venerdì 30 giugno 2017



PANOZZO, Le modifiche alla legge sulla cittadinanza (già approvate dalla Camera, ora) in discussione al Senato: tra (poco) ius soli, (molto) ius culturae e (alcune) ‘divagazioni’, comunque problemi (di interpretazione e coordinamento) per i comuni

giovedì 29 giugno 2017



 

 

Residenza nel Comune dove si svolgerà l’attività oggetto del concorso come requisito di partecipazione

Concorso – Requisiti di partecipazione – Residenza nel Comune dove si svolgerà l’attività – Illegittimità.
        E’ illegittimo il bando per la selezione per la formazione di una graduatoria relativa allo svolgimento di lavoro occasionale presso la biblioteca comunale, che richiede quale requisito di partecipazione la residenza nel Comune (1).

(1) Ha ricordato il Tar che la Corte costituzionale ha più volte affermato che l'accesso in condizioni di parità ai pubblici uffici può subire deroghe, con specifico riferimento al luogo di residenza dei concorrenti, quando il requisito medesimo sia ricollegabile, come mezzo al fine, all'assolvimento di servizi altrimenti non attuabili o almeno non attuabili con identico risultato (sent. n. 158 del 1969, n. 86 del 1963, n. 13 del 1961, n. 15 del 1960, secondo la ricostruzione effettuata dall'ordinanza n. 33 del 1988). Lo stesso giudice delle leggi ha avuto modo di statuire, peraltro, anche che "non é razionale né corrisponde propriamente al fine di una migliore organizzazione del servizio, che sia data prevalenza assoluta, in materia di assunzioni impiegatizie, a situazioni estrinseche di residenza su situazioni intrinseche di merito", e che è da considerarsi illegittima una norma che "escludendo la possibilità di valutazione del merito comparativo, concede un aprioristico titolo preferenziale ai soli residenti in sede regionale" (sentenza n. 158 del 1969). Sono, pertanto, ammesse ragionevoli discriminazioni fra concorrenti basate sulla residenza purché queste siano corrispondenti a situazioni connesse con l'esistenza di particolari e razionali motivi di più idonea organizzazione di servizi; inoltre, si riconduce una valutazione di illegittimità alle norme che annettono all'elemento residenza un "valore condizionante", tale da conferire ad esso la priorità su ogni altra valutazione comparativa di merito.

Dal sito del Consiglio di Stato:
https://www.giustizia-amministrativa.it/cdsintra/cdsintra/Approfondimenti/Concorso/Requisitidipartecipazione/TarToscana27giugno2017n.891/index.html


Cambiamento di nome e/o cognome e poteri dell’Amministrazione

Tar Puglia, Lecce, 22 giugno 2017, n. 1046

Nell’ambito del cambiamento del nome e/o del cognome, l’Amministrazione non è titolare di una potestà discrezionale in senso “classico”, il cui esercizio debba concludersi con la ponderazione dell'interesse privato con quello pubblico, ma rileva, piuttosto, (soltanto) l'esigenza di una verifica della serietà del fatto e dei connessi motivi di rilievo anche morale dell'istanza avanzata dal privato [osserva il Collegio che, “per condivisa giurisprudenza amministrativa, “Il legislatore non limita la possibilità di richiedere il cambiamento del nome a ipotesi specifiche, citando a titolo meramente esemplificativo le ipotesi del norme "ridicolo o vergognoso" o capace di "rivelare l'origine naturale" dell'interessato; l'unico ostacolo predeterminato in termini vincolati dal legislatore è rappresentato dal fatto che non può essere richiesta l'attribuzione di cognomi di importanza storica o comunque tali da indurre in errore circa l'appartenenza del richiedente a famiglie illustri o particolarmente note nel luogo in cui si trova l'atto di nascita del richiedente o nel luogo di sua residenza”” ]


L’ordinamento non pone limiti alla reiterazione di istanze di mutamento del cognome, se frutto non di mero capriccio ma di scelte ponderate

L’art. 89 del d.P.R. 396/2000 non pone alcun divieto all’utilizzo di cognomi di fantasia, unico impedimento essendo quello di assunzione di cognomi di importanza storica, ovvero tali da indurre in errore l’interlocutore.



