivalenti.
19      Esso si chiede inoltre se il concetto di persona «a carico» implichi una valutazione globale dei vari elementi che caratterizzano la dipendenza o se tale concetto possa essere riassunto come l’esistenza di uno solo di questi elementi, come l’incapacità del familiare interessato di sovvenire alle proprie necessità a causa del suo stato di salute, di modo che uno Stato membro possa, sulla sola base di questo elemento, considerare che un familiare che non lo soddisfa non dipende dal soggiornante, senza effettuare una valutazione individuale della situazione di tale familiare. A tale riguardo, detto giudice rileva che, secondo la Kúria (Corte suprema, Ungheria), dalla giurisprudenza della Corte risulta che tale nozione implica una dipendenza non solo materiale, ma anche fisica e intellettuale, cosicché il rapporto di dipendenza può essere caratterizzato da un rapporto di dipendenza complesso, di cui l’onere materiale costituisce solo uno degli elementi.
20      In terzo luogo, in caso di soluzione negativa della questione di cui al punto 14 della presente sentenza, il giudice nazionale si chiede se gli Stati membri siano liberi di imporre qualsiasi condizione, comprese quelle previste dall’articolo 4, paragrafi 2 e 3, della direttiva 2003/86, e, eventualmente, s’interroga sulla portata della condizione prevista da tale articolo 4, paragrafo 3, in quanto i familiari interessati non siano oggettivamente in grado di sovvenire alle proprie necessità a causa del loro stato di salute.
21      Alla luce di tali circostanze, il Fővárosi Közigazgatási és Munkaügyi Bíróság (Tribunale amministrativo e del lavoro di Budapest, Ungheria) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1)      Se si debba interpretare l’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva [2003/86], nel senso che, qualora uno Stato membro autorizzi ai sensi di detto articolo l’ingresso di un familiare non incluso tra coloro che figurano all’articolo 4 [della menzionata direttiva], potrà applicare a tale familiare esclusivamente il requisito previsto all’articolo 10, paragrafo 2 (che sia “a carico del rifugiato”).
2)      In caso di risposta affermativa alla prima questione, se implichi la qualità di persona “a carico” (“dependency”), disciplinata all’articolo 4, paragrafo 2, lettera a), della direttiva [2003/86], una situazione di fatto in cui debbano concorrere, cumulativamente, i vari aspetti della dipendenza, o se sia sufficiente, affinché possa configurarsi detta qualità, che si configuri uno qualsiasi di tali aspetti, a seconda delle circostanze specifiche di ciascuna fattispecie. In tale contesto, se sia conforme al requisito previsto all’articolo 10, paragrafo 2, [di tale direttiva] (che sia “a carico del rifugiato”), una norma nazionale che, escludendo una valutazione individuale, considera esclusivamente un unico elemento fattuale (un aspetto indicativo della dipendenza: “non essere in grado di provvedere alle proprie necessità a causa del proprio stato di salute”) quale condizione che consente che sia soddisfatto detto requisito.
3)      In caso di risposta negativa alla prima questione e, quindi, qualora lo Stato membro possa applicare altri requisiti oltre a quello figurante all’articolo 10, paragrafo 2, [della direttiva 2003/86] (che sia “a carico del rifugiato”), se questo significhi che lo Stato membro è legittimato a stabilire, ove lo consideri opportuno, qualsiasi requisito, inclusi quelli sanciti con riferimento ad altri familiari all’articolo 4, paragrafi 2 e 3 [della menzionata direttiva], o se possa applicare esclusivamente il requisito che rientra all’articolo 4, paragrafo 3, [di detta direttiva]. In tale ipotesi, quale situazione di fatto implichi il requisito “objectively unable to provide for their own needs on account of their state of health” [qualora obiettivamente non possano sovvenire alle proprie necessità in ragione del loro stato di salute] previsto all’articolo 4, paragrafo 3. Se debba essere interpretato nel senso che il familiare “non è in grado” di prendersi cura di “se stesso” o non può sovvenire “alle proprie necessità”, o se si debba interpretare, eventualmente, in modo diverso».
