mercoledì 29 marzo 2017



Decreto Presidente del Consiglio dei Ministri 12 gennaio 2017 (G.U. 18 marzo 2017, n. 65 – S.O. n. 15), Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, di cui all'articolo 1, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 [stralcio: artt. 61-63]


Art. 61                        
Assistenza sanitaria all'estero

1.  Il  Servizio  sanitario   nazionale   garantisce   l'assistenza sanitaria, in forma diretta, agli assistiti in  temporaneo  soggiorno negli Stati della UE e dell'area EFTA (Svizzera,  Norvegia,  Islanda, Liechtenstein) nonché negli Stati con i quali sono in vigore accordi bilaterali in materia di sicurezza sociale. L'assistenza  é  erogata alle medesime condizioni previste per  i  cittadini  dello  Stato  di soggiorno nei limiti e con le modalità fissate dai Regolamenti CE n. 883/2004 e n. 987/2009 o  dalle  convenzioni  stipulate  dallo  Stato italiano  e  dalla  normativa  nazionale  o  e  regionale  attuativa. L'assistenza sanitaria in forma diretta é  altresì  garantita  agli assistiti italiani del SSN residenti in uno Stato UE, dell'area  EFTA o in un Paese in convenzione, nei limiti e con le  modalità  fissate dai regolamenti CE n. 883/2004 e  n.  987/2009  o  dalle  convenzioni stipulate dallo Stato italiano.   

2. Ai sensi dei regolamenti CE n. 883/2004 e n.  987/2009  e  della normativa nazionale e  regionale  attuativa,  il  Servizio  sanitario nazionale  garantisce  agli  assistiti  obbligatoriamente   iscritti, previa autorizzazione dell'azienda  sanitaria  locale  di  residenza, l'erogazione, in forma diretta, negli Stati della UE, dell'area  EFTA e, ove previsto, negli Stati con i quali sono in  vigore  accordi  di sicurezza sociale, l'erogazione delle prestazioni incluse nei livelli essenziali di assistenza se le prestazioni stesse non possono  essere erogate in Italia entro  un  lasso  di  tempo  accettabile  sotto  il profilo medico, tenuto conto dello stato di salute  dell'assistito  e della probabile evoluzione della sua malattia. La medesima tutela, in forma diretta, é prevista, nei limiti e con le modalità fissate dai regolamenti CE n. 883/2004 e n. 987/2009, agli assistiti italiani del SSN residenti in un Paese UE e dell'area EFTA, previa  autorizzazione rilasciata dalla  Istituzione  competente  del  Paese  di  residenza, sentita l'azienda sanitaria locale di ultima residenza in Italia.   

3. Ai sensi della direttiva 2011/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio  e  del  decreto  legislativo  4  marzo  2014,  n.  38,  di attuazione della direttiva stessa, il  Servizio  sanitario  nazionale garantisce agli assistiti il rimborso delle spese  sostenute  per  le prestazioni sanitarie incluse nei livelli essenziali  di  assistenza, fruite  negli  Stati  della  UE  fino  a  concorrenza  delle  tariffe regionali vigenti per le prestazioni stesse,  nei  limiti  e  con  le modalità fissate  dal  decreto  legislativo  citato  e  delle  norme nazionali e regionali attuative.   

4. Ai sensi dell'art. 3 della legge 23 ottobre  1985,  n.  595,  il Servizio  sanitario  nazionale  garantisce,  in  via  di   eccezione, l'assistenza  sanitaria  all'estero,   preventivamente   autorizzata, limitatamente alle prestazioni di altissima specializzazione  incluse nelle aree di attività di cui ai livelli essenziali  di  assistenza, che non  siano  ottenibili  in  Italia  tempestivamente  o  in  forma adeguata alla particolarità del caso clinico, nelle forme e  con  le modalità stabilite dalle regioni e dalle province autonome.  A  tale scopo, si applicano le previsioni del decreto ministeriale 3 novembre 1989 «Criteri per la fruizione di prestazioni assistenziali in  forma indiretta presso centri  di  altissima  specializzazione  all'estero» (pubblicato nella G. U. n. 273 del 22 novembre  1989),  e  successive modificazioni, di seguito indicato come «decreto ministeriale»,  come modificato dai seguenti commi 5, 6 e 7.   

5. Il comma 4 dell'art. 2 del decreto  ministeriale  é  sostituito dal seguente: «É considerata «prestazione non  ottenibile  in  forma adeguata  alla  particolarità  del  caso  clinico»  la   prestazione garantita ai propri assistiti dall'autorità sanitaria nazionale  del Paese   nel   quale   é   effettuata   che    richiede    specifiche professionalità ovvero procedure tecniche o curative non  praticate, ma ritenute, in base alla letteratura scientifica internazionale,  di efficacia superiore alle procedure tecniche o curative  praticate  in Italia ovvero realizzate mediante attrezzature piu' idonee di  quelle presenti  nelle  strutture  italiane  pubbliche  o  accreditate   dal servizio sanitario nazionale.»   

6. Il comma 1 dell'art. 5 del decreto  ministeriale  é  sostituito dal seguente: «Ai fini  del  presente  decreto,  é  da  considerarsi centro di altissima specializzazione, la struttura  estera,  nota  in Italia, e riconosciuta nell'ambito del sistema sanitario del Paese in cui opera come idonea ad erogare prestazioni agli assistiti con oneri a carico del  sistema  sanitario  nazionale,  che  sia  in  grado  di assicurare prestazioni sanitarie di altissima specializzazione e  che possegga  caratteristiche  superiori  agli   standards,   criteri   e definizioni propri dell'ordinamento italiano.»   

7. Sono  confermate  le  previsioni  del  decreto  ministeriale  24 gennaio 1990 «Identificazione  delle  classi  di  patologia  e  delle prestazioni fruibili  presso  centri  di  altissima  specializzazione all'estero» (pubblicato nella G. U. n. 27  del  2  febbraio  1990)  e successive modificazioni.



Art. 62            
Cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea  iscritti al Servizio sanitario nazionale

1. Ai sensi dell'art. 34 del decreto legislativo 27 luglio 1998, n. 286 e  successive  modificazioni  e  dell'art.  42  del  decreto  del Presidente della Repubblica 31  agosto  1999,  n.  394,  il  Servizio sanitario nazionale garantisce  agli  stranieri  obbligatoriamente  o volontariamente iscritti, parità di trattamento e piena  uguaglianza di diritti e doveri rispetto ai cittadini italiani per quanto attiene all'assistenza sanitaria erogata in  Italia.  L'assistenza  sanitaria spetta altresì ai familiari a carico regolarmente soggiornanti.                                



Art. 63            

Cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea non in regola con il permesso di soggiorno


1. Ai sensi dell'art. 35 del decreto legislativo 27 luglio 1998, n. 286 e successive modifiche e integrazioni e dell'art. 43 del  decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394,  il  Servizio sanitario nazionale garantisce ai cittadini  stranieri  presenti  sul territorio  nazionale,  non  in  regola   con   le   norme   relative all'ingresso ed al soggiorno, le cure  ambulatoriali  ed  ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative,  per  malattia ed infortunio ed i programmi di medicina  preventiva  a  salvaguardia della salute individuale e collettiva. Sono  considerate  urgenti  le cure che non possono essere differite senza pericolo per  la  vita  o danno per la  salute;  sono  considerate  essenziali  le  prestazioni sanitarie, diagnostiche e  terapeutiche,  relative  a  patologie  non pericolose nell'immediato e nel  breve  termine,  ma  che  nel  tempo potrebbero determinare maggiore danno alla salute  o  rischi  per  la vita, per complicanze, cronicizzazioni o aggravamenti.   

2. Sono, in particolare, garantiti:     

a) la tutela sociale  della  gravidanza  e  della  maternità,  a parità di trattamento con le  cittadine  italiane,  ai  sensi  della legge 29 luglio 1975, n. 405 e della legge 22 maggio 1978, n. 194,  e del decreto del Ministro della sanità 6 marzo 1995, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 87 del 13 aprile 1995, a parità di trattamento con i cittadini italiani;     

b)  la  tutela  della  salute  del  minore  in  esecuzione  della Convenzione  sui  diritti  del  fanciullo  del  20   novembre   1989, ratificata e resa esecutiva ai sensi della legge 27 maggio  1991,  n. 176; 

c)  le  vaccinazioni  secondo  la  normativa  e  nell'ambito   di interventi di campagne di prevenzione  collettiva  autorizzati  dalle regioni e dalle province autonome;     

d) gli interventi di profilassi internazionale;     

e) la profilassi, la diagnosi e cura delle malattie infettive  ed eventualmente la bonifica dei relativi focolai.   

3. Secondo quanto  previsto  dall'art.  35,  comma  4,  del  citato decreto legislativo 27 luglio 1998, n. 286 e successive  modifiche  e integrazioni, le prestazioni di cui al comma  1  sono  erogate  senza oneri a carico dei richiedenti qualora privi  di  risorse  economiche sufficienti, fatte salve le quote  di  partecipazione  alla  spesa  a parità con i cittadini italiani.   

