PANOZZO, Lo stato civile e il cognome paterno e
materno (nota a Corte cost. 21 dicembre 2016, n. 286), in
venerdì 30 dicembre 2016
giovedì 29 dicembre 2016
Sollevata la questione di legittimità costituzionale sull’obbligo del
giuramento, ai fini dell’acquisto della cittadinanza italiana, da parte della
persona affetta da disabilità
Trib. Modena (g.t.) 6 dicembre 2016
E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale degli artt. 10 della l. 5 febbraio 1992, n. 91, 7, 1° comma,
d.p.r. 572 del 12 ottobre 1993 e 25, 1° comma, d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396,
nella parte in cui prevedono l'obbligo di prestazione del giuramento, quale
condizione per l'acquisizione della cittadinanza, anche laddove tale
adempimento non possa essere prestato da parte di persona affetta da disabilità
a causa di tale condizione patologica, per violazione degli artt. 2 e 3°, 2°
comma, Cost. e dell'art. 18 della Convenzione O.N.U. per i diritti delle
persone disabili, ratificata dall’Italia con legge n. 18 del 3 marzo 2009,
nonché degli artt. 21 e 26 della Dichiarazione O.N.U. dei Diritti delle Persone
con Disabilità del 1975
I. XXX XXX, amministratore di sostegno (nominato con decreto di
questo g.t. in data 14 ottobre 2012) della figlia XXX XXX (nata in India il XXX
e residente a XXX), ha richiesto al giudice tutelare di autorizzare la
trascrizione del decreto concessivo della cittadinanza a favore della figlia
datato 20 luglio 2016, in assenza del prescritto giuramento. Dato che la figlia
non sarebbe in grado, né in condizioni di prestare tale atto, in quanto affetta
da “epilessia parziale con secondaria generalizzazione in attuale buon
controllo con terapia anticomiziale-associato ritardo mentale grave in
pachigiria focale” (come da documentazione della Commissione per l'accertamento
dello stato di invalidità).
La giovane beneficiaria, è stata
ascoltata in udienza, alla presenza del padre-a.d.s. per saggiarne l'idoneità a
prestare il prescritto giuramento.
In vero, la persona è apparsa
completamente disorientata nel tempo e nello spazio (dal verbale risulta che la
ragazza dice che il giudice “è Stefano” e non è in grado di precisare dove si trova,sottoscrive
il verbale col nome “Sara”) e il padre-a.d.s. ha precisato che XXX non sa
leggere, né scrivere.
II. In diritto, va preliminarmente fornito un rapido quadro normativo
della materia.
In base all’art. 9, 1° comma,
lett. f), della l. n. 91 del 1992, la cittadinanza italiana può essere concessa
con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di stato, su proposta
del Ministro dell’interno, allo straniero che risiede legalmente da almeno
dieci anni nel territorio della Repubblica.
L’art. 10, della cit. l. n. 91
prevede che: «il decreto di concessione della cittadinanza non ha effetto se la
persona a cui si riferisce non presta, entro sei mesi dalla notifica del
decreto medesimo, giuramento di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le
leggi dello Stato», mentre l’art. 23, 1° co., l. n. 91/1992 dispone che «le
dichiarazioni per l’acquisto […] della cittadinanza e la prestazione del
giuramento previste dalla presente legge sono rese all’ufficiale dello stato civile
del comune dove il dichiarante risiede o intende stabilire la propria
residenza, ovvero, in caso di residenza all’estero, davanti all’autorità
diplomatica o consolare del luogo di residenza».
A sua volta, l'art. 7, 2° comma,
d.p.r. 12 ottobre 1993, n. 572, dispone che: “il giuramento di cui all'art. 10
della legge d e v e e s s e r e p r e s t a t o e n t r o s e i m e s i d a l l
a n o t i f i c a all'intestatario del decreto di cui agli artt. 7 e 9 della
legge”.
Infine, l’art. 25, 1° comma, d.p.r.
3.11.2000, n. 396, ord. stato civile, stabilisce che: «l’ufficiale dello stato
civile non può trascrivere il decreto di concessione della cittadinanza se prima
non è stato prestato il giuramento prescritto dall’art. 10, l. 5.2.1992, n.
91», mentre secondo l’art. 27, d.p.r. cit., «l’acquisto della cittadinanza
italiana ha effetto dal giorno successivo a quello in cui è stato prestato il
giuramento, ai sensi di quanto disposto dagli artt. 10 e 15, l. 5.2.1992, n.
91, anche quando la trascrizione del decreto di concessione avviene in data
posteriore». In concreto, la dottrina ha sottolineato che il giuramento è
sempre stato, in ogni luogo, diretto a “rafforzare una pronunzia del giurante”.
Lo stesso, più in particolare, “non è più che la forma rafforzata di una
promessa, una solennità supplementare destinata indubbiamente a far riflettere
il giurante sulla gravità dell'atto che sta compiendo, ma che giuridicamente non
lo modifica e nulla vi aggiunge”. La portata di tale atto si esplica su di un
piano prevalentemente morale, in quanto “sospinge, attraverso un vincolo
interno, all'osservanza di obblighi e doveri preesistenti”, cosicchè il
giuramento non rivestirebbe efficacia costitutiva, ma accessoria.
III. Il problema che il ricorso suscita non è di poco momento; esso
consiste nel verificare, a fronte di persona che, a causa dell'infermità
mentale che l'affligge non sia in grado di prestare il prescritto giuramento,
in che modo l'ordinamento debba reagire e porsi da un punto di vista
sistematico e ricostruttivo, ricercando se sussista una lacuna normativa,
ovvero, un contrasto del tessuto normativo rispetto ai parametri costituzionali
ed sovranazionali dati.
IV. Un primo decreto petroniano (Trib. Bologna 9 gennaio 2009, in
personaedanno, con nota di COSTANZO) ha ritenuto di estendere l'esonero dal
giuramento per acquisire la cittadinanza affermando l'applicabilità
all'amministrazione di sostegno, quale effetto ex art. 411 c.c., dall'esenzione
dal giuramento sulla scorta di parere favorevole espresso dal Consiglio di
Stato con riguardo la concessione della cittadinanza all'interdetto senza
prestazione di giuramento, in quanto atto personalissimo non delegabile al
tutore (C.d.S. 13 marzo 1987, n. 261/85).
IV. Altro provvedimento del Tribunale di Mantova (Trib. Mantova 2
dicembre 2010) ha semplicemente ritenuto di esentare l'interdetto dalla
prestazione del giuramento necessario ad acquisire la cittadinanza, non essendo
lo stesso delegabile al tutore.
V. Soluzioni giuridiche riferite in precedenza non convincono.
Non pare ipotizzabile
l'applicazione analogica dell'art. 411 c.c. ,che ammette di estendere
all'amministrazione di sostegno “determinati effetti, limitazioni o decadenze,
previsti da disposizioni di legge per l'interdetto o l'inabilitato”. Nella specie,
è trasparente che la norma codicistica richiamata ammette l'estensione
all'amministrazione di sostegno di disposizioni di “legge”; non il contenuto di
atti amministrativi, quali sono i pareri espressi dal C.d.S. in sede
consultiva.
VI. Dall'altro, può ipotizzarsi l'insorgenza di questione di legittimità
costituzionale delle disposizioni normative richiamate in precedenza (art. 10
l. n. 91 del 1992, art. 7, 2° comma, d.p.r. 572 del 1993, e 25 d.p.r. 396 del
2000), in particolare, nella parte in cui le stesse non prevedono deroghe all'obbligo
della prestazione del giuramento, quale condizione per l'acquisizione della
cittadinanza italiana, in presenza di condizioni personali di infermità mentale
in cui versi il futuro cittadino, impeditive il compimento dell'atto formale in
discorso.
Da questo punto di vista, dato
che, a giudizio della dottrina, il giuramento, avendo natura ancillare e
secondaria rispetto al conseguimento della cittadinanza, non avrebbe efficacia costitutiva
di essa ,potrebbe ritenersi non manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale delle disposizioni normative richiamate e che
impongono la prestazione del giuramento quale condizione per l'acquisizione
della cit tad ina nza , pe r vi ola zio ne d i più di un par ame tro costituzionale.
In particolare, se la Repubblica riconosce e
garantisce i “diritti inviolabili dell'uomo” (art. 2 Cost.), non permettere al disabile
psichico l'acquisizione di un diritto fondamentale, qual è l o status di
cittadino (fonte di diritti e doveri pubblicistici), dal momento che non è in
grado della prestazione dell'atto formale del giuramento, significherebbe, alla
fin fine, non “garantire” tale diritto; escludendo, così, l'infermo di mente dalla
nuova collettività in cui è nato e si è formato, solo a causa dell'impedimento
determinato dalla sua condizione psichica di natura personale. L'ostacolo
personale impedirebbe l'acquisizione del diritto e gli arrecherebbe un
considerevole danno.
Che dire poi del parametro
affidato al capoverso dell'art. 3 Cost.?
Se è compito della Repubblica
rimuovere gli ostacoli che “impediscono il pieno sviluppo della persona umana”,
non si può forse ritenere che l'impossibilità di prestazione del giuramento per
acquisire la cittadinanza, determinato dalla condizione patologica della
persona affetta da malattia mentale, non costituisca significativo “ostacolo”
all'esplicazione della personalità dell'individuo, come tale contrastante con
tale cruciale previsione programmatica ?
Se così è, allora, le disposizione
normative in precedenza richiamate, disponenti che il mancato giuramento nei
sei mesi successivi alla notifica del decreto di concessione della cittadinanza
ne determina inefficacia, paiono contrastare anche con quest'ultimo parametro
costituzionale, creando disparità di trattamento tra cittadini sani e normali,
questi ultimi in grado di prestare giuramento, e quanti sani non siano in
quanto affetti da disabilità e che, per effetto della mancata prestazione del giuramento,
non possono acquistare lo status civitatis.
Tenuto conto di ciò, il presente
procedimento va sospeso, con remissione degli atti alla Corte Costituzionale,
dato che la questione di legittimità costituzionale quivi sollevata sugli artt.