 Sulle questioni pregiudiziali
 Osservazioni preliminari
22      Il governo ungherese sostiene che le questioni pregiudiziali sono irricevibili per la loro natura ipotetica. Tali questioni si basano infatti sull’erronea premessa che l’Ungheria, con l’articolo 19, paragrafo 4, lettera b), della legge del 2007, ha attuato l’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86, anche se non ha notificato tali informazioni alla Commissione ai sensi dell’articolo 20 di tale direttiva.
23      A tale proposito, occorre ricordare che spetta soltanto al giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolarità del caso di specie, tanto la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di emettere la propria sentenza, quanto la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte. Di conseguenza, se le questioni sollevate vertono sull’interpretazione di una norma giuridica dell’Unione, la Corte è, in via di principio, tenuta a statuire (sentenza del 10 dicembre 2018, Wightman e a., C‑621/18, EU:C:2018:999, punto 26).
24      Ne consegue che le questioni vertenti sul diritto dell’Unione sono assistite da una presunzione di rilevanza. Il rifiuto della Corte di statuire su una questione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale è possibile soltanto qualora risulti in modo manifesto che l’interpretazione richiesta di una norma dell’Unione non ha alcun rapporto con la realtà effettiva o con l’oggetto della controversia nel procedimento principale, oppure qualora il problema sia di natura ipotetica, o anche quando la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto necessari per rispondere utilmente alle questioni che le vengono sottoposte (sentenza del 10 dicembre 2018, Wightman e a., C‑621/18, EU:C:2018:999, punto 27).
25      Nella specie si deve sottolineare che, secondo il giudice del rinvio, adottando l’articolo 19, paragrafo 4, lettera b), della legge del 2007, il legislatore ungherese ha senz’altro inteso attuare l’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86, recependo così una disposizione che concede agli Stati membri una libertà di scelta che costituisce parte integrante del regime stabilito dalla direttiva stessa (v., al riguardo, per analogia, sentenza del 21 dicembre 2011, N.S. e a., C‑411/10 e C‑493/10, EU:C:2011:865, punti da 65 a 68).
26      Orbene, la Corte è tenuta a prendere in considerazione, nell’ambito della ripartizione delle competenze tra i giudici dell’Unione e i giudici nazionali, il contesto fattuale e normativo nel quale si inseriscono le questioni pregiudiziali, come definito dal provvedimento di rinvio. Di conseguenza, a prescindere dalle censure mosse dal governo ungherese all’interpretazione del diritto nazionale effettuata dal giudice del rinvio, l’esame del presente rinvio pregiudiziale deve essere compiuto facendo riferimento all’interpretazione di tale diritto operata da detto giudice (v., in tal senso, sentenza del 21 giugno 2016, New Valmar, C‑15/15, EU:C:2016:464, punto 25).
27      Il fatto che l’Ungheria non abbia notificato alla Commissione, ai sensi dell’articolo 20 della direttiva 2003/86, l’articolo 19, paragrafo 4, lettera b), come misura di trasposizione dell’articolo 10, paragrafo 2, di detta direttiva, non è tale da modificare tale conclusione. Non è sufficiente che una misura nazionale non sia stata notificata alla Commissione dallo Stato membro interessato per escludere che la misura possa attuare una disposizione di una direttiva.
28      L’eccezione di irricevibilità deve pertanto essere respinta.
29      Va inoltre rilevato che, con la seconda e la terza questione, il giudice nazionale interroga la Corte anche in merito all’interpretazione da dare all’articolo 4, paragrafi 2 e 3, della direttiva 2003/86.
30      Tuttavia, tali disposizioni concernono situazioni diverse da quella di cui trattasi nel procedimento principale, in quanto riguardano il ricongiungimento familiare di familiari di un rifugiato diversi dalla sorella.