4. I minori stranieri presenti sul  territorio  nazionale,  non  in regola con le  norme  relative  all'ingresso  ed  al  soggiorno  sono iscritti   al   Servizio   sanitario   nazionale   ed    usufruiscono dell'assistenza sanitaria in condizioni di parità  con  i  cittadini italiani.   

lunedì 20 marzo 2017



Amministrazione di sostegno e matrimonio


Trib. Modena 14 febbraio 2017



L'amministratore di sostegno non è legittimato ad opporsi al matrimonio del beneficiario, salvo che tale potere non gli sia stato espressamente conferito nel decreto di nomina o in un atto successivo.


http://www.giurisprudenzamodenese.it/GM1/pagliani_2017-920.pdf

sabato 18 marzo 2017



Corte di Giustizia UE 14 marzo 2017, n. C-188/15


Rinvio pregiudiziale – Politica sociale – Direttiva 2000/78/CE – Parità di trattamento – Discriminazione basata sulla religione o sulle convinzioni personali – Requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa – Nozione – Desiderio di un cliente che le prestazioni non vengano assicurate da una dipendente che indossa un velo islamico



L’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, dev’essere interpretato nel senso che la volontà di un datore di lavoro di tener conto del desiderio di un cliente che i servizi di tale datore di lavoro non siano più assicurati da una dipendente che indossa un velo islamico non può essere considerata come un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa ai sensi di detta disposizione.


Corte di Giustizia UE 14 marzo 2017, n. C-157/15


Rinvio pregiudiziale – Politica sociale – Direttiva 2000/78/CE – Parità di trattamento – Discriminazione basata sulla religione o sulle convinzioni personali – Regolamento interno di un’impresa che vieta ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili di natura politica, filosofica o religiosa – Discriminazione diretta – Insussistenza – Discriminazione indiretta – Divieto posto ad una dipendente di indossare il velo islamico



L’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che il divieto di indossare un velo islamico, derivante da una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi di tale direttiva.

Siffatta norma interna di un’impresa privata può invece costituire una discriminazione indiretta ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78, qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro da essa previsto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, a meno che esso sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti, e che i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari, circostanza, questa, che spetta al giudice del rinvio verificare.






Corte di Giustizia UE 15 marzo 2017, n. C-528/15



Rinvio pregiudiziale – Criteri e meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale – Regolamento (UE) n. 604/2013 (Dublino III) – Articolo 28, paragrafo 2 – Trattenimento ai fini del trasferimento – Articolo 2, lettera n) – Notevole rischio di fuga – Criteri obiettivi – Assenza di definizione legale




L’articolo 2, lettera n), e l’articolo 28, paragrafo 2, del regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide, letti nel loro combinato disposto, devono essere interpretati nel senso che essi impongono agli Stati membri di fissare, in una norma vincolante di portata generale, i criteri obiettivi su cui si fondano i motivi per temere la fuga del richiedente protezione internazionale oggetto di una procedura di trasferimento. L’assenza di una norma di tal genere determina l’inapplicabilità dell’articolo 28, paragrafo 2, del regolamento medesimo.






