giovedì 31 marzo 2016





Rettificazione di attribuzione di sesso


Trib. Savona 30 marzo 2016

La normativa in tema di rettificazione di attribuzione di sesso, ex l. 164/1982, consente l’accoglimento della domanda anche in assenza di un intervento demolitorio-ricostruttivo degli organi genitali





Atti ‘politici’ e organi regionali

Tar Liguria 30 marzo 2016, n. 297

L’atto politico è sostanzialmente libero nel fine da individuare, mentre quello di alta amministrazione si colloca all’interno dell’esercizio di una funzione ampiamente discrezionale, che deve tuttavia svolgersi in un ambito finalistico predeterminato dalla normativa.

E’ inammissibile il ricorso del consigliere regionale contro il ‘silenzio’ (della Regione), sulla (sua) richiesta di essere dichiarato immune dalla accuse mosse per avere (egli) svolto un’attività di rilevanza costituzionale, come tale insindacabile dal giudice penale, posto che l’argomento è oggetto di riserva assoluta degli organi politici dell’ente dotato delle prerogative stabilite dalla Costituzione


SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1139 del 2015, proposto dal signor X.X. rappresentato e difeso dall’avvocato professor OMISSIS;
contro
Regione Liguria in persona del presidente in carica rappresentata e difesa dagli avvocati OMISSIS,
Gip presso il Tribunale di Genova,
Tribunale di Genova,
Presidenza del Consiglio dei Ministri;
per l'annullamento
del silenzio formatosi sull’atto di significazione ed invito a provvedere notificato il 16.10.2015 alla regione Liguria

per la condanna
della regione Liguria a riscontrare con un provvedimento espresso l’atto di significazione e diffida formulato dall’interessato, con la nomina di un commissario ad acta in caso di protratta inerzia