10 della l. 5 febbraio 1992, n. 91, 7 d.p.r. 572 del 12 ottobre 1993 e 25, 1°
comma, d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396, appare rilevante, in questo procedimento
dovendosi applicare le disposizioni normative testè richiamate, e non
manifestamente infondata, alla luce della violazione dei parametri fissati
dagli artt. 2 e 3, 2° comma, Cost.
VII. Il mancato rispetto del principio di uguaglianza quale diritto
fondamentale dell’individuo va rilevato anche con riferimento al quadro
legislativo sovranazionale, cui l'ordinamento dello Stato è tenuto a conformarsi.
VIII. Infatti, l’art. 18 della Convenzione O.N.U. per i diritti
delle persone disabili, ratificata dall’Italia con la Legge n. 18 del 3 marzo 2009
(e quindi legge dello Stato a tutti gli effetti), dispone che: “il diritto alla
cittadinanza non può essere negato e dunque i disabili hanno il diritto di
acquisire e cambiare la cittadinanza e non possono essere privati della stessa arbitrariamente
o a causa della loro disabilità”.
IX. Lo scopo della Convenzione è quello di indurre gli Stati firmatari
a promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i
diritti umani e le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità.
La condizione di disabilità viene individuata nell'esistenza di barriere di
diversa natura e tipologia che possano ostacolare la piena ed effettiva partecipazione
nella società, in condizioni di uguaglianza con gli altri, per le persone che
presentano delle durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o
sensoriali.
Il testo normativo richiama la Convenzione europea
dei diritti dell'uomo ed è dotato di portata universale, dato che si rivolge a tutte
le persone disabili, indipendentemente dalla nazionalità, e alle quali
garantisce il diritto ad un livello di vita adeguato e il diritto alla protezione
sociale, rievocando i principi enunciati anche dalla Dichiarazione O.N.U. dei
Diritti delle Persone con Ritardo Mentale del 1971, della Dichiarazione O.N.U. dei
Diritti delle Persone con Disabilità del 1975, degli articoli 21 (“Nell'ambito
d'applicazione del trattato che istituisce la Comunità europea e del
trattato sull'Unione europea è vietata qualsiasi discriminazione fondata sulla
cittadinanza, fatte salve le disposizioni particolari contenute nei trattati
stessi”) e 26 (“L'Unione riconosce e rispetta il diritto dei disabili di beneficiare
di misure intese a garantirne l'autonomia, l'inserimento sociale e
professionale e la partecipazione alla vita della comunità”) della Carta dei
Diritti Fondamentali dell’Unione Europea di Nizza, resa vincolante dal Trattato
di Lisbona del 2009.
Si evince, pertanto, che l’Unione
è fondata sul rispetto dell’uguaglianza della dignità umana, della democrazia,
dello stato di diritto e del rispetto dei diritti umani compresi quelli enunciati
dall’art. 67 TFUE in base ai quali “l'Unione realizza uno spazio di libertà,
sicurezza e giustizia nel rispetto dei diritti fondamentali nonché dei diversi
ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati
membri”.
Da tali principi dell’ordinamento
si ricava che la tutela dei diritti umani nell’Unione europea non dipende dal
possesso della cittadinanza dell’Unione, che va riconosciuta anche ai cittadini
di paesi terzi. Sotto questo profilo si è avviato il passaggio da una fase
improntata alla salvaguardia dei diritti dei cittadini dell’Unione ad una nuova
fase caratterizzata anche dalla tutela della persona in quanto tale. Il punto
cruciale riguarda il rapporto intercorrente tra l’iniziativa
dell’amministratore ed i bisogni, le aspirazioni, gli interessi del
beneficiario straniero ed incapace; nell’ipotesi di totale nonché effettiva
incapacità di formazione della volontà consapevole da parte dello straniero disabile,
la privazione tout court della capacità di agire nell’esercizio dell’acquisto
della cittadinanza (in quanto atto personalissimo, come tale non delegabile in
via surrogatoria all’amministratore di sostegno), appare criticabile almeno per
un duplice ordine di ragioni: in primis, tale impostazione lederebbe la
legittima aspettativa dello straniero a vedersi riconosciuta la cittadinanza
italiana, stante il ricorso dei requisiti oggettivi fissati dalla legge; in
secundis, si affaccerebbe il rischio, di lasciare lo straniero isolato da
quella trama di relazioni di cui, ai fini dello status civitatis, costituisce
il principale centro di imputazione di interessi.
Come si vede, quindi, anche da
questo punto di vista, si dubita della legittimità costituzionale della trama
normativa costituita dalle disposizioni normative che impongono anche al disabile,
che ne sia impossibilitato per effetto della patologia mentale che l'affligge,
di prestare giuramento quale presupposto per l'acquisto della cittadinanza.
P.Q.M.
Ritenuta rilevante e non
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt.
10 della l. 5 febbraio 1992, n. 91, 7, 1° comma, d.p.r. 572 del 12 ottobre 1993
e 25, 1° comma, d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396, nella parte in cui prevedono
l'obbligo di prestazione del giuramento, quale condizione per l'acquisizione
della cittadinanza, anche laddove tale adempimento non possa essere prestato da
parte di persona affetta da disabilità a causa di tale condizione patologica,
per violazione degli artt. 2 e 3°, 2° comma, Cost. e dell'art. 18 della
Convenzione O.N.U. per i diritti delle persone disabili, ratificata dall’Italia
con legge n. 18 del 3 marzo 2009, nonché degli artt. 21 e 26 della
Dichiarazione O.N.U. dei Diritti delle Persone con Disabilità del 1975, dispone
l'immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale e sospende il
procedimento in corso. Dispone la trasmissione degli atti alla Corte
Costituzionale, previa notifica alla parte istante, nonché al Presidente del Consiglio
dei Ministri e con comunicazione dell'ordinanza anche ai presidenti delle due
Camere del Parlamento.
venerdì 23 dicembre 2016
Corte Dei Conti – Sezione di
controllo per l’Umbria 24 novembre 2016, n. 113, Gettone di presenza per il segretario della S.C.E.C.
Il principio di onnicomprensività deve raccordarsi con il principio
enunciato nell’articolo 36 della Costituzione, nel senso che la retribuzione
del dipendente pubblico (e non soltanto del dirigente) può variare in
funzione delle responsabilità, del bilanciamento tra prestazione richiesta e
risultato atteso (il sinallagma), tra una negoziazione generale (collettiva)
e una posizione individuale, in aderenza al singolo profilo ricoperto
Non si deve
corrispondere al dipendente pubblico chiamato a svolgere le attività di
segretario della Sottocommissione elettorale un “compenso aggiuntivo” laddove
tali compiti siano riconducibili a “funzioni e poteri connessi alla sua
qualifica e all’ufficio ricoperto” o corrispondano “a mansioni cui egli non
possa sottrarsi perché rientranti nei normali compiti di servizio”, nonché
qualora le medesime attività siano svolte durante l’orario di lavoro e siano
comunque riconducibili ai doveri istituzionali dei dipendenti pubblici
Al dipendente comunale
delegato (non appartenente al comparto dirigenziale e non incaricato di
posizione organizzativa) per le attività di segretario
della Sottocommissione elettorale spetta, in relazione alle sedute svolte al
di fuori dell’orario di lavoro o il gettone di presenza previsto dall’art. 24
del T.U. 223/1967, oltre al rimborso delle spese di viaggio
effettivamente sostenute, oppure il compenso per le ore di lavoro
straordinario effettivamente svolto
|
OMISSIS
F A T T O
Con la nota sopra
indicata il Sindaco del Comune di F., dopo avere premesso che:
- l'art. 24
del T.U. 20.03.1967 n. 223 prevede che "a
ciascun componente ed al segretario della commissione elettorale circondariale
può essere corrisposto, oltre al rimborso delle spese di viaggio effettivamente
sostenute, un gettone di presenza pari a lire 60.000, al lordo delle ritenute
di legge, in luogo di quello previsto dalle disposizioni in vigore per i
componenti delle commissioni costituite presso le Amministrazioni dello
Stato.";
- l'art.
230 della L. 24.12.2007 n. 244 ha successivamente sancito che "l'incarico di componente delle
commissioni elettorali comunali e delle commissioni e sottocommissioni
elettorali circondariali è gratuito, ad eccezione delle spese di viaggio
effettivamente sostenute”;
- a seguito della revisione
delle competenze territoriali delle Commissioni circondariali di Perugia e
Spoleto al Comune di F. è stata assegnata la I^ Sotto-commissione elettorale circondariale di
Spoleto avente competenza sui Comuni di F., Cannara, Sellano, Nocera Umbra,
Spello e Valtopina;
- il Segretario della S.C.E.C.
di cui fa parte il Comune di F. è un dipendente comunale, al quale è stato
conferito tale incarico con decreto del Sindaco;
chiede di conoscere l'orientamento di
questa Sezione rispetto alle seguenti problematiche:
1. Se sia legittimo, dato il
quadro normativo attuale, corrispondere il gettone di presenza al Segretario
della S.C.E.C. con spesa a carico dei fondi della Commissione;
2. Se tale corresponsione
spetti anche qualora il Segretario delegato (non appartenente al comparto
dirigenziale e non incaricato di posizione organizzativa) sia incaricato,
presso il Comune assegnatario della S.C.E.C., delle funzioni di responsabile
dell'Ufficio Elettorale e di Segretario della Commissione Elettorale Comunale;
3. Se le riunioni della
S.C.E.C. debbano svolgersi durante od al di fuori del normale orario di lavoro,
ed in che rapporto, nel caso si svolgano in regime di plus-orario, debba porsi
l'eventuale compenso per lavoro straordinario (o l'eventuale recupero) con il
gettone di presenza, qualora spettante.