SENTENZA DELLA CORTE (Seconda Sezione)
15 marzo 2017
Nella causa C‑528/15,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Nejvyšší správní soud (Corte suprema amministrativa, Repubblica ceca), con decisione del 24 settembre 2015, pervenuta in cancelleria il 7 ottobre 2015, nel procedimento
Policie ČR,Krajské ředitelství policie Ústeckého kraje, odbor cizinecké policie
contro
Salah Al Chodor,
Ajlin Al Chodor,
Ajvar Al Chodor,
LA CORTE (Seconda Sezione),
composta da M. Ilešič, presidente di sezione, A. Prechal (relatore), A. Rosas, C. Toader e E. Jarašiūnas, giudici,
avvocato generale: H. Saugmandsgaard Øe
cancelliere: L. Hewlett, amministratore principale
vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 14 luglio 2016,
considerate le osservazioni presentate:
–        per la Policie ČR, Krajské ředitelství policie Ústeckého kraje, odbor cizinecké policie, da D. Franc;
–        per il governo ceco, da M. Smolek, J. Vláčil e S. Šindelková, in qualità di agenti;
–        per il governo ellenico, da M. Michelogiannaki, in qualità di agente;
–        per il governo del Regno Unito, da S. Brandon, in qualità di agente, assistito da M. Gray, barrister;
–        per la Commissione europea, da M. Condou-Durande, M. Šimerdová e G. Wils, in qualità di agenti,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 10 novembre 2016,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1        La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 28, in combinato disposto con l’articolo 2, del regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide (GU 2013, L 180, pag. 31; in prosieguo: il «regolamento Dublino III»).
2        Tale domanda è stata presentata nell’ambito di un ricorso per cassazione proposto dalla Policie ČR, Krajské ředitelství Ústeckého kraje, odbor cizinecké policie (Polizia della Repubblica ceca, direzione regionale di Ústí nad Labem, dipartimento di polizia per gli stranieri; in prosieguo: la «Polizia per gli stranieri»), in merito all’annullamento da parte di un giudice di grado inferiore della decisione della Polizia per gli stranieri di disporre il trattenimento dei sigg. Salah, Ajlin e Ajvar Al Chodor (in prosieguo denominati congiuntamente “i sigg. Al Chodor”) per una durata di 30 giorni ai fini del loro trasferimento in Ungheria.
 Contesto normativo
 La CEDU
3        La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU»), all’articolo 5, intitolato «Diritto alla libertà e alla sicurezza», dispone quanto segue:
«1.      Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge:
(...)
f)      se si tratta dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento d’espulsione o d’estradizione. (...)».
 Diritto dell’Unione
 La Carta
4        A termini dell’articolo 6 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»): «[o]gni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza».
5        Ai sensi dell’articolo 52 della Carta, intitolato «Portata dei diritti garantiti»:
«1.      Eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui.
(…)
3.      Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa.
(...)».
 Il regolamento Dublino III
6        Il considerando 9 di tale regolamento così recita:
«Alla luce dei risultati delle valutazioni effettuate dell’attuazione degli strumenti della prima fase, è opportuno in questa fase ribadire i principi che ispirano il regolamento (CE) n. 343/2003 [del Consiglio, del 18 febbraio 2003, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo (GU 2003, L 50, p. 1) ] apportando i miglioramenti necessari, in vista dell’esperienza acquisita, a migliorare l’efficienza del sistema di Dublino e la protezione offerta ai richiedenti nel contesto di tale sistema. Dato che il buon funzionamento del sistema di Dublino è fondamentale per il [Sistema europeo comune di asilo (CEAS)], i suoi principi e il suo funzionamento dovrebbero essere periodicamente riesaminati parallelamente all’introduzione di altre componenti del CEAS e di altri strumenti di solidarietà dell’Unione. Dovrebbe essere previsto un “controllo di qualità” completo sotto forma di esame fattuale, che contempli gli effetti giuridici, economici e sociali del sistema di Dublino, comprese le sue ripercussioni sui diritti fondamentali».
7        A termini del successivo considerando 20:
«Il trattenimento dei richiedenti dovrebbe essere regolato in conformità del principio fondamentale per cui nessuno può essere trattenuto per il solo fatto di chiedere protezione internazionale. Il trattenimento dovrebbe essere quanto più breve possibile e dovrebbe essere soggetto ai principi di necessità e proporzionalità. In particolare, il trattenimento dei richiedenti deve essere conforme all’articolo 31 della convenzione di Ginevra. Le procedure previste dal presente regolamento con riguardo alla persona trattenuta dovrebbero essere applicate in modo prioritario, entro i termini più brevi possibili. Per quanto concerne le garanzie generali che disciplinano il trattenimento, così come le condizioni di trattenimento, gli Stati membri dovrebbero, se del caso, applicare le disposizioni del[la direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale (GU 2013, L 180, pag. 96),] anche alle persone trattenute sulla base del presente regolamento».
8        L’articolo 2 del regolamento medesimo, intitolato «Definizioni», prevede quanto segue:
«Ai fini del presente regolamento si intende per:
(...)
n)      “rischio di fuga”: la sussistenza in un caso individuale di motivi basati su criteri obiettivi definiti dalla legge per ritenere che un richiedente o un cittadino di un paese terzo o un apolide oggetto di una procedura di trasferimento possa fuggire».
9        L’articolo 28 di tale regolamento, rubricato «Trattenimento», così dispone:
«1.      Gli Stati membri non possono trattenere una persona per il solo motivo che sia oggetto della procedura stabilita dal presente regolamento.
2.      Ove sussista un rischio notevole di fuga, gli Stati membri possono trattenere l’interessato al fine di assicurare le procedure di trasferimento a norma del presente regolamento, sulla base di una valutazione caso per caso e solo se il trattenimento è proporzionale e se non possano essere applicate efficacemente altre misure alternative meno coercitive.
3.      Il trattenimento ha durata quanto più breve possibile e non supera il tempo ragionevolmente necessario agli adempimenti amministrativi previsti da espletare con la dovuta diligenza per eseguire il trasferimento a norma del presente regolamento.
(...)».
 La direttiva 2013/33
10      Ai sensi dell’articolo 8 della direttiva 2013/33 (in prosieguo: la «direttiva sull’accoglienza»):
«1.      Gli Stati membri non trattengono una persona per il solo fatto di essere un richiedente ai sensi della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale [GU 2013, L 180, pag. 60].
2.      Ove necessario e sulla base di una valutazione caso per caso, gli Stati membri possono trattenere il richiedente, salvo se non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive.
3.      Un richiedente può essere trattenuto soltanto:
(...)
f)      conformemente all’articolo 28 del regolamento [Dublino III].
I motivi di trattenimento sono specificati nel diritto nazionale.
(...)».
 Diritto ceco
11      L’articolo 129, paragrafo 1, della legge n. 326/1999, relativa al soggiorno di cittadini stranieri sul territorio della Repubblica ceca e recante modifica di altre leggi (in prosieguo: la «legge sul soggiorno di cittadini stranieri») disponeva quanto segue:
«[l]a polizia può trattenere un cittadino straniero che abbia fatto ingresso o soggiorni illegalmente nella Repubblica ceca per il periodo di tempo necessario per assicurare le procedure di trasferimento conformemente ad un accordo internazionale concluso con un altro Stato membro dell’Unione europea anteriormente al 13 gennaio 2009 ovvero in base a norme legislative delle Comunità europee direttamente applicabili».
12      All’epoca dell’adozione della decisione di rinvio, era in atto un procedimento legislativo volto ad emendare tale articolo, integrandolo con un quarto paragrafo del seguente tenore:
«La Polizia decide in merito al trattenimento di un cittadino straniero ai fini del suo trasferimento in uno Stato soggetto alla normativa direttamente applicabile dell’Unione europea solo in presenza di notevole rischio di fuga. Si considera sussistere un rischio notevole di fuga in particolare nel caso in cui il cittadino straniero abbia soggiornato illegalmente nella Repubblica ceca, o si sia già in precedenza sottratto al trasferimento in uno Stato soggetto alla normativa direttamente applicabile dell’Unione europea, ovvero abbia tentato la fuga o espresso l’intendimento di non ottemperare ad una decisione definitiva di trasferimento in uno Stato soggetto alla normativa dell’Unione europea direttamente applicabile, o se un tale intendimento risulti dal suo comportamento. Si ritiene sussistere un notevole rischio di fuga anche nel caso in cui un cittadino straniero che debba essere trasferito in uno Stato soggetto alla normativa direttamente applicabile dell’Unione europea, non direttamente confinante con la Repubblica ceca, non possa viaggiare legalmente in quello Stato in modo autonomo e non possa fornire l’indirizzo di un luogo di residenza nella Repubblica ceca».
 Controversia principale e questione pregiudiziale
13      I sigg. Al Chodor, cittadini iracheni, si recavano nella Repubblica ceca, dove venivano sottoposti, il 7 maggio 2015, ad un controllo di polizia. Non essendo stati in grado di presentare alcun documento d’identità, la Polizia per gli stranieri li sottoponeva ad interrogatorio.
14      Nel corso dell’interrogatorio dichiaravano di essere di etnia curda e che il loro villaggio era stato occupato dai combattenti dell’organizzazione terroristica «Stato islamico». I sigg. Al Chodor, passando per la Turchia, avrebbero raggiunto la Grecia e da lì avrebbero proseguito il loro viaggio in camion. In Ungheria erano stati arrestati dalla polizia, che aveva proceduto al rilevamento delle loro impronte digitali. Il sig. Salah Al Chodor dichiarava di aver firmato, in tale occasione, taluni documenti. Il giorno seguente, essi venivano condotti dalle autorità ungheresi ad una stazione ferroviaria ed indirizzati verso un campo per rifugiati. I sigg. Al Chodor avrebbero lasciato tale campo dopo due giorni per raggiungere i loro parenti in Germania.
15      Dopo aver proceduto all’arresto dei sigg. Al Chodor nella Repubblica ceca, la Polizia ceca per gli stranieri consultava la banca dati Eurodac, rilevando che i medesimi avevano presentato domanda di asilo in Ungheria.