31      Il semplice fatto che, nell’ambito dell’attuazione dell’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86, il legislatore ungherese abbia utilizzato termini analoghi a quelli di cui all’articolo 4, paragrafi 2 e 3, di tale direttiva non è sufficiente a giustificare una richiesta di interpretazione di tali disposizioni. Infatti, il giudice del rinvio non ha affermato, nella propria domanda di pronuncia pregiudiziale, che il legislatore ungherese aveva inteso operare un rinvio diretto e incondizionato a tali disposizioni adottando l’articolo 19, paragrafo 4, lettera b), della legge del 2007 (v., al riguardo, sentenze del 18 ottobre 2012, Nolan, C‑583/10, EU:C:2012:638, punto 47, e del 7 novembre 2018, C e A, C‑257/17, EU:C:2018:876, punto 33).
32      Ne consegue che non è quindi necessario interpretare, nell’ambito della presente causa, l’articolo 4, paragrafi 2 e 3, della direttiva 2003/86.
 Nel merito
33      Con le sue questioni, che devono essere esaminate congiuntamente, il giudice nazionale chiede, in sostanza, se l’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86 debba essere interpretato nel senso che esso osta a che uno Stato membro autorizzi il ricongiungimento della sorella di un rifugiato solo qualora quest’ultima, a causa del suo stato di salute, non sia in grado di sovvenire alle proprie necessità.
34      Ai sensi del suo articolo 1, lo scopo della direttiva 2003/86 è quello di fissare le condizioni dell’esercizio del diritto al ricongiungimento familiare di cui dispongono i cittadini di paesi terzi che risiedono legalmente nel territorio degli Stati membri.
35      In tale contesto, l’articolo 4 della presente direttiva elenca i familiari di un cittadino di un paese terzo nei confronti dei quali gli Stati membri devono o possono, a seconda dei casi, riconoscere il diritto al ricongiungimento familiare ai sensi della presente direttiva.
36      Tuttavia, dal considerando 8 della stessa direttiva risulta che essa offre ai rifugiati condizioni più favorevoli per l’esercizio del diritto al ricongiungimento familiare, giacché la loro situazione richiede un’attenzione particolare a causa dei motivi che li hanno costretti a fuggire dal loro paese e che impediscono loro di condurre una vita familiare normale (sentenza del 12 aprile 2018, A e S, C‑550/16, EU:C:2018:248, punto 32).
37      Una di queste condizioni più favorevoli è stabilita dall’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86.
38      Infatti, mentre l’articolo 10, paragrafo 1, di tale direttiva rende l’articolo 4 della stessa applicabile ai rifugiati, ad eccezione della riserva di cui al paragrafo 1, terzo comma, che non si applica ai figli dei rifugiati, l’articolo 10, paragrafo 2, di tale direttiva consente inoltre agli Stati membri di concedere il diritto al ricongiungimento familiare ai sensi di tale direttiva anche ai membri della famiglia del rifugiato diversi da quelli di cui al medesimo articolo 4.
39      Va tuttavia sottolineato, in primo luogo, che l’articolo 10, paragrafo 2, è di natura facoltativa. Questa disposizione lascia quindi alla discrezione di ciascuno Stato membro la facoltà di decidere se attuare l’estensione del campo di applicazione personale della direttiva 2003/86 da essa autorizzata.
40      Inoltre, come l’avvocato generale ha sottolineato nella sostanza al paragrafo 37 delle sue conclusioni, l’articolo 10, paragrafo 2, lascia agli Stati membri anche un notevole margine di discrezionalità nel determinare, tra i familiari del rifugiato, diversi da quelli di cui all’articolo 4 di detta direttiva, quelli il cui ricongiungimento con il rifugiato residente nel loro territorio è auspicato da tali Stati membri.
