L’Ordinanza del Tar
napoletano sul caso De Magistris
ORDINANZA
sul ricorso n. ..., proposto da:
Luigi De Magistris, rappresentato e difeso dagli avvocati
Giuseppe Russo, Stefano Montone e Lelio Della Pietra, con domicilio eletto
presso Giuseppe Russo in Napoli, via Cesario Console n. 3;
contro
Ministero dell’Interno - U.T.G. - Prefettura di Napoli, in
persona del Prefetto p.t. rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura
Distrettuale dello Stato di Napoli, presso cui domicilia in Napoli, via Diaz,
11;
e con l'intervento di
ad adiuvandum:
Comune di Napoli, rappresentato e difeso dagli avvocati Fabio Maria Ferrari,
Anna Pulcini, Bruno Crimaldi, Antonio Andreottola, domiciliata in Napoli,
piazza Municipio, Palazzo San Giacomo, presso gli uffici dell’Avvocatura
comunale;
ad opponendum:
Manfredi Nappi, rappresentato e difeso dall'avvocato Alberto Saggiomo, con
domicilio eletto in Napoli, piazzetta Terracina n.1;
per l'annullamento
previa sospensione dell'efficacia,
del provvedimento del Prefetto di Napoli emesso in data
1.10.2014 prot.n. 87831, di accertamento costitutivo della sussistenza della
causa di sospensione del ricorrente dalla carica di Sindaco del Comune di
Napoli.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero
dell’Interno e della Prefettura di Napoli, nonché del Comune di Napoli e di
Manfredi Nappi;
Vista la domanda di sospensione dell'esecuzione del
provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla parte ricorrente;
Visto l'art. 55 cod. proc. amm.;
Visti tutti gli atti della causa;
Ritenuta la propria giurisdizione e competenza;
Data per letta nella camera di consiglio del 22 ottobre 2014 la
relazione del consigliere Paolo Corciulo e uditi per le parti i difensori come
specificato nel verbale;
Con provvedimento n. 87831 del 1° ottobre 2014 il Prefetto
della Provincia di Napoli ai sensi dell’art.11, comma 5, del d.lgs. 31 dicembre
2012 n. 235 ha dichiarato di aver accertato nei confronti del Sindaco di
Napoli, Luigi De Magistris, la sussistenza della causa di sospensione dalla
carica di cui al medesimo art. 11, primo comma, lettera a) del medesimo decreto
legislativo.
Nel decreto prefettizio si rappresenta che con sentenza n.
3928/12 Reg. Gen. la
Seconda Sezione del Tribunale di Roma ha condannato in primo
grado il predetto Sindaco di Napoli alla pena di anni uno e mesi tre di
reclusione ed all’interdizione dai pubblici uffici per anni uno, con il
beneficio della sospensione condizionale della pena, per i delitti ascritti ai
capi A, B, C,D, E, F, G ed H della rubrica, che, dal decreto che dispone il
giudizio n. 23078/09/GIP del 21 gennaio 2012, risultavano essere reati di cui
all’art. 323 c.p.
Trattandosi di fattispecie delittuosa per cui è prevista la
sospensione di diritto dalle cariche elettive nei confronti di chi abbia
riportato condanna, omessa la garanzia partecipativa di cui all’art 7 della
legge 7 agosto 1990 n. 241, per esigenze di celerità ed attesa la natura
vincolata del potere, il Prefetto di Napoli ha notificato all’organo che aveva
proceduto alla convalida dell’elezione l’avvenuto accertamento dei presupposti
di legge per la sospensione del Sindaco dalla carica.
Con ricorso ritualmente notificato e depositato il giorno 8
ottobre 2014, il dottor Luigi De Magistris ha impugnato innanzi a questo
Tribunale il provvedimento prefettizio, chiedendone l’annullamento, previa
concessione di idonee misure cautelari.
Si sono costituiti in giudizio il Prefetto di Napoli, che,
oltre a svolgere difese nel merito della controversia, ha eccepito il difetto
di giurisdizione amministrativa, assumendo trattarsi di questioni inerenti alla
tutela di un diritto soggettivo la cui lesione sarebbe direttamente
riconducibile alla legge.
Si è costituito in giudizio anche il Comune di Napoli.
sostenendo le ragioni di parte ricorrente.
Ha spiegato altresì intervento ad opponendum il signor Manfredi
Nappi, in qualità di cittadino elettore.
Alla camera di consiglio del 22 ottobre 2014, all’esito della
discussione, la causa è stata trattenuta per la decisione.
Deve essere preliminarmente esaminata l’eccezione di difetto di
giurisdizione amministrativa sollevata dalla difesa erariale, secondo la quale
la controversia avrebbe ad oggetto la tutela del diritto soggettivo di
elettorato passivo di cui all’art. 51 della Costituzione, di guisa che ogni
questione di eleggibilità e decadenza – di cui la sospensione costituirebbe
fattispecie connessa – rientrerebbe nella cognizione del giudice civile ai
sensi degli artt. 9 bis e 82 del d.p.r.16 maggio 1960 n. 570, ov’anche la
limitazione al relativo esercizio fosse riconducibile all’adozione di un
provvedimento amministrativo.
L’eccezione è infondata.
Osserva il Collegio che, esclusa la configurabilità
nell’ordinamento di un regime eccezionale di favor per i diritti di elettorato
passivo, tali da renderli impermeabili rispetto agli effetti di un’azione
amministrativa autoritativa idonea a conformarli - tanto, anche nella scia
dell’inconfigurabilità generale di diritti soggettivi resistenti – ai fini
della verifica della giurisdizione occorre guardare alla struttura della
fattispecie normativa e, in particolare, all’intensità che la legge nel caso di
specie riconosce all’intermediazione provvedimentale; ad avviso del Collegio,
non si tratta di verificare se l’effetto compressivo del diritto di elettorato
passivo sia o meno conseguenza di una scelta discrezionale del Prefetto e
nemmeno se l’attività di accertamento a questo richiesta circa la sussistenza
dei presupposti sia connotata da profili tecnico-discrezionali, dovendosi
invece accertare se l’effetto sospensivo si determini soltanto una volta
emanato il decreto prefettizio. Al quesito non può che rendersi risposta
positiva; invero, che il provvedimento giudiziario di condanna penale del
titolare della carica sia condizione necessaria, ma non sufficiente per la
limitazione del diritto di elettorato passivo trova conferma nella stessa
costruzione della fattispecie generale ed astratta in cui si affida al
Prefetto, quindi ad un organo distinto da quello dell’ente di appartenenza del
titolare della carica, la verifica esterna delle condizioni ostative al
mantenimento della stessa, e quindi il compimento di un’indefettibile
presupposta attività di verifica e di controllo i cui esiti convergono in un atto
di natura provvedimentale che, integrando il precetto normativo, ne determina
l’applicazione al caso concreto, così consentendo la produzione dell’effetto
sospensivo; e poiché, secondo principi ormai da tempo consolidati, la
giurisdizione amministrativa generale di legittimità si radica in funzione del
solo fatto dell’immanenza di un potere autoritativo il cui esercizio la legge
richiede per il prodursi dell’effetto tipico considerato, senza, cioè, che a
tal fine assumano decisivo rilievo anche sue possibili caratteristiche
intrinseche, la posizione giuridica soggettiva del ricorrente non può che
essere quella “naturale” di interesse legittimo, la cui cognizione appartiene a
questo Tribunale, anche dal punto di vista della competenza territoriale.