16      La Polizia per gli stranieri riteneva che sussistesse un notevole rischio di fuga, considerato che i sigg. Al Chodor, in attesa di essere trasferiti in Ungheria, non disponevano di un permesso di soggiorno né di un alloggio nella Repubblica ceca. Inoltre, contrariamente alle norme che lo vietavano, essi avevano lasciato il campo per rifugiati in Ungheria, senza attendere la decisione sulla propria richiesta d’asilo, allo scopo di recarsi in Germania. La Polizia per gli stranieri disponeva quindi il trattenimento dei sigg. Al Chodor per un periodo di 30 giorni, in attesa del loro trasferimento in Ungheria, ai sensi dell’articolo 129, paragrafo 1, della legge sul soggiorno di cittadini stranieri, in combinato disposto con l’articolo 28, paragrafo 2, del regolamento Dublino III.
17      Avverso la decisione relativa al loro trattenimento i sigg. Al Chodor proponevano ricorso giurisdizionale. Il Krajský soud v Ústí nad Labem (Corte regionale di Ústí nad Labem, Repubblica ceca) annullava la decisione in base al rilievo che la normativa ceca non definisce criteri obiettivi ai fini della valutazione di un rischio di fuga ai sensi dell’articolo 2, lettera n), del regolamento Dublino III. Pertanto, detto giudice dichiarava il trattenimento illegittimo, richiamandosi, inoltre, a due pronunce di analogo tenore emesse da giudici di altri Stati membri, una dal Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia tedesca, Germania) (Bundesgerichtshof, 26 giugno 2014, V ZB 31/14), e l’altra dal Verwaltungsgerichtshof (Corte amministrativa, Austria) (Verwaltungsgerichtshof, 19 febbraio 2015, RO 2014/21/0075-5).
18      A seguito dell’annullamento della decisione della Polizia per gli stranieri, i sigg. Al Chodor venivano rimessi in libertà. Essi lasciavano la Repubblica ceca per una destinazione ignota.
19      Avverso la sentenza del Krajský soud v Ústí nad Labem (Corte regionale di Ústí nad Labem) la Polizia per gli stranieri proponeva ricorso per cassazione dinanzi al Nejvyšší správní soud (Corte suprema amministrativa, Repubblica ceca). A suo parere, la mera assenza, nella legislazione ceca, di criteri obiettivi ai fini della valutazione della sussistenza di un rischio di fuga non giustificherebbe tuttavia l’inapplicabilità dell’articolo 28, paragrafo 2, del regolamento Dublino III. Quest’ultima disposizione imporrebbe l’esame del rischio di fuga alla luce di tre condizioni, vale a dire, una valutazione individuale sulla base delle circostanze del caso di specie, il carattere proporzionale del trattenimento e l’impossibilità di applicare una misura meno coercitiva. La Polizia per gli stranieri avrebbe rispettato tali condizioni.
20      Il giudice del rinvio nutre dubbi sulla questione se l’articolo 28, paragrafo 2, in combinato disposto con l’articolo 2, lettera n), del regolamento Dublino III, e/o l’articolo 129, paragrafo 1, della legge sul soggiorno di cittadini stranieri costituiscano un fondamento normativo sufficiente, in assenza di criteri obiettivi nella legislazione nazionale che consentano di valutare la sussistenza di un notevole rischio di fuga.
21      In tale contesto, il giudice a quo sottolinea che le versioni linguistiche dell’articolo 2, lettera n), del regolamento Dublino III sono divergenti. Se le versioni tedesca o francese di tale disposizione richiedono che i criteri obiettivi per la valutazione del rischio di fuga siano definiti dalla legge, altre versioni linguistiche richiedono che tali criteri siano definiti «dal diritto», di modo che la portata dell’espressione «definiti dalla legge» non discenderebbe chiaramente dal testo di detta disposizione. Inoltre, il giudice del rinvio osserva che la Corte europea dei diritti dell’uomo interpreta il termine «legge» in modo ampio, nel senso che, a suo avviso, il suddetto termine non si limiterebbe alla sola legislazione, bensì comprenderebbe anche altre fonti del diritto (Corte EDU, 24 aprile 1990, Kruslin c. Francia, CE:ECHR:1990:0424JUD001180185, § 29). Nell’ambito del trattenimento di persone che soggiornino illegalmente, dalla sentenza della Corte EDU, 9 luglio 2009, Mooren c. Germania (CE:ECHR:2009:0709JUD001136403, §§ 76 e da 90 a 97) risulterebbe che occorre valutare la bontà del fondamento normativo, in particolare, in termini di chiarezza, accessibilità e prevedibilità.
22      Il giudice del rinvio si chiede, pertanto, se l’individuazione, nella propria costante giurisprudenza, di criteri obiettivi che consentano di procedere al trattenimento di persone ai sensi dell’articolo 129 della legge sul soggiorno di cittadini stranieri possa soddisfare l’esigenza che tali criteri siano definiti «dalla legge», a norma dell’articolo 2, lettera n), del regolamento Dublino III, considerato che tale giurisprudenza sancisce una prassi amministrativa costante della Polizia per gli stranieri, caratterizzata dall’assenza di elementi di arbitrarietà, dalla prevedibilità e dalla valutazione individuale caso per caso.
23      Alla luce delle suesposte considerazioni, il Nejvyšší správní soud (Corte suprema amministrativa) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:
«Se la mera circostanza che la legge non abbia definito criteri obiettivi ai fini della valutazione della sussistenza di un notevole rischio di fuga di un cittadino straniero [ai sensi dell’articolo 2, lettera n), del regolamento Dublino III] determini l’inapplicabilità del trattenimento previsto dall’articolo 28, paragrafo 2, del regolamento medesimo».
 Sulla questione pregiudiziale
24      Il giudice del rinvio chiede, sostanzialmente, se l’articolo 2, lettera n), e l’articolo 28, paragrafo 2, del regolamento Dublino III, debbano essere interpretati, nel combinato disposto, nel senso che impongano agli Stati membri di fissare nella legislazione nazionale i criteri obiettivi su cui si basano i motivi per temere la fuga del richiedente una protezione internazionale (in prosieguo: il «richiedente») oggetto di procedura di trasferimento e se l’assenza di tali criteri nella legislazione nazionale determini l’inapplicabilità dell’articolo 28, paragrafo 2, di tale regolamento.
25      Occorre ricordare, anzitutto, che il regolamento Dublino III consente, in forza del suo articolo 28, paragrafo 2, di trattenere i richiedenti al fine di assicurare le procedure di trasferimento a norma di tale regolamento, ove sussista un rischio notevole di fuga, sulla base di una valutazione caso per caso e solo qualora il trattenimento sia proporzionale e non possano essere efficacemente applicate altre misure alternative meno coercitive. L’articolo 2, lettera n), del medesimo regolamento definisce, a sua volta, il termine «rischio di fuga» quale sussistenza, in casi individuali, di motivi basati su criteri obiettivi definiti dalla legge per ritenere che la persona interessata possa fuggire.
26      La Polizia per gli stranieri e il governo ceco fanno valere, in limine, che un regolamento è applicabile direttamente negli Stati membri e non implica, quindi, la previa trasposizione nell’ordinamento nazionale. Di conseguenza, l’articolo 2, lettera n), del regolamento Dublino III non imporrebbe al legislatore nazionale di procedere all’attuazione in una legge nazionale di detti criteri obiettivi che definiscono un rischio di fuga.
27      In proposito, si deve ricordare che, secondo consolidata giurisprudenza della Corte, in forza dell’articolo 288 TFUE e a causa della natura stessa dei regolamenti e della loro funzione nel sistema delle fonti del diritto dell’Unione, le disposizioni di tali regolamenti producono, in genere, effetti immediati negli ordinamenti giuridici nazionali, senza che le autorità nazionali debbano adottare misure di attuazione. Tuttavia, alcune di tali disposizioni possono richiedere, per la loro attuazione, l’adozione di misure di applicazione da parte degli Stati membri (v., in tal senso, sentenza del 14 aprile 2011, Vlaamse Dierenartsenvereniging e Janssens, C‑42/10, C‑45/10 e C‑57/10, EU:C:2011:253, punti 47 e 48, e giurisprudenza ivi citata).
28      È quanto avviene nel caso dell’articolo 2, lettera n), del regolamento Dublino III, che richiede espressamente che i criteri obiettivi che definiscono la sussistenza di un rischio di fuga siano «definiti dalla legge». Poiché tali criteri non sono stati fissati nel regolamento stesso né in alcun altro atto giuridico dell’Unione, la loro formulazione ricade, nel contesto del regolamento medesimo, nell’ambito dell’ordinamento nazionale. Tale conclusione risulta avvalorata dalla lettura combinata, da un lato, dell’articolo 8, paragrafo 3, lettera f), della direttiva sull’accoglienza, a termini del quale un richiedente può essere trattenuto conformemente all’articolo 28 del regolamento Dublino III, e, dall’altro, con l’ultimo comma del medesimo paragrafo 3 dell’articolo 8, che precisa che i motivi del trattenimento sono specificati nel diritto nazionale. Inoltre, il considerando 20 del regolamento Dublino III afferma, a sua volta, che, per quanto concerne le garanzie generali che disciplinano il trattenimento nonché le condizioni del trattenimento, gli Stati membri dovrebbero, se del caso, applicare anche alle persone trattenute, sulla base dello stesso regolamento, le disposizioni della direttiva sull’accoglimento, che contiene, al menzionato articolo 8, un riferimento diretto al diritto nazionale. Ne consegue che criteri del genere quali quelli previsti all’articolo 2, lettera n), del regolamento Dublino III necessitano un’attuazione nel diritto nazionale di ciascuno Stato membro.
29      Occorre poi determinare se il termine «legge» di cui all’articolo 2, lettera n), di detto regolamento debba essere inteso nel senso di ricomprendere una giurisprudenza consolidata eventualmente confermativa di una prassi amministrativa costante.
30      Conformemente a una giurisprudenza costante della Corte, ai fini dell’interpretazione di una norma di diritto dell’Unione si deve tener conto non soltanto della lettera della stessa, ma anche del suo contesto e degli scopi perseguiti dalla normativa di cui essa fa parte (sentenza del 26 maggio 2016, Envirotec Denmark, C‑550/14, EU:C:2016:354, punto 27 e giurisprudenza ivi citata).