Visti il ricorso e i relativi allegati;
visto l’atto di costituzione in giudizio della regione Liguria
visti gli atti e le memorie depositate;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 25 febbraio 2016 il dott. Paolo Peruggia e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
Il signor X.X. si ritiene leso dal silenzio serbato dalla regione Liguria in merito all’atto di significazione e diffida inviato il 16.10.2015, per cui ha notificato il ricorso depositato il 29.12.2015, con cui lamenta:
violazione degli artt. 1 e 2 della legge 7.8.1990, n. 241 con riferimento agli artt. 39, 40 e 41 della legge 11.3.1953, n. 87 ed all’art. 42 dello statuto regionale. Violazione degli artt. 114, 119, 121, 122 comma 4 e 123 comma 1 della Costituzione. Violazione del principio di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 cost., eccesso di potere per difetto assoluto del presupposto, dell’istruttoria e della motivazione, sviamento di potere.
violazione degli artt. 1 e 2 della legge 7.8.1990, n. 241 con riferimento agli artt. 39, 40 e 41 della legge 11.3.1953, n. 87 ed all’art. 42 dello statuto regionale, violazione degli artt. 114, 119, 121 comma , 122 comma 4 e 123 comma 1 della Costituzione, violazione del principio di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 cost., eccesso di potere per difetto assoluto del presupposto, dell’istruttoria e della motivazione, sviamento di potere.
E’ proposta la domanda risarcitoria.
La regione Liguria si è costituita in giudizio con atto depositato il 3.2.2016 con cui ha chiesto respingersi la domanda.
Le parti hanno poi depositato memorie e documenti.
Il ricorrente ha svolto la funzione di consigliere della regione Liguria dal 2005 al 2015, ed in relazione a tale incarico ne è stato chiesto il rinvio al giudizio del tribunale di Genova per il delitto di peculato continuato in concorso con il capogruppo consiliare per avere:
OMISSIS
Egli si è difeso nel corso delle indagini preliminari e nella fase successiva agli atti del PM di cui agli artt. 416 e seguenti del cpp osservando di essersi attenuto alle direttive del consiglio, ed in particolare a quelle emanate dal capogruppo consiliare del raggruppamento politico di appartenenza, essendo questi il soggetto avente la qualifica di pubblico ufficiale rilevante per la configurazione della contestata fattispecie di cui all’art. 314 cp.
Non è noto quale sia stato il rilievo attribuito nel corso dell’udienza preliminare a tali difese, ma in questa sede il ricorrente lamenta il silenzio serbato dall’amministrazione regionale sulla sua richiesta di essere dichiarato immune dalla accuse mosse per avere egli svolto un’attività di rilevanza costituzionale, come tale insindacabile dal giudice penale ed eventualmente da quello contabile.
La ricostruzione contenuta nel ricorso muove dalla collocazione della regione nel disegno costituzionale dei poteri dello Stato, richiama le innovazioni apportate alla materia della riforma costituzionale del 2001 e conclude con l’affermazione dell’obbligo in capo alla regione Liguria di tutelare la propria autonomia politica ed organizzativa dagli altri poteri dello Stato. In tale contesto la resistente sarebbe risultata inadempiente rispetto alle prescrizioni che derivano dalle disposizioni costituzionali denunciate allorché non ha riscontrato la significazione e diffida notificata: essa avrebbe infatti dovuto dar corso all’impulso così ricevuto e proporre il conflitto di attribuzioni avanti alla corte costituzionale al fine di conseguire il dovuto rispetto alla propria autonomia autorizzativa a fronte dell’ingerenza dell’autorità giudiziaria.
Così riassunte le censure, il ricorso va innanzitutto dichiarato ricevibile, posto che la giurisprudenza della corte costituzionale (sentt. 10.4.2003, n. 116 e 30.1.2004, n. 58) ha chiarito che la legge ha inteso svincolare la proposizione dei ricorsi quale è quello in esame dall’osservanza dei termini decadenziali, così da favorire la decisione delle questioni di natura politico-costituzionale che vengono proposte.
L’oggetto di tali contese fuoriesce per lo più dall’ambito che caratterizza le controversie ordinariamente rimesse alla decisione dei giudici, sì che già la legge 31.3.1877, n. 3761 in termini di conflitti di attribuzione aveva sottrarre la loro deduzione dall’osservanza delle cadenze che invece sono imposte per le liti comuni. In tal senso l’omessa indicazione di ogni termine da parte della legge 11.3.1953, n. 87 ha il preciso significato indicato, cosa che induce a disattendere l’eccezione di tardività formulata dalla regione Liguria.
Nel merito si può osservare che la descrizione degli assetti costituzionali richiamati può prescindere dalle innovazioni che la riforma introdotta dalla legge costituzionale 20.4.2012, n. 1 ha apportato alla legge fondamentale, posto che l’art. 6 della novella ha postergato all’esercizio 2014 l’efficacia delle norme introdotte, e così ad un’epoca successiva alle condotte contestate. Tale riforma ha prestato particolare attenzione alla finanza della cosa pubblica, sì che in qualche misura l’autonomia regionale potrà essere in futuro posposta rispetto a “…l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico…”; tuttavia la norma transitoria citata esclude la possibilità di conoscere la presente fattispecie anche nell’ottica della novella costituzionale citata.
Ciò premesso, l’enunciazione delle doglianze muove da un profilo che non può essere condiviso dal tribunale, derivando da ciò l’inammissibilità del ricorso.
Il presupposto dell’esposizione in diritto è infatti nel senso che a seguito della diffida del consigliere X.X.  la regione Liguria avrebbe dovuto esprimersi con un atto ufficiale di proposizione del conflitto di attribuzioni insorto tra lo Stato (il tribunale di Genova) ed essa regione (art. 134 cost), ovvero denegando la sussistenza della violazione ascritta dalla magistratura: tale determinazione costituirebbe un atto di alta amministrazione, sì che il silenzio denunciato sarebbe giustiziabile avanti al tribunale amministrativo adito, non dovendosi con ciò fare applicazione dell’art. 7, primo comma ultimo capoverso del d.lvo 2.7.2010, n. 104 che esclude il potere del giudice amministrativo di sindacare gli atti politici.
La differenziazione tra gli atti politici e quelli di alta amministrazione è stata oggetto di riflessioni si può dire sin dall’individuazione della nozione di Stato di diritto, essendo sempre risultata necessaria l’enucleazione di una sfera di attribuzioni riservata alla politica nella quale gli altri poteri non possono intromettersi.
Tale vicenda ha avuto risvolti particolari nell’ordinamento italiano, attese le alterne vicende conosciute nel tempo dai rapporti tra i poteri statuali.
La Costituzione vigente ha scandito in modo preciso gli ambiti di attribuzione delle funzioni riconosciute, ma anche il disegno così delineato nel 1948 è stato toccato dai mutamenti occorsi nella società italiana. Va notato al riguardo che la possibilità di esercitare un sindacato giudiziale sugli atti politici ovvero di altra amministrazione è stata regolata per molto tempo dal testo unico sul consiglio di Stato del 1924, a cui è stata data con gli anni una lettura sempre più aderente al testo costituzionale.
In oggi sono intervenuti dapprima la legge istitutiva dei tribunali amministrativi regionali e successivamente il codice del processo amministrativo che si sono tuttavia limitati a ribadire l’inammissibilità delle impugnazioni avverso gli atti politici, demandando alla giurisprudenza la delimitazione del mutevole confine tra le due ipotesi.
La distinzione operata tra le due ipotesi è nel senso che l’atto politico è sostanzialmente libero nel fine da individuare, mentre quello di alta amministrazione si colloca all’interno dell’esercizio di una funzione ampiamente discrezionale, che deve tuttavia svolgersi in un ambito finalistico predeterminato dalla normativa.
In giurisprudenza sono stati ricompresi tra i provvedimenti impugnabili, perché esercizio dell’attività di alta amministrazione, la soppressione di un’ambasciata italiana, la scelta per la provvista delle alte cariche pubbliche, la nomina di un difensore civico, l’atto governativo di superamento dell’esito di una conferenza dei servizi (art. 14-quater della legge 7.8.1990, n. 241), la nomina del presidente di un conservatorio di musica, la conferma o la mancata conferma del direttore generale di un’azienda sanitaria, la nomina e la revoca degli assessori regionali; un esame delle ipotesi considerate induce a ritenere che si tratta comunque di determinazioni che restano nell’ambito della funzione amministrativa, quella cioè che deve provvedere alla gestione della cosa pubblica in nome dei cittadini o di parte di essi affinché la vita associata risulti il più possibile desiderabile.
Se ne conclude sul punto che le norme non possono descrivere con precisione tutte le ipotesi che la realtà sottopone alla funzione pubblica, sì che in alcuni casi è opportuno che talune autorità, in genere di vertice, abbiano una sfera di discrezionalità particolarmente ampia per conformare al meglio le situazioni giuridiche allo stato effettivo delle cose.
Diversa è stata l’individuazione della categoria degli atti politici, che sono previsti dall’ordinamento per la libertà dei fini che li caratterizza, e nell’ordinamento attuale sono più strettamente legati alla natura elettiva diretta od indiretta degli organi titolati alla loro adozione.
In giurisprudenza (in termini la già citata decisione 10.4.2003, n. 116 della corte costituzionale) è stato chiarito che la commistione di funzioni che induce ad individuare l’atto politico si rinviene in special modo allorché un soggetto dotato di attribuzioni pubbliche interviene in un ambito di possibile pertinenza di altro ente, anch’esso titolare di mansioni di generale interesse.
Poste tali premesse va condivisa la narrativa del ricorso nella parte in cui sottolinea che la giurisprudenza ha via via limitato lo spazio assegnato dall’ordinamento agli atti politici: si è registrato con ciò l’ampliamento del perimetro che la giurisdizione ha ritenuto di sua competenza, in quanto organo deputato al controllo dell’esercizio di un potere amministrativo che non può sottrarsi alle previsioni degli artt. 24 e 113 cost.
Non di meno la Costituzione individua degli spazi di azione in cui gli organi più elevati dello Stato o degli enti previsti dalla norma fondamentale si esprimono liberi nei fini, perseguendo gli interessi di maggior rilievo per la collettività: al riguardo è possibile operare un istruttivo rinvio alla decisione 29.5.2014, n. 2792 del consiglio di Stato nella parte in cui ha distinto l’attività (di alta amministrazione) di una commissione istituita per legge nell’ambito del ministero della marina mercantile incaricata di fornire pareri su un contenzioso diplomatico insorto con uno stato estero, e l’atto ministeriale (politico) di accoglimento o diniego del parere stesso.
In tale fattispecie la funzione di verifica dell’interesse nazionale eventualmente da tutelare viene demandata dapprima ad un organo tecnico che pondera l’interesse nazionale alla composizione della controversia ed alle eventuali modalità per giungere a ciò, mentre il ministro deve apprezzare in modo insindacabile come dar tutela al naviglio nazionale nei confronti di uno stato straniero.
Il caso qui in esame riguarda invece i rapporti più delicati tra un potere statuale e quello regionale: il tribunale di Genova ha aperto il procedimento nei confronti dell’interessato svolgendo la funzione costituzionalmente garantita di determinare in modo definitivo (proscioglimento o condanna) il potere di giudizio attribuitogli.
La Regione Liguria ha a sua volta una sfera intangibile di attribuzioni che la Costituzione riconosce e tutela al fine dar corpo ai principi di autonomia (artt. 5 e 114 cost.) che costituiscono un fondamento dell’ordinamento vigente; in tal senso è stato chiarito (corte costituzionale 1.10.2003, n. 303) che la regione ha una posizione ordinamentale differente dal comune, posto che solo il primo dei due enti citati ha la capacità esser parte avanti la corte costituzionale al di fuori di quanto accade nel corso dei comuni giudizi già instaurati; soltanto lo Stato e la regione possono chiedere la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una legge che ritengono lesiva delle rispettive attribuzioni, ovvero possono adire la corte ai sensi dell’art. 134 cost.
La vicenda rientra pertanto in un ambito simile a quello definito recentemente dalla corte costituzionale (sent. 7.7.2015, n. 137) allorché ha operato la ricognizione di quali sono i presupposti necessari per ritenere sussistente il conflitto tra i poteri, sì che la soluzione di tali vertenze o l’eventuale decisione di proporle non può rientrare tra gli atti di alta amministrazione.
Ed a tale proposito non può ritenersi che la formulazione letterale dell’art. 7 del cpa citato limiti al solo governo della Repubblica la possibilità di adottare degli atti liberi nei fini che si sottraggono al controllo del giudice, posta la condivisibilità sul punto delle argomentazioni spese dal ricorrente stesso sulla rilevanza costituzionale delle regioni. Tali enti sono infatti abilitati a promuovere i conflitti previsti dal ricordato art. 134 cost, ma la loro decisione in tal senso non è sindacabile in questa sede, trattandosi di un ambito rimesso alla discrezione politica e non alla funzione amministrativa.
Oltre a ciò la conclusione assunta circa l’impossibilità per un consigliere regionale di sindacare la determinazione del consiglio di cui egli fa parte di adire o di non adire la corte costituzionale ai sensi dell’art. 134 cost. si lascia preferire in forza di un’altra considerazione.
La maggior parte delle comuni attività giurisdizionali presuppone la sussistenza della situazione di controinteresse, ovvero – per giungere al concreto- la possibilità che l’eventuale determinazione del consiglio o di altri organi regionali di adire la corte costituzionale sia contestata in causa da altri soggetti. Così opinando si giungerebbe al trasferimento in sede contenziosa del confronto politico, una situazione la cui configurabilità è stata sempre negata dalla giurisprudenza (ad esempio tar Puglia, Lecce, 28.11.2013, n. 2388) allorché si tratta dell’impugnazione da parte dei consiglieri comunali delle deliberazioni dell’organo di cui essi stessi fanno parte.
La tesi esposta porterebbe quindi a conseguenze opposte a quelle che sembra desiderare il ricorrente, che intende invece tutelare l’autonomia degli organi elettivi dalle ingerenze degli altri poteri dello Stato.
E’ poi rinvenibile un’ulteriore discrasia nella narrativa contenuta nell’atto di impugnazione, nella parte in cui il ricorrente allega l’opportunità di ampliare la sfera delle attribuzioni del giudice amministrativo al fine di conculcare quelle del giudice penale; il collegio rileva allora che, volendolo, la regione Liguria avrebbe potuto opporre avanti alla corte costituzionale la sua riserva di potestà a fronte dell’attività del giudice penale, sì che in tale caso la sede investita sarebbe stata idonea a pronunciarsi in materia.
Quel che non può condividersi è invece l’allegazione della sussistenza di un obbligo della regione di pronunciarsi sull’argomento che è oggetto di riserva assoluta degli organi politici dell’ente dotato delle prerogative stabilite dalla Costituzione.
In conclusione il ricorso è inammissibile e le spese vanno compensate attesa la complessità della natura del contendere.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria (Sezione Prima)
Dichiara inammissibile il ricorso a spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

mercoledì 30 marzo 2016





Nozione di ‘servizio alle dipendenze dello Stato’, ai fini della concessione della cittadinanza italiana