Passando al merito, va rilevato che ,a sostegno
dell’impugnazione, il ricorrente ha proposto sette mezzi di censura, i primi
tre avverso l’atto prefettizio di accertamento, gli altri volti a prospettare
questioni di legittimità costituzionale della normativa applicata.
Con il primo motivo di ricorso è stato dedotto che la
sospensione del ricorrente dalla carica di Sindaco sarebbe illegittima, in
quanto non fondata su un provvedimento giudiziario, come invece previsto
dall’art.11, comma quinto del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235; invero, al
momento in cui ha provveduto, il Prefetto di Napoli non avrebbe potuto che fare
riferimento ad un dispositivo di sentenza, atto che non figura tra i
provvedimenti giudiziari che l’art.125 c.p.p. circoscrive alle sole categorie
della sentenza, dell’ordinanza e del decreto; d’altronde, nel dispositivo non
sono specificati i capi di imputazione, tanto è vero che il Prefetto, per
accertare la sussistenza di quelle imputazioni ai sensi dell’art. 323 c.p. la
cui condanna è stata causa di sospensione, ha dovuto richiamare il decreto che
dispone il giudizio, atto ben distinto dalla sentenza. Rileva poi il ricorrente
che la questione non sarebbe di ordine meramente formale, dal momento che la
conformazione strutturale e la caratterizzazione funzionale del procedimento
disciplinato dall’art.11 del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 tendono al
raggiungimento di un punto di equilibrio tra la tutela dei diritti di
elettorato attivo e passivo e la salvaguardia di valori costituzionali volti ad
assicurare l’idoneità morale dei pubblici amministratori, proprio attraverso
l’emanazione di una sentenza, la pubblicazione della cui motivazione
costituisce il primo momento dal quale sarebbe possibile per l’autorità
competente verificare la sussistenza della causa di sospensione dalla carica
pubblica.
Con la seconda censura è stata contestata la carenza di
motivazione dell’atto impugnato, dal momento che le cause di sospensione sono
state rintracciate in un atto diverso dalla sentenza di condanna, come invece
previsto dalla norma.
Infine, sul presupposto della fondatezza dei primi due motivi
di impugnazione, è stata lamentata l’intempestività dell’accertamento della
causa di sospensione, la cui celerità si colora di illegittimità alla luce del
fatto che il Prefetto si sarebbe riferito al solo dispositivo, senza attendere
anche la pubblicazione della motivazione della decisione del Giudice penale.
Con il quarto motivo è stato dedotto che la sospensione del
ricorrente dalla carica di Sindaco di Napoli sarebbe conseguenza di
un’interpretazione retroattiva degli artt. 10, comma 1, lettera c) e 11, comma
1, lettera a) del d.lgs. 31 dicembre 2014 n. 235 e quindi non conforme ai
diritti di elettorato ed ai principi di cui agli artt. 2, 51 e 97 della
Costituzione.
Al riguardo, il ricorrente ha evidenziato che al tempo in cui
aveva deciso di candidarsi e fino alla sua proclamazione a Sindaco, avvenuta il
1° giugno 2011, non figurava tra le cause di incandidabilità e di sospensione
da tale carica l’aver riportato una condanna per il delitto di cui all’art. 323
c.p. Solo con l’entrata in vigore del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235, ossia dal
5 gennaio 2013, nell’ordinamento è stata introdotta, come causa ostativa la
condanna anche per tale fattispecie delittuosa; e poiché costituisce principio
generale dell’ordinamento quello di irretroattività della legge, altra sarebbe
la disciplina legislativa applicabile al tempo della candidatura del ricorrente
e differenti i requisiti prescritti per l’accesso agli uffici pubblici ed alle
cariche elettive cui si riferisce l’art. 51 della Carta.
Sulla base dell’appartenenza del diritto di elettorato passivo
alla sfera dei diritti inviolabili di cui all’art. 2 della Costituzione, è
stato altresì rilevato come ogni operazione interpretativa debba ispirarsi ad
un regime di favor per chi intenda accedere a cariche pubbliche ed elettive;
del resto, non potrebbe negarsi rilevanza alla situazione di chi, intenzionato
a candidarsi in una competizione elettorale, debba essere consapevole fin da
tale momento delle condizioni ostative alla nomina o al mantenimento della
carica; in altre parole, un’interpretazione della lettera della legge conforme
alla Costituzione dovrebbe essere nel senso non già di limitarne l’applicazione
a sentenze di condanna che sopravvengano rispetto alla candidatura, ma di
ritenere irrilevanti quelle riportate per fattispecie delittuose che in quel
momento storico non costituivano cause di incandidabilità o sospensione;
pertanto, una sopravvenienza incidente sulla candidatura o sul mantenimento
della carica è costituzionalmente legittima, solo se riferita al suo
presupposto fattuale, inteso come sentenza di condanna, e non anche
all’applicabilità della previsione normativa generale ed astratta, stante il
principio generale di irretroattività della legge.
Diversamente opinando, il ricorrente ha chiesto trasmettersi
gli atti alla Corte Costituzionale per l’esame della questione di
costituzionalità in relazione agli artt. 2, 51 e 97 della Costituzione da parte
della norma legislativa applicata al caso esame.
Inoltre, l’interpretazione della norma legislativa che regge
l’adozione del provvedimento prefettizio impugnato si rivelerebbe anche in
contrasto il diritto di elettorato attivo, potendo determinare un’alterazione
dei risultati del procedimento elettorale, e, quindi, della libera espressione
di voto, principio consacrato dall’art.3 del Protocollo Addizionale alla
Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà
Fondamentali e recepito nell’ordinamento interno attraverso la valvola di cui
all’art. 117 della Costituzione; invero, la modifica dei requisiti di
candidabilità dell’eletto successivamente all’espressione del voto finisce per
vanificare la volontà espressa dal corpo elettorale eliminandone gli effetti per
cause irrilevanti al momento in cui la scelta elettorale si era manifestata in
favore di determinati candidati, in seguito dichiarati non più idonei. Anche in
questo caso, se condivisa dal giudice adito l’interpretazione della legge fatta
propria nel provvedimento impugnato e ove non ritenuta la stessa disapplicabile
sebbene in contrasto con la CEDU,
è chiesta la sottoposizione all’esame della Corte Costituzionale della
questione di compatibilità costituzionale dell’art.10, comma 1, lettera c) e
11, comma, 1 lettera a) del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 con l’art. 117 della
Carta.