Considerato in
D I R I T T O
OMISSIS
Nel caso di specie, la richiesta di
parere deve
ritenersi ammissibile anche sul piano oggettivo, attenendo i quesiti proposti a
questioni ermeneutiche di carattere generale ed astratto attinenti a norme di
contenimento della spesa pubblica, chiaramente riconducibili alla materia della
contabilità pubblica, nell’accezione dinamica anzi descritta.
Nel merito
Con il primo quesito il Comune
di F. chiede se sia legittimo corrispondere il gettone di presenza al
Segretario della S.C.E.C., con spesa a carico dei fondi della Commissione, alla
stregua del vigente quadro normativo.
La risposta al quesito richiede
un breve inquadramento delle Commissioni e Sottocommissioni elettorali circondariali e del loro rapporto con le
competenze dei Comuni. Dall’esame della normativa che le riguarda (artt. 21
e ss. del d.P.R. 20 marzo 1967, n. 223 (Approvazione del testo unico delle
leggi per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione
delle liste elettorali) e artt. 30 e ss. del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570
(Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle
Amministrazioni comunali) si rileva che le suddette
Commissioni e le Sottocommissioni sono organi collegiali, presieduti
rispettivamente dal prefetto (o da un suo delegato) e da un dipendente del
Ministero dell’interno con qualifica non inferiore a consigliere di prefettura,
mentre tra i componenti non è contemplato il dipendente designato a svolgere
compiti segretariali.
Si
tratta di organi dello Stato dotati di una propria soggettività giuridica (cfr.
Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, 29 gennaio 1966, n. 38), non
incardinati in una struttura ministeriale né in quella comunale, che si avvalgono
del supporto “segretariale” del Comune nel quale hanno sede. In particolare, l’art.
27, comma 2, del d.P.R. 223/1967 dispone che le funzioni di redazione dei
processi verbali di tutte le operazioni della Commissione elettorale
circondariale “sono svolte dal segretario
o da funzionari di ruolo del comune designati dal sindaco; in seno alle
Sottocommissioni le medesime funzioni sono svolte dal segretario del comune che
ne è sede o da altri impiegati designati dal sindaco”. Inoltre, l’art. 62
del citato d.P.R. dispone che “Le spese
per il funzionamento delle Commissioni elettorali mandamentali e delle
eventuali Sottocommissioni gravano sul bilancio dei Comuni compresi nella
circoscrizione del mandamento giudiziario e sono ripartite tra i Comuni
medesimi in base alla rispettiva popolazione elettorale…”.
Alla
luce del suesposto quadro normativo si evince che il segretario non è assimilabile
ai componenti delle Commissioni e delle Sottocommissioni e che l’equiparazione
ad essi è stata operata dalla norma soltanto al fine di estendere “anche” al
segretario la corresponsione di un gettone di presenza. Recita infatti l’art. 24 del citato D.P.R. 223/67, come
modificato dall’art. 10 della legge 120/99, che “a ciascun componente ed al segretario della commissione elettorale
circondariale può essere corrisposto, oltre al rimborso delle spese di
viaggio effettivamente sostenute, un gettone di presenza pari a lire 60.000,00,
al lordo delle ritenute di legge, in luogo di quello previsto dalle
disposizioni in vigore per i componenti delle commissioni costituite presso le
Amministrazioni dello Stato. L’importo del gettone di presenza è rivalutato, a
partire dal mese di aprile dell’anno 2000, con le procedure ed i termini
previsti dalla legge 4 aprile 1985, n. 117”.
Successivamente,
l’art. 2, comma 30, della legge 244/2007, nel disporre che “l’incarico
di componente delle commissioni elettorali comunali e delle commissioni e
sottocommissioni elettorali circondariali è gratuito ad eccezione delle spese
di viaggio effettivamente sostenute”, ha sancito la
gratuità dell’incarico dei “componenti” ma nulla ha disposto circa il compenso
spettante al segretario.
L’orientamento
maturato in seno alle Sezioni di controllo di questa Corte che si sono occupate
della problematica (Sez. Toscana, del. n. 144/09/PAR; Sez. Lombardia, del. n.
307/2010/PAR; Sez. Piemonte, del. n. 4/2010/SRCPIE/PAR) è nel senso che, nel
silenzio della legge 244/2007, l’Ente (rectius gli enti che
appartengono alla circoscrizione elettorale in cui insiste la Commissione o la Sottocommissione)
ha (hanno) la facoltà di corrispondere un gettone di presenza al segretario
della Commissione o Sottocommissione elettorale in quanto non espressamente
vietato dalla normativa vigente.
In una più
recente pronuncia altra Sezione di controllo (Sez. Friuli Venezia Giulia, del.
n. 27 del 21/02/2012) ha tuttavia affermato che “le disposizioni di cui all’art. 24 del
d.P.R. 223/1967 vanno interpretate, in chiave logico-sistematica, anche alla
luce dei numerosi e reiterati interventi legislativi che, dopo l’entrata in
vigore della legge 244/2007, sono volti a limitare le spese delle
amministrazioni pubbliche, in particolare quelle inerenti il funzionamento
degli organi di governo e degli apparati politici, nonché quelle degli organi
amministrativi e di controllo. Peraltro, in relazione alle medesime Commissioni
e Sottocommissioni elettorali circondariali, le norme successivamente
intervenute a garantirne la funzionalità non hanno comportato “maggiori oneri a
carico della finanza pubblica” (cfr. art. 4, Decreto-legge 27 gennaio 2009, n.
3, come modificato dalla Legge 25 marzo 2009, n. 26; art. 1, comma 1, del Decreto-legge 11 aprile 2011, n. 37
convertito dalla L. 1 giugno 2011, n. 78).
A sostegno di tale orientamento, la citata Sezione
adduce che la contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego ha reso
sempre più stringenti i limiti alla corresponsione di compensi “aggiuntivi”
rispetto al trattamento economico stabilito dal contratto, e che le
norme che dettano principi generali in materia di ordinamento del lavoro alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche possono trovare applicazione anche
nei confronti dei soggetti che sono designati dal sindaco per svolgere le
funzioni di segretario di Commissione e Sottocommissione elettorale
circondariale. Ciò in quanto si tratta di disposizioni (art.
2, comma 3 e art. 45, comma 3 del d.lgs. 165/2001, e, ancor prima, art. 19,
comma 4 del d.P.R. 1 giugno 1979, n. 191) che introducono
nell’ordinamento giuridico il cd. regime
di onnicomprensività del trattamento economico per
tutti i dipendenti pubblici (ivi compresi quelli che non rivestono la qualifica
dirigenziale), che “impedisce di
attribuire compensi aggiuntivi qualora gli stessi rientrino nelle funzioni
attribuite e nelle connesse responsabilità,
per lo svolgimento di attività lavorative comunque riconducibili ai doveri
istituzionali dei dipendenti pubblici” (v., in tal senso, Consiglio di Stato,
Sez. V, 2.8.2010, n. 5099; Cons. St., Sez. V, 12.2.2008, n. 493).
Il principio di onnicomprensività della
retribuzione troverebbe ulteriore conferma, seguendo detta tesi, nel disposto
dell’art. 53 comma 2 del decreto legislativo 165/2001 (che recita: “le pubbliche amministrazioni non possono
conferire ai dipendenti incarichi, non compresi nei compiti e doveri d’ufficio,
che non siano espressamente previsti o disciplinati da legge o altre fonti
normative”), il quale sancisce il divieto di erogare compensi ai dipendenti
pubblici in tutti i casi in cui l’attività svolta dall’impiegato sia
riconducibile alla qualifica o a funzioni e obblighi connessi alla sua
posizione organizzativa e/o all’ufficio ricoperto o comunque corrispondenti a
mansioni rientranti nei normali compiti di servizio.
Ne discende che il
trattamento economico remunera tutte le funzioni ed i compiti attribuiti ai
dipendenti pubblici dal contratto di lavoro, ivi compreso qualsiasi incarico ad
essi conferito in ragione del loro ufficio, con facoltà del dipendente di non
accettare incarichi che non rientrano in alcun modo nelle funzioni loro assegnate.
In effetti, il
principio di onnicomprensività del “trattamento economico” in ambito pubblico è
stato costruito, in dottrina e in giurisprudenza, analizzando la struttura
della retribuzione a carattere “vincolato” del dirigente pubblico, atteso che,
in aggiunta alla retribuzione di posizione e di risultato, ai dirigenti possono
essere erogati direttamente, a titolo di “retribuzione di risultato”, solo i
compensi previsti da specifiche disposizioni di legge, come espressamente
recepite nelle vigenti disposizioni della contrattazione collettiva nazionale e
secondo le modalità da queste stabilite, riconoscendo ad ogni singola Amministrazione
la facoltà di determinare l’incidenza delle predette “erogazioni aggiuntive”
sull’ammontare della retribuzione di risultato sulla base criteri generali
oggetto di previa concertazione sindacale.
La Sezione condivide la tesi secondo la quale l’anzidetto principio di
onnicomprensività deve raccordarsi con l’altro principio enunciato
nell’articolo 36 della Costituzione, nel senso che la retribuzione del
dipendente pubblico (e non soltanto del dirigente) può variare in funzione
delle responsabilità, del bilanciamento tra prestazione richiesta e risultato
atteso (il sinallagma), tra una negoziazione generale (collettiva) e una
posizione individuale, in aderenza al singolo profilo ricoperto D’altra parte,
va pure tenuto conto, come già evidenziato dalla Sezione di controllo per il
Friuli nella deliberazione sopra citata, che sul regime di onnicomprensività della retribuzione si è innestato il recente
blocco della dinamica retributiva nel pubblico impiego, reso necessario dalle
sempre più pressanti e urgenti esigenze di contenimento della spesa pubblica. In
particolare, meritano di essere segnalati:
1. il decreto legge 31 maggio 2010, n. 78,
convertito dalla legge n. 122 del 30 luglio 2010, ha introdotto
nell’ordinamento l’obbligo di riduzione della spesa per il personale del
settore pubblico nell’ambito delle misure di contenimento delle dinamiche
occupazionali.