Tar Lazio, Roma, xx settembre 2015, n. xxx


La prestazione di servizio alle dipendenze dell’ (ex) Istituto nazionale per il Commercio con l’Estero rientra nel paradigma, di cui all’art. 9, c. 1, lett. c), l. 91/1992 [osserva il Collegio, da un lato, che “la legge di riforma dell’Ice (oggi abrogata dall’art.14 c.27 del d.l. n.98 del 2011) oltre a confermare la personalità di diritto pubblico dell’Istituto lo ha espressamente definito, all’art.1, ente pubblico non economico (e non ente pubblico economico come riportato nel provvedimento avversato); ha chiarito in più parti la preminenza delle finalità di pubblico interesse rispetto agli aspetti gestionali, in forma imprenditoriale, dei servizi offerti agli utenti; e ha ulteriormente evidenziato gli atti (fra cui i bilanci) sottoposti all’approvazione del Ministero vigilante nonché la natura preminentemente statale (art.8) delle entrate dell’Istituto, escludendo dall’utilizzo a copertura delle spese fisse per il personale dipendente le sole erogazioni annualmente destinate al finanziamento del piano di attività dell’Ici”, dall’altro, che  “la lett. c) del comma 1 dell’art.9 in commento - laddove prevede la possibilità di concedere la cittadinanza italiana “allo straniero che ha prestato servizio, anche all'estero, per almeno cinque anni alle dipendenze dello Stato” - ha eletto a parametro di riferimento la “prestazione di servizio” e cioè un’attività che costituisce un genus nel quale rientra la species del pubblico impiego: rapporto, quest’ultimo, che è previsto dall’art.4 della stessa novella del 1992 e genera in capo allo straniero che dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana, la titolarità di un diritto soggettivo all’ottenimento della stessa. Ne segue che rientrano nella nozione di “prestazione di servizio ….alle dipendenze dello Stato” di cui alla lett. C) citata tutte quelle attività disimpegnate alle dipendenze dello Stato che non rientrano nel concetto di rapporto di pubblico impiego: attività che, ove protrattesi per almeno un quinquennio, (non generano il diritto soggettivo dell’istante al conseguimento della cittadinanza, ma) consentono all’interessato di invocare la concessione dello status civitatis italiano e lasciano impregiudicato il potere altamente discrezionale dell’amministrazione di accordare o meno detto status” e che  “il Regolamento di esecuzione della legge sulla cittadinanza (d.P.R. n.572 del 1993) all’art.1 c.2 lett. c) stabilisce che “salvi i casi nei quali la legge richiede specificamente l'esistenza di un rapporto di pubblico impiego, si considera che abbia prestato servizio alle dipendenze dello Stato chi sia stato parte di un rapporto di lavoro dipendente con retribuzione a carico del bilancio dello Stato”; e pertanto l’elemento dirimente che consente di affermare, in fatto, la sussistenza dell’ipotesi normativamente contemplata dalla lett. c) del c.2 dell’art.9, è dato da una prestazione lavorativa espletata alle dipendenze dell’amministrazione centrale o di una sua struttura periferica ( es. il contrattista che abbia prestato servizio alle dipendenze dell’Ambasciata) ovvero alle dipendenze di un ente pubblico che fa parte, in senso lato, dell’organizzazione dello Stato ed è stato dallo stesso costituito, in alternativa ad un Ministero, un’Agenzia ecc., quale strumento della sua azione, con l’attribuzione di specifici compiti propri dello Stato stesso. In concreto la posizione di dipendenza dell’ente strumentale rispetto allo Stato comporta, da un lato, che quest’ultimo ha poteri di ingerenza circa l’attività dell’ente dipendente che si manifestano nell’adozione di direttive, nell’approvazione dei principali atti, nel potere ispettivo, ecc.; dall’altro lato (comporta) che l’ente strumentale è finanziato totalmente, ovvero in larga maggioranza, con assegnazioni annuali a carico del bilancio dello Stato”]

lunedì 28 marzo 2016





In tema di residenza abituale del minore


Cass., Sez. Un., 18 marzo 2016, n. 5418

La nozione di “residenza abituale” posta dalla Convenzione dell’Aja del 1961 corrisponde ad una situazione di fatto, dovendo per essa intendersi il luogo in cui il minore, in virtù di una durevole e stabile permanenza, anche di fatto, ha il centro dei propri legami affettivi non solo parentali, derivanti dallo svolgersi in detta località della sua quotidiana vita di relazione, il cui accertamento è riservato all’apprezzamento del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità, se congruamente e logicamente motivato.


In tema di giurisdizione sui provvedimenti de potestate, l’art. 1 della Convenzione dell’Aja del 1961 dà rilievo unicamente al criterio della residenza abituale del minore, quale determinata in base alla situazione di fatto esistente all’atto dell’introduzione del giudizio, non consentendo il mutamento della competenza, in ossequio al diverso principio di “prossimità”, poiché questo è evocabile solo in tema di competenza interna; pertanto, in caso di trasferimento di un minore permane la giurisdizione del giudice di residenza abituale, ancorché l’autorità giudiziaria adita a seguito del trasferimento abbia emesso provvedimenti interinali per ragioni d’urgenza.

In tema di giurisdizione sui provvedimenti de potestate, al fine di stabilire la competenza giurisdizionale di uno stato membro occorre dare rilievo unicamente al criterio della residenza abituale del minore al momento della proposizione della domanda, intendendo come tale il luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale e non quello risultante da un calcolo puramente aritmetico del vissuto. In particolare per “residenza abituale” deve intendersi il luogo in cui l’interessato abbia fissato con carattere di stabilità il centro permanente ed abituale dei propri interessi e relazioni, sulla base di una valutazione sostanziale e non meramente formale ed anagrafica, essendo rilevante, ai fini dell’identificazione della residenza effettiva, il luogo del concreto e continuativo svolgimento della vita personale ed eventualmente lavorativa alla data di proposizione della domanda

venerdì 25 marzo 2016





Dichiarazione sostitutiva relativa al canone di abbonamento alla televisione per uso privato

La dichiarazione sostitutiva è presentata:

• direttamente dal contribuente o dall’erede mediante una specifica applicazione web disponibile sul sito internet dell’Agenzia delle entrate, utilizzando le credenziali Fisconline o Entratel rilasciate dall’Agenzia delle entrate;
• avvalendosi di un intermediario abilitato ai sensi dell’articolo 3, comma 3, del D.P.R. n. 322/1998. La dichiarazione si considera presentata nella data risultante dalla ricevuta rilasciata in via telematica dall’Agenzia delle entrate.

Nei casi in cui non sia possibile la trasmissione telematica, la dichiarazione sostitutiva può anche essere spedita a mezzo del servizio postale in plico raccomandato senza busta al seguente indirizzo:

Agenzia delle entrate
Ufficio Torino 1
Sportello abbonamenti TV
Casella postale 22
10121 - Torino

La dichiarazione si considera presentata nella data di spedizione risultante dal timbro postale.

ATTENZIONE: in quest’ultima ipotesi il modello deve essere presentato unitamente alla copia di un valido documento di riconoscimento.

La dichiarazione sostitutiva (sotto riportata) è inoltre disponibile sui siti Internet dell’Agenzia delle Entrate, www.agenziaentrate.it, del Ministero dell’Economia e delle Finanze, www.finanze.it, e della Rai, www.canone.rai.it.



QUANDO VA PRESENTATA

In via transitoria per l'anno 2016, la dichiarazione sostitutiva presentata a mezzo del servizio postale dal 1° gennaio al 30 aprile 2016 e in via telematica fino al 10 maggio 2016, ha effetto per l'intero canone dovuto per l'anno 2016.

La dichiarazione presentata a mezzo del servizio postale dal 01 maggio 2016 ed entro il 30 giugno 2016 e in via telematica dall'11 maggio 2016 al 30 giugno 2016, ha effetto per il canone dovuto per il secondo semestre solare del 2016, secondo quanto disposto dall'Art. 10 del R.D.L. 246 del 1938. La dichiarazione presentata dal 01° luglio 2016 ed entro il 31 gennaio 2017 ha effetto per l'intero canone dovuto per l'anno 2017.

Ulteriori indicazioni sono presenti nel documento relativo alle istruzioni per la compilazione della dichiarazione sostitutiva.

Clicca per la Dichiarazione sostitutiva relativa al canone di abbonamento alla televisione per uso privato.

Clicca per le istruzioni della Dichiarazione sostitutiva relativa al canone di abbonamento alla televisione per uso privato.


Dichiarazione sostitutiva relativa al canone di abbonamento alla televisione per uso privato
(articolo 1, comma 153, della legge 28 dicembre 2015, n. 208)






Regolamento (UE) del Parlamento europeo e del Consiglio 9 marzo 2016, n. 2016/399 (G.U.U.E., 23 marzo 2016, n. L 77/1), che istituisce un codice unionale relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone (codice frontiere Schengen)  (codificazione)


http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:32016R0399&rid=2

giovedì 24 marzo 2016





Corte di Giustizia UE 17 marzo 2016, n. C-161/15

Rinvio pregiudiziale – Direttiva 2004/38/CE – Decisione che pone fine a un’autorizzazione di soggiorno – Principio del rispetto dei diritti della difesa – Diritto al contraddittorio – Autonomia processuale degli Stati membri – Ricevibilità di motivi di cassazione – Motivo di ordine pubblico









Il diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso che, quando, conformemente al diritto nazionale applicabile, un motivo attinente alla violazione del diritto interno sollevato per la prima volta dinanzi al giudice nazionale, in un procedimento per cassazione, è ricevibile solo se si tratta di un motivo di ordine pubblico, un motivo attinente alla violazione del diritto di essere sentito, come garantito dal diritto dell’Unione, sollevato per la prima volta dinanzi al medesimo giudice, deve essere dichiarato ricevibile se tale diritto, come garantito dall’ordinamento nazionale, soddisfa le condizioni previste da detto ordinamento per essere qualificato come motivo di ordine pubblico, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.