31      Per quanto concerne il tenore letterale dell’articolo 2, lettera n), del regolamento Dublino III, un’analisi puramente testuale della nozione «definiti dalla legge» non consente di determinare se una giurisprudenza o una prassi amministrativa costanti possano rientrare nell’ambito di detta nozione. Infatti, nelle diverse versioni linguistiche del regolamento, il termine equivalente al termine «legge» ha portata differente. In effetti, i termini utilizzati, ad esempio, nelle versioni in lingua inglese, polacca e slovacca sono simili alla nozione di «diritto», la quale può avere una portata più ampia della nozione di «legge». Talune altre versioni, per esempio, in lingua bulgara, spagnola, ceca, tedesca e francese hanno una portata più restrittiva.
32      Orbene, in caso di divergenza tra le versioni linguistiche, la portata della disposizione in questione dev’essere valutata non sulla base di una mera interpretazione testuale, bensì in funzione del sistema e della finalità della normativa di cui è parte (sentenza del 26 maggio 2016, Envirotec Denmark, C‑550/14, EU:C:2016:354, punto 28 e giurisprudenza ivi citata).
33      Per quanto riguarda la struttura in cui si colloca l’articolo 2, lettera n), del regolamento Dublino III, la Corte ha già avuto modo di dichiarare che dal considerando 9 dello stesso regolamento risulta che quest’ultimo, pur ribadendo i principi su cui esso si basa, è diretto ad apportare i miglioramenti necessari, in vista dell’esperienza acquisita, non solo al sistema di Dublino, ma anche alla protezione offerta ai richiedenti, garantita in particolare dalla tutela giurisdizionale di cui questi ultimi godono (sentenza del 7 giugno 2016, Ghezelbash, C‑63/15, EU:C:2016:409, punto 52).
34      Questo livello elevato di protezione concesso ai richiedenti, contemplato dal regolamento Dublino III, è previsto anche riguardo al loro trattenimento, come risulta dal combinato disposto dell’articolo 28 e dell’articolo 2, lettera n), del regolamento. Infatti, l’articolo 28, come emerge dal considerando 20 del regolamento medesimo, limita notevolmente il potere degli Stati membri di procedere ad un trattenimento. Dal paragrafo 1 dell’articolo 28 risulta, infatti, che gli Stati membri non possono trattenere una persona per il sol fatto che questa abbia presentato domanda di protezione internazionale. Inoltre, il paragrafo 2 del medesimo articolo consente il trattenimento al fine di garantire le procedure di trasferimento ai sensi dello stesso regolamento solo laddove sussista un rischio notevole di fuga, la cui valutazione deve basarsi su una valutazione caso per caso. Inoltre, il trattenimento dev’essere proporzionato ed è giustificato soltanto se non possono essere effettivamente applicate altre misure meno coercitive. Peraltro, conformemente al paragrafo 3 di detto articolo, il trattenimento ha durata quanto più breve possibile. Infine, l’articolo 2, lettera n), del regolamento Dublino III esige che l’accertamento della sussistenza di un rischio di fuga si basi su criteri obiettivi che devono essere definiti per legge e applicati caso per caso.
35      Si deve altresì rilevare che il regolamento Dublino III fornisce maggiori garanzie riguardo al trattenimento rispetto al regolamento n. 343/2003 di cui il regolamento Dublino III costituisce una rifusione. Infatti, il regolamento n. 343/2003 non conteneva alcuna disposizione relativa al trattenimento. Tale sviluppo sottolinea una maggiore attenzione da parte del legislatore dell’Unione alla protezione dei richiedenti, come risulta altresì dalla sentenza del 7 giugno 2016, Ghezelbash (C‑63/15, EU:C:2016:409).
36      Per quanto concerne l’obiettivo perseguito dall’articolo 2, lettera n), nel combinato disposto con il successivo articolo 28, paragrafo 2, del regolamento Dublino III, occorre rammentare che, autorizzando il trattenimento di un richiedente al fine di garantire le procedure di trasferimento conformemente al regolamento medesimo nel caso in cui sussista un notevole rischio di fuga del richiedente, tali disposizioni prevedono una limitazione all’esercizio del diritto fondamentale alla libertà, sancito all’articolo 6 della Carta (v., per analogia, sentenza del 15 febbraio 2016, N., C‑601/15 PPU, EU:C:2016:84, punto 49).
37      In proposito, dall’articolo 52, paragrafo 1, della Carta risulta che eventuali limitazioni all’esercizio di tale diritto devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di quest’ultimo nonché il principio di proporzionalità. Laddove la Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU, l’articolo 52, paragrafo 3, della Carta prevede che il significato e la portata degli stessi siano uguali a quelli conferiti da tale Convenzione, precisando al contempo che il diritto dell’Unione può concedere una protezione più estesa. Ai fini dell’interpretazione dell’articolo 6 della Carta, si deve quindi tener conto dell’articolo 5 della CEDU in quanto livello minimo di protezione.
38      Orbene, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, qualsiasi privazione della libertà dev’essere regolare non solo nel senso che essa deve avere un fondamento normativo nel diritto interno, ma anche nel senso che tale regolarità riguardi la qualità della legge e comporti che una legge nazionale che autorizzi una privazione della libertà debba essere sufficientemente accessibile, precisa e prevedibile nella sua applicazione, al fine di evitare qualunque rischio di arbitrarietà (v., in tal senso, Corte EDU, 21 ottobre 2013, Del Río Prada c. Spagna, CE:ECHR:2013:1021JUD004275009, §125).
39      Inoltre, conformemente alla giurisprudenza della Corte in materia, si deve sottolineare che l’obiettivo delle garanzie predisposte a tutela della libertà, sancite sia all’articolo 6 della Carta sia all’articolo 5 della CEDU, è costituito, in particolare, dalla protezione dell’individuo contro l’arbitrarietà. Pertanto, l’attuazione di una misura privativa della libertà, per essere conforme a tale obiettivo, implica, segnatamente, che sia priva di ogni elemento di malafede o inganno da parte delle autorità (v., in tal senso, sentenza del 15 febbraio 2016, N., C‑601/15 PPU, EU:C:2016:84, punto 81).
40      Dalle suesposte considerazioni risulta che il trattenimento dei richiedenti, costituendo un’ingerenza grave nel loro diritto alla libertà, è soggetto al rispetto di garanzie rigorose, vale a dire, la sussistenza di un fondamento normativo, la chiarezza, la prevedibilità, l’accessibilità e la protezione contro l’arbitrarietà.
41      Per quanto concerne la prima di tali garanzie, occorre rilevare che la limitazione all’esercizio del diritto alla libertà si basa, nel caso di specie, sull’articolo 28, paragrafo 2, nel combinato disposto con l’articolo 2, lettera n), del regolamento Dublino III, che costituisce un atto legislativo dell’Unione. Quest’ultima definizione fa, a sua volta, riferimento, per quanto attiene alla definizione di criteri obiettivi che evidenzino la sussistenza di un rischio di fuga, al diritto nazionale. In tale contesto, si rende necessario stabilire quale genere di norma soddisfi le altre garanzie, ossia la chiarezza, la prevedibilità, l’accessibilità e la protezione contro l’arbitrarietà.
42      In proposito, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 63 delle sue conclusioni, è importante che il potere discrezionale individuale di cui dispongono le autorità interessate in forza dell’articolo 28, paragrafo 2, nel combinato disposto con l’articolo 2, lettera n), del regolamento Dublino III, per quanto concerne la sussistenza di un rischio di fuga, sia esercitato nel quadro di determinate limitazioni previamente stabilite. Pertanto, è essenziale che i criteri che definiscono la sussistenza di un rischio del genere, che costituisce il motivo per un trattenimento, siano chiaramente definiti da un atto cogente e prevedibile nella sua applicazione.
43      Tenuto conto della finalità delle norme di cui trattasi, nonché alla luce dell’elevato livello di protezione che risulta dal loro contesto, solo una norma di portata generale può soddisfare i requisiti di chiarezza, di prevedibilità, di accessibilità e, in particolare, di protezione contro l’arbitrarietà.
44      Infatti, l’adozione di norme di portata generale offre le garanzie necessarie, poiché tale testo normativo delimita in modo cogente e noto in anticipo la discrezionalità delle autorità nella valutazione delle circostanze di ciascun caso concreto. Inoltre, come rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi 81 e 82 delle sue conclusioni, i criteri fissati in una norma cogente sono quelli che meglio si prestano al controllo esterno sul potere discrezionale di dette autorità, al fine di tutelare i richiedenti da arbitrarie privazioni di libertà.
45      Ne consegue che l’articolo 2, lettera n), e l’articolo 28, paragrafo 2, del regolamento Dublino III, letti nel loro combinato disposto, devono essere interpretati nel senso che essi impongono che i criteri obiettivi su cui si basano i motivi per temere la fuga di un richiedente siano fissati in una norma cogente di portata generale. In ogni caso, una giurisprudenza consolidata, che sancisca una prassi costante della Polizia per gli stranieri, come nella specie del procedimento principale, non può essere sufficiente.
46      In assenza di detti criteri sanciti in una norma di tal genere, come nella specie del procedimento principale, il trattenimento dev’essere dichiarato illegittimo, il che implica l’inapplicabilità dell’articolo 28, paragrafo 2, del regolamento Dublino III.
47      Pertanto, si deve rispondere alla questione posta dichiarando che l’articolo 2, lettera n), e l’articolo 28, paragrafo 2, del regolamento Dublino III, letti nel loro combinato disposto, devono essere interpretati nel senso che essi impongono agli Stati membri di fissare, in una norma vincolante di portata generale, i criteri obiettivi su cui si fondano i motivi per temere la fuga del richiedente oggetto di una procedura di trasferimento. L’assenza di una norma di tal genere determina l’inapplicabilità dell’articolo 28, paragrafo 2, del regolamento medesimo.
 Sulle spese
48      Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice del rinvio, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara:
L’articolo 2, lettera n), e l’articolo 28, paragrafo 2, del regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide, letti nel loro combinato disposto, devono essere interpretati nel senso che essi impongono agli Stati membri di fissare, in una norma vincolante di portata generale, i criteri obiettivi su cui si fondano i motivi per temere la fuga del richiedente protezione internazionale oggetto di una procedura di trasferimento. L’assenza di una norma di tal genere determina l’inapplicabilità dell’articolo 28, paragrafo 2, del regolamento medesimo.