41      In secondo luogo, va sottolineato che il margine di manovra di cui dispongono gli Stati membri nell’attuazione dell’articolo 10, paragrafo 2, è tuttavia limitato dalla condizione a cui tale disposizione subordina tale attuazione. Infatti, dalle stesse disposizioni dell’articolo 10, paragrafo 2, risulta chiaramente che gli Stati membri possono autorizzare il ricongiungimento di altri membri della famiglia del rifugiato, non contemplati dall’articolo 4 della direttiva 2003/86, se sono a carico del rifugiato.
42      Pertanto, sotto un primo profilo, a pena di privare tale condizione di qualsiasi efficacia, l’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86 deve essere interpretato nel senso che osta a che uno Stato membro autorizzi il ricongiungimento di un familiare di un rifugiato, non previsto dall’articolo 4 di tale direttiva, quando quest’ultimo non è a carico del rifugiato. Una normativa nazionale che non rispetti tale condizione contrasterebbe con gli obiettivi della direttiva 2003/86, in quanto consentirebbe di concedere il beneficio dello status derivante da tale direttiva a persone che non soddisfano le condizioni per ottenerlo (v., per analogia, sentenze del 27 giugno 2018, Diallo, C‑246/17, EU:C:2018:499, punto 55, e del 23 maggio 2019, Bilali, C‑720/17, EU:C:2019:448, punto 44).
43      Tale constatazione lascia tuttavia impregiudicata la possibilità, riconosciuta dall’articolo 3, paragrafo 5 di detta direttiva, che gli Stati membri concedano, in base al solo diritto nazionale, un diritto di ingresso e di soggiorno a condizioni più favorevoli.
44      Sotto un secondo profilo, per quanto riguarda il significato da attribuire alla condizione di essere «a carico» del rifugiato, occorre ricordare che dai requisiti sia dell’applicazione uniforme del diritto dell’Unione sia del principio di uguaglianza risulta che i termini di una disposizione del diritto dell’Unione che non contiene alcun riferimento esplicito al diritto degli Stati membri per determinarne il significato e la portata devono di norma trovare, in tutta l’Unione europea, un’interpretazione autonoma e uniforme (sentenza del 29 luglio 2019, Spiegel Online, C‑516/17, EU:C:2019:625, punto 62 e giurisprudenza citata).
45      Tuttavia, poiché l’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86 non contiene alcun riferimento al diritto nazionale degli Stati membri per quanto riguarda tale condizione, essa deve essere interpretata in modo autonomo e uniforme.
46      A tale riguardo, va rilevato che la Corte ha già interpretato la condizione secondo cui il familiare deve essere a carico del richiedente il ricongiungimento nell’ambito della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE (GU 2004, L 158, pag. 77).
47      Secondo tale giurisprudenza, lo status di familiare «a carico» di un cittadino dell’Unione con diritto di soggiorno presuppone che si dimostri l’esistenza di una situazione di reale dipendenza. Questa dipendenza deriva da una situazione di fatto caratterizzata dalla circostanza che il sostegno materiale del familiare è garantito dal titolare del diritto di soggiorno (sentenze del 19 ottobre 2004, Zhu e Chen, C‑200/02, EU:C:2004:639, punto 43; dell’8 novembre 2012, Iida, C‑40/11, EU:C:2012:691, punto 55; del 16 gennaio 2014, Reyes, C‑423/12, EU:C:2014:16, punti 20 e 21, e del 13 settembre 2016, Rendón Marín, C‑165/14, EU:C:2016:675, punto 50).
48      Per determinare l’esistenza di tale dipendenza, lo Stato membro ospitante deve valutare se, tenuto conto delle sue condizioni economiche e sociali, il familiare non sia in grado di sopperire ai propri bisogni essenziali. La necessità di sostegno materiale deve esistere nello Stato d’origine o di provenienza del familiare nel momento in cui egli chiede di ricongiungersi con il cittadino dell’Unione (v., in tal senso, sentenze del 9 gennaio 2007, Jia, C‑1/05, EU:C:2007:1, punto 37, e del 16 gennaio 2014, Reyes, C‑423/12, EU:C:2014:16, punti 22 e 30).