SENTENZA DELLA CORTE (Prima Sezione)
17 marzo 2016
«Rinvio pregiudiziale – Direttiva 2004/38/CE – Decisione che pone fine a un’autorizzazione di soggiorno – Principio del rispetto dei diritti della difesa – Diritto al contraddittorio – Autonomia processuale degli Stati membri – Ricevibilità di motivi di cassazione – Motivo di ordine pubblico»
Nella causa C‑161/15,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Conseil d’État (Consiglio di Stato, Belgio), con decisione del 19 marzo 2015, pervenuta in cancelleria il 9 aprile 2015, nel procedimento
Abdelhafid Bensada Benallal
contro
Etat belge,
LA CORTE (Prima Sezione),
composta da R. Silva de Lapuerta (relatore), presidente di sezione, A. Arabadjiev, C.G. Fernlund, S. Rodin e E. Regan, giudici,
avvocato generale: P. Mengozzi
cancelliere: V. Tourrès, amministratore
vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 19 novembre 2015,
considerate le osservazioni presentate:
–        per il sig. Bensada Benallal, da R.-M. Sukennik e R. Fonteyn, avocats;
–        per il governo belga, da S. Vanrie, L. Van den Broeck e C. Pochet, in qualità di agenti, assistiti da S. Cornelis, P. Lejeune e D. Matray, avocats;
–        per il governo francese, da G. de Bergues, D. Colas e F.‑X. Bréchot, in qualità di agenti;
–        per la Commissione europea, da R. Troosters e C. Tufvesson, in qualità di agenti,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 13 gennaio 2016,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1        La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione del principio generale del diritto dell’Unione del rispetto dei diritti della difesa.
2        Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia pendente tra il sig. Bensada Benallal e lo Stato belga in merito a un ricorso di annullamento della decisione che poneva fine all’autorizzazione rilasciata al sig. Bensada Benallal di soggiornare nel territorio belga e gli ordinava di lasciare quest’ultimo.
 Contesto normativo
3        L’articolo 27 della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE (GU L 158, pag. 77, e rettifica in GU 2005, L 197, pag. 34), prevede quanto segue:
«1.      Fatte salve le disposizioni del presente capo, gli Stati membri possono limitare la libertà di circolazione e di soggiorno di un cittadino dell’Unione o di un suo familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica. Tali motivi non possono essere invocati per fini economici.
2.      I provvedimenti adottati per motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza rispettano il principio di proporzionalità e sono adottati esclusivamente in relazione al comportamento personale della persona nei riguardi della quale essi sono applicati. La sola esistenza di condanne penali non giustifica automaticamente l’adozione di tali provvedimenti.
Il comportamento personale deve rappresentare una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave da pregiudicare un interesse fondamentale della società. Giustificazioni estranee al caso individuale o attinenti a ragioni di prevenzione generale non sono prese in considerazione.
3.      Al fine di verificare se l’interessato costituisce un pericolo per l’ordine pubblico o la pubblica sicurezza, in occasione del rilascio dell’attestato d’iscrizione o, in mancanza di un sistema di iscrizione, entro tre mesi dalla data di arrivo dell’interessato nel suo territorio o dal momento in cui ha dichiarato la sua presenza nel territorio in conformità dell’articolo 5, paragrafo 5, ovvero al momento del rilascio della carta di soggiorno, lo Stato membro ospitante può, qualora lo giudichi indispensabile, chiedere allo Stato membro di origine, ed eventualmente agli altri Stati membri, informazioni sui precedenti penali del cittadino dell’Unione o di un suo familiare. Tale consultazione non può avere carattere sistematico. Lo Stato membro consultato fa pervenire la propria risposta entro un termine di due mesi.
4.      Lo Stato membro che ha rilasciato il passaporto o la carta di identità riammette senza formalità nel suo territorio il titolare di tale documento che è stato allontanato per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di salute pubblica da un altro Stato membro, quand’anche il documento in questione sia scaduto o sia contestata la cittadinanza del titolare».
4        L’articolo 28 di tale direttiva così dispone:
«1.      Prima di adottare un provvedimento di allontanamento dal territorio per motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza, lo Stato membro ospitante tiene conto di elementi quali la durata del soggiorno dell’interessato nel suo territorio, la sua età, il suo stato di salute, la sua situazione familiare e economica, la sua integrazione sociale e culturale nello Stato membro ospitante e importanza dei suoi legami con il paese d’origine.
2.      Lo Stato membro ospitante non può adottare provvedimenti di allontanamento dal territorio nei confronti del cittadino dell’Unione o del suo familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, che abbia acquisito il diritto di soggiorno permanente nel suo territorio se non per gravi motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza.
3.      Il cittadino dell’Unione non può essere oggetto di una decisione di allontanamento, salvo se la decisione è adottata per motivi imperativi di pubblica sicurezza definiti dallo Stato membro, qualora:
a)      abbia soggiornato nello Stato membro ospitante i precedenti dieci anni; o
b)      sia minorenne, salvo qualora l’allontanamento sia necessario nell’interesse del bambino, secondo quanto contemplato dalla convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989».
5        Ai sensi dell’articolo 30 della suddetta direttiva:
«1.      Ogni provvedimento adottato a norma dell’articolo 27, paragrafo 1, è notificato per iscritto all’interessato secondo modalità che consentano a questi di comprenderne il contenuto e le conseguenze.
2.      I motivi circostanziati e completi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica che giustificano l’adozione del provvedimento nei suoi confronti sono comunicati all’interessato, salvo che vi ostino motivi attinenti alla sicurezza dello Stato.
3.      La notifica riporta l’indicazione dell’organo giurisdizionale o dell’autorità amministrativa dinanzi al quale l’interessato può opporre ricorso e il termine entro il quale deve agire e, all’occorrenza, l’indicazione del termine impartito per lasciare il territorio dello Stato membro. Fatti salvi i casi di urgenza debitamente comprovata, tale termine non può essere inferiore a un mese a decorrere dalla data di notificazione».
6        L’articolo 31 della stessa direttiva è formulato nei seguenti termini:
«1.      L’interessato può accedere ai mezzi di impugnazione giurisdizionali e, all’occorrenza, amministrativi nello Stato membro ospitante, al fine di presentare ricorso o chiedere la revisione di ogni provvedimento adottato nei suoi confronti per motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza o sanità pubblica.
2.      Laddove l’impugnazione o la richiesta di revisione del provvedimento di allontanamento sia accompagnata da una richiesta di ordinanza provvisoria di sospensione dell’esecuzione di detto provvedimento, l’effettivo allontanamento dal territorio non può avere luogo fintantoché non è stata adottata una decisione sull’ordinanza provvisoria, salvo qualora:
–        il provvedimento di allontanamento si basi su una precedente decisione giudiziale, o
–        le persone interessate abbiano precedentemente fruito di una revisione, o
–        il provvedimento sia fondato su motivi imperativi di pubblica sicurezza di cui all’articolo 28, paragrafo 3.
3.      I mezzi di impugnazione comprendono l’esame della legittimità del provvedimento nonché dei fatti e delle circostanze che ne giustificano l’adozione. Essi garantiscono che il provvedimento non sia sproporzionato, in particolare rispetto ai requisiti posti dall’articolo 28.
4.      Gli Stati membri possono vietare la presenza dell’interessato nel loro territorio per tutta la durata della procedura di ricorso, ma non possono vietare che presenti di persona la sua difesa, tranne qualora la sua presenza possa provocare gravi turbative dell’ordine pubblico o della pubblica sicurezza o quando il ricorso o la revisione riguardano il divieto d’ingresso nel territorio».
7        A norma dell’articolo 35 della direttiva 2004/38:
«Gli Stati membri possono adottare le misure necessarie per rifiutare, estinguere o revocare un diritto conferito dalla presente direttiva, in caso di abuso di diritto o frode, quale ad esempio un matrimonio fittizio. Qualsiasi misura di questo tipo è proporzionata ed è soggetta alle garanzie procedurali previste agli articoli 30 e 31».
 Procedimento principale e questione pregiudiziale
8        Il sig. Bensada Benallal, cittadino spagnolo, è arrivato in Belgio il 24 maggio 2012. A seguito di una domanda presentata il 31 maggio 2012, è stato autorizzato, con decisione del 24 settembre 2012, a soggiornare in tale Stato membro in qualità di lavoratore dipendente.
9        Il 26 settembre 2013 lo Stato belga, tramite l’Ufficio stranieri, ha posto fine all’autorizzazione di soggiorno del sig. Bensada Benallal e gli ha ordinato di lasciare il territorio belga. In tale decisione si afferma, in particolare, quanto segue:
«A quanto risulta, l’interessato si è avvalso di informazioni ingannevoli rivelatesi determinanti perché l’amministrazione comunale di Berchem‑Sainte‑Agathe [Belgio] gli riconoscesse il diritto di soggiorno. Infatti, [si è] concluso per il non assoggettamento dell’insieme dei dipendenti dichiarati dalla società (...) al regime generale di previdenza sociale dei lavoratori dipendenti: “Vari elementi precisi e concordanti dimostrano a sufficienza di diritto l’assenza di attività, presso [tale] società (...), che prevedano l’impiego di lavoratori dipendenti (...) e, di conseguenza, l’assenza di un contratto di lavoro fra la suddetta e le persone da essa dichiarate (...)».
10      Il 2 gennaio 2014 il sig. Bensada Benallal ha proposto un ricorso di annullamento avverso detta decisione presso il Conseil du contentieux des étrangers (Commissione belga per il contenzioso in materia di stranieri).
11      A sostegno del proprio ricorso, il sig. Bensada Benallal ha dedotto un motivo unico attinente, in particolare, alla violazione di una disposizione di legge concernente la motivazione formale degli atti amministrativi, alla violazione del principio di buona amministrazione, del principio della certezza del diritto, del principio di proporzionalità, dei principi della prudenza e dell’accuratezza, del principio della gestione coscienziosa e del principio secondo il quale l’amministrazione è tenuta a statuire tenendo conto di tutti gli elementi della causa, nonché alla violazione dell’articolo 35 della direttiva 2004/38.
12      Nella sua linea argomentativa intesa a precisare il motivo dedotto, il sig. Bensada Benallal ha asserito, inter alia, che la decisione dell’Ufficio stranieri era viziata da un difetto di motivazione. Egli ha sostenuto, a tal riguardo, che la relazione sulla cui base esso ha fondato la propria decisione né è stata allegata a quest’ultima né è stata trasmessa al sig. Bensada Benallal anteriormente alla notifica di tale decisione e non è stata neppure riprodotta in sostanza nella medesima, cosicché egli non è stato in grado di comprendere i motivi della decisione adottata nei suoi confronti.
13      Tale ricorso è stato respinto con decisione del Conseil du contentieux des étrangers (Commissione belga per il contenzioso in materia di stranieri) in data 30 aprile 2014. Nella sua sentenza, quest’ultimo ha in particolare dichiarato quanto segue:
«In ogni caso, il Conseil [du contentieux des étrangers] constata che è passato quasi un anno tra la presentazione, da parte del [sig. Bensada Benallal] del suo contratto di lavoro con la società (...) e la relazione (…) che ha condotto all’adozione della decisione impugnata, periodo durante il quale il [sig. Bensada Benallal] non ha fatto pervenire o comunicato al[l’Ufficio stranieri] alcuna informazione relativa ai problemi addotti nel ricorso e che egli avrebbe incontrato nell’ambito del proprio contratto di lavoro con detta società.
Orbene, se il [sig. Bensada Benallal] riteneva di poter addurre elementi tali da ostare alla revoca del suo permesso di soggiorno, stava a lui informarne [l’Ufficio stranieri], e non a quest’ultimo invitare il [sig. Bensada Benallal] a presentare le sue osservazioni al riguardo. Il Conseil ricorda, infatti, che è alla parte ricorrente che spetta dimostrare di soddisfare le condizioni inerenti al diritto che rivendica e al mantenimento di tale diritto. Avendo il [sig. Bensada Benallal] fatto richiesta di un’attestazione di registrazione in Belgio come lavoratore dipendente, egli doveva/poteva legittimamente attendersi che la mancata esecuzione del suo contratto di lavoro (anche per motivi indipendenti da[lla sua persona]) avesse ripercussioni sul suo diritto di soggiorno e avrebbe dovuto essere consapevole della necessità di comunicare spontaneamente tali informazioni al[l’Ufficio stranieri], quod non alla luce del fascicolo amministrativo.
Non inficia tale constatazione la circostanza secondo cui il [sig. Bensada Benallal] “non ha ricevuto alcuna raccomandata, come affermato nell’indagine, e non ha dunque avuto la possibilità di essere sentito”; tale censura riguarda, infatti, l’audizione del [sig. Bensada Benallal] da parte dell’ispettore sociale (…) (audizione che peraltro si basa non solo su dichiarazioni, ma altresì su constatazioni obiettive nessuna delle quali è stata contestata dal [sig. Bensada Benallal]) e non direttamente la decisione impugnata».
14      Il sig. Bensada Benallal ha proposto un ricorso amministrativo per cassazione avverso tale sentenza del Conseil du contentieux des étrangers (Commissione belga per il contenzioso in materia di stranieri) dinanzi al giudice del rinvio, il Conseil d’État (Consiglio di Stato). Tale ricorso contiene segnatamente un motivo con il quale il sig. Bensada Benallal sostiene che l’autorità amministrativa, ossia l’Ufficio stranieri, avrebbe dovuto sentirlo prima di adottare la sua decisione del 26 settembre 2013. Esso afferma inoltre che il Conseil du contentieux des étrangers (Commissione belga per il contenzioso in materia di stranieri) avrebbe dovuto considerare che il procedimento amministrativo avrebbe potuto portare a un risultato diverso nel caso in cui avesse potuto far meglio valere la sua difesa. A sostegno di tale motivo, il sig. Bensada Benallal deduce non solo la violazione, da un lato, dei principi generali di diritto belga del rispetto dei diritti della difesa e del contraddittorio nonché, dall’altro, del diritto di essere sentito («audi alteram partem»), ma altresì degli articoli 41 e 51 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»).
15      Lo Stato belga eccepisce l’irricevibilità del suddetto motivo, in quanto viene sollevato per la prima volta dinanzi al giudice del rinvio, nella fase del procedimento per cassazione, e non verte sulla violazione di una disposizione di ordine pubblico. Inoltre, il ricorrente non preciserebbe in che modo l’articolo 51 della Carta sarebbe stato violato né presenterebbe il minimo elemento che consenta di verificare se il procedimento amministrativo avrebbe potuto portare a un risultato diverso qualora egli fosse stato ascoltato precedentemente alla decisione amministrativa in questione.
16      Nel merito, lo Stato belga sostiene che il diritto di essere sentito di cui all’articolo 41 della Carta non impone di avviare con l’interessato un dibattito in merito alle circostanze che questi invoca. Sarebbe infatti sufficiente che quest’ultimo abbia avuto occasione di far conoscere il suo punto di vista, com’è accaduto nella fattispecie e come risulterebbe dalla sentenza pronunciata dal Conseil du contentieux des étrangers (Commissione belga per il contenzioso in materia di stranieri).
17      L’Auditeur (consigliere istruttore) incaricato della causa presso il giudice del rinvio, nel suo parere del 16 ottobre 2014, ha constatato che il motivo unico sollevato dinanzi al Conseil du contentieux des étrangers (Commissione belga per il contenzioso in materia di stranieri) non era basato sulla violazione né degli articoli 41 e 51 della Carta, né dei principi generali del diritto del rispetto dei diritti della difesa e del contraddittorio, né del diritto di essere sentito («audi alteram partem»). Tenuto conto dei requisiti imposti dal diritto processuale belga a tal riguardo, il parere dell’Auditeur conclude che il sig. Bensada Benallal non è legittimato a far valere, per la prima volta dinanzi al giudice del rinvio, in un procedimento per cassazione, la violazione di tali disposizioni e principi generali del diritto, in quanto questi ultimi non sono di ordine pubblico.
18      Nella sua memoria depositata a seguito di tale parere, il sig. Bensada Benallal afferma che il motivo attinente alla violazione di diritti fondamentali riveste carattere di ordine pubblico, in quanto risulta dall’articolo 41 della Carta e dalla giurisprudenza della Corte che il diritto di essere sentito costituisce la trasposizione del principio generale del diritto dell’Unione del rispetto dei diritti della difesa, la cui violazione può essere rilevata d’ufficio.
19      Il giudice del rinvio constata che il motivo dedotto dal sig. Bensada Benallal, per la parte in cui è basato sulla violazione del diritto di essere sentito di cui all’articolo 41 della Carta, non era stato da questi dedotto dinanzi al Conseil du contentieux des étrangers (Commissione belga per il contenzioso in materia di stranieri). Orbene, in conformità al diritto belga, la ricevibilità di un siffatto motivo può essere ammessa per la prima volta dinanzi al giudice di cassazione soltanto se si tratta di un motivo di ordine pubblico.
20      In tale contesto, il Conseil d’État (Consiglio di Stato) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:
«Se il principio generale del diritto dell’Unione europea che sancisce il rispetto dei diritti della difesa, fra cui il diritto di una persona a essere sentita da un’autorità nazionale prima dell’adozione, da parte di tale autorità, di qualsiasi decisione che possa incidere negativamente sugli interessi di detta persona, quale una decisione che ponga fine alla sua autorizzazione di soggiorno, rivesta nell’ordinamento giuridico dell’Unione europea un’importanza equivalente a quella delle disposizioni di ordine pubblico di diritto belga nell’ordinamento nazionale, e se il principio di equivalenza postuli che un motivo basato sulla violazione del principio generale del diritto dell’Unione europea che sancisce il rispetto dei diritti della difesa possa essere sollevato per la prima volta dinanzi al Conseil d’État, in un procedimento per cassazione, com’è consentito nell’ordinamento nazionale per i motivi di ordine pubblico».