2. il decreto legge 25 giugno 2008, n. 112,
convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, che all’art. 76 comma 7
aveva stabilito il divieto assoluto di assunzioni in caso di superamento del
limite massimo di incidenza percentuale, nonché i limiti alla spesa per le
nuove assunzioni;
- il decreto legge n. 90/2014, il cui art. 3, co. 5-quater ha
consentito il turn over in misura piena dall'anno 2015 soltanto in favore degli
enti la cui incidenza delle spese di personale sulla spesa corrente sia pari o
inferiore al 25%.
Ai fini della risposta al primo quesito proposto appare utile
richiamare un parere reso dall’Aran, la quale ha ritenuto che sia necessario
verificare se le
prestazioni correlate allo svolgimento delle funzioni richiese al dipendente
interessato rientrino o meno nelle ordinarie competenze del dipendente
medesimo. Qualora esse rientrino nei normali obblighi di lavoro (sono cioè svolte
"ratione officii") e vengano svolte durante l'orario di lavoro, sono
retribuite unicamente con il trattamento economico fondamentale e accessorio
previsto dal CCNL di riferimento. Se, invece, dette prestazioni si collocano al
di fuori delle competenze ordinarie, e quindi non sono svolte "ratione
officii", esse
possono essere svolte solo su incarico (o preventiva autorizzazione) dell'ente,
ai sensi dell'art.53 del D.Lgs.165/2001, devono essere svolte al di fuori e non
a carico dell'orario di lavoro e solo in tal caso possono essere
percepiti eventuali compensi o gettoni ulteriori rispetto al trattamento
economico fondamentale e accessorio previsto dai contratti collettivi.
Alla luce di quanto sopra osservato, ritiene il
Collegio che l’ente locale dovrà evitare di corrispondere al
dipendente pubblico chiamato a svolgere le attività si segretario della
Sottocommissione elettorale un “compenso aggiuntivo” laddove tali compiti siano
riconducibili a “funzioni e poteri connessi alla sua qualifica e all’ufficio ricoperto”
o corrispondano “a mansioni cui egli non possa sottrarsi perché rientranti nei
normali compiti di servizio” (cfr. Cons. Stato, V, 2 ottobre 2002, n. 5163),
nonché qualora le medesime attività siano svolte durante l’orario di lavoro e
siano comunque riconducibili ai doveri istituzionali dei dipendenti pubblici
(cfr. Sezione regionale di controllo per il Piemonte, deliberazione n. 33/2011,
Sezione del controllo per la Regione Sardegna, deliberazione n. 13/2010,
Sezione regionale di controllo per l’Abruzzo, deliberazione n. 13/2010, Sezione
regionale di controllo per la
Toscana, deliberazione n. 144/2009).
Con il secondo quesito si
chiede alla Sezione se tale corresponsione spetti anche qualora il Segretario
delegato (non appartenente al comparto dirigenziale e non incaricato di
posizione organizzativa) sia incaricato, presso il Comune assegnatario della
S.C.E.C., delle funzioni di responsabile dell'Ufficio Elettorale e di
Segretario della Commissione Elettorale Comunale.
L’art. 27, comma
3 del T.U. 223/1967 dispone che le funzioni di segretario delle sottocommissioni
istituite presso comuni diversi dal comune capoluogo del circondario sono
svolte dal segretario del comune che ne è sede o da impiegati dello stesso,
designati dal sindaco.
Ritiene il Collegio che le funzioni
di responsabile dell'Ufficio Elettorale e di Segretario della Commissione
Elettorale Comunale siano ontologicamente distinte dalle funzioni di segretario
della Sottocommissione circondariale, trattandosi quest’ultimo di un organo distinto
dal Comune e dalla Commissione elettorale comunale e richiedendosi, per lo
svolgimento delle funzioni di segretario di detta Sottocommissione, una
specifica designazione del Sindaco.
Tuttavia, poiché il medesimo
dipendente svolge anche le funzioni di responsabile dell'Ufficio Elettorale e
di Segretario della Commissione Elettorale Comunale e poiché le funzioni di
segretario della Sottocommissione circondariale sono sicuramente riconducibili
ai compiti d’istituto dell’amministrazione d’appartenenza (ex art. 27, comma 3,
del cit. d.P.R. 223/1967), nessun compenso aggiuntivo dovrebbe spettare al
dipendente per lo svolgimento di dette funzioni “aggiuntive” durante il suo
orario di lavoro.
Ciò non può assolutamente
significare che la
Sottocommissione elettorale circondariale sia tenuta a
riunirsi esclusivamente durante l’orario di lavoro del segretario, cosa
peraltro non prevedibile né praticabile atteso che detto organo, ai sensi
dell’art. 32-bis del citato d.P.R. 223/1967, è obbligato a provvedere in tempo
utile in ordine alle richieste di ammissione al voto presentate dai soggetti
interessati durante l’intera durata di apertura dei seggi elettorali per
consentire l’esercizio del diritto di voto. Viceversa, per le attività di segretario
di detta Sottocommissione svolte dal predetto impiegato al di fuori dell’orario
di lavoro l’ente locale è tenuto a corrispondere al medesimo o il gettone di
presenza previsto dall’art. 24 del citato T.U., oltre al rimborso delle spese di
viaggio effettivamente sostenute, oppure il compenso per le ore di lavoro
straordinario effettivamente svolto, trattandosi di attività da svolgersi
obbligatoriamente nei termini sopra indicati.
P. Q. M.
La Corte dei
conti - Sezione di controllo per l’Umbria
rilascia nelle suestese considerazioni
il parere, indicato in epigrafe, richiesto dal Comune di F.
Dispone
che, a cura
della Segreteria, copia della presente deliberazione sia trasmessa al Comune di
F. per il tramite del Consiglio delle Autonomie locali dell’Umbria
mercoledì 21 dicembre 2016
Messaggio
dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale 21 dicembre 2016, n. 5171, Regolamentazione
delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle
convivenze. Legge 20 maggio 2016, n. 76
Sulla Gazzetta Ufficiale n. 118 del
21 maggio 2016 è stata pubblicata la legge 20 maggio 2016, n. 76, entrata in
vigore il 5 giugno 2016 e recante disposizioni in materia di “Regolamentazione
delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle
convivenze”.
La legge in esame disciplina le
unioni civili tra persone dello stesso sesso, nonché le convivenze di fatto, in
particolare l’articolo 1:
1. ai commi da 1 a 35 regolamenta
le unioni civili tra persone dello stesso sesso;
2. ai commi da 36 a 65 regolamenta
le convivenze di fatto tra due persone maggiorenni unite
stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e
materiale non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da
matrimonio o da un’unione civile;
3. ai commi da 66 a 69 fornisce le
disposizioni in ordine alla copertura finanziaria del provvedimento, nonché al
monitoraggio degli oneri di natura previdenziale e assistenziale derivanti
dalle unioni civili.
Al riguardo, l’articolo 1, comma 20, della legge
n. 76 del 2016, con riferimento alle unioni civili, dispone che “Al solo
fine di assicurare l’effettività della tutela dei
diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall'unione
civile tra persone dello stesso sesso, le
disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le
disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o
termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti
aventi forza di legge, nei regolamenti nonché' negli
atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano
anche ad ognuna delle parti dell'unione civile tra
persone dello stesso sesso”.
Pertanto, a decorrere dal 5 giugno
2016, ai fini del riconoscimento del diritto alle prestazioni pensionistiche e
previdenziali (es. pensione ai superstiti, integrazione al trattamento minimo,
maggiorazione sociale, successione iure proprio, successione legittima, etc.) e
dell’applicazione delle disposizioni che le disciplinano, il componente
dell’unione civile è equiparato al coniuge.
Inoltre, l’articolo 1, commi da 66
a 69, della legge in esame prevede la copertura finanziaria degli oneri
derivanti dall’attuazione delle disposizioni relative alle unioni civili,
nonché la comunicazione da parte dell’Inps al Ministro del lavoro e delle
politiche sociali dei dati relativi agli oneri di natura previdenziale ed
assistenziale derivanti dall’attuazione della diposizione in esame, al fine di
consentire il relativo monitoraggio da parte del predetto Dicastero.
Con successivo messaggio verranno
fornite istruzioni procedurali inerenti alla gestione delle prestazioni
pensionistiche e previdenziali riconosciute in favore dei destinatari della
norma in oggetto.
sabato 17 dicembre 2016
Corte di Giustizia UE 14 dicembre 2016, (cause riunite) nn.
C-401/15, C-402/15, C-403/15
Rinvio pregiudiziale – Libera circolazione delle persone –
Diritti dei lavoratori – Parità di trattamento – Vantaggi
sociali – Sussidio economico per il compimento di studi superiori –
Requisito di filiazione – Nozione di “figlio” – Figlio del coniuge o
del partner registrato – Contributo al mantenimento di tale figlio
L’articolo 45 TFUE e l’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento
(UE) n. 492/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 aprile
2011, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione,
vanno interpretati nel senso che deve intendersi per figlio di un lavoratore
frontaliero che può beneficiare indirettamente dei vantaggi sociali di cui a
quest’ultima disposizione, quali il finanziamento degli studi concesso da uno
Stato membro ai figli dei lavoratori che esercitano o hanno esercitato la
propria attività in tale Stato, non solo il figlio che ha un legame di
filiazione con il lavoratore in parola, ma altresì il figlio del coniuge o del
partner registrato del lavoratore suddetto, laddove quest’ultimo provveda al
mantenimento di tale figlio. Quest’ultimo requisito risulta da una situazione
di fatto che spetta all’amministrazione e, se del caso, ai giudici nazionali,
verificare senza che gli stessi siano tenuti a stabilire le ragioni di detto
sostegno né a quantificarne l’entità in modo preciso.