49      Occorre prendere in considerazione tale giurisprudenza per interpretare la nozione di familiare «a carico», ai sensi della direttiva 2003/86. Infatti, le direttive 2004/38 e 2003/86 perseguono analoghi obiettivi in quanto mirano a garantire o a favorire, in seno allo Stato membro ospitante, il ricongiungimento familiare dei cittadini di altri Stati membri o di paesi terzi che soggiornano legalmente nello Stato membro ospitante.
50      Tuttavia, occorre anche tener conto del fatto che, come ricordato nel considerando 8 della direttiva 2003/86, e come già risulta dal punto 35 della presente sentenza, la situazione dei rifugiati richiede particolare attenzione, in quanto sono stati costretti a fuggire dal loro paese e non possono prevedere di condurre una vita familiare normale, in quanto possono essere stati separati dalle loro famiglie per un lungo periodo di tempo prima del riconoscimento dello status di rifugiato e in quanto spesso è impossibile o pericoloso per i rifugiati o i membri della famiglia produrre documenti ufficiali o contattare le autorità del loro paese d’origine (v., in tal senso, sentenze del 7 novembre 2018, K e B, C‑380/17, EU:C:2018:877, punto 53, e del 13 marzo 2019, E., C‑635/17, EU:C:2019:192, punto 66).
51      A tale riguardo, esigere che il rifugiato garantisca effettivamente, al momento della domanda di ricongiungimento, il sostegno materiale al familiare nello Stato d’origine o nel paese d’origine del medesimo potrebbe avere l’effetto di escludere dal campo d’applicazione dell’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86 i familiari che sono realmente a suo carico, per il solo fatto che il rifugiato non è o non è più in grado di fornire loro il sostegno materiale di cui hanno bisogno per sovvenire alle proprie necessità essenziali nel loro Stato d’origine o nel loro paese d’origine. Tuttavia, non si può escludere che il rifugiato non sia o non sia più in grado di fornire tale sostegno a causa di fattori che sfuggono al suo controllo, come l’impossibilità materiale di inviare i fondi necessari o il timore di mettere in pericolo la sicurezza dei suoi familiari contattandoli.
52      Di conseguenza, il familiare di un rifugiato deve essere considerato a carico ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86 quando ne è effettivamente dipendente, nel senso che, da un lato, tenuto conto delle sue condizioni economiche e sociali, non è in grado di sovvenire alle proprie necessità essenziali nel suo Stato d’origine o di provenienza alla data in cui chiede di raggiungere il rifugiato, e, dall’altro, è accertato che il suo sostegno materiale è effettivamente fornito dal rifugiato o che, tenuto conto di tutte le circostanze pertinenti, quali il grado di parentela del familiare interessato con il rifugiato, la natura e la solidità degli altri legami familiari e l’età e la situazione economica degli altri parenti, il rifugiato sembra essere il familiare più idoneo a fornire il sostegno materiale richiesto.
53      Tale interpretazione è sostenuta dall’articolo 17 della direttiva 2003/86, che richiede un esame individualizzato della domanda di ricongiungimento familiare, nell’ambito del quale, come risulta dal considerando 8 di tale direttiva, si deve tener conto, in particolare, delle specificità connesse allo status di rifugiato del soggiornante (v., in tal senso, sentenza del 7 novembre 2018, K e B, C‑380/17, EU:C:2018:877, punto 53).
54      In terzo luogo, da quanto precede consegue che se, come rileva il giudice nazionale, in talune versioni linguistiche, l’articolo 10, paragrafo 2, fa riferimento alla situazione di dipendenza del familiare dal rifugiato, mentre in altre versioni tale disposizione fa riferimento allo status di familiare a carico di tale rifugiato, tale divergenza è irrilevante ai fini dell’interpretazione della condizione prevista da tale articolo 10, paragrafo 2.