 Sulla questione pregiudiziale
21      Con la sua questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se il diritto dell’Unione debba essere interpretato nel senso che, quando, conformemente al diritto nazionale applicabile, un motivo attinente alla violazione del diritto nazionale sollevato per la prima volta dinanzi al giudice nazionale, in un procedimento per cassazione, è ricevibile solo se si tratta di un motivo di ordine pubblico, un motivo attinente alla violazione del diritto di essere sentito, come garantito dal diritto dell’Unione, sollevato per la prima volta dinanzi a tale giudice, deve essere dichiarato ricevibile.
22      Per rispondere a tale questione, si deve innanzitutto rilevare che, come si evince dalla decisione di rinvio, la situazione di fatto all’origine della controversia del procedimento principale rientra nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, segnatamente quello della direttiva 2004/38. Infatti, quest’ultima riguarda, tra l’altro, le modalità di esercizio del diritto di libera circolazione e soggiorno nel territorio degli Stati membri da parte dei cittadini dell’Unione nonché le limitazioni dei suddetti diritti per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica. Tale direttiva si applica a qualsiasi cittadino dell’Unione che si rechi o soggiorni in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza.
23      Se è vero che la suddetta direttiva prevede un certo numero di norme che gli Stati membri devono rispettare per un’eventuale limitazione del diritto di soggiorno di un cittadino dell’Unione, ossia, in particolare, quelle di cui agli articoli 30 e 31, essa non contiene, invece, disposizioni riguardanti le modalità che disciplinano le procedure amministrative e giurisdizionali relative a una decisione che pone fine al permesso di soggiorno di un cittadino dell’Unione.
24      Al riguardo, occorre ricordare che, conformemente alla giurisprudenza costante della Corte, in mancanza di norme dell’Unione in materia, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilirle, in forza del principio di autonomia procedurale, a condizione, tuttavia, che esse non siano meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e che non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività) (sentenza del 24 gennaio 2016, Eturas e a., C‑74/14, EU:C:2016:42, punto 32 e giurisprudenza ivi citata).
25      Ne consegue che due condizioni cumulative, vale a dire il rispetto dei principi di equivalenza e di effettività, devono essere rispettate affinché uno Stato membro possa far valere il principio dell’autonomia processuale in casi disciplinati dal diritto dell’Unione.
26      Nella fattispecie e come osserva il giudice del rinvio, il motivo di cassazione dedotto dal sig. Bensada Benallal, attinente a una violazione del diritto di essere sentito dall’autorità nazionale che ha adottato la decisione che gli arreca pregiudizio, come garantito dal diritto dell’Unione, collide, sotto il profilo della sua ricevibilità, con le norme di diritto processuale nazionale relative ai motivi che possono essere sollevati per la prima volta in cassazione.
27      Come emerge dal punto 24 della presente sentenza, il diritto dell’Unione, in linea di principio, non osta a che gli Stati membri, conformemente al principio dell’autonomia processuale, limitino o subordino a condizioni i motivi che possono essere dedotti nei procedimenti per cassazione, purché siano rispettati i principi di effettività e di equivalenza.
28      Come sottolineato dall’avvocato generale ai paragrafi 41 e 42 delle sue conclusioni, nel procedimento principale si pone la questione collegata al rispetto non già del principio di effettività, bensì esclusivamente del principio di equivalenza.
29      Si deve ricordare che, secondo una giurisprudenza costante della Corte, il principio di equivalenza presuppone che la norma nazionale controversa si applichi indifferentemente ai ricorsi fondati sui diritti che i singoli traggono dal diritto dell’Unione e a quelli fondati sull’inosservanza del diritto interno aventi un oggetto e una causa analoghi (sentenza del 27 giugno 2013, Agrokonsulting-04, C‑93/12, EU:C:2013:432, punto 39). Il rispetto di tale principio presuppone un pari trattamento dei ricorsi basati su una violazione del diritto nazionale e di quelli, analoghi, basati su una violazione del diritto dell’Unione (sentenza del 6 ottobre 2015, Târșia, C‑69/14, EU:C:2015:662, punto 34).
30      Applicata a una situazione come quella oggetto del procedimento principale, la condizione legata al rispetto di tale principio di equivalenza esige dunque che, quando le disposizioni del diritto nazionale relative alle modalità procedurali in materia di ricorsi per cassazione impongono a un giudice che statuisce in cassazione l’obbligo di accogliere o sollevare d’ufficio un motivo fondato sulla violazione del diritto nazionale, tale medesimo obbligo deve prevalere allo stesso modo relativamente a un motivo della stessa natura vertente sulla violazione del diritto dell’Unione.
31      Di conseguenza, qualora un giudice nazionale che statuisce in cassazione consideri il motivo attinente all’inosservanza del diritto di essere sentito come un motivo di ordine pubblico interno che può essere sollevato per la prima volta dinanzi ad esso nell’ambito di un contenzioso disciplinato dal diritto nazionale, il principio di equivalenza impone che, nell’ambito del medesimo contenzioso, un motivo analogo attinente a una violazione del diritto dell’Unione possa parimenti essere sollevato per la prima volta dinanzi a tale medesimo giudice nel procedimento per cassazione.
32      Nel caso di specie, non risulta chiaramente dalla decisione di rinvio che il diritto di essere sentito, come garantito dal diritto belga, costituisca, di per sé, un principio generale del diritto belga derivante, a tale titolo, dall’ordine pubblico interno di tale Stato membro. Tuttavia, il giudice del rinvio precisa a tal riguardo che le disposizioni di ordine pubblico sono quelle che rivestono un’importanza fondamentale nell’ordinamento giuridico belga, come le disposizioni relative alla competenza delle autorità amministrative, alla competenza delle autorità giurisdizionali e al rispetto dei diritti della difesa o ancora quelle riguardanti altri diritti fondamentali.
33      A tal riguardo, per consentire al giudice del rinvio di stabilire se il motivo attinente alla violazione del diritto di essere sentito nel diritto dell’Unione abbia la stessa natura di un motivo attinente alla violazione di un tale diritto nell’ordinamento giuridico belga, va ricordato che, come dichiarato dalla Corte nella sua sentenza del 9 giugno 2005, Spagna/Commissione (C‑287/02, EU:C:2005:368, punto 37 e giurisprudenza ivi citata), il rispetto dei diritti della difesa in ogni procedimento avviato a carico di una persona e in grado di concludersi con un atto arrecante pregiudizio costituisce un principio fondamentale del diritto dell’Unione che dev’essere garantito anche in assenza di una normativa specifica riguardante il procedimento. Tale principio impone che i destinatari di decisioni che pregiudichino in maniera sensibile i loro interessi siano messi in condizione di far conoscere utilmente il proprio punto di vista.
34      Spetta al giudice nazionale competente esaminare se la condizione relativa al principio di equivalenza sussista nella controversia sulla quale è chiamato a pronunciarsi. Per quanto concerne, più in particolare, il procedimento principale, esso è tenuto a stabilire se il diritto di essere sentito, come garantito dal diritto interno, soddisfi le condizioni previste dal diritto nazionale per essere qualificato come motivo di ordine pubblico.
35      Pertanto, si deve rispondere alla questione sollevata dichiarando che il diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso che, quando, conformemente al diritto nazionale applicabile, un motivo attinente alla violazione del diritto interno sollevato per la prima volta dinanzi al giudice nazionale, in un procedimento per cassazione, è ricevibile solo se si tratta di un motivo di ordine pubblico, un motivo attinente alla violazione del diritto di essere sentito, come garantito dal diritto dell’Unione, sollevato per la prima volta dinanzi al medesimo giudice, deve essere dichiarato ricevibile se tale diritto, come garantito dall’ordinamento nazionale, soddisfa le condizioni previste da detto ordinamento per essere qualificato come motivo di ordine pubblico, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.
 Sulle spese
36      Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara:
Il diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso che, quando, conformemente al diritto nazionale applicabile, un motivo attinente alla violazione del diritto interno sollevato per la prima volta dinanzi al giudice nazionale, in un procedimento per cassazione, è ricevibile solo se si tratta di un motivo di ordine pubblico, un motivo attinente alla violazione del diritto di essere sentito, come garantito dal diritto dell’Unione, sollevato per la prima volta dinanzi al medesimo giudice, deve essere dichiarato ricevibile se tale diritto, come garantito dall’ordinamento nazionale, soddisfa le condizioni previste da detto ordinamento per essere qualificato come motivo di ordine pubblico, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.
Dal sito http://curia.europa.eu