SENTENZA DELLA CORTE (Seconda Sezione)
15 dicembre 2016
Nelle cause riunite da C‑401/15 a C‑403/15,
aventi ad oggetto tre domande di pronuncia pregiudiziale
proposte alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dalla Cour
administrative (Corte amministrativa, Lussemburgo), con decisioni del 22 luglio
2015, pervenute in cancelleria il 24 luglio 2015, nei procedimenti
Noémie
Depesme (C‑401/15),
Saïd
Kerrou (C‑401/15),
Adrien
Kauffmann (C‑402/15),
Maxime
Lefort (C‑403/15)
contro
Ministre de l’Enseignement supérieur et de la Recherche,
LA CORTE
(Seconda Sezione),
composta da M. Ilešič, presidente di sezione,
A. Prechal, A. Rosas (relatore), C. Toader e E. Jarašiūnas,
giudici,
avvocato generale: M. Wathelet
cancelliere: A. Calot Escobar
considerate le osservazioni presentate:
– per
N. Depesme e S. Kerrou, da P. Peuvrel, avocat;
– per
A. Kauffmann, da S. Jacquet, avocat;
– per
M. Lefort, da S. Coï, avocat;
– per il
governo lussemburghese, da D. Holderer, in qualità di agente, assistita da
P. Kinsch, avocat;
– per la Commissione europea,
da D. Martin e M. Kellerbauer, in qualità di agenti,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale,
presentate all’udienza del 9 giugno 2016,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1 Le
domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione degli articoli
45 TFUE e 7, paragrafo 2, del regolamento (UE) n. 492/2011 del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 aprile 2011, relativo alla libera
circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione (GU 2011, L 141,
pag. 1).
2 Le
suindicate domande sono state presentate nell’ambito di tre controversie di cui
sono parti, rispettivamente, la sig.ra Noémie Depesme unitamente al
sig. Saïd Kerrou, il sig. Adrien Kauffmann e il sig. Maxime
Lefort, da un lato, e, dall’altro, il ministre de l’Enseignement supérieur et
de la Recherche
(Ministro dell’Istruzione superiore e della Ricerca, Lussemburgo; in prosieguo:
il «ministro»), vertenti sul diniego da parte di quest’ultimo di concedere,
alla sig.ra Depesme e ai sigg. Kaufmann e Lefort, il sussidio
finanziario di Stato per il compimento di studi superiori per l’anno accademico
2013/2014.
Contesto normativo
Diritto dell’Unione
3 Ai
sensi dell’articolo 7 del regolamento (CEE) n.°1612/68 del Consiglio, del 15
ottobre 1968, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno
della Comunità (GU 1968, L 257, pag. 2):
«1. Il lavoratore
cittadino di uno Stato membro non può ricevere sul territorio degli altri Stati
membri, a motivo della propria cittadinanza, un trattamento diverso da quello
dei lavoratori nazionali per quanto concerne le condizioni di impiego e di
lavoro, in particolare in materia di retribuzione, licenziamento,
reintegrazione professionale o ricollocamento se disoccupato.
2. Egli gode degli
stessi vantaggi sociali e fiscali dei lavoratori nazionali.
(...)».
4 L’articolo
10 del regolamento n. 1612/68 così recitava:
«1. Hanno diritto di
stabilirsi con il lavoratore cittadino di uno Stato membro occupato sul
territorio di un altro Stato membro, qualunque sia la loro cittadinanza:
a) il coniuge
ed i loro discendenti minori di anni 21 o a carico;
(…)».
5 L’articolo
10 del regolamento n. 1612/68 è stato abrogato dalla direttiva 2004/38/CE
del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto
dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare
liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento
n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE,
73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE
(GU 2004, L 158, pag. 77, e rettifica in GU 2004, L 229,
pag. 35).
6 I
considerando 3 e 5 della direttiva 2004/38 così recitano:
«(3) La
cittadinanza dell’Unione dovrebbe costituire lo status fondamentale dei
cittadini degli Stati membri quando essi esercitano il loro diritto di libera
circolazione e di soggiorno. È pertanto necessario codificare e rivedere gli
strumenti comunitari esistenti che trattano separatamente di lavoratori
subordinati, lavoratori autonomi, studenti ed altre persone inattive al fine di
semplificare e rafforzare il diritto di libera circolazione e soggiorno di
tutti i cittadini dell’Unione.
(...)
(5) Il diritto
di ciascun cittadino dell’Unione di circolare e soggiornare liberamente nel
territorio degli Stati membri presuppone, affinché possa essere esercitato in
oggettive condizioni di libertà e di dignità, la concessione di un analogo
diritto ai familiari, qualunque sia la loro cittadinanza. Ai fini della
presente direttiva, la definizione di “familiare” dovrebbe altresì includere il
partner che ha contratto un’unione registrata, qualora la legislazione dello
Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio».
7 L’articolo
2 di detta direttiva così prevede:
«Ai fini della presente direttiva valgono le seguenti
definizioni:
(...)
2) “familiare”:
a) il coniuge;
b) il partner
che abbia contratto con il cittadino dell’Unione un’unione registrata sulla
base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello
Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio e nel
rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato
membro ospitante;
c) i
discendenti diretti di età inferiore a 21 anni o a carico e quelli del coniuge
o partner di cui alla lettera b);
(...)
(...)».
8 Il
regolamento n. 1612/68 è stato abrogato, con effetto a partire dal 16
giugno 2011, dal regolamento n. 492/2011. L’articolo 7 del regolamento
n. 492/2011 ricalca il tenore dell’articolo 7 del regolamento
n. 1612/68.
9 Il
considerando 1 della direttiva 2014/54/UE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 16 aprile 2014, relativa alle misure intese ad agevolare
l’esercizio dei diritti conferiti ai lavoratori nel quadro della libera
circolazione dei lavoratori (GU 2014, L 128. pag. 8), è redatto nel
seguente modo:
«La libera circolazione dei lavoratori è una delle
libertà fondamentali dei cittadini dell’Unione nonché uno dei pilastri del
mercato interno dell’Unione sancita dall’articolo 45 del trattato sul
funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Questo principio trova ulteriore
applicazione nel diritto dell’Unione mirante a garantire il pieno esercizio dei
diritti conferiti ai cittadini dell’Unione e ai loro familiari. Il termine
“loro familiari” dovrebbe avere lo stesso significato del termine definito
all’articolo 2, punto 2, della direttiva [2004/38/CE], che si applica anche ai
familiari di lavoratori frontalieri».
10 L’articolo
1 della suddetta direttiva così prevede:
«La presente direttiva stabilisce disposizioni che
agevolano l’uniforme applicazione e attuazione pratica dei diritti conferiti
dall’articolo 45 TFUE e dagli articoli da 1 a 10 del regolamento [n.
492/2011]. La presente direttiva si applica ai cittadini dell’Unione che
esercitano tali diritti e ai loro familiari (“lavoratori dell’Unione e loro
familiari”)».
11 Ai
sensi dell’articolo 2 della suddetta direttiva:
«1. La presente
direttiva si applica alle materie seguenti, di cui agli articoli da 1 a 10 del
regolamento [n. 492/2011], nel campo della libera circolazione dei lavoratori:
(...)
c) accesso ai
vantaggi sociali e fiscali;
(...)
2. L’ambito di
applicazione della presente direttiva è identico a quello del regolamento [n.
492/2011]».
Diritto lussemburghese
12 Il
sussidio economico dello Stato per studi superiori era disciplinato, alla data
dei fatti del procedimento principale, dalla legge del 22 giugno 2000, relativa
al sussidio economico dello Stato per studi superiori (loi du 22 juin 2000
concernant l’aide financière de l’État pour etudes supérieures; Mémorial A
2000, pag. 1106), come modificata dalla legge del 19 luglio 2013 (Mémorial
A 2013, pag. 3214) (in prosieguo: la «legge del 22 giugno 2000 modificata»).
13 La
legge del 19 luglio 2013, che è stata adottata per dare seguito alla sentenza
del 20 giugno 2013, Giersch e a. (C‑20/12, EU:C:2013:411), e che ha
modificato la legge del 22 giugno solo per quanto riguarda l’anno accademico
2013/2014, ha inserito un articolo 2 bis in suddetta legge.
14 L’articolo
2 bis della legge del 22 giugno 2000 modificata era così formulato:
«Uno studente non residente nel Granducato di
Lussemburgo può parimenti beneficiare del sussidio economico per studi
superiori a condizione che egli sia figlio di un lavoratore subordinato o
autonomo cittadino lussemburghese o cittadino dell’Unione europea o di un altro
Stato aderente all’Accordo sullo Spazio Economico Europeo [del 2 maggio 1992
(GU 1992. L 1, pag. 3)] o della Confederazione svizzera occupato o
esercente la propria attività in Lussemburgo, e detto lavoratore sia stato
occupato o abbia esercitato la propria attività in Lussemburgo per un periodo
ininterrotto di almeno cinque anni al momento in cui lo studente presenta la
domanda di sussidio economico per studi superiori. La durata dell’occupazione
in Lussemburgo deve essere almeno pari alla metà della normale durata
dell’orario di lavoro applicabile nell’impresa ai sensi della legge o,
eventualmente, del contratto collettivo di lavoro in vigore. Il lavoratore
autonomo deve essere iscritto obbligatoriamente e in maniera continua [alla
previdenza sociale] del Granducato del Lussemburgo ai sensi dell’articolo 1,
paragrafo 4, del Codice della previdenza sociale durante i cinque anni
precedenti la domanda di sussidio economico per studi superiori».
15 La
legge del 22 giugno 2000 modificata, è stata abrogata dalla legge del 24 luglio
2014 concernente il sussidio economico dello Stato per studi superiori (loi du
24 juillet 2014 concernant l’aide financière de l’État pour études supérieures;
Mémorial A 2014, pag. 2188).
16 L’articolo
3 della citata legge prevede quanto segue:
«Possono beneficiare del sussidio economico dello Stato
per studi superiori gli studenti e gli allievi definiti all’articolo 2,
indicati in prosieguo con il termine “lo studente”, e che soddisfino una delle
seguenti condizioni:
(...)