55      In terzo luogo, va osservato che, nell’attuazione della facoltà concessa loro dall’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86, gli Stati membri possono stabilire requisiti supplementari relativi alla natura del rapporto di dipendenza imposto da tale disposizione, in particolare subordinando il riconoscimento dei diritti derivanti dalla direttiva 2003/86 alla condizione che i familiari del rifugiato di cui trattasi siano a suo carico per determinati motivi.
56      La condizione relativa all’esistenza di un rapporto di dipendenza tra il rifugiato e il familiare deve essere interpretata nel senso che essa è intesa ad escludere dal beneficio dell’opzione riconosciuta dall’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86 i familiari del rifugiato, diversi da quelli di cui all’articolo 4 di tale direttiva, che non sono a suo carico, senza tuttavia imporre allo Stato membro, che decide di attuare tale facoltà, l’obbligo di riconoscere automaticamente a tutti o a parte dei familiari del rifugiato, diversi da quelli di cui all’articolo 4 della suddetta direttiva, il diritto al ricongiungimento non appena sono a carico del rifugiato.
57      A tale riguardo, occorre sottolineare, da un lato, che le disparità che possono risultare dal fatto che ciascuno Stato membro è quindi libero di specificare la natura del rapporto di dipendenza che, secondo la sua normativa nazionale, consente ai familiari del rifugiato, diversi da quelli di cui all’articolo 4 della direttiva 2003/86, di beneficiare di un diritto al ricongiungimento familiare ai sensi di tale direttiva, sono perfettamente compatibili con la natura e la finalità dell’articolo 10, paragrafo 2, della stessa direttiva. Infatti, già dai punti da 38 a 40 di tale sentenza risulta chiaramente che l’articolo 10, paragrafo 2, è stato concepito dal legislatore dell’Unione come una disposizione facoltativa, la cui attuazione lascia un margine di discrezionalità agli Stati membri, cosicché le disparità nelle norme nazionali di attuazione di tale opzione derivano naturalmente dalla scelta di tale legislatore (v., per analogia, sentenza del 12 aprile 2018, A e S, C‑550/16, EU:C:2018:248, punto 47).
58      D’altro canto, la possibilità così concessa agli Stati membri di stabilire requisiti supplementari non pregiudica, in quanto tale, gli obiettivi perseguiti in modo generale dalla direttiva 2003/86, come indicato nei considerando 4 e 8 della stessa, che consistono nell’agevolare l’integrazione dei cittadini di paesi terzi interessati consentendo loro di condurre una vita familiare normale e di offrire condizioni più favorevoli all’esercizio del diritto al ricongiungimento familiare da parte dei rifugiati, tenuto conto della loro situazione particolare. Infatti, come rilevato ai punti 36 e 37 della presente sentenza, lo Stato membro interessato, avvalendosi della facoltà prevista dall’articolo 10, paragrafo 2, di tale direttiva e consentendo il ricongiungimento dei familiari di rifugiati diversi da quelli di cui all’articolo 4 della stessa direttiva, promuove già la realizzazione di tali obiettivi, anche se subordina detto ricongiungimento a condizioni più rigorose di quella prevista dall’articolo 10, paragrafo 2.
59      D’altro canto, vietare ad uno Stato membro di stabilire tali requisiti supplementari sarebbe contrario alla logica stessa dell’articolo 10, paragrafo 2, che, come stabilito ai punti 38 e 39 della presente sentenza, consente agli Stati membri sia di decidere di non riconoscere a nessuno dei familiari del rifugiato su cui verte detta disposizione il diritto al ricongiungimento familiare, sia di determinare liberamente quale di questi membri può beneficiare di tale diritto al ricongiungimento.
60      Inoltre, il divieto di cui trattasi potrebbe vanificare gli obiettivi di cui al punto 58 della presente sentenza, incoraggiando gli Stati membri a rinunciare alla facoltà prevista dall’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86.