Dal sito http://curia.europa.eu

venerdì 10 marzo 2017





Corte cost. 10 marzo 2017, n. 56

Non è fondata  la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, quinto comma, della legge 23 aprile 1981, n. 154 (Norme in materia di ineleggibilità ed incompatibilità alle cariche di consigliere regionale, provinciale, comunale e circoscrizionale, e in materia di incompatibilità degli addetti al Servizio sanitario nazionale), sollevata, in riferimento all’art. 51 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Catanzaro, con ordinanza in data 10 febbraio 2016


SENTENZA N. 56
ANNO 2017


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Paolo GROSSI; Giudici : Alessandro CRISCUOLO, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,


ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma quinto, della legge 23 aprile 1981, n. 154 (Norme in materia di ineleggibilità ed incompatibilità alle cariche di consigliere regionale, provinciale, comunale e circoscrizionale, e in materia di incompatibilità degli addetti al Servizio sanitario nazionale), promosso dalla Corte d’appello di Catanzaro nel procedimento vertente tra G. G. e G. G., con ordinanza del 10 febbraio 2016, iscritta al n. 68 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2016.
Visti gli atti di costituzione di G. G., fuori termine, e di G. G., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 21 febbraio 2017 il Giudice relatore Daria de Pretis;
uditi gli avvocati Oreste Morcavallo e Francesco Paolo Gallo per G. G. e l’avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.


Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 10 febbraio 2016, la Corte d’appello di Catanzaro ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, quinto comma, della legge 23 aprile 1981, n. 154 (Norme in materia di ineleggibilità ed incompatibilità alle cariche di consigliere regionale, provinciale, comunale e circoscrizionale, e in materia di incompatibilità degli addetti al Servizio sanitario nazionale), in riferimento all’art. 51 della Costituzione.
La questione è sorta nel corso del giudizio d’appello avverso l’ordinanza con la quale il Tribunale ordinario di Catanzaro, in accoglimento di un ricorso presentato ai sensi dell’art. 22 del decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), ha dichiarato la decadenza dalla carica di un consigliere regionale della Calabria, per la sussistenza di una causa di ineleggibilità al momento della presentazione della candidatura, e lo ha sostituito con il ricorrente, primo dei non eletti nella medesima lista.
1.1.– La causa di ineleggibilità accertata dal provvedimento impugnato nel giudizio principale è prevista dall’art. 2, primo comma, numero 2), della legge n. 154 del 1981, secondo cui non sono eleggibili a consigliere regionale «(…) nel territorio, nel quale esercitano le loro funzioni, (…) i funzionari di pubblica sicurezza». L’interessato vi ricadrebbe nella qualità di «Primo Dirigente, Vice Comandante Regionale e Capo dell’Ufficio Ispettivo Centro Nord della Calabria del Corpo Forestale dello Stato».
Il secondo comma dell’art. 2 della legge censurata prevede che tale causa di ineleggibilità non ha effetto se l’interessato cessa dalle funzioni per collocamento in aspettativa (oppure per dimissioni, trasferimento, revoca dell’incarico o del comando) non oltre il giorno fissato per la presentazione delle candidature. A sua volta il quinto comma dispone che, entro cinque giorni dalla richiesta, la pubblica amministrazione deve adottare i provvedimenti relativi e che, in mancanza, la domanda di aspettativa (o di dimissioni) accompagnata dalla effettiva cessazione dalle funzioni ha effetto dal quinto giorno successivo alla sua presentazione.
Secondo il giudice a quo tale disciplina ha carattere di specialità, sicché non potrebbe derogarvi, come invece sostiene l’appellante nel processo principale, il disposto dell’art. 81 della legge 1 aprile 1981, n. 121 (Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza), secondo il quale gli appartenenti alle forze di polizia candidati a elezioni politiche o amministrative sono posti in aspettativa dal momento dell’accettazione della candidatura.
Ciò premesso, il rimettente afferma che l’interessato ha presentato la domanda di aspettativa per motivi elettorali il 25 ottobre 2014, ultimo giorno utile per la presentazione delle candidature, e che la pubblica amministrazione non ha provveduto entro cinque giorni dalla richiesta. La domanda, pertanto, ha prodotto effetti dal quinto giorno successivo alla sua presentazione, oltre il termine previsto per rimuovere la causa di ineleggibilità, con la conseguenza dell’invalidità della successiva elezione alla carica di consigliere regionale.
Ad avviso del rimettente, tuttavia, l’art. 2, quinto comma, della legge n. 154 del 1981 contrasta con l’art. 51 Cost. nella parte in cui prevede che gli effetti dell’aspettativa per motivi elettorali, accompagnata dall’effettiva cessazione delle funzioni, decorrono dal provvedimento dell’amministrazione o, in mancanza, dal quinto giorno successivo alla presentazione della domanda di collocamento in aspettativa, anziché dalla data di presentazione della domanda stessa.
1.2.– La rilevanza della questione sarebbe evidente, dal momento che in caso di suo accoglimento la domanda di aspettativa per motivi elettorali presentata dall’appellante nel giudizio principale risulterebbe pervenuta all’amministrazione in tempo utile a rimuovere la causa di ineleggibilità.
1.3.– La norma censurata violerebbe l’art. 51 Cost., in quanto, per avere la certezza che la causa di ineleggibilità alla carica di consigliere regionale venga rimossa in tempo utile, l’interessato dovrebbe anticipare la domanda di collocamento in aspettativa almeno al sesto giorno che precede il termine per la presentazione delle candidature, ponendosi così in una situazione di «quiescenza» ancora prima di avere la certezza della presentazione della sua candidatura, «laddove l’art. 51 della Costituzione garantisce l’accesso di tutti i cittadini alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, senza limitazioni di alcun tipo».
Il diritto fondamentale di elettorato passivo, al quale è funzionale il diritto potestativo a essere collocato in aspettativa per motivi elettorali, sarebbe «fortemente» sacrificato nel caso di inerzia dell’amministrazione, che potrebbe vanificare anche la scelta dell’interessato di accettare la candidatura negli ultimi cinque giorni utili.
Ad avviso del rimettente, sarebbe evidentemente discriminatoria l’attribuzione al mero arbitrio dell’amministrazione della scelta dei tempi di adozione del provvedimento di accettazione della domanda di aspettativa per motivi elettorali, che si sostanzia in una mera presa d’atto, priva di discrezionalità.
Il giudice a quo mostra di non ignorare che la Corte, con la sentenza n. 309 del 1991, ha respinto un’analoga questione attinente alla medesima norma, ma ritiene che quella pronuncia, riferendosi alla diversa ipotesi della domanda di dimissioni, non sia conferente al caso in esame. L’istituto delle dimissioni, invero, non sarebbe direttamente preordinato alla rimozione delle cause di ineleggibilità, pur consentendo di pervenire indirettamente al medesimo risultato. L’aspettativa per motivi elettorali, al contrario, sarebbe funzionalmente ed esclusivamente finalizzata alla rimozione della causa di ineleggibilità, a garanzia del diritto di elettorato passivo anche di coloro che versano in una tale situazione.
2.– Con atto depositato il 22 aprile 2016 si è tempestivamente costituita nel giudizio costituzionale la parte appellata del processo principale (ricorrente in primo grado), chiedendo che la questione sia dichiarata preliminarmente inammissibile e comunque non fondata nel merito.
La parte eccepisce l’inammissibilità della questione sotto diversi profili: per carenza di motivazione sulla portata e sulla ratio della norma contestata, che conterrebbe in realtà disposizioni di favore per il candidato a garanzia del principio fissato dall’art. 51 Cost.; per difetto di rilevanza, in quanto dalla motivazione dell’ordinanza di rimessione e dalla documentazione allegata all’atto di costituzione si evincerebbe che la domanda di aspettativa è stata presentata dall’interessato dopo la scadenza del termine per la presentazione delle candidature, sicché la causa di ineleggibilità non risulterebbe efficacemente rimossa neppure se la domanda di aspettativa producesse i suoi effetti al momento della presentazione; infine, per difetto del presupposto della non manifesta infondatezza, in quanto la tesi del rimettente sarebbe già stata respinta dalla Corte con la sentenza n. 309 del 1991.
Nel merito, la parte osserva che l’art. 2, secondo comma, della legge n. 154 del 1981 equipara le varie modalità di rimozione delle cause di ineleggibilità, tra le quali figurano le dimissioni e il collocamento in aspettativa. La completa assimilazione fra queste due ipotesi sarebbe conseguita all’intervento della Corte, che con le sentenze n. 388 del 1991 e n. 111 del 1994 ha dichiarato incostituzionale la citata disposizione nella parte in cui non prevedeva – per talune categorie di soggetti – che la causa di ineleggibilità potesse cessare, oltre che per dimissioni, anche per collocamento in aspettativa.
Dalla sostanziale equiparazione tra dimissioni e collocamento in aspettativa, quali modalità di rimozione delle cause di ineleggibilità, deriverebbe l’infondatezza delle ragioni addotte dal giudice a quo per sostenere l’inconferenza al caso in esame della sentenza n. 309 del 1991, con la quale la Corte, in riferimento alla domanda di dimissioni, ha escluso che la previsione del termine di cinque giorni prescritto dal quinto comma dell’art. 2 per adottare il provvedimento di accettazione, in mancanza del quale le dimissioni hanno effetto dal quinto giorno successivo alla presentazione della domanda, comporti la violazione dell’art. 51 Cost.
Varrebbe pertanto anche per il caso del collocamento in aspettativa quanto osservato nella citata sentenza sull’insussistenza della compromissione del diritto di elettorato passivo. Il rischio prospettato dal giudice a quo per l’eventualità che il candidato sia collocato in aspettativa prima di avere la certezza del proprio inserimento in lista sarebbe infatti analogo a quello – di rinuncia preventiva alla carica per dimissioni – già esaminato dalla Corte e da essa ritenuto in re ipsa, dovendo l’interessato rimuovere la causa di ineleggibilità prima della presentazione della lista dei candidati, che non potrebbe essere effettuata dal candidato stesso, ma soltanto da chi è a ciò abilitato dalle leggi sul procedimento elettorale. Varrebbero altresì le considerazioni, svolte nella stessa decisione con il richiamo alla sentenza n. 46 del 1969, sul legittimo esercizio della discrezionalità del legislatore nel determinare, purché secondo criteri razionali, la data entro la quale deve verificarsi la cessazione della causa di ineleggibilità, data che in nessun caso può essere successiva a quella prescritta per l’accettazione della candidatura, che rappresenta il primo atto di esercizio del diritto elettorale passivo.
3.– Con atto depositato il 26 aprile 2016 è intervenuto nel giudizio costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità e comunque per la manifesta infondatezza della questione.
La questione sarebbe in primo luogo inammissibile per la natura non necessitata dell’intervento additivo richiesto alla Corte, in quanto rientrerebbe nella discrezionalità del legislatore disciplinare, quanto a modalità ed effetti, la cessazione delle funzioni alla quale è collegata la rimozione delle cause di ineleggibilità.
Nel merito, anche l’interveniente richiama la sentenza n. 309 del 1991 e osserva che non vi sarebbero ragioni per discostarsi da essa. Per un verso infatti i profili di incostituzionalità articolati nelle due ordinanze di rimessione sostanzialmente coinciderebbero e, per altro verso, gli argomenti addotti dal giudice a quo per affermare che essa non è conferente nel caso in esame non sarebbero condivisibili, giacché sia le dimissioni che l’aspettativa per motivi elettorali costituiscono modalità di rimozione delle cause di ineleggibilità. Vengono altresì richiamate, a sostegno della conclusione di manifesta infondatezza, le sentenze n. 46 del 1969 e n. 438 del 1994.
4.– In una memoria depositata nell’imminenza dell’udienza, la parte privata ribadisce quanto già esposto sull’inammissibilità e la non fondatezza nel merito della questione, osservando inoltre che alla Corte sarebbe richiesto un inammissibile intervento additivo, in contrasto con il principio che riserva in via esclusiva al legislatore la determinazione dei limiti e delle modalità di accesso alle cariche elettive.
5.– Con atto depositato il 31 gennaio 2017 si è costituita in giudizio anche la parte appellante del processo principale (resistente in primo grado), che ha aderito alle ragioni esposte nell’ordinanza di rimessione, chiedendo che la questione sia accolta.