Con la quinta censura vengono sollevati dubbi di
costituzionalità del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 sotto il profilo della
ragionevolezza e proporzionalità. Al riguardo, ha osservato il ricorrente che
la disciplina legislativa previgente – segnatamente, l’art. 15 della legge 19
marzo 1990 n. 55 e successivamente gli artt. 58 e 59 del d.lgs. 8 agosto 2000
n. 267 - aveva raggiunto un apprezzabile punto di equilibrio tra il diritto di
elettorato attivo e passivo e le esigenze di tutela dell’imparzialità e del
buon andamento degli uffici pubblici, ove confliggenti in relazione ad un
determinato soggetto; a tal fine, infatti, erano state individuate specifiche
fattispecie di reato che, in considerazione del loro oggettivo indice di
pericolosità, ben avrebbero potuto giustificare la cedevolezza dei richiamati
diritti di elettorato, nel caso in cui una sentenza di condanna divenuta
definitiva fosse stata pronunciata nei confronti di un candidato, anche dopo la
sua elezione. Ancora, la medesima disciplina legislativa, nel porre il divieto
di candidarsi per le descritte ipotesi, aveva anche proporzionalmente calibrato
la conseguenze dell’intervento di una sentenza di condanna nei confronti di chi
fosse divenuto pubblico amministratore, disponendo che la misura cautelare
della sospensione operasse nei casi di reati più gravi fin dalla condanna di
primo grado, mentre per fattispecie delittuose minori occorreva attendere la
pronuncia di secondo grado; in altri termini, si rapportava l’astratta gravità
del titolo di reato al maggiore - e, quindi, presumibilmente più affidabile -
livello di stadiazione dell’accertamento processuale.
Ebbene, l’attuale disciplina legislativa, applicata al
ricorrente non solo avrebbe aggravato tale regime introducendo nuove figure
delittuose ritenute sintomatiche di esposizione a pericolo dei valori
costituzionali che presidiano la qualità dell’organizzazione e dell’azione dei
pubblici uffici, quali il delitto di abuso d’ufficio, di cui all’art. 323 c.p.,
ma avrebbe anche eliminato, specificamente sotto il profilo della
proporzionalità, la distinzione tra cause di sospensione collegate a sentenze
non definitive di primo e secondo grado.
Tale inasprimento delle cause ostative all’ottenimento ed alla
conservazione delle cariche pubbliche eccederebbe, a giudizio del ricorrente, i
precedenti limiti di compatibilità con i diritti di elettorato attivo e passivo
già ritenuti conformi a Costituzionale da parte della Consulta nella sentenza
n. 25 del 2002.
Con la sesta censura è stata dedotta l’incostituzionalità degli
artt. 11, comma primo, lettera a) e 10, comma 1, lettera c) del d.lgs. 31
dicembre 2012 n. 235 per violazione dell’art. 76 della Costituzione; invero, la
legge 6 novembre 2012 n. 190, all’art. 1, comma 64, nell’affidare al Governo il
compito di procedere al riordino ed all’armonizzazione della normativa in
materia di incandidabilità alle cariche indicate nel comma 63, stabiliva tra i
principi e criteri di direttivi per il legislatore delegato quello di
disciplinare ipotesi di sospensione e decadenza di diritto in caso di sentenza
definitiva di condanna per delitti non colposi successiva alla candidatura o
all’affidamento della carica; l’aver il d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 previsto
cause di sospensione dalla carica anche per l’ipotesi di sentenza di condanna
non definitiva costituiva un eccesso di delega legislativa; e di limitare la
sospensione dalla carica nei soli di casi di sentenza definitiva sarebbe stata,
a giudizio del ricorrente, anche l’effettiva volontà del legislatore delegante,
come si evincerebbe dalla documentazione degli atti preparatori alla legge
delega 6 novembre 2012 n. 190; in particolare, in caso di condanna definitiva,
mentre per le cariche non elettive era stata proposta la decadenza tout court,
per quelle elettive, quale quella di Sindaco, la misura applicabile sarebbe
stata la sospensione, volendosi, più limitatamente, circoscrivere l’effetto
inibitorio ad un temporaneo allontanamento dalla carica, senza con ciò anche
determinare lo scioglimento dell’assembla, come accadrebbe in caso di
decadenza.
Il ricorrente ha anche esaminato la possibilità di pervenire ad
un’interpretazione conforme a Costituzione della legge delegata, sebbene
escludendo tale eventualità proprio in ragione della chiara formulazione del
dictum normativo.
A tal proposito, non si ritiene accettabile il presupposto per
cui la sospensione sarebbe misura cautelare rispetto alla successiva decadenza,
configurandosene la funzione anticipatoria rispetto all’ipotesi di condanna
definitiva; invero, nessun collegamento vi sarebbe nella legge delega tra
durata della sospensione ed esito del giudizio di appello in sede penale;
sospensione che, in caso di sentenza definitiva, si giustificherebbe non solo
con le richiamate esigenze di conservazione della volontà elettorale, almeno
per il periodo successivo alla scadenza della misura cautelare, ma anche con
esigenze di proporzionalità riconducibili alla circostanza che l’ipotesi della condanna
per il delitto di abuso d’ufficio, fattispecie indubbiamente di minore gravità
rispetto ad altre previste dalla legge delegata, mai era stata in precedente
presa in considerazione dal legislatore come causa ostativa all’accesso ed alla
conservazione di una carica pubblica.
Pertanto, l’inconfigurabilità di un’interpretazione
dell’art.11, primo comma lettera a) e dell’art. 10, primo comma, lettera c) del
d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 che possa rendere tali disposizioni conformi ai
principi della legge delega, impone la devoluzione della questione alla Corte
Costituzionale.
Con la settima ed ultima censura è stato denunciata la mancata
copertura di delega legislativa per l’introduzione dell’ipotesi di condanna per
il delitto di cui all’art. 323 c.p. quale causa di sospensione e decadenza
dalla carica di Sindaco; invero, la legge 6 novembre 2012 n. 190 all’art. 1,
comma 64, lettera h) aveva consentito al legislatore delegato di individuare
ulteriori ipotesi di incandidabilità per tale carica, ma solo per delitti di
grave allarme sociale, ossia quelli di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater
c.p.p.; il ricorrente ha così evidenziato che se la delega legislativa era
stata correttamente esercitata con l’art. 10, comma 1, lettera b) del d.lgs. 31
dicembre 2012 n. 235, altrettanto non poteva ritenersi per la norma di cui alla
successiva lettera c), non figurando il delitto di abuso d’ufficio tra le
fattispecie indicate dall’art. 51 c.p.p.