61      Tuttavia, va anche sottolineato, in quarto luogo, che, esercitando la facoltà concessa loro dall’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86, gli Stati membri attuano il diritto dell’Unione.
62      Di conseguenza, il margine di discrezionalità conferito agli Stati membri da detto articolo 10, paragrafo 2, non deve, anzitutto, essere esercitato da questi ultimi in modo tale da pregiudicare l’obiettivo della direttiva 2003/86 e il suo effetto utile (v., in tal senso, sentenza del 13 marzo 2019, E., C‑635/17, EU:C:2019:192, punto 53).
63      A tale riguardo, come stabilito ai punti 36, 50 e 53 della presente sentenza, da un lato, la situazione dei rifugiati richiede un’attenzione particolare nell’attuazione della direttiva 2003/86 e, dall’altro, l’articolo 17 di tale direttiva richiede l’individualizzazione dell’esame delle domande di ricongiungimento familiare.
64      Inoltre, come confermato tra l’altro dal considerando 2 della direttiva 2003/86, essa deve rispettare la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»).
65      Certo, le disposizioni della Carta non possono essere interpretate nel senso che privano gli Stati membri del margine di discrezionalità di cui dispongono quando decidono di attuare l’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86 ed esaminano le domande di ricongiungimento familiare presentate ai sensi di tale disposizione. Le disposizioni di tale direttiva, tuttavia, devono essere interpretate ed applicate, durante l’esame suddetto, in particolare, alla luce dell’articolo 7 della Carta che sancisce, tra gli altri diritti, quello al rispetto della vita familiare (v., in tal senso, sentenza del 21 aprile 2016, Khachab, C‑558/14, EU:C:2016:285, punto 28).
66      Infine, in base al principio di proporzionalità, che fa parte dei principi generali del diritto dell’Unione, i mezzi predisposti dalla normativa nazionale che attua l’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86 devono essere idonei a realizzare gli obiettivi perseguiti da tale normativa e non devono eccedere quanto è necessario per conseguirli (sentenza del 21 aprile 2016, Khachab, C‑558/14, EU:C:2016:285, punto 42).
67      Di conseguenza, la normativa nazionale che attua la facoltà prevista all’articolo 10, paragrafo 2, deve rispettare sia i diritti fondamentali garantiti dalla Carta sia il principio di proporzionalità e non deve impedire un esame individualizzato della domanda di ricongiungimento familiare, che deve essere condotto tenendo conto anche della situazione particolare dei rifugiati.
68      È alla luce di tutte le considerazioni di cui sopra che è necessario esaminare, in ultima analisi, se l’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86 osti a che uno Stato membro riconosca il diritto al ricongiungimento familiare della sorella di un rifugiato solo se quest’ultima non è in grado di sovvenire alle proprie necessità a causa del suo stato di salute.
69      Al riguardo, va osservato, in primo luogo, che la sorella di un rifugiato non rientra tra i familiari del soggiornante di cui all’articolo 4 della direttiva 2003/86. È, pertanto, possibile che uno Stato membro riconosca a tale familiare del rifugiato il diritto al ricongiungimento familiare, in conformità all’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva stessa.
70      In secondo luogo, da quanto affermato ai punti da 54 a 59 della presente sentenza risulta che l’articolo 10, paragrafo 2, non osta, in linea di principio, all’introduzione da parte degli Stati membri di una condizione supplementare che esige che il rapporto di dipendenza tra il rifugiato e il familiare sia dovuto allo stato di salute di quest’ultimo.
71      Va inoltre rilevato che, nell’ambito di un’armonizzazione più precisa, il legislatore dell’Unione ha espressamente consentito agli Stati membri, all’articolo 4, paragrafo 2, lettera b), e paragrafo 3, della direttiva 2003/86, di subordinare il diritto al ricongiungimento familiare di taluni familiari di un cittadino di un paese terzo a una condizione analoga.