Responsabilità della pubblica amministrazione


Cass. 22 marzo 2016, n. 5621


In ipotesi di domanda di risarcimento dei danni che si assumono prodotti dall’esercizio, ovvero dal mancato o ritardato esercizio di poteri amministrativi, occorre che il danneggiato provi l’imputabilità del fatto dell’amministrazione a titolo di dolo o di colpa, e non è consentito desumere la responsabilità di questa dalla sola illegittimità del provvedimento, positivo o negativo.

Allorché sia dedotta la responsabilità dell’amministrazione per il tardivo rilascio di una autorizzazione amministrativa, avvenuto dopo l’annullamento per violazione di legge di uno o più provvedimenti di diniego, intervenuti a distanza di anni dall’istanza originaria, la sussistenza, ab initio, dei presupposti per l’ottenimento del provvedimento può risultare dal fatto oggettivo del suo stesso rilascio, infine avvenuto sulla base della situazione originariamente sussistente.

Non possono essere considerati elementi sufficienti ad escludere l’elemento soggettivo della responsabilità quanto meno colposa dell’amministrazione per il ritardo, né l’avvenuto annullamento, in sede di controllo amministrativo, di atti regolamentari generali dello stesso ente disciplinanti la materia oggetto dell’autorizzazione, gravando comunque sull’amministrazione l’obbligo di organizzare la propria attività in modo da garantire la sussistenza dei presupposti per il tempestivo esame delle legittime istanze dei privati, né la sussistenza di un potenziale e controverso elemento impeditivo al rilascio dell’autorizzazione, laddove il relativo diniego, fondato esclusivamente su tale elemento impeditivo, sia stato giudicato illegittimo in sede di giurisdizione amministrativa.  Dovrà quindi verificare, sulla base di tali presupposti, se nel caso di specie risulti davvero giustificato da specifiche circostanze concretamente impeditive il ritardo di circa diciassette anni nell’adozione del provvedimento di autorizzazione, considerando l’amministrazione stessa responsabile della dilatazione dei tempi dell’istruttoria dovuta all’adozione di provvedimenti illegittimi, successivamente annullati, a meno che risultino fatti positivamente accertati tali da escludere ogni possibile rimprovero ad essa, anche sotto il profilo della colpa generica, ovvero siano dedotte e provate cause di giustificazione.

lunedì 21 marzo 2016





Rappresentanza di genere nelle giunte comunali

Tar Veneto 14 marzo 2016, n. 286

All’indomani dell’entrata in vigore dell’art. 1, c. 137, della l. 56/2014 - a tenore del quale, nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento, con arrotondamento aritmetico - tutti gli atti adottati nella vigenza di quest’ultimo trovano in tale norma un ineludibile parametro di legittimità, non essendo ragionevole una sua interpretazione che leghi la sua concreta vigenza alla data delle elezioni ovvero che condizioni unicamente le nomine assessorili all’indomani delle elezioni, atteso che una simile interpretazione consentirebbe un facile aggiramento della suddetta prescrizione, nella misura in cui il rispetto della percentuale assicurato dai provvedimenti di nomina immediatamente successivi alle elezioni potrebbe essere posto nel nulla da successivi provvedimenti sindacali di revoca e nomina, atti a sovvertire la suddetta percentuale [in base al principio, il Tar ha annullato il decreto sindacale, per effetto del quale la Giunta comunale risulta(va) formata da sei componenti (Sindaco compreso) di cui uno soltanto donna, ricordando che, come precisato dal Ministero dell’Interno con nota in data 24 aprile 2014, nel computo della percentuale di cui alla novella del 2014,, va considerato anche il Sindaco in quanto componente di diritto della Giunta comunale]


Premesso che:
- con atto di ricorso (n.r.g. 307/15) notificato a mezzo posta il 9 febbraio 2015 e depositato il successivo 6 marzo, la sig.ra G.V., in qualità di consigliere comunale del Comune di Z., e la sig.ra S.B.A., in qualità di cittadina di sesso femminile iscritta nelle liste elettorali del medesimo Comune, hanno adito l’intestato Tribunale per chiedere l’annullamento del decreto n. 50 del 27 novembre 2014 di nomina degli assessori C.P. e G.M., in sostituzione degli assessori M.Z. e G.V. precedentemente revocati, deducendo avverso detto provvedimento la violazione dell’art. 1, comma 137, della legge 7 aprile 2014, n. 56 (cd. legge Delrio), a tenore del quale “Nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento, con arrotondamento aritmetico”.
Considerato, in via preliminare, che:
- deve essere respinta l’eccezione in rito con la quale si contesta la legittimazione attiva della sig.ra G.V. in qualità di consigliere comunale del Comune resistente, trattandosi di soggetto potenzialmente idoneo ad assumere la carica di assessore;
- deve, altresì, essere rigettata l’eccezione in rito con la quale si contesta la legittimazione attiva della sig.ra S.B.A. in qualità di cittadina iscritta nelle liste elettorali del Comune resistente, atteso che la legittimazione all’impugnazione degli atti di nomina della Giunta comunale non è circoscritta ai soli componenti dell’organo consiliare, ma deve riconoscersi anche a ciascun cittadino elettore, in quanto soggetto potenzialmente aspirante ad assumere la carica di assessore, seppur non eletto nel Consiglio comunale (cfr., in tal senso T.A.R. Lazio, sez. II, 25 luglio 2011, n. 6673; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II bis, 21 gennaio 2013, n. 633);
- sempre in via preliminare si ritiene di poter prescindere dall’esaminare l’eccezione di irricevibilità per tardività dell’impugnazione proposta avverso l’originario provvedimento di formazione della Giunta regionale, trattandosi di atto che non assume alcuna rilevanza ai fini della presente controversia, in quanto emanato prima dell’entrata in vigore della legge c.d. Delrio.
Ritenuto, nel merito, che:
- per condivisibile orientamento giurisprudenziale, dal quale il Collegio non ritiene di doversi discostare, all’indomani dell’entrata in vigore del succitato art. 1, comma 137, della legge 7 aprile 2014, n. 56 - a tenore del quale, si ribadisce, nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento, con arrotondamento aritmetico - “tutti gli atti adottati nella vigenza di quest’ultimo trovano in tale norma un ineludibile parametro di legittimità, non essendo ragionevole una sua interpretazione – sottesa alle difese comunali – che leghi la sua concreta vigenza alla data delle elezioni ovvero che condizioni unicamente le nomine assessorili all’indomani delle elezioni”, atteso che “una simile interpretazione consentirebbe un facile aggiramento della suddetta prescrizione, nella misura in cui il rispetto della percentuale assicurato dai provvedimenti di nomina immediatamente successivi alle elezioni potrebbe essere posto nel nulla da successivi provvedimenti sindacali di revoca e nomina, atti a sovvertire la suddetta percentuale” (cfr., in detti termini, T.A.R. Sardegna, Cagliari, sez. II, 24 novembre 2015, n. 1145);
- per effetto dell’impugnato decreto sindacale n. 50 del 27 novembre 2014, la Giunta comunale del Comune resistente risulta composta in violazione della percentuale minima spettante al genere femminile, in quanto formata da sei componenti (Sindaco compreso) di cui uno soltanto donna;
- come precisato dal Ministero dell’Interno con nota in data 24 aprile 2014, nel computo della percentuale di cui al menzionato art. 1, comma 137, della legge 7 aprile 2014, n. 56, va considerato anche il Sindaco in quanto componente di diritto della Giunta comunale;
- per quanto precede, il ricorso deve essere accolto siccome fondato.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Prima) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, annulla il decreto del Sindaco del Comune di Z. n. 50 del 27 novembre 2014, prot. n. 14/21073.
Condanna il Comune di Z. al pagamento in favore di parte ricorrente delle spese di lite, che si liquidano in complessivi € 2000,00 (duemila/00) oltre oneri ed accessori come per legge. Spese compensate per il contro interessato non costituito.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

venerdì 18 marzo 2016





Procedure concorsuali e (data di maturazione dei) requisiti per l’ammissione al concorso

Cons. di Stato, III, 11 marzo 2016

L’art. 2, c. 7. del d.P.R. 487/1994, Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi – ai sensi del quale “i requisiti prescritti devono essere posseduti alla data di scadenza del termine stabilito nel bando di concorso per la presentazione della domanda di ammissione” – costituisce espressione di un principio generale, strettamente connesso ai principi di imparzialità dell’amministrazione e di parità di trattamento dei candidati [precisa  il Collegio che “in coerenza col favor partecipationis nelle procedure di selezione pubbliche, la regola della necessità del possesso dei requisiti alla data di scadenza del termine per la presentazione delle domande comporta di per sé la trasparenza della determinazione amministrativa e la parità di trattamento di chi faccia parte della categoria di persone che possa partecipare alla selezione”, mentre “la determinazione di una data diversa - non coincidente con quella di scadenza del termine per la presentazione delle domande - implica di per sé il concreto rischio che possano esservi vantaggi solo per alcuni degli appartenenti della categoria, con esclusione degli altri e, dunque, ingiustificate disparità di trattamento”]

Il principio della maturazione dei requisiti alla data di scadenza della presentazione della domanda – a parte i casi espressamente previsti da una disposizione normativa - può essere derogato solo ove vi siano specifiche e comprovate ragioni di interesse pubblico, ad esempio quando si tratti di dare una ragionata esecuzione a statuizioni dei giudici ovvero qualora vi sia l’esigenza di rispettare una successione cronologica tra procedimenti collegati, o di salvaguardare posizioni legittimamente acquisite dai soggetti interessati a concorsi interni.