In disparte i primi tre motivi di impugnazione, che hanno ad
oggetto vizi inerenti esclusivamente all’impugnato provvedimento prefettizio di
sospensione, occorre preliminarmente esaminare i dubbi di legittimità
costituzionale sollevati da parte ricorrente.
Invero, è manifesta la pregiudizialità logica che impone al
giudice adito di anteporre la verifica della rilevanza e non manifesta
infondatezza di questioni di legittimità costituzionale degli artt.10 e 11 del
d.lgs. 31dicembre 2012 n. 235, che ove fondate, si rivelerebbero decisive ai
fini dell’esercizio stesso del potere di sospensione, a prescindere, cioè, dal
positivo accertamento di condizioni patologiche direttamente ascrivibili al
decreto prefettizio di sospensione, siccome sanabili e comunque superabili, una
volta avvenuto il deposito della motivazione della sentenza del giudice penale.
Innanzitutto, si evidenzia che tutte le questioni di
costituzionalità proposte nei motivi quarto, quinto, sesto e settimo del
ricorso assumono carattere di rilevanza per la definizione nel merito della
controversia; invero, risolvendosi in distinti ed autonomi mezzi di
impugnazione, ciascuno idoneo, ove ritenuto fondato, a determinare
l’illegittimità dell’impugnato provvedimento di sospensione, e quindi il suo
annullamento, degli stessi occorre procedere ad una compiuta delibazione.
Deve essere ritenuta manifestamente infondata la questione
proposta con il quinto motivo.
Invero, non può essere sufficiente a provocare un incidente di
costituzionalità il mero aggravamento da parte del d.lgs. 31 dicembre 2012 n.
235 delle condizioni e dei presupposti per l’accesso e per la conservazione
delle cariche pubbliche elettive, dal momento che il ricorso alla Corte
Costituzionale si giustifica in ragione della denuncia di uno specifico ed
oggettivo contrasto con principi e valori della Carta da parte del potere
legislativo statale o regionale, senza che si possa risolvere, come proposto
nel caso di specie, in una generica richiesta di verifica della tenuta
costituzionale della norma denunciata, per il solo fatto che abbia modificato
in senso restrittivo il regime giuridico previgente; d’altronde, senza entrare
nel merito della discrezionalità legislativa, è sufficiente osservare che,
sotto il profilo della ragionevolezza, l’elevazione della soglia di protezione
in materia di accesso alle cariche pubbliche non confligge con i valori
costituzionali di cui all’art. 51 della Carta, ove sia giustificata
dall’esigenza di allontanare da tali munera chi sia reso responsabile anche di
delitti contro l’amministrazione pubblica, fatti il cui verificarsi è stato accertato
in sede giudiziaria con sentenza definitiva, ai fini della decadenza, o non
definitiva ai fini della sospensione cautelare dalla carica. Quanto, poi, alla
violazione del principio di proporzionalità, la questione di costituzionalità è
manifestamente infondata, dal momento che si pretende di qualificare la gravità
del fatto ostativo alla sola qualificazione operatane dalla norma penale,
mentre rientra nella piena discrezionalità del legislatore individuare, quali
causa di indegnità morale, fattispecie di reato che sebbene, aventi pena
edittale diversa, ai fini del venir meno delle condizioni soggettive di accesso
e conservazione della carica, presentano una non dissimile sintomaticità
indiziaria.
Anche la questione di legittimità costituzionale sollevata
nella sesta censura è manifestamente infondata.
Al riguardo, non possono che essere condivise le considerazioni
espresse nella sentenza 14 febbraio 2014 n. 730 della III Sezione del Consiglio
di Stato; investito della questione, quel Collegio ha superato la formale
contraddizione esistente nell’art.1, comma 64, lettera m) della legge 6
novembre 2012 n. 190, accedendo ad un’interpretazione logico sistematica del
dato normativo letterale, rendendone coerente il contenuto con il principio di
cui all’art. 76 della Costituzione.
Innanzitutto, anche in ragione di quanto si andrà ad esporre
nel prosieguo, è ampiamente condivisibile l’assunto per cui gli istituti della
sospensione e della decadenza costituiscono species di un più ampio genus,
costituito dalle misure inibitorie dell’accesso e della conservazione della
carica pubblica; altro non è dato evincere dal dato normativo attuale che, a
prescindere dai lavori preparatori, costituisce senza dubbio l’effettiva ultima
volontà del legislatore, ratione temporis. E se la sospensione, per sua natura,
non può che essere misura anticipatoria, la sua stessa strumentalità non può
difettare di un istituto di cui costituisce complemento e che ne è volto a
confermare gli effetti sostanziali, tendenzialmente senza soluzione di
continuità, effetti in un primo momento inevitabilmente temporanei, proprio per
la natura strumentale della sua intima funzione. Né valga obiettare che
nell’ordinamento sono presenti anche fattispecie di sospensione autonome, cioè
che risolvono nella loro temporanea efficacia la ratio legis; invero, nel caso
di specie, tale soluzione interpretativa non si rivela percorribile, in ragione
del dato letterale della norma che rivela senz’altro la volontà del legislatore
di collegare funzionalmente entrambi gli istituti ad un unico presupposto,
ossia l’esistenza di una condanna penale per determinate categorie di reati.
Quanto alla prospettata lettura del dato normativo tale da
esigere una condanna definitiva come presupposto per l’operatività sia della sospensione
che della decadenza, oltre a richiamare quanto ritenuto dal Consiglio di Stato
riguardo al principio della continenza del primo istituto nel secondo, per
effetto del richiamato vincolo di strumentalità, va evidenziato che la volontà
del legislatore delegante, quale emerge dall’art. comma 64, lettera g) della
legge 6 novembre 2012 n. 190, è stata nel senso di affidare il compito di
operare una ricognizione nella normativa vigente in materia di incandidabilità,
limitando l’introduzione di una vera e propria novella ai soli casi di cui alla
successiva lettera h), tra cui non figurano interventi sull’istituto della
sospensione come fino a quel momento disciplinata, cioè come misura temporanea
e strumentale rispetto alla decadenza (art.15 legge 19 marzo 1990 n.55, artt.
58 e 58 d.lgs. 8 agosto 2000 n. 267).
Ne consegue che del dato normativo non può che offrirsi
un’interpretazione che lo renda riferibile ad una sentenza di condanna “che sia
divenuta definitiva” rispetto all’applicazione della decadenza dalla carica,
intesa come misura finale, di cui, pertanto, la sospensione costituisce effetto
inibitorio di stadiazione che, in quanto tale, non può che riferirsi a
presupposti storicamente antecedenti rispetto alla definitività della pronuncia
del giudice penale.