72      Tuttavia, anche dal punto 42 di tale sentenza discende che, per preservare l’effetto utile dell’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86, uno Stato membro non potrebbe consentire alla sorella di un rifugiato di beneficiare del diritto al ricongiungimento familiare ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86 senza che essa sia a carico del rifugiato, il che implica, come dimostrato al punto 52 della presente sentenza, non solo che la sorella del rifugiato non è in grado di sovvenire alle proprie necessità essenziali, ma anche che è accertato che il suo sostegno materiale è effettivamente garantito dal rifugiato o che, tenuto conto di tutte le circostanze pertinenti, il rifugiato sembra essere il familiare più idoneo a fornire il sostegno materiale richiesto.
73      Inoltre, dai punti 53 e 63 della presente sentenza risulta anche che le autorità nazionali competenti sono tenute ad effettuare un esame individualizzato del rispetto della condizione secondo cui la sorella del rifugiato deve essere a suo carico a causa del suo stato di salute.
74      Ne consegue, in particolare, che una tale richiesta non può essere respinta per il solo fatto che l’affezione di cui la sorella del rifugiato soffre sarebbe automaticamente considerata come non idonea a instaurare un tale rapporto di dipendenza.
75      In particolare, l’esame individualizzato della domanda deve tener conto, in modo equilibrato e ragionevole, di tutti gli elementi pertinenti della situazione personale della sorella del rifugiato, quali l’età, il livello di istruzione, la situazione professionale e finanziaria e lo stato di salute. Le autorità nazionali dovranno, inoltre, tenere conto del fatto che l’ampiezza dei bisogni può essere assai varia a seconda degli individui (v., in tal senso, sentenza del 4 marzo 2010, Chakroun, C‑578/08, EU:C:2010:117, punto 48), nonché della situazione particolare dei rifugiati, segnatamente delle difficoltà specifiche con le quali questi ultimi devono confrontarsi riguardo all’ottenimento di elementi di prova nel loro paese d’origine.
76      Spetta al giudice nazionale interpretare, per quanto possibile, il diritto nazionale e, in particolare, l’articolo 19, paragrafo 4, lettera b), della legge del 2007, in modo coerente con tali requisiti.
77      Da tutto quanto precede consegue che le questioni sollevate devono essere risolte nel senso che l’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86 deve essere interpretato nel senso che esso non osta a che uno Stato membro autorizzi il ricongiungimento familiare della sorella di un rifugiato solo se quest’ultima, a causa del suo stato di salute, non è in grado di sovvenire alle proprie necessità, purché:
–        da un lato, tale incapacità sia valutata tenendo conto della situazione particolare in cui si trovano i rifugiati e dopo un esame individualizzato che tenga conto di tutti gli elementi pertinenti, e
–        dall’altro, sia possibile stabilire, anche tenendo conto della situazione particolare in cui si trovano i rifugiati e dopo un esame individualizzato che tenga conto di tutti gli elementi pertinenti, che il sostegno materiale della persona interessata è effettivamente garantito dal rifugiato o che il rifugiato sembra essere il familiare più idoneo a fornire il sostegno materiale necessario.
  Sulle spese
78      Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Quinta Sezione) dichiara:
L’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a che uno Stato membro autorizzi il ricongiungimento familiare della sorella di un rifugiato solo se quest’ultima, a causa del suo stato di salute, non è in grado di sovvenire alle proprie necessità, purché:
–        da un lato, tale incapacità sia valutata tenendo conto della situazione particolare in cui si trovano i rifugiati e dopo un esame individualizzato che tenga conto di tutti gli elementi pertinenti, e
–        dall’altro, sia possibile stabilire, anche tenendo conto della situazione particolare in cui si trovano i rifugiati e dopo un esame individualizzato che tenga conto di tutti gli elementi pertinenti, che il sostegno materiale della persona interessata è effettivamente garantito dal rifugiato o che il rifugiato sembra essere il familiare più idoneo a fornire il sostegno materiale necessario.
Dal sito http://curia.europa.eu