FATTO e DIRITTO
1. L’odierna appellante, iscritta all'Albo Nazionale dei Segretari Comunali e Provinciali nella fascia C, ha impugnato dinanzi al TAR del Lazio il bando del corso di specializzazione Spe.S. 2014 e lo schema di domanda allegato, nella parte in cui essi hanno previsto come requisito di ammissione una anzianità di servizio nella fascia di appartenenza di due anni, maturata alla data del 31 agosto 2014, anziché alla data del 4 dicembre 2014, stabilita per la presentazione delle domande.
2. Infatti, ove il bando avesse previsto che il requisito dei due anni di anzianità doveva essere posseduto alla data di scadenza del termine di presentazione della domanda, ella avrebbe potuto senz’altro partecipare alla selezione per l’ammissione al corso.
3. Il TAR del Lazio ha disposto la partecipazione con riserva al corso di specializzazione, poiché in sede cautelare ha dapprima emesso un decreto monocratico (n. 5939/2014) e poi ha emesso una ordinanza collegiale (n. 6642/2014), che hanno ravvisato i relativi presupposti.
Con la sentenza appellata n. 97/2016, il TAR ha poi respinto il ricorso, affermando, in sintesi, che:
(a) - la contestata previsione del bando non violerebbe l’art. 2, comma 7, del d.P.R. 487/1994, trattandosi non dell’ammissione ad un concorso pubblico, ma dell’accesso ad un corso di specializzazione riservato ai segretari comunali;
(b) - anche a voler ritenere che il principio generale espresso dalla citata disposizione sia applicabile, esso non precluderebbe all’Amministrazione, nell’esercizio di una non arbitraria potestà discrezionale e specialmente nel caso di concorsi riservati a determinate categorie di dipendenti, di stabilire un termine diverso, non successivo, ma anteriore a quello per la presentazione della domanda (cfr. Cons. Stato, IV, n. 6536/2008 e n. 2798/2005);
(c) – la individuazione della data rilevante per il possesso del requisito della anzianità di due anni è maturata nell’àmbito di un articolato procedimento, che ha visto l’impulso del Consiglio direttivo dell’Albo nazionale dei segretari comunali e provinciali, la calendarizzazione dei corsi con assenso delle organizzazioni sindacali, la presa d’atto della ripartizione delle risorse stanziate dalla legge di bilancio per il 2014, il parere favorevole della conferenza Stato-città ed autonomie locali, sicché non sarebbero configurabili vizi logici, né corrispondenti censure sarebbero state prospettate dalla ricorrente;
(d) – anche se per il precedente analogo corso Se.F.A. 2013 CC era stato richiesto il possesso dei requisiti alla data di scadenza del termine di presentazione della domanda, una tale determinazione non vincolava l’Amministrazione, in quanto, in assenza di dimostrazioni di segno opposto, tale scelta ben potrebbe essere giustificata dalla diverse situazioni contingenti cui i corsi, di anno in anno, fanno fronte (cfr. Cons. Stato, I, n. 818/2015).
4. A seguito del deposito della sentenza di primo grado, il Ministero dell’Interno - con un provvedimento in data 14 gennaio 2016 - in prossimità del loro svolgimento ha escluso l’appellante dagli esami finali del corso di specializzazione.
5. Con l’appello in esame, l’interessata ha chiesto che, in riforma della sentenza impugnata, il ricorso di primo grado sia accolto.
Ella ha riproposte le censure proposte col ricorso originario, formulando critiche alle argomentazioni del TAR e deducendo che l’art. 2, comma 7, del d.P.R. 487/1994 trova applicazione alla procedura: anche se il principio che la disposizione esprime non è in sé inderogabile, per il concorso in questione in concreto non si possono ravvisare - come non vi erano per il corso analogo del 2013, e comunque non sono state indicate - esigenze di interesse pubblico che possano giustificare una deroga.
6. Il Ministero dell’interno si è costituito in giudizio, chiedendo che l’appello sia respinto.
7. Ritiene la Sezione che l’appello è fondato e deve pertanto essere accolto.
7.1. Occorre anzitutto precisare, in relazione ad un aspetto adombrato nella sentenza di primo grado, che rispetto all’impugnazione della contestata ‘clausola escludente’ del bando non possono essere ravvisati controinteressati.
Neppure la necessità di integrare il contraddittorio può ritenersi sopravvenuta nel corso di giudizio, in quanto la selezione non si è conclusa con la graduatoria conclusiva, sicché per i candidati ammessi non è configurabile una situazione giuridica di vantaggio suscettibile di essere lesa dall’ulteriore ammissione che discenderebbe dall’accoglimento del ricorso.
7.2. La Sezione è consapevole del fatto che analoghi ricorsi di altri interessati sono stati ritenuti infondati da questo Consiglio (Sez. I, 16 ottobre 2015, n. 2789; Sez. I, 23 luglio 2015, n. 2154; sez. I, 22 luglio 2015, n. 2133; Sez. I, 9 luglio 2015, n. 2028).
La precedente giurisprudenza – con la quale risulta coerente la sentenza del TAR appellata in questa sede - ha ritenuto che per la selezione in questione non sarebbe applicabile l’art. 2, comma 7, del d.P.R. 487/1994 e che l’individuazione della data ‘rilevante’ (di maturazione del requisito del biennio di anzianità) sarebbe stata giustificata in ragione dell’articolazione che ha avuto il relativo procedimento.
7.3. Ad un più maturo esame, ritiene la Sezione che le deduzioni dell’appellante siano fondate.
Quanto all’art. 2, comma 7, del d.P.R. 487/1994 (per il quale «i requisiti prescritti devono essere posseduti alla data di scadenza del termine stabilito nel bando di concorso per la presentazione della domanda di ammissione»), è ben vero che esso testualmente riguarda l’«accesso» agli impieghi civili delle pubbliche Amministrazioni, e dunque non anche la selezione indetta dal Ministero dell’Interno per la scuola di specializzazione de qua (in quanto il superamento del corso di specializzazione in questione, ai sensi dell’art. 14 del d.P.R. 465/1997 e del c.c.n.l. del 16 maggio 2001, costituisce un requisito di idoneità per l’inserimento nella fascia professionale superiore).
Tuttavia, si deve ritenere che tale disposizione costituisce espressione di un principio generale, strettamente connesso ai principi di imparzialità dell’amministrazione e di parità di trattamento dei candidati.
Infatti, in coerenza col favor partecipationis nelle procedure di selezione pubbliche, la regola della necessità del possesso dei requisiti alla data di scadenza del termine per la presentazione delle domande comporta di per sé la trasparenza della determinazione amministrativa e la parità di trattamento di chi faccia parte della categoria di persone che possa partecipare alla selezione.
La determinazione di una data diversa - non coincidente con quella di scadenza del termine per la presentazione delle domande - implica di per sé il concreto rischio che possano esservi vantaggi solo per alcuni degli appartenenti della categoria, con esclusione degli altri e, dunque, ingiustificate disparità di trattamento.
Questa Sezione ritiene che il principio della maturazione dei requisiti alla data di scadenza della presentazione della domanda – a parte i casi espressamente previsti da una disposizione normativa - può essere derogato solo ove vi siano specifiche e comprovate ragioni di interesse pubblico, ad esempio quando si tratti di dare una ragionata esecuzione a statuizioni dei giudici ovvero qualora vi sia l’esigenza di rispettare una successione cronologica tra procedimenti collegati, o di salvaguardare posizioni legittimamente acquisite dai soggetti interessati a concorsi interni.
Così è stato nei casi oggetto delle due sentenze di questo Consiglio richiamate dal TAR (concernenti vicende nelle quali si è ritenuto che la fissazione di una data antecedente alla scadenza del bando trovasse una non illogica giustificazione, rispettivamente, nel rispetto della cadenza delle procedure di riqualificazione stabilita mediante accordi sindacali, e nel collegamento tra l’individuazione delle dotazioni organiche in sede di riorganizzazione e le situazioni di servizio del personale aspirante all’immissione nelle superiori posizioni attraverso una procedura riservata per titoli).
7.4. La sentenza appellata, in sostanza, al di là dei dubbi sull’applicabilità del principio, mostra di condividerlo, ma poi finisce col postulare nel caso in esame l’esistenza di esigenze tali da giustificare la fissazione, per il possesso dei requisiti di partecipazione, di una data anticipata rispetto a quella di scadenza del bando.
La Sezione ritiene viceversa che nel caso in esame esigenze di questo tipo non siano riscontrabili, e, comunque, non siano state esternate dall’Amministrazione.
Neppure rilevano le peculiarità delle fasi del procedimento che ha preceduto l’indizione del bando di selezione.
In primo luogo, si deve ritenere che - per rendere trasparente la determinazione concernente l’individuazione della data ‘rilevante’ - non può essere considerato sufficiente il fatto che sia stato acquisito un parere: il richiamo ad esso per relationem non può essere considerato sufficiente, poiché questo, a sua volta, nell’indicare la data ‘rilevante’ non ha evidenziato le relative ragioni giustificative di interesse pubblico.
Anzi, può evidenziarsi che l’unica esplicita considerazione, evidenziata nel corso del procedimento riguardo al termine di maturazione dei requisiti, risulta di segno contrario alla tesi accolta dal TAR, avendo il Consiglio Direttivo dell’Albo, nella seduta del 10 giugno 2014, proposto lo spostamento al 31 agosto 2014 della data in questione (originariamente stabilita al 30 maggio 2014, e quindi all’epoca già decorsa), proprio «al fine di venire incontro alle aspettative degli istanti» dopo aver sottolineato che «comunque, il requisito deve essere posseduto prima dell’inizio del corso».
D’altra parte, neppure sono state esternate le ragioni per le quali si è inteso seguire un decisivo criterio, ben diverso da quello applicato per l’ammissione all’analogo corso di specializzazione per l’anno precedente: pur se la prassi non fa nascere una regola, l’Amministrazione quanto meno deve indicare le ragioni che la inducono a non seguirla, specie quando, come è avvenuto nella specie, si tratta di incidere su posizioni di candidati il cui trattamento deve essere ispirato alla parità di trattamento.
8. Dall’accoglimento dell’appello discende, in riforma della sentenza appellata, l’accoglimento del ricorso di primo grado, con annullamento della previsione del bando impugnata e le conseguenti ammissione dell’appellante al corso in questione (non essendo contestato che ella ha maturato il requisito del biennio alla data di scadenza del termine di presentazione delle domande) e la caducazione del provvedimento di esclusione sopravvenuto.
9. Considerata la novità di alcuni aspetti della questione, le spese dei due gradi di giudizio possono essere compensate tra le parti.
L’Amministrazione appellata dovrà rimborsare all’appellante il contributo unificato che ha anticipato per la proposizione dei gravami, ai sensi dell’art. 13, comma 6-bis. 1., del d.P.R. 115/2002.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), accoglie l’appello in epigrafe n. 595 del 2015 e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, accoglie il ricorso di primo grado ed annulla la previsione del bando , nei sensi indicati in motivazione, con conseguente caducazione del provvedimento di esclusione sopravvenuto.
Spese compensate dei due gradi del giudizio.
Dispone che il Ministero dell’Interno rimborsi all’appellata quanto effettivamente versato a titolo di contributo unificato.