In tale prospettiva non può condividersi l’assunto di parte
ricorrente che, al fine di configurare l’operatività della sospensione come
istituto distinto ed alternativo rispetto alla decadenza, e quindi anch’esso
fondato sul presupposto di una sentenza penale di condanna definitiva, afferma
che non esisterebbero collegamenti rispetto all’esito del giudizio penale
d’appello sulla sentenza di primo grado.
Invero, che sospensione e decadenza non siano in rapporto
parallelo di alternatività, ma di omogenea relazione di stretta consecutività è
confermato dall’art.11, quarto comma del d.Lgs 31 dicembre 2012 n. 235 che, in
caso di rigetto dell’appello, prevede un ulteriore periodo di sospensione;
nemmeno può essere negata l’interferenza esistente tra progressione del
processo penale e ricadute sulla attuale conservazione della carica pubblica,
come risulta confermato dai successivi commi sesto e settimo della medesima
disposizione, il primo dei quali disciplina la cessazione della sospensione al
venir meno di una misura coercitiva emessa nei confronti dell’interessato o
sentenza anche non definitiva favorevole, il secondo che stabilizza gli effetti
inibitori nella decadenza al passaggio in giudicato della sentenza;
precisazione che sarebbe stata pleonastica, ossia iterativa della già prevista
natura definitiva della condanna, ove ritenuta non di natura procedimentale,
cioè riferita alla mutazione in decadenza di una precedente sospensione dalla
carica.
Manifestamente infondata è anche la questione di legittimità
costituzionale proposta nel settimo motivo di ricorso, per eccesso di delega
relativamente all’art. 1, comma 64, lettera h) della legge 6 novembre 2012 n.
190 che, per le cariche di cui alla precedente lettera g) – tra cui quella di
Sindaco – consentiva al legislatore delegato di introdurre ulteriori ipotesi di
incandidabilità, ma solo per delitti di grave allarme sociale. A giudizio del
ricorrente, tale categoria di reati si identificherebbe con le sole fattispecie
di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater c.p.p., ipotesi per le quali,
coerentemente con la legge delega, in caso di condanna, il d.lgs. 31 dicembre
2012 n. 235 aveva previsto agli artt. 10, primo comma lettere a) e b) e 11,
primo comma, lettera a), la decadenza e la sospensione di diritto dalla carica
pubblica. Non figurando in tale categoria anche il delitto di abuso di ufficio
di cui all’art. 323 c.p., la sua assunzione come fattispecie di decadenza e di
sospensione in caso di condanna penale eccederebbe i limiti posti dal
legislatore delegante.
Osserva il Collegio che nessun utile riferimento di diritto
positivo esiste nel senso di limitare i delitti di grave allarme sociale di cui
alla legge delega alle sole fattispecie di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3
quater del codice di procedura penale; pertanto, nel sottenderne l’ampia
discrezionalità, la legge di delegazione consente al legislatore delegato di
ricondurre alla categoria dei delitti di grave allarme sociale, non solo le
fattispecie associative finalizzate al traffico di sostanze stupefacenti, armi,
criminalità organizzata e terrorismo – e tutti quelli a cui si riconduce la
competenza del procuratore della Repubblica distrettuale - ma anche differenti
ipotesi delittuose, la cui commissione si ritiene idonea a destare preoccupazione
nella generalità della popolazione, costituendo manifestazione o, comunque,
sintomo di mancato o cattivo funzionamento di settori nevralgici della vita
sociale; e non appare irragionevole l’aver compreso in tale categoria anche
fattispecie di delitti contro la pubblica amministrazione connotati da una
certa gravità, proprio nell’ottica del riordino della materia
dell’incandidabilità, a cui sottendono obiettivi di riassetto organizzativo e
di moralizzazione della amministrazione pubblica voluti dalla stessa legge 6
novembre 2012 n. 190; d’altronde, l’accostamento tra delitti rientranti nella
categoria di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater c.p.p. ed ipotesi di reato
contro la pubblica amministrazione non è soluzione nuova nella legislazione
interna, essendo sufficiente il rinvio alla disciplina di cui al d.p.r. 6
settembre 2011 n. 159 in materia di antimafia che tende ad esaltare la stretta
correlazione tra criminalità organizzata e cattiva amministrazione ai fini
della rilevazione degli elementi indiziari necessari per l’applicazione di
misure amministrative di prevenzione.
Non manifestamente infondata è
invece la questione di legittimità costituzionale proposta nel quarto motivo di
ricorso, relativamente all’efficacia retroattiva della disposizione normativa
di cui all’art. 11 del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235.
Va premesso che, in assenza di una normativa transitoria o
comunque di disposizioni specifiche al riguardo, occorre procedere
nell’indagine facendo ricorso ai principi generali dell’ordinamento.
A tal proposito, il principio di irretroattività è sancito
nell’art.11 delle Disposizioni sulla Legge in Generale che recita “la legge non
dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo” e trova copertura
costituzionale, attraverso il rafforzamento del divieto da parte dell’art. 25,
secondo comma della Carta, per le leggi “punitive”, identificate dalla
giurisprudenza costituzionale in quelle in materia penale.
Nella prospettazione del ricorrente la violazione del suddetto
principio garantistico riposerebbe sulla circostanza per cui una lettura
costituzionalmente orientata dal dato normativo esigerebbe che di epoca
successiva all’entrata in vigore del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 dovrebbe
essere non solo la sentenza, come è incontestato nel caso in esame, ma anche il
fatto storico qualificato come delitto che ne costituisce la res iudicanda.
Il ricorrente ha ritenuto la violazione del principio di
irretroattività, sia con riferimento alla sua qualità di soggetto candidato,
sia come incidente sulla sua attuale carica di Sindaco, la cui sospensione
dalle funzioni sarebbe da qualificarsi come incandidabilità sopravvenuta.
Sotto il primo profilo è stato obiettato che la rilevanza
riconosciuta alla pendenza di un procedimento penale all’epoca della candidatura,
integrata attraverso la successiva sentenza di condanna, avrebbe inciso sulla
condizione di soggetto candidabile del ricorrente, illo tempore per nulla
esposta al rischio di una futura sospensione o decadenza per effetto di
pronunce sfavorevoli per il delitto di cui all’art. 323 c.p.; allo stesso, modo
ne sarebbe risultata alterata anche la genuinità della competizione elettorale,
essendosi il corpo elettorale espresso in favore di chi all’epoca sapeva che
non sarebbe mai stato sospeso o dichiarato decaduto a seguito di una futura
condanna per un delitto che all’epoca mai avrebbe inciso sulla sua qualità di
Sindaco.
La tesi non convince.