5) per gli
studenti non residenti nel Granducato del Lussemburgo:
(...)
b) essere
figlio di un lavoratore cittadino lussemburghese o cittadino dell’Unione
europea o di un altro Stato aderente all’Accordo sullo Spazio economico europeo
o della Confederazione elvetica che sia occupato o eserciti la propria attività
nel Granducato del Lussemburgo al momento in cui lo studente presenta la
domanda di sussidio economico per studi superiori, a condizione che il
lavoratore in questione continui a contribuire al mantenimento dello studente e
che sia stato occupato o abbia esercitato la propria attività nel Granducato
del Lussemburgo per un periodo di almeno cinque anni al momento in cui lo
studente presenta la domanda di sussidio economico per studi superiori durante
un periodo di riferimento di sette anni da calcolarsi retroattivamente a
decorrere dalla data della domanda di sussidio economico per studi superiori o
che, in via di deroga, la persona che conserva lo status di lavoratore abbia
soddisfatto il suindicato criterio dei cinque anni su sette al momento della
cessazione dell’attività.
(...)».
Procedimenti principali e questione pregiudiziale
18 Conformemente
a detta legge, tali sussidi economici sono concessi agli studenti che non
risiedono in Lussemburgo a condizione, da un lato, che essi siano figli di un
lavoratore subordinato o autonomo, cittadino lussemburghese o cittadino
dell’Unione, e dall’altro, che il lavoratore in questione sia stato occupato o
abbia esercitato la propria attività in Lussemburgo per un periodo ininterrotto
di almeno cinque anni al momento della domanda di sussidio.
19 È
pacifico che la sig.ra Depesme e il sig. Kauffmann, cittadini
francesi residenti in Francia, e il sig. Lefort, cittadino belga residente
in Belgio, hanno richiesto alle autorità lussemburghesi, per l’anno accademico
2013/2014, un sussidio economico al fine di compiere studi superiori in
Francia, per quanto riguarda i primi, e in Belgio, per il secondo.
20 Con
lettere, rispettivamente, del 26 settembre, del 17 ottobre e del 12 novembre
2013 il ministro ha respinto tali domande sulla base del rilievo che la sig.ra Depesme
e i sigg. Kauffmann e Lefort non soddisfacevano i requisiti previsti dalla
legge del 22 giugno 2000 modificata.
21 Dalle
tre decisioni di rinvio emerge che gli studenti di cui trattasi hanno
presentato, ciascuno, una domanda di sussidio facendo valere a tale proposito
unicamente la qualità di lavoratore subordinato in Lussemburgo del loro padre
acquisito. Il ministro ha pertanto considerato che la sig.ra Depesme e i
sigg. Kauffmann e Lefort non potevano essere qualificati «figli» di un
lavoratore frontaliero, conformemente al requisito di cui all’articolo
2 bis della legge del 22 giugno modificata, poiché solo i loro padri
acquisiti lavoravano in Lussemburgo.
22 Il
20 dicembre 2013 la sig.ra Depesme ha proposto un ricorso dinanzi al
tribunal administratif de Luxembourg (tribunale amministrativo di Lussemburgo)
per chiedere l’annullamento della decisione di diniego che la riguardava. Il
sig. Kerrou, suo padre acquisito, facendo valere la sua qualità di
lavoratore dipendente in Lussemburgo e sostenendo di provvedere al mantenimento
della sig.ra Depesme, è intervenuto volontariamente nella controversia da
essa avviata.
23 Il
29 gennaio e il 25 aprile 2014 i sigg. Lefort e Kauffmann hanno presentato
dinanzi a tale giudice, ciascuno, un ricorso analogo avverso le decisioni di
diniego che li riguardavano.
24 Con
sentenze del 5 gennaio 2015 il tribunal administratif de Luxembourg (tribunale
amministrativo di Lussemburgo) ha dichiarato i ricorsi della
sig.ra Depesme e del sig. Kerrou, nonché dei sigg. Kauffmann e
Lefort ricevibili, ma non fondati.
25 La
sig.ra Depesme e il sig. Kerrou, nonché i sigg. Kauffmann e
Lefort hanno impugnato le suindicate sentenze dinanzi al giudice del rinvio.
26 La
sig.ra Depesme e il sig. Kerrou sostengono segnatamente che
quest’ultimo, lavoratore frontaliero in Lussemburgo da quattordici anni, il 24
maggio 2006, ha contratto matrimonio con la madre della sig.ra Depesme e
che da quel momento, costituiscono tutti e tre una sola famiglia. Il sig. Kerrou
contribuirebbe al mantenimento della figlia della propria coniuge, anche per
quanto riguarda gli studi superiori e avrebbe percepito assegni familiari
lussemburghesi per la figlia acquisita, prima che la stessa iniziasse gli studi
superiori.
27 Il
sig. Kauffmann adduce che i suoi genitori sono separati dal 2003 e hanno
divorziato il 20 giugno 2005, e che l’affidamento dei figli è stato attribuito
in via esclusiva alla madre. Indica che, il 10 marzo 2007, sua madre ha sposato
il sig. Kiefer, lavoratore frontaliero in Lussemburgo, con il quale da
tale momento il sig. Kaufmann condividerebbe la medesima abitazione. Il
sig. Kiefer avrebbe provveduto al mantenimento e all’istruzione del
sig. Kauffmann e avrebbe percepito assegni familiari lussemburghesi per quest’ultimo.
28 Il
sig. Lefort fa presente che suo padre è deceduto e che sua madre si è
risposata con il sig. Terwoigne, lavoratore frontaliero in Lussemburgo, da
oltre cinque anni e che, dalla data di tale matrimonio, forma una famiglia con
la madre e il padre acquisito. Il sig. Terwoigne contribuirebbe alle spese
della famiglia e provvederebbe anche alle spese per gli studi superiori del
sig. Lefort.
29 Lo
Stato lussemburghese chiede, da parte sua, che siano confermate le decisioni
del tribunal administratif (tribunale amministrativo) del 5 gennaio 2015 e fa
valere che la sig.ra Depesme e i sigg. Kauffmann e Lefort non sono
figli dei loro padri acquisiti nel senso giuridico del termine.
30 La Cour adminstrative (Corte
amministrativa, Lussemburgo) sottolinea che il requisito della filiazione di
cui all’articolo 2 bis della legge del 22 giugno modificata, è stato
istituito per tenere conto della sentenza del 20 giugno 2013, Giersch e a.
(C‑20/12, EU:C:2013:411).
31 Secondo
il giudice del rinvio, la soluzione delle tre controversie pendenti dinanzi ad
esso dipende dall’interpretazione della nozione di «figlio» di un lavoratore
frontaliero, ai sensi dell’articolo 2 bis della legge del 22 giugno
modificata, in considerazione di tale sentenza e del rispetto del principio di
non discriminazione previsto dall’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento
n. 492/2011. Detto giudice espone, infatti, che «il criterio rilevante
enunciato da [tale sentenza] è quello del reale grado di collegamento di uno studente
non residente, che richiede al Granducato di Lussemburgo un sussidio economico
per studi superiori, con la società e il mercato del lavoro del Lussemburgo».
Nell’ipotesi in cui siffatto collegamento provenga non direttamente dallo
studente, sulla base del rilievo che lo stesso non è residente, ma dal
lavoratore frontaliero di riferimento, esso s’interroga sul concetto, se con
un’accezione strettamente giuridica oppure piuttosto in chiave economica, da
considerare per quanto riguarda il legame di filiazione tra lo studente che
richiede la concessione di un sussidio economico allo Stato per gli studi
superiori e il lavoratore frontaliero. A suo avviso, entrambi i concetti sono
in linea di principio ipotizzabili. Nell’ipotesi in cui la nozione di «figlio»,
ai sensi della legge del 22 giugno modificata, rinviasse a quella di figlio a
carico, si porrebbe quindi la questione dell’eventuale incidenza dell’entità
della presa a carico dello studente da parte del lavoratore frontaliero. La Cour administrative (Corte
amministrativa) precisa che tale questione riguarda il confronto tra l’entità
della presa in carico dello studente da parte del lavoratore frontaliero, da un
lato, e dal suo o dai suoi genitori, dall’altro. In ultimo, esso s’interroga
sulla portata dell’intensità del legame del lavoratore frontaliero con uno dei
genitori dello studente.
32 In
tale contesto, la Cour
administrative (Corte amministrativa) ha deciso di sospendere il procedimento e
di sottoporre alla Corte la questione pregiudiziale seguente, redatta in
termini identici nelle cause da C‑401/15 a C‑403/15, fatta salva un’aggiunta
nella causa C‑403/15, citata tra parentesi quadre:
«Al fine di soddisfare debitamente i requisiti di non
discriminazione dettati dalle disposizioni dell’articolo 7, paragrafo 2, del
[regolamento n. 492/2011], in combinato disposto con l’articolo 45,
paragrafo 2, TFUE, [causa C‑403/15: “tenendo presente l’articolo 33, paragrafo
1, della Carta, in combinato disposto, se del caso, con il suo articolo 7”],
nell’ambito della considerazione del reale grado di collegamento di uno
studente non residente, che richiede un sussidio economico per studi superiori,
con la società e il mercato del lavoro del Lussemburgo, Stato membro nel quale
un lavoratore frontaliero è stato occupato o ha esercitato la sua attività alle
condizioni di cui all’articolo 2 bis della [legge del 22 giugno 2000
modificata], in quanto conseguenza diretta della sentenza della Corte del 20
giugno 2013, [Giersch e a. (C‑20/12, EU:C:2013:411)],
– se
occorra qualificare la condizione posta a detto studente di essere il “figlio”
del lavoratore frontaliero in parola come equivalente ad essere suo
“discendente in linea diretta e in primo grado, la cui filiazione sia
giuridicamente stabilita in rapporto al suo autore” ponendo l’accento sul
legame di filiazione stabilito tra lo studente e il lavoratore frontaliero, che
si presume sotteso al collegamento previsto, oppure
– se
occorra porre l’accento sul fatto che il lavoratore frontaliero “continua a
provvedere al mantenimento dello studente”, senza che un legame giuridico di
filiazione necessariamente lo unisca allo studente, segnatamente ravvisando un
legame sufficiente nella comunione di vita, di natura tale da unirlo ad uno dei
genitori dello studente rispetto al quale è giuridicamente stabilito un legame
di filiazione.