Considerato in diritto
1.– La Corte d’appello di Catanzaro dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2, quinto comma, della legge 23 aprile 1981, n. 154 (Norme in materia di ineleggibilità ed incompatibilità alle cariche di consigliere regionale, provinciale, comunale e circoscrizionale, e in materia di incompatibilità degli addetti al Servizio sanitario nazionale), in riferimento all’art. 51 della Costituzione.
Il primo comma del citato art. 2 elenca, raggruppandole sotto dodici numeri, una serie di cause di ineleggibilità a consigliere regionale, concernenti soggetti che ricoprono cariche elettive, uffici, impieghi o funzioni diverse amministrative e dirigenziali.
Il secondo comma dell’art. 2 prevede che le cause di ineleggibilità non hanno effetto se l’interessato cessa dalle funzioni «per dimissioni, trasferimento, revoca dell’incarico o del comando, collocamento in aspettativa non oltre il giorno fissato per la presentazione delle candidature».
A sua volta, il quinto comma dispone che la pubblica amministrazione è tenuta ad adottare i provvedimenti relativi entro cinque giorni dalla richiesta, e che, in mancanza, «la domanda di dimissioni o aspettativa accompagnata dalla effettiva cessazione dalle funzioni ha effetto dal quinto giorno successivo alla presentazione».
La questione è sorta nel corso del giudizio d’appello avverso l’ordinanza con la quale il Tribunale ordinario di Catanzaro ha dichiarato la decadenza dalla carica di un consigliere regionale della Calabria, per la sussistenza di una causa di ineleggibilità al momento della presentazione della candidatura, e lo ha sostituito con il primo dei non eletti nella medesima lista.
Nel giudizio principale è stata impugnata l’elezione di un soggetto che riveste la qualità di «Primo Dirigente, Vice Comandante Regionale e Capo dell’Ufficio Ispettivo Centro Nord della Calabria del Corpo Forestale dello Stato», come tale ricadente nella causa di ineleggibilità prevista dal numero 2) del richiamato primo comma dell’art. 2, secondo cui non sono eleggibili «(…) nel territorio, nel quale esercitano le loro funzioni, (…) i funzionari di pubblica sicurezza».
Il giudice a quo afferma che l’interessato ha presentato la domanda di aspettativa per motivi elettorali l’ultimo giorno utile per la presentazione delle candidature e che la pubblica amministrazione non ha provveduto entro cinque giorni dalla richiesta. La domanda, pertanto, avrebbe prodotto effetti dal quinto giorno successivo alla sua presentazione, oltre il termine per rimuovere la causa di ineleggibilità previsto dal secondo comma dell’art. 2. Ne conseguirebbe l’invalidità dell’elezione dell’interessato alla carica di consigliere regionale, come in effetti ha concluso il giudice di primo grado.
Ad avviso della Corte d’appello rimettente, tuttavia, l’art. 2, quinto comma, della legge n. 154 del 1981 contrasterebbe con l’art. 51 Cost. nella parte in cui prevede che gli effetti dell’aspettativa per motivi elettorali, accompagnata dall’effettiva cessazione delle funzioni, decorrano dal provvedimento dell’amministrazione o, in mancanza, dal quinto giorno successivo alla presentazione della domanda di collocamento in aspettativa, anziché dalla data di presentazione della domanda stessa. La violazione del diritto di elettorato passivo deriverebbe dal fatto che il soggetto interessato, per essere certo che la causa di ineleggibilità sia tempestivamente rimossa, dovrebbe anticipare la domanda di collocamento in aspettativa almeno al sesto giorno che precede il termine per la presentazione delle candidature, ponendosi così in una situazione di «quiescenza» ancora prima di avere la certezza della presentazione della sua candidatura. Sarebbe pertanto discriminatorio attribuire al mero arbitrio dell’amministrazione la scelta dei tempi di adozione del provvedimento di accettazione della domanda di aspettativa per motivi elettorali, tanto più che essa si sostanzia in una mera presa d’atto, priva di discrezionalità.
2.– Il consigliere regionale dichiarato decaduto e appellante nel processo principale si è costituito nel giudizio costituzionale con atto depositato il 31 gennaio 2017, oltre il termine di venti giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza di rimessione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, prima serie speciale, n. 14 del 6 aprile 2016, fissato dall’art. 3 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, tale termine ha natura perentoria e dalla sua violazione consegue, in via preliminare e assorbente, l’inammissibilità degli atti di costituzione depositati oltre la sua scadenza (ex plurimis, sentenze n. 248, n. 219 e n. 187 del 2016, n. 236 e 27 del 2015, n. 364 e n. 303 del 2010, n. 263 e n. 215 del 2009; ordinanze n. 11 del 2010, n. 100 del 2009 e n. 124 del 2008).
La costituzione è dunque inammissibile.
3.– La parte appellata nel giudizio a quo, costituitasi tempestivamente nel giudizio costituzionale, ha eccepito l’inammissibilità della questione sotto diversi profili: per carenza di motivazione sulla portata e sulla ratio della norma contestata, che conterrebbe in realtà disposizioni di favore per il candidato, a garanzia del principio fissato dall’art. 51 Cost.; per difetto di rilevanza, in quanto dalla motivazione dell’ordinanza di rimessione e dalla documentazione allegata all’atto di costituzione si evincerebbe che la domanda di aspettativa è stata presentata dall’interessato dopo la scadenza del termine per la presentazione delle candidature, sicché la causa di ineleggibilità non risulterebbe efficacemente rimossa neppure nel caso in cui gli effetti della domanda di aspettativa dovessero ritenersi prodotti al momento della sua presentazione; per difetto del presupposto della non manifesta infondatezza, in quanto la tesi del rimettente sarebbe già stata respinta dalla Corte con la sentenza n. 309 del 1991; infine, perché l’intervento additivo richiesto alla Corte, comportante l’automatismo della domanda di aspettativa senza spatium deliberandi in capo all’amministrazione, contrasterebbe con il principio che riserva in via esclusiva al legislatore la determinazione dei limiti e delle modalità di accesso alle cariche elettive.
Le eccezioni non sono fondate.
Quanto alla prima, si osserva che l’ordinanza di rimessione solleva il dubbio di costituzionalità muovendo dalla pacifica interpretazione letterale della norma censurata, in base alla quale la domanda di aspettativa per motivi elettorali non rimuove la causa di ineleggibilità immediatamente, ma a decorrere dal provvedimento di presa d’atto dell’amministrazione, se assunto entro cinque giorni dalla presentazione della domanda, o in mancanza dal quinto giorno successivo alla presentazione. Il giudice a quo ne desume che la norma pregiudichi il diritto di elettorato passivo dell’interessato, che subirebbe un trattamento discriminatorio, in quanto, per essere sicuro che la causa di ineleggibilità sia rimossa, dovrebbe presentare la domanda di aspettativa con congruo anticipo rispetto al termine di presentazione delle candidature, senza avere la certezza di essere incluso nella lista. La plausibilità dell’interpretazione offerta dal giudice a quo esclude la prospettata carenza di motivazione, rimanendo riservato all’esame del merito ogni profilo concernente la portata lesiva della norma.
Quanto all’eccezione relativa alla rilevanza, il giudice a quo afferma che la domanda di aspettativa è stata presentata l’ultimo giorno fissato per la presentazione delle candidature, dunque in tempo utile per rimuovere la causa di ineleggibilità se venisse pronunciata l’illegittimità costituzionale della norma contestata. La motivazione è idonea a dare conto del requisito della rilevanza, e non è sufficiente a escluderlo il generico richiamo a non meglio precisati documenti.
Sulla dedotta mancanza del requisito della non manifesta infondatezza, è sufficiente rilevare che l’eventuale contrasto della tesi del rimettente con una sentenza di questa Corte non è di per sé motivo idoneo a produrre l’inammissibilità della questione, riguardando semmai il suo merito.
L’ultima eccezione, sull’inammissibilità dell’intervento additivo richiesto, può essere esaminata insieme a quella sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri, per la sostanziale identità delle ragioni addotte a suo sostegno. Secondo l’Avvocatura dello Stato, invero, la questione sarebbe inammissibile per il carattere non necessitato dell’intervento additivo auspicato dal giudice a quo. La disciplina delle modalità e degli effetti della cessazione delle funzioni, alla quale è collegata la rimozione delle cause di ineleggibilità, apparterebbe infatti all’esclusiva discrezionalità del legislatore.
Nemmeno queste eccezioni sono fondate. Ciò che il rimettente chiede al fine di superare il vulnus costituzionale prospettato, ossia che l’ineleggibilità sia rimossa con la mera presentazione della domanda di aspettativa entro il termine per la presentazione delle candidature, può essere ottenuto unicamente eliminando la previsione normativa di un termine per l’accettazione o la presa d’atto della domanda.
4.– Sotto il profilo della rilevanza, va altresì precisato che la legge n. 154 del 1981 è stata abrogata dall’art. 274, comma 1, lettera l), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), «(…) fatte salve», tuttavia, «le disposizioni previste per i consiglieri regionali».
La norma censurata, pertanto, è applicabile nel giudizio a quo.
5.– Nel merito, si rileva che la stessa norma è già stata sottoposta allo scrutinio di questa Corte, anche con riferimento al parametro dell’art. 51 Cost., per ragioni del tutto analoghe a quelle illustrate dal rimettente.
La sentenza n. 309 del 1991 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione risultante dal combinato disposto del secondo e del quinto comma dell’art. 2, nella parte in cui prevede che le dimissioni di chi sia in rapporto di servizio con la pubblica amministrazione abbiano effetto, se non prima accettate dall’amministrazione, dal quinto giorno successivo alla presentazione (sempre che esse siano accompagnate dall’effettiva cessazione dalle funzioni), anziché immediatamente.
In quell’occasione era stata impugnata l’elezione a consigliere comunale di un componente della commissione amministratrice di un’azienda dipendente dal comune, ipotesi rientrante nelle cause di ineleggibilità previste dall’art. 2, primo comma, numero 11). Le disposizioni censurate avrebbero violato l’art. 3 Cost. per l’ingiustificata disparità di trattamento da esse creata fra chi versa in una ipotesi di ineleggibilità che viene meno solo in seguito a provvedimento della pubblica amministrazione, o comunque dopo il decorso di cinque giorni dalle sue dimissioni o dalla sua richiesta di aspettativa, e chi, trovandosi in una condizione di ineleggibilità che non ha rapporti con la pubblica amministrazione, può farla cessare con effetto immediato all’atto della presentazione delle dimissioni. Sarebbe stato altresì violato l’art. 51 Cost., in quanto il diritto di elettorato passivo sarebbe obiettivamente compromesso dalla necessità che la causa di ineleggibilità sia rimossa con congruo anticipo rispetto alla presentazione delle liste dei candidati, ciò che, secondo l’ordinanza di rimessione, avrebbe potuto «(…) realmente esporre l’interessato (…) all’evenienza della rinuncia alla propria carica ancor prima di acquisire la certezza dell’inserimento nella lista da lui prescelta».
Questa Corte ha tuttavia escluso la rilevanza del rischio paventato dal rimettente, osservando che esso «è per così dire, in re ipsa», giacché «il candidato deve comunque rimuovere la causa dell’ineleggibilità prima della presentazione della lista dei candidati, che – come è noto –, non può essere effettuata dal candidato stesso, ma soltanto da chi è a ciò abilitato dalle vigenti leggi sul procedimento elettorale» (sentenza n. 309 del 1991).
Questa Corte ha altresì ritenuto che il legislatore abbia usato del proprio potere in modo costituzionalmente corretto, essendosi conformato ai principi esposti nella sentenza n. 46 del 1969. In essa si afferma, per un verso, che «è manifestamente ultroneo richiedere, per far cessare l’ineleggibilità, che le dimissioni di chi aspiri alla candidatura siano state accettate, senza d’altronde che alcun termine sia prescritto per l’accettazione», in quanto, in tali ipotesi, la eleggibilità finirebbe «per dipendere da una estranea volontà, per giunta discrezionale almeno in ordine al quando»; e, per altro verso, che il legislatore, nella sua discrezionalità, «può variamente determinare, purché secondo criteri razionali, la data entro la quale deve verificarsi la cessazione della causa di ineleggibilità», che, in nessun caso, «può essere successiva a quella prescritta per l’accettazione della candidatura, che rappresenta il primo atto di esercizio del diritto elettorale passivo».
«Alla luce di tali principi» – conclude la sentenza n. 309 del 1991 – «si deve riconoscere che il legislatore, prescrivendo alla pubblica amministrazione il termine di cinque giorni per adottare il provvedimento di accettazione e prevedendo espressamente che in mancanza di tale provvedimento le dimissioni hanno effetto dopo cinque giorni dalla presentazione, non è incorso in alcuna violazione dell’art. 51 della Costituzione».
Questa Corte ha confermato in altre occasioni tale orientamento, osservando che «[l]a norma contenuta nell’art. 2, quinto comma, della legge n. 154 del 1981 (secondo cui la pubblica amministrazione è tenuta a provvedere sulla domanda di dimissioni o di collocamento in aspettativa entro cinque giorni dalla richiesta e, se ciò non avvenga, la domanda ha comunque effetto dal quinto giorno successivo alla sua presentazione) mira a contemperare la regola generale in base alla quale per la cessazione da cariche o uffici pubblici è richiesta la presa d’atto ovvero l’accettazione da parte dell’amministrazione con l’esigenza, costituzionalmente garantita, che il soggetto interessato sia posto in condizioni di rimuovere la causa di ineleggibilità con atti e comportamenti propri, senza che questi possano essere resi inefficaci da inerzia o ritardi della pubblica amministrazione (cfr. sentt. nn. 309 e 388 del 1991)» (sentenza n. 438 del 1994).
5.1.– Pur essendo riferite all’ipotesi delle dimissioni, le ragioni esposte nella sentenza n. 309 del 1991, più volte richiamata, devono ritenersi ugualmente valide per l’ipotesi dell’aspettativa, che la norma censurata sottopone alla stessa disciplina.
Il giudice a quo mostra di non ignorare la citata pronuncia e ripropone, anche letteralmente, le considerazioni in essa già esaminate, riferendole all’ipotesi dell’aspettativa. A suo avviso, tuttavia, le conclusioni cui la pronuncia perviene non sarebbero pertinenti nel caso dell’aspettativa, in ragione delle sua diversità rispetto all’istituto delle dimissioni in relazione agli effetti di rimozione delle cause di ineleggibilità. Mentre infatti le dimissioni non sarebbero direttamente preordinate a produrre tali effetti, e solo indirettamente consentirebbero di pervenire anche a questo risultato, l’aspettativa per motivi elettorali sarebbe funzionalmente ed esclusivamente finalizzata a rimuovere la causa di ineleggibilità a garanzia del diritto di elettorato passivo di coloro che versano in una tale situazione.
L’argomento non è condivisibile.
Richiamando le distinte finalità delle dimissioni e dell’aspettativa, il rimettente evoca in sostanza la diversità degli effetti che i due istituti producono sul rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, vale a dire la sua risoluzione nel primo caso e la sua conservazione, anche se in stato di quiescenza, nel secondo. Questa diversità, tuttavia, non rileva ai fini che si prefigge la disciplina sulla rimozione delle cause di ineleggibilità, qualora esse derivino da pubblici uffici che presuppongono l’esistenza di tale rapporto. Le dimissioni e il collocamento in aspettativa, invero, sono ragionevolmente considerati dal legislatore quali strumenti entrambi idonei a scongiurare, mediante la cessazione definitiva o temporanea dalle funzioni, il pericolo di inquinamento del voto derivante da potenziali indebite pressioni sul corpo elettorale e, comunque, da condizionamenti del suffragio impliciti in eventuali candidature di pubblici funzionari. La loro piena assimilazione come strumenti di rimozione delle situazioni di ineleggibilità si è compiuta con le sentenze n. 388 del 1991 e n. 111 del 1994, che hanno esteso anche ai dipendenti regionali, provinciali e comunali la possibilità di rimuovere con il collocamento in aspettativa, e non solo con le dimissioni, l’ineleggibilità ai rispettivi consigli derivante dal rapporto d’impiego. L’equiparazione, a tali effetti, giustifica l’omogeneità del trattamento che la norma contestata riserva ai due istituti e autorizza a ritenere riferibili anche al collocamento in aspettativa le conclusioni alle quali questa Corte è pervenuta sulla legittimità del termine fissato dalla legge per le dimissioni.
Queste conclusioni non sono scalfite dalle considerazioni del giudice a quo sulla mancanza di discrezionalità dell’amministrazione nel disporre il collocamento in aspettativa per motivi elettorali.
Il quinto comma dell’art. 2 della legge n. 154 del 1981 detta una disciplina intesa a garantire in modo rigoroso l’operatività sia delle dimissioni che del collocamento in aspettativa mediante la previsione di un termine brevissimo, allo scadere del quale, se la pubblica amministrazione non ha adottato l’atto di sua competenza, si produce ugualmente l’effetto del venir meno della causa di ineleggibilità.
Il carattere non discrezionale – e doveroso – del provvedimento di presa d’atto non rende irragionevole la disposizione censurata. La ratio del termine che essa prevede, infatti, non trova la sua ragione giustificativa nell’opportunità di offrire all’amministrazione un lasso di tempo per decidere sulla domanda di aspettativa, ma nella diversa esigenza di garantire il buon funzionamento dell’amministrazione. L’immediata cessazione della funzione o della carica, per dimissioni o collocamento in aspettativa, comporterebbe infatti, in assenza di un minimo preavviso che consenta all’amministrazione di organizzarsi altrimenti, il completo sacrificio delle esigenze di buon andamento dell’amministrazione alle quali la previsione normativa di un lasso di tempo, sia pure molto breve, è funzionale. Il termine di cinque giorni riconosciuto all’amministrazione per prendere atto della domanda di aspettativa risponde dunque alla stessa logica di contemperamento degli opposti interessi, di tutela dell’elettorato passivo del lavoratore dipendente e di garanzia dei poteri di organizzazione del datore di lavoro, rinvenibile, sia pure nel quadro di una diversa regolamentazione e ovviamente in assenza della previsione della necessità di accettazione o di presa d’atto, anche nella disciplina comune sul preavviso in caso di recesso del lavoratore (art. 2118 del codice civile).
In questo contesto si deve ancora osservare che la soluzione auspicata dal rimettente si presterebbe, all’evidenza, a una censura di irragionevolezza, in quanto produrrebbe un trattamento ingiustificatamente differenziato dell’ipotesi dell’aspettativa rispetto all’ipotesi delle dimissioni, e più precisamente meno favorevole per questa seconda, che resterebbe soggetta al termine previsto dal quinto comma dell’art. 2. E ciò sebbene le dimissioni comportino, per chi le renda, la più gravosa conseguenza della definitiva cessazione del rapporto con l’amministrazione ostativo all’eleggibilità.
6.– In conclusione, la questione deve essere dichiarata non fondata, non essendo ravvisabili ragioni per discostarsi, per il caso dell’aspettativa, da quanto già deciso con la sentenza n. 309 del 1991 per il caso delle dimissioni.


per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, quinto comma, della legge 23 aprile 1981, n. 154 (Norme in materia di ineleggibilità ed incompatibilità alle cariche di consigliere regionale, provinciale, comunale e circoscrizionale, e in materia di incompatibilità degli addetti al Servizio sanitario nazionale), sollevata, in riferimento all’art. 51 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Catanzaro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 10 marzo 2017.
Il Direttore della Cancelleria