Va premesso che costituisce principio generale dell’ordinamento
quello per cui una legge successiva può incidere su precedenti posizioni
giuridiche, ma entro il limite della salvaguardia dei diritti quesiti e dei
rapporti esauriti. Trattasi di un corollario del principio generale di
irretroattività, nel senso che l’ordinamento pone un limite alla possibilità di
incidenza sfavorevole di una nuova normativa che, sebbene volta a disporre per
il tempo futuro, in coerenza con l’art.11 delle Disposizioni sulla Legge in
Generale, finisce comunque per intervenire su posizioni giuridiche durevoli o
non compiutamente definite, insidiando quel principio di affidamento dei
cittadini nei confronti del quale nemmeno il legislatore deve mostrarsi
insensibile. Pertanto, non sarebbe possibile ad una legge sopravvenuta
sopprimere e nemmeno limitare posizioni giuridiche consolidate, la cui
stabilità e definitività costituisce condizione implicita di irretroattività.
Ai fini del presente giudizio, la presenza di diritti quesiti e
rapporti esauriti in capo al ricorrente va accertata in relazione al rapporto
esistente tra soggetto e procedimento elettorale - quest’ultimo da intendersi
in senso ampio, cioè comprensivo anche delle fasi, e relativi diritti,
riconducibili alle attività preparatorie per l’accesso alla competizione
elettorale - ed in particolare alla sussistenza di una fluente ed omogenea
relazione di tipo endoprocedimentale tra i suoi atti, oppure al rinvenimento al
suo interno di posizioni differenziate e parzialmente autonome in capo al
soggetto che vi partecipa, tale da consentire la configurazione di status e
qualità personali la cui rilevanza giuridica non sia immanente, ma storicamente
collocabile solo in alcune fasi del procedimento; in altri termini, si tratta
di verificare la percorribilità giuridica in senso inverso della sequenza
procedimentale tipica (recte della relazione atto presupposto/atto
consequenziale), al fine di verificare, se, contrariamente a quanto accade
nella dinamica ordinaria, che trasmette a valle tutta la funzione esercitata
concentrandola nel provvedimento, anche nella prospettiva del soggetto destinatario
del potere, nel caso del procedimento elettorale esistano delle posizioni
preparatorie ed intermedie che, nonostante l’evoluzione del procedimento,
conservino autonoma rilevanza giuridica, sganciandosi dalla produzione degli
effetti finali, quantunque favorevoli. In altri termini, occorre chiedersi se,
rispetto alla conclusione del procedimento elettorale in senso favorevole ad un
candidato, questi conservi ancora, come giuridicamente rilevante, lo status di
soggetto candidabile.
Al quesito deve rendersi risposta negativa, dal momento che la
qualità di soggetto candidabile è destinata ad esaurire la sua funzione tipica
una volta conclusosi il procedimento elettorale, al cui esito potrà seguire lo
status di candidato non eletto o di eletto e, in quest’ultimo caso, la nomina;
atteso il rapporto di consecutività che caratterizza il procedimento, e nella
specie quello elettorale, anche la posizione soggettiva dell’interlocutore del
potere evolve e si modifica, non restando più la medesima; inoltre, la progressione
del procedimento elettorale, ma soprattutto la sua conclusione, finisce per
rendere la posizione di semplice soggetto candidabile non solo superata, ma
anche incompatibile con quella di eletto, trattandosi, in fondo, della medesima
posizione vista nella prospettiva del suo divenire; invero, la qualità di
candidato finisce per rifluire completamente nello status di eletto, esaurendo
così completamente ogni ulteriore ed autonoma funzione.
A ben vedere, si tratta dell’applicazione del generale principio
procedimentale del tempus regit actum che riconosce giuridica rilevanza alle
sole posizioni attuali, concorrenti con l’evoluzione del dispiegarsi della
funzione esercitata.
Di tali coordinate è stata fatta puntuale applicazione da parte
del d.lgs. 31 dicembre 2014 n. 235 che distingue tra cause di incandidabilità
da un lato e cause di decadenza e sospensione dalla carica dall’altro, non solo
inquadrandone l’efficacia rispetto alla specifica fase storica del procedimento
elettorale su cui vanno ad incidere, ma senza neanche dare vita tra queste a
commistioni o sovrapposizioni di sorta. Nel caso di specie, il provvedimento
prefettizio impugnato costituisce espressione del potere di rilevazione di una
causa ostativa alla prosecuzione dell’esercizio della carica di Sindaco, senza
alcuna riferibilità anche alla presupposta e ormai superata qualità di
candidato del ricorrente, la cui funzione ha da tempo esaurito i suoi effetti,
evolutisi e confluiti nell’esito a lui favorevole della competizione elettorale.
Dubbi di legittimità costituzionale
sorgono, invece, riguardo agli artt.11, primo comma, lettera a) e 10, primo
comma, lettera c), nella parte in cui, nel prevedere quale causa di sospensione
– oltre che di decadenza e di incandidabilità – la condanna non definitiva per
alcuni delitti, tra cui quello di cui all’art. 323 c.p., attraverso il
provvedimento prefettizio impugnato le predette disposizioni normative sono
state applicate retroattivamente al ricorrente quale Sindaco in carica del
Comune di Napoli.
Non ignora il Collegio l’esistenza dei recenti arresti nella
giurisprudenza amministrativa di legittimità che hanno escluso la retroattività
delle previsioni normative de quibus (Consiglio di Stato V Sezione 6 febbraio
2013 n. 695; Consiglio di Stato V Sezione, 29 ottobre 2013 n. 5222; TAR Lazio
II bis, 8 ottobre 2013 n. 8696), ritenendo applicabili le cause ostative anche
laddove la sentenza di condanna penale irrevocabile sia intervenuta in un tempo
antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235, ossia il
5 gennaio 2013.
In particolare, nel richiamare specifici orientamenti della
Corte Costituzionale in materia è stato evidenziato che «la condanna penale
irrevocabile é stata presa in considerazione come mero presupposto oggettivo cui
é ricollegato un giudizio di "indegnità morale" a ricoprire
determinate cariche elettive: la condanna stessa viene, cioè, configurata quale
"requisito negativo" ai fini della capacità di assumere e di
mantenere le cariche medesime» (Corte Costituzionale 31 marzo 1994 n. 118); né
il divieto di applicazione retroattiva potrebbe trovare copertura
costituzionale ai sensi dell’art. 25, secondo comma della Carta, attraverso la
qualificazione in termini sanzionatori o comunque punitivi nelle cause di
incandidabilità, sospensione e decadenza previste dal d.lgs. 31 dicembre 2012
n. 235, atteso che secondo costante giurisprudenza costituzionale, l'invocato
principio si riferisce alle sole sanzioni penali (Corte Costituzionale, 31
marzo 1994 n. 118, 14 luglio 1988 n. 823, 3 giugno 1992 n. 250; 14 aprile 1988
n. 447) e, a giudizio del Collegio, all’istituto della sospensione di cui
all’art. 11 del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235, sebbene difficilmente possa
essere negata efficacia sanzionatoria, non può essere riconosciuta anche natura
penale.