In questa seconda ipotesi, se il contributo,
ipoteticamente non obbligatorio, del lavoratore frontaliero, nel caso in cui
esso non sia esclusivo, ma parallelo a quello di uno o dei genitori uniti da un
legame giuridico di filiazione allo studente e tenuti pertanto in linea di
principio ad un obbligo legale di mantenimento nei suoi confronti, debba
rispondere a taluni criteri di entità».
Sulla questione pregiudiziale
33 Con
la sua questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo
45 TFUE e l’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento n. 492/2011
debbano essere interpretati nel senso che per figlio di un lavoratore
frontaliero che può beneficiare indirettamente dei vantaggi sociali di cui
all’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento n. 492/2011, quale il
finanziamento degli studi concesso da un Stato membro ai figli dei lavoratori
che esercitano o hanno esercitato la propria attività in detto Stato, occorra
intendersi solo il figlio che ha un legame di filiazione con il lavoratore in
parola o altresì il figlio del coniuge o del partner registrato del lavoratore
suddetto. In quest’ultima ipotesi, il giudice del rinvio s’interroga, in
sostanza, sull’incidenza della rilevanza dell’onere contributivo del lavoratore
frontaliero al mantenimento di tale figlio sul suo diritto di percepire un
sussidio economico per compiere studi superiori, come quello di cui al
procedimento principale.
34 Va
rilevato, in limine, che l’articolo 45, paragrafo 2, TFUE dispone che la libera
circolazione dei lavoratori implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione,
fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto
riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro (sentenza
del 20 giugno 2013, Giersch e a., C‑20/12, EU:C:2013:411, punto 34).
35 La Corte ha dichiarato che
l’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento n. 1612/68, il cui testo è
stato ripreso dall’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento n. 492/2011,
costituisce l’espressione particolare, nel campo specifico della concessione di
vantaggi sociali, della regola della parità di trattamento sancita
dall’articolo 45, paragrafo 2, TFUE e deve essere interpretato allo stesso modo
di quest’ultima disposizione (v. sentenze del 23 febbraio 2016
Commissione/Spagna, C‑205/04, non pubblicata, EU:C:2006:137, punto 15; dell’11
settembre 2007, Hendrix, C‑287/05, EU:C:2007:494, punto 53, nonché del 20
giugno 2013, Giersch e a., C‑20/12, EU:C:2013:411, punto 35).
36 A
norma dell’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento n. 1612/68 e
dell’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento n. 492/2011, il lavoratore
cittadino di uno Stato membro gode, sul territorio degli altri Stati membri,
degli stessi vantaggi sociali e fiscali dei lavoratori nazionali.
37 La Corte ha ripetutamente
considerato, per quanto riguarda l’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento
n. 1612/68, che tale disposizione opera a favore, indifferentemente, tanto
dei lavoratori migranti residenti in uno Stato membro ospitante quanto dei
lavoratori frontalieri i quali, pur esercitando attività di lavoro dipendente
nello Stato membro medesimo, risiedono in un altro Stato membro (v. sentenze
del 18 luglio 2007, Geven, C‑213/05, C‑213/05, EU:C:2007:438, punto 15, del 14
giugno 2012, Commissione/Paesi Bassi, C‑542/09, EU:C:2012:346, punto 33; del 20
giugno 2013, Giersch e a., C‑20/12, EU:C:2013:411, punto 37, e del 14
dicembre 2016, Bragança Linares Verruga e a., C‑238/15, EU:C:2016:949
punto 39).
38 Inoltre,
secondo costante giurisprudenza, un sussidio concesso per il mantenimento e la
formazione, per il compimento di studi universitari sanciti da un titolo
abilitante all’esercizio di un’attività professionale, costituisce un vantaggio
sociale ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento n. 1612/68
(sentenze del 20 giugno 2013, Giersch e a., C‑20/12, EU:C:2013:411, punto
38, e del 14 dicembre 2016, Bragança Linares Verruga e a., C‑238/15,
EU:C:2016:949 punto 40 e giurisprudenza ivi citata).
39 La Corte ha del pari dichiarato
che il finanziamento degli studi concesso da uno Stato membro ai figli dei
lavoratori costituisce, per il lavoratore migrante, un vantaggio sociale ai
sensi di detto articolo 7, paragrafo 2, del regolamento n. 1612/68, quando
questi continui a provvedere al mantenimento del figlio (sentenza del 20 giugno
2013, Giersch e a., C‑20/12, EU:C:2013:411, punto 39 e giurisprudenza ivi
citata).
40 Peraltro,
ai sensi della giurisprudenza della Corte, i familiari del lavoratore migrante
sono beneficiari indiretti della parità di trattamento riconosciuta a detto
lavoratore dall’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento n. 1612/68.
Poiché la concessione del finanziamento degli studi al figlio di un lavoratore
migrante costituisce, per il lavoratore migrante, un vantaggio sociale, tale
figlio può, in prima persona, avvalersi di detta disposizione per ottenere tale
finanziamento qualora, in forza del diritto nazionale, esso sia concesso
direttamente allo studente (sentenza del 20 giugno 2013, Giersch e a., C‑20/12,
EU:C:2013:411, punto 40 e giurisprudenza ivi citata).
41 Nei
procedimenti principali il giudice del rinvio è adito di alcuni ricorsi
presentati da studenti non residenti in Lussemburgo, proposti in seguito al
diniego dello Stato membro in parola di attribuire loro il sussidio economico
per gli studi superiori. Tali studenti ritengono di poter beneficiare del
menzionato sussidio sulla base del loro legame con un lavoratore frontaliero,
il quale, pur non essendo il loro padre, è diventato il coniuge della madre
dopo il divorzio dei loro genitori o, nel caso del sig. Lefort, dopo il
decesso del padre di quest’ultimo.
42 Occorre,
pertanto, esaminare se i termini «figlio di un lavoratore migrante», nel senso
in cui essi sono usati nella giurisprudenza della Corte relativa all’articolo
7, paragrafo 2, del regolamento 1612/68, che è applicabile all’articolo 7,
paragrafo 2, del regolamento n. 492/2011, e in particolare nella sentenza
del 20 giugno 2013, Giersch e a. (C‑20/12, EU:C:2013:411), ricomprendono i
figli del coniuge o del partner riconosciuto dal diritto nazionale di tale
lavoratore.
43 A
tale proposito, va rilevato che l’articolo 10, paragrafo 1, lettera a), del
regolamento n. 1612/68, abrogato dalla direttiva 2004/38, prevedeva che il
coniuge di un lavoratore cittadino di uno Stato membro «e i loro discendenti
minori di ventuno anni o a carico» avevano il diritto di stabilirsi con il
lavoratore sul territorio di un altro Stato membro, a prescindere dalla loro
cittadinanza.
44 La Corte ha interpretato la
succitata disposizione nel senso che il diritto di stabilirsi con tale
lavoratore spetta tanto ai discendenti del lavoratore quanto a quelli del
coniuge. Difatti, interpretare restrittivamente tale disposizione nel senso che
unicamente i figli in comune del lavoratore migrante e del coniuge avrebbero
avuto il diritto di stabilirsi con i medesimi si porrebbe in contrasto con
l’obiettivo del regolamento n. 1612/68 (v., in tal senso, sentenza del 17
settembre 2002, Baumbast e R, C‑413/99, EU:C:2002:493, punto 57).
45 Inoltre,
la Corte ha già
avuto l’occasione di rilevare che i familiari di un lavoratore che beneficiano
indirettamente della parità di trattamento riconosciuta al lavoratori migranti
dall’articolo 7 del regolamento n. 1612/68, erano i familiari di cui
all’articolo 10 del regolamento n. 1613/68 (v., in tal senso, sentenza del
18 giugno1987, Lebon, 316/85, EU:C:1987:302, punto 12).
46 Va
constatato che l’articolo 10 del regolamento n. 1612/68 è stato abrogato
dalla direttiva 2004/38, perché il legislatore dell’Unione ha inteso
codificare, in un solo testo legislativo, il diritto al ricongiungimento
familiare dei lavoratori subordinati, lavoratori autonomi, studenti ed altre
persone inattive al fine di semplificare e rafforzare tale diritto.
47 Nell’ambito
di siffatta riforma, il legislatore ha ripreso, all’articolo 2, punto 2,
lettera c), della menzionata direttiva, la nozione di «familiare», come
definita dalla Corte a proposito del regolamento n. 1612/68, precisando
che in essa vanno inclusi i discendenti diretti di tale cittadino di età
inferiore a ventuno anni o a carico e «quelli del coniuge o del partner»
riconosciuto dal diritto nazionale.
48 Come
ha rilevato l’avvocato generale al paragrafo 43 delle sue conclusioni, è in
tale contesto giurisprudenziale e legislativo, esposto ai punti da 42 a 47
della presente sentenza, che sono da collocare la sentenza del 20 giugno 2013,
Giersch e a. (C‑20/12, EU:C:2013:411) e il termine «figlio» in essa
utilizzato.
49 Risulta,
quindi, che i termini «figlio di un lavoratore migrante», nel senso in cui essi
sono usati nella giurisprudenza della Corte relativa all’articolo 7, paragrafo
2, del regolamento 1612/68, devono essere interpretati come comprensivi dei
figli del coniuge di tale lavoratore o del suo partner riconosciuto dal diritto
nazionale.
50 L’argomento
del governo lussemburghese secondo il quale la direttiva 2004/38 verterebbe
unicamente sul diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di
circolare e di soggiornare liberamente sul territorio degli Stati membri e non
sul diritto dei lavoratori frontalieri di beneficiare degli stessi vantaggi
sociali dei lavoratori nazionali, previsto all’articolo 7, paragrafo 2, del
regolamento n. 492/2011, non è idoneo a infirmare questa interpretazione.
51 Dall’evoluzione
della legislazione dell’Unione evocata ai punti 46 e 47 della presente
sentenza, e dalla circostanza che l’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento
n. 492/2011 si è limitato a riprendere senza modifiche l’articolo 7,
paragrafo 2, del regolamento n. 1612/68, emerge infatti che i familiari
che possono beneficiare indirettamente della parità di trattamento ai sensi del
regolamento n. 492/2011 sono i familiari ai sensi della direttiva 2004/38.
Nessun elemento lascia supporre che il legislatore dell’Unione abbia voluto
stabilire, per quanto riguarda i familiari, una distinzione netta fra i
rispettivi ambiti di applicazione della direttiva 2004/38 e del regolamento
n. 492/2011, secondo la quale i membri della famiglia di un cittadino
dell’Unione ai sensi della direttiva 2004/38 non sarebbero necessariamente le
stesse persone dei familiari di tale cittadino ove questi venga considerato
nella sua qualità di lavoratore.
52 Peraltro,
la circostanza che i termini «figlio di un lavoratore frontaliero», idoneo a
beneficiare indirettamente del principio di parità sancito dall’articolo 7,
paragrafo 2, del regolamento n. 492/2011, vadano interpretati alla luce della
nozione di «familiare», come definita dalla giurisprudenza della Corte relativa
al regolamento n. 1612/68 e ripresa in seguito dall’articolo 2 della
direttiva 2004/38, è avvalorata dalla direttiva 2014/54, il cui termine di
trasposizione è scaduto il 21 maggio 2016.
53 Infatti,
dal considerando 1 della direttiva 2014/54, ai sensi del quale la libera
circolazione dei lavoratori «trova ulteriore applicazione nel diritto
dell’Unione mirante a garantire il pieno esercizio dei diritti conferiti ai
cittadini dell’Unione e ai loro familiari», deriva che l’espressione «“loro
familiari” dovrebbe avere lo stesso significato del termine definito
all’articolo 2, punto 2, della direttiva [2004/38], che si applica anche ai
familiari di lavoratori frontalieri».
54 Orbene,
secondo l’articolo 2, paragrafo 2, della direttiva 2014/54, il suo ambito di
applicazione è identico a quello del regolamento n. 492/2011. Ai sensi
dell’articolo 1 della direttiva 2014/54, l’oggetto della stessa consiste
nell’agevolare l’uniforme applicazione e attuazione pratica dei diritti
conferiti dall’articolo 45 TFUE e dagli articoli da 1 a 10 del regolamento
n. 492/2011.
55 Purché
rientrino nella definizione di «familiari», ai sensi dell’articolo 2, punto 2,
lettera c) della direttiva 2004/38, di un lavoratore frontaliero avente egli
stesso legami sufficienti con la società dello Stato membro di accoglienza,
risulta che i figli del coniuge o del partner riconosciuto da detto Stato
membro di accoglienza di tale lavoratore frontaliero possono essere considerati
come figli dello stesso al fine di poter beneficiare del diritto di percepire
un sussidio economico per il compimento dei loro studi superiori considerato
come un vantaggio sociale ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento
n. 492/2011.
56 Il
giudice del rinvio s’interroga altresì, in sostanza, sull’incidenza della
rilevanza della partecipazione del lavoratore frontaliero al mantenimento del
figlio del coniuge sul diritto di tale figlio di percepire un sussidio economico,
come quello di cui al procedimento principale.
57 A
tale proposito, emerge dalla giurisprudenza rammentata al punto 39 della
presente sentenza, che è nell’ipotesi in cui il lavoratore migrante continui a
provvedere al mantenimento del figlio che il finanziamento degli studi concesso
da uno Stato membro a detto figlio costituisce per il lavoratore un vantaggio
sociale ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento n. 1612/68.
Va, inoltre, rilevato che l’articolo 10, del regolamento n. 1612/68,
abrogato dalla direttiva 2004/38, prevedeva che avevano il diritto di
stabilirsi con il lavoratore sul territorio di un altro Stato membro, a
prescindere dalla loro cittadinanza, «il coniuge e i loro discendenti minori di
ventuno anni o a carico». Con la direttiva 2004/38 il legislatore dell’Unione
considera altresì che devono essere considerati «familiari» ai sensi
dell’articolo 2, punto 2, lettera c), della stessa, i «i discendenti diretti
[del cittadino dell’Unione] di età inferiore a ventuno anni o a carico e quelli
del coniuge o del partner [riconosciuto]».
58 La Corte ha dichiarato che la
qualità di familiare a carico, ai sensi dell’articolo 10 del regolamento
n. 1612/68, non presuppone un diritto agli alimenti. Se così fosse, il
ricongiungimento delle famiglie previsto da tali disposizioni verrebbe a
dipendere dalle normative nazionali, che cambiano da uno Stato all’altro, il
che condurrebbe ad un’applicazione non uniforme del diritto dell’Unione. La Corte ha quindi interpretato
l’articolo 10, paragrafi 1 e 2, del regolamento n. 1612/68 nel senso che
la qualità di familiare a carico risulta da una situazione di fatto. Si tratta
di un familiare il cui sostegno è fornito dal lavoratore, senza che sia
necessario determinarne i motivi, né chiedersi se l’interessato sia in grado di
provvedere a se stesso esercitando un’attività retribuita. Tale interpretazione
è imposta dal principio secondo il quale le disposizioni che sanciscono la
libera circolazione dei lavoratori, che costituisce uno dei fondamenti
dell’Unione, devono essere interpretate estensivamente (v., in tal senso,
sentenza del 18 giugno 1987, Lebon, 316/85, EU:C:1987:302, punti da 21 a 23).
59 Orbene,
come ha constatato l’avvocato generale al paragrafo 67 delle sue conclusioni, un’interpretazione
del genere ai applica anche qualora si tratti della partecipazione di un
lavoratore frontaliero al mantenimento dei figli del coniuge o del suo partner
riconosciuto.
60 Si
deve, quindi, considerare nella presente fattispecie, che la qualità di
familiare a carico risulta da una situazione di fatto che spetta allo Stato
membro e, se del caso, ai giudici nazionali, valutare. La qualità di familiare
di un lavoratore frontaliero che è a carico di quest’ultimo può quindi
risultare, allorché riguarda la situazione del figlio del coniuge o del partner
riconosciuto di tale lavoratore, da elementi oggettivi come la sussistenza di
un domicilio comune tra il lavoratore e lo studente, senza che sia necessario
determinare le ragioni della partecipazione del lavoratore frontaliero al
mantenimento dello studente, né di quantificarne la precisa entità.
61 Il
governo lussemburghese, tuttavia, fa valere che sarebbe difficile richiedere
all’amministrazione competente che essa verifichi, in ciascun caso, se e in che
misura il lavoratore frontaliero, padre acquisito di un figlio che richiede la
concessione del sussidio economico di cui ai procedimenti principali,
contribuisca al mantenimento di tale studente.
62 Orbene,
occorre constatare, da un lato che il legislatore dell’Unione considera che si
presume che i figli siano, in ogni caso, a carico fino al compimento del
ventunesimo anno di età, come risulta in particolare dall’articolo 2, punto 2,
lettera c), della direttiva 2004/38.
63 Dall’altro
lato, dal fascicolo di cui dispone la
Corte risulta che il legislatore lussemburghese stesso ha
subordinato la concessione del sussidio economico dello Stato per gli studi
superiori, in applicazione dell’articolo 3 della legge del 24 luglio 2014,
applicabile dall’anno accademico 2014/2015, al requisito che il lavoratore
«continui a contribuire al mantenimento dello studente». Il governo
lussemburghese non può, quindi, validamente sostenere che un requisito di
partecipazione al mantenimento dello studente non può essere verificato
dall’amministrazione.
64 Alla
luce delle considerazioni che precedono, si deve rispondere alla questione
posta dichiarando che l’articolo 45 TFUE e l’articolo 7, paragrafo 2, del
regolamento n. 492/2011 vanno interpretati nel senso che deve intendersi
per figlio di un lavoratore frontaliero che può beneficiare indirettamente dei
vantaggi sociali di cui a quest’ultima disposizione, quali il finanziamento
degli studi concesso da uno Stato membro ai figli dei lavoratori che esercitano
o hanno esercitato la propria attività in tale Stato, non solo il figlio che ha
un legame di filiazione con il lavoratore in parola, ma altresì il figlio del
coniuge o del partner registrato del lavoratore suddetto, laddove quest’ultimo
provveda al mantenimento di tale figlio. Quest’ultimo requisito risulta da una
situazione di fatto, che spetta all’amministrazione e, se del caso, ai giudici
nazionali, verificare senza che gli stessi siano tenuti a stabilire le ragioni
di detto sostegno né a quantificarne l’entità in modo preciso.
Sulle spese
65 Nei
confronti delle parti nei procedimenti principali la presente causa costituisce
un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire
sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni
alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione)
dichiara:
L’articolo 45 TFUE e l’articolo 7,
paragrafo 2, del regolamento (UE) n. 492/2011 del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 5 aprile 2011, relativo alla libera circolazione dei lavoratori
all’interno dell’Unione, vanno interpretati nel senso che deve intendersi per
figlio di un lavoratore frontaliero che può beneficiare indirettamente dei
vantaggi sociali di cui a quest’ultima disposizione, quali il finanziamento
degli studi concesso da uno Stato membro ai figli dei lavoratori che esercitano
o hanno esercitato la propria attività in tale Stato, non solo il figlio che ha
un legame di filiazione con il lavoratore in parola, ma altresì il figlio del
coniuge o del partner registrato del lavoratore suddetto, laddove quest’ultimo
provveda al mantenimento di tale figlio. Quest’ultimo requisito risulta da una
situazione di fatto che spetta all’amministrazione e, se del caso, ai giudici
nazionali, verificare senza che gli stessi siano tenuti a stabilire le ragioni
di detto sostegno né a quantificarne l’entità in modo preciso.
Dal sito http://curia.europa.eu
Iscriviti a:
Post (Atom)