Inoltre, la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto che non
costituisce irragionevole limitazione del diritto di elettorato di cui all’art.
51 della Costituzione l'aver attribuito immediata operatività «all'elemento
della condanna irrevocabile per determinati gravi delitti una rilevanza così
intensa, sul piano del giudizio di indegnità morale del soggetto, da esigere,
al fine del miglior perseguimento delle richiamate finalità di rilievo
costituzionale della legge in esame, l'incidenza negativa della disciplina
medesima anche sul mantenimento delle cariche elettive in corso al momento
della sua entrata in vigore»(Corte Costituzionale, 31 marzo 1994 n. 118).
Osserva il Collegio che l’interpretazione fatta propria nei
richiamati arresti non autorizza a ritenere esclusa l’efficacia retroattiva
della norma, ossia che essa nei casi descritti non disponga per l’avvenire, ma
giustifica solo il superamento di tale limite, perché dal legislatore è
ritenuto prevalente l’interesse alla salvaguardia della moralità
dell’organizzazione degli organi di governo degli apparati pubblici.
In tal modo, i principi espressi nella citate pronunce non
consentono di risolvere in via interpretativa anche i pregiudiziali problemi di
compatibilità costituzionale della normativa applicata al caso concreto, dal
momento che la vicenda sottoposta all’esame del Collegio riguarda un
provvedimento di sospensione adottato a seguito e per effetto di una condanna
penale non definitiva, non essendosi, quindi, in presenza di una pronuncia
irrevocabile come, invece, nei casi esaminati nei citati precedenti
giurisprudenziali; e che si tratti di una situazione del tutto diversa si
evince, non solo dai differenti effetti che conseguono, anche dal punto di
vista della disciplina penale, all’emanazione di una sentenza di primo grado
rispetto alla sua successiva condizione di irrevocabilità, ma anche dal fatto
che una lettura costituzionalmente orientata del dato normativo non autorizza
l’interprete a presumere la sussistenza di una situazione di indegnità morale
che legittimi l’inibizione dell’accesso ad una carica pubblica o la sua
perdita, e ciò superando il divieto di retroattività, anche nel diverso caso in
cui si sia in presenza di una sentenza non definitiva, laddove si osservi pure
che quest’ultima interviene come prima statuizione nell’ambito di un modello
verticale del processo penale che consta, nella sua dinamica ordinaria, di non
meno di tre gradi progressivi di giudizio.
I dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 11 del d.lgs.
31 dicembre 2012 n. 235 sulla violazione del divieto di retroattività ove sia
una sentenza non passata in cosa giudicata a determinare la sospensione dalla
carica, si fondano su due presupposti.
Innanzitutto, vi è la natura sanzionatoria dell’istituto della
sospensione.
Come già rilevato, non è intendimento di questo giudice
disallinearsi dagli approdi a cui è giunta la giurisprudenza di legittimità
nella parte in cui ha individuato la ratio legis nell’esigenza, fortemente
sentita, di preservare, anche cautelativamente, l’amministrazione pubblica, ai
vari livelli considerati, dalla presenza e partecipazione di chi si sia reso
moralmente indegno (Corte Costituzionale 29 ottobre 1992 n. 407), sebbene ciò
avvenga - non può negarsi – in base ad una presunzione assoluta di inidoneità,
in ragione del solo titolo del reato, senza alcuna valutazione del fatto
concreto giudicato, nemmeno dal punto di vista dell’esame delle considerazioni
poste dal giudice penale a fondamento della condanna; scelta che, in verità,
non consentirebbe di assolvere la soluzione legislativa adottata da dubbi di
legittimità costituzionale, avuto riguardo all’omessa ricerca di un punto di
equilibrio sia rispetto al diritto di elettorato, attivo e passivo, sia
rispetto all’esigenza concreta ed effettiva di allontanare chi sia “moralmente
indegno”.
Su un distinto piano, s’intende rilevare che riconoscere natura
sanzionatoria, e comunque afflittiva, agli istituti dell’incandidabilità,
sospensione e decadenza non significa affatto negare l’esistenza di ulteriori
finalità, anche principali, che la disciplina legislativa in esame pone a
fondamento della propria giuridica esistenza; d’altronde, non sono di certo
sconosciuti all’ordinamento giuridico poteri di regolazione, anche non normativi,
che, implicando la valutazione di diversi interessi intercettati, impongono al
titolare di perseguire la finalità avuta di mira, tuttavia modulandola con la
necessità, imposta, di tutelare posizioni con questa interferenti; tutela che
può risolversi attraverso la previsione di garanzie di tipo partecipativo o con
connotazioni specifiche del precetto sostanziale da applicarsi che tenga conto
- in ciò limitandosi - di specifiche prerogative del destinatario del potere.
Da tale punto di vista, l’esigenza di immunizzare
l’amministrazione pubblica al fine di preservarne l’imparzialità attraverso
istituiti quali l’incandidabilità, la sospensione o la decadenza da cariche,
reca in sé l’immanenza di un conflitto, imponendo il sacrificio del diritto di
chi a quella carica aspira o ne è stato investito.
E se attraverso l’automatica operatività della causa limitativa
il legislatore ha, di fatto, inteso azzerare il confronto procedimentale, non
può spingersi la sua discrezionalità fino al punto di negare natura di vera e
propria sanzione ad istituti tanto incisivi sull’esercizio di un diritto
costituzionale, quale quello di accesso alle cariche pubbliche di cui all’art.
51 della Carta.
A ben vedere, che si tratti di misure afflittive è aspetto che
non ha ignorato nemmeno il legislatore delegato che nell’art. 15, secondo
comma, nel prevedere l’autonomia degli effetti dell’incandidabilità rispetto
all’interdizione temporanea dai pubblici uffici, mostra di averne assimilato
l’identità quoad effectum ed ancora nel comma successivo in cui ne ammette
l’estinzione a seguito di riabilitazione in sede penale, come remissione degli
effetti di un regime indiscutibilmente sanzionatorio.
Il secondo presupposto, cui in parte si è già accennato, è
costituito dall’efficacia retroattiva dell’istituto della sospensione dalla
carica, applicato in presenza di una condanna penale non definitiva.
In disparte la possibilità per il legislatore di dare giuridica
rilevanza a fini sanzionatori a fatti accaduti in un tempo anteriore rispetto
all’entrata in vigore della legge che li qualifica, è certo che la sospensione
di un amministratore da una carica per un fatto storicamente anteriore rispetto
alla sua elezione, così come anteriore ne è il provvedimento giudiziario che a
questo dà a tal fine rilevanza, costituisce, oggettivamente, applicazione
retroattiva della norma.
Ebbene, ritiene il Collegio che
l’applicazione retroattiva di una norma sanzionatoria, anche di natura non
penale ai sensi dell’art. 25, secondo comma della Costituzione, urta con la
pienezza ed il regime rafforzato di diritti costituzionalmente garantiti, tutte
le volte in cui la Carta
rimette alla disciplina legislativa il regime ordinario di esercizio di quel
diritto; pertanto, ove vi sia riserva di legge per la disciplina di diritti
fondamentali riconosciuti dalla Carta, assumono rango costituzionale anche i
principi generali che disciplinano la fonte di produzione normativa primaria;
di conseguenza, essendo il divieto di retroattività di cui all’art. 11 delle
Disposizioni sulla Legge in Generale, uno dei principi su cui si fonda
l’efficacia della legge nel tempo, la sua violazione è anche violazione del
diritto che la
Costituzione espressamente la chiama a disciplinare e
proteggere.
In questo senso, l’art. 51 della Costituzione nell’affidare
alla legge l’individuazione dei requisiti per l’accesso alle cariche pubbliche,
quindi la disciplina positiva per l’esercizio del diritto di elettorato
passivo, ciò consente nei limiti fisiologici entro i quali alla legge stessa è
consentito operare, cioè non retroattivamente.
Si aggiunge che la forza di tale assunto s’intensifica, tenuto
conto del primo dei citati postulati, ossia la natura sanzionatoria delle cause
ostative di cui al d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 - tra cui figura la sospensione
dalla carica applicata al ricorrente - attesa l’inderogabilità assoluta del
principio di irretroattività nell’ambito di istituti e regimi in buona parte
assimilabili alle sanzioni penali.
Ora, anche per l’assenza di una norma transitoria, non è
possibile in via interpretativa al giudice del merito risolvere la questione
della legittimità costituzionale del superamento del limite costituito dal
divieto di retroattività della legge anche nell’ipotesi in cui la sospensione
dalla carica sia prevista in caso di condanna non definitiva; il dubbio di
compatibilità costituzionale concerne la sussistenza di un eccessivo
sbilanciamento in favore della previsione normativa di tale misura cautelativa
di salvaguardia della moralità dell’amministrazione pubblica rispetto all’ampio
favor da riconoscersi alle facoltà di pieno esercizio del diritto soggettivo di
elettorato passivo di cui all’art. 51, primo comma della Costituzione, da
ritenersi inviolabile ai sensi dell’art. 2 della Carta, nonché posto a fondamento
del funzionamento delle istituzioni democratiche repubblicane, secondo quanto
previsto dall’art. 97, secondo comma, ed infine espressione del dovere di
svolgimento di una funzione sociale che sia stata frutto di una libera scelta
del cittadino, ai sensi dell’art. 4, secondo comma.
Conclusivamente, il Collegio ritiene
necessario sottoporre alla Corte Costituzionale questione incidentale di
legittimità costituzionale, rilevante ai fini della definizione del giudizio a
quo, dell’art. 11, primo comma, lettera a) del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235,
in relazione all’art.10, primo comma lettera c) del medesimo decreto
legislativo perché la sua applicazione retroattiva si pone in contrasto con gli
artt. 2, 4, secondo comma, 51, primo comma e 97, secondo comma della
Costituzione.
Ai sensi dell’art.23, secondo comma della legge 11 marzo 1953
n. 87 il giudizio è sospeso fino alla definizione dell’incidente di
costituzionalità.
Ai sensi dell’art.23, quarto comma della legge 11 marzo 1953 n.
87 la presente ordinanza sarà notificata alle parti costituite e al Presidente
del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti della Camera dei
Deputati e del Senato della Repubblica.
Quanto all’istanza cautelare proposta
dal ricorrente, ai fini della cui compiuta delibazione la questione di
legittimità costituzionale sollevata anche assume piena rilevanza, al fine di
conciliare il carattere accentrato del sindacato di costituzionalità con il
principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 113 Cost.; art.
6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle libertà fondamentali), il Collegio ritiene di
concedere una misura cautelare "interinale" (sentenze n. 444
del 1990, n. 367 del 1991; n. 30 e n. 359 del 1995; n. 183 del 1997, n. 4 del
2000; ordinanza n. 24 del 1995 e n. 194 del 2006), fino
alla camera di consiglio successiva alla restituzione degli atti da parte della
Corte costituzionale (Consiglio di Stato 26 ottobre 2011, ordinanza n.
4713); a tal fine, sussistendo, allo stato, il fumus
boni iuris relativamente al quarto motivo di ricorso, essendo l’impugnato
provvedimento prefettizio di sospensione fondato su un’interpretazione
dell’art.11 del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 che si pone in contrasto con le
richiamate norme costituzionali, nonchè un pregiudizio grave ed irreparabile
per le ragioni del ricorrente, ascrivibile all’irrecuperabilità del tempo di
mancato esercizio della sua funzione di Sindaco di Napoli, deve essere disposta
la sospensione del provvedimento prefettizio impugnato fino alla ripresa del
giudizio cautelare dopo l’incidente di legittimità costituzionale.
Le spese della fase cautelare del presente giudizio saranno
regolate all’esito della camera di consiglio successiva alla risoluzione
dell’incidente di costituzionalità
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione
Prima)
Dichiara rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, primo comma,
lettera a) del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235, in relazione all’art.10, primo
comma lettera c) del medesimo decreto legislativo perché la sua applicazione
retroattiva si pone in contrasto con gli artt. 2, 4, secondo comma, 51, primo
comma e 97, secondo comma della Costituzione, per le ragioni esposte in
motivazione.
Accoglie provvisoriamente la domanda
cautelare e sospende provvisoriamente gli effetti dell’impugnato provvedimento
prefettizio fino alla camera di consiglio di ripresa del giudizio cautelare
successiva alla definizione della questione di legittimità costituzionale.
Spese della presente fase da regolarsi alla pronuncia
definitiva del giudizio cautelare.
Dispone la sospensione del presente giudizio e ordina
l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.
Ordina che, a cura della Segreteria della Sezione, la presente
ordinanza sia notificata alle parti costituite e al Presidente del Consiglio
dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del
Senato della Repubblica.
La presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è
depositata presso la segreteria del Tribunale che provvederà a darne
comunicazione alle parti.
Così deciso in Napoli nella camera di consiglio del giorno 22
ottobre 2014 con l'intervento dei magistrati:
Cesare Mastrocola, Presidente
Paolo Corciulo, Consigliere, Estensore
Carlo Dell'Olio, Consigliere
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L'ESTENSORE
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IL PRESIDENTE
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 30/10/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co.
3, cod. proc. amm.)