FATTO e DIRITTO
1. È impugnata la nota in epigrafe, con cui è stata rigettata l’istanza di mutamento del cognome proposta dal ricorrente.
A sostegno del ricorso, il ricorrente ha articolato i seguenti motivi di gravame, appresso sintetizzati: violazione degli artt. 2, 22, 32 Cost; 89 d.P.R. n. 396/2000; art. 3 l. n. 241/90; eccesso di potere per errore, difetto di istruttoria, irrazionalità; sviamento.
Nella camera di consiglio del 21.6.2017, fissata per la discussione della domanda cautelare, il Collegio, accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, sentite sul punto le parti costituite, ha definito il giudizio in camera di consiglio con sentenza in forma semplificata, ai sensi dell’art. 60 c.p.a.
2. Con i vari motivi di gravame, che possono essere esaminati congiuntamente, per comunanza delle relative censure, deduce il ricorrente l’illegittimità dell’atto impugnato, in quanto assunto in base a presupposti giuridici e fattuali errati. In particolare, ad avviso del ricorrente, la scelta di cognome svincolato da pregressi legami parentali non sarebbe vietata dall’ordinamento. Inoltre, la copiosa documentazione allegata all’istanza renderebbe del tutto evidenti le ragioni della sua -OMISSIS-ntà di cambiamento, da ricercarsi nella necessità di affrancarsi, almeno dal punto di vista documentale, da un cognome – quello paterno – divenuto sinonimo di incomprensione e di mancanza di amore.
Le censure sono fondate.
2.2. Premette anzitutto il Collegio che il diritto al nome (quest’ultimo inteso sia come prenome, sia come cognome) costituisce un diritto assoluto della persona, la cui tutela risulta garantita sia dal codice civile (artt. 6 e ss.), sia dalla Carta Costituzionale (art. 22), sia dalle Carte sovranazionali (art. 8 CEDU; art. 7 Carta dei diritti fondamentali UE).
Il nome non rappresenta dunque soltanto lo strumento attraverso il quale la persona viene identificata all’interno dell’ordinamento, quale soggetto titolare di diritti e di obblighi, ma si pone anche e soprattutto quale attributo fondamentale della persona, quale segno distintivo, cioè, nel quale si identifica e compendia la personalità di ogni individuo.
Per tali ragioni, il legislatore, lungi dall’adottare un atteggiamento di aprioristica chiusura verso le domande di modifica del nome, tende invece a salvaguardare le relative istanze, purché esse siano espressione di scelte serie e ponderate, e non siano invece dettate dal semplice capriccio e/o vanità estetica, ovvero dalla -OMISSIS-ntà di ingenerare volutamente confusione negli interlocutori.
2.3. In particolare, ai sensi dell’art. 89, 1° comma, d.P.R. n. 396/2000, “Salvo quanto disposto per le rettificazioni, chiunque vuole cambiare il nome o aggiungere al proprio un altro nome ovvero vuole cambiare il cognome, anche perché ridicolo o vergognoso o perché rivela l'origine naturale o aggiungere al proprio un altro cognome, deve farne domanda al prefetto della provincia del luogo di residenza o di quello nella cui circoscrizione è situato l'ufficio dello stato civile dove si trova l'atto di nascita al quale la richiesta si riferisce. Nella domanda l'istante deve esporre le ragioni a fondamento della richiesta”.
Dispone poi i successivo secondo comma che: “Nella domanda si deve indicare la modificazione che si vuole apportare al nome o al cognome oppure il nome o il cognome che si intende assumere”.
Recita infine il 3° comma che: “In nessun caso può essere richiesta l'attribuzione di cognomi di importanza storica o comunque tali da indurre in errore circa l'appartenenza del richiedente a famiglie illustri o particolarmente note nel luogo in cui si trova l'atto di nascita del richiedente o nel luogo di sua residenza”.
3. Tale essendo il tenore della cennata previsione normativa, occorre ora indagarne la portata.
Sul punto, osserva il Collegio che, per condivisa giurisprudenza amministrativa, “Il legislatore non limita la possibilità di richiedere il cambiamento del nome a ipotesi specifiche, citando a titolo meramente esemplificativo le ipotesi del norme "ridicolo o vergognoso" o capace di "rivelare l'origine naturale" dell'interessato; l'unico ostacolo predeterminato in termini vincolati dal legislatore è rappresentato dal fatto che non può essere richiesta l'attribuzione di cognomi di importanza storica o comunque tali da indurre in errore circa l'appartenenza del richiedente a famiglie illustri o particolarmente note nel luogo in cui si trova l'atto di nascita del richiedente o nel luogo di sua residenza” (TAR Sardegna, I, 20.5.2016, n. 445. In termini confermativi, cfr, ex multis, TAR Lombardia, I, 10.1.2011, n. 7. Di recente, cfr. TAR Toscana, II, 14.2.2017, n. 252).
Ne consegue che l’Amministrazione non è titolare di una potestà discrezionale in senso “classico”, il cui esercizio debba quindi concludersi con la ponderazione dell'interesse privato con quello pubblico, venendo piuttosto in evidenza soltanto l'esigenza di una verifica della serietà del fatto e dei connessi motivi di rilievo anche morale dell'istanza.
4. Venendo ora al caso in esame, si legge nell’impugnato provvedimento che l’istanza “… non risulta sorretta da adeguata motivazione”. Inoltre, alla luce di precedenti istanze presentate dal ricorrente per mutare il proprio nome e cognome, “… la reiterazione di più istanze è incompatibile con il carattere di eccezionalità che il cambiamento del cognome, quale elemento fondante della identità personale, riveste nell’ordinamento giuridico”.
Nel provvedimento odiernamente impugnato si riportano infine le valutazioni espresse nel preavviso di diniego emesso in altro procedimento riguardante il ricorrente, in cui si afferma che: “… la richiesta non (può) essere accolta in quanto priva di elementi validi e sufficienti per procedere al cambiamento richiesto essendo un cognome scelto senza relazione ad alcun legame parentale ed essendo tra l’altro l’attribuzione di un cognome di pura fantasia, in linea generale, contrario ai principi dello stato civile. …”.
Alla luce di tale impianto motivazionale, le ragioni del diniego possono dunque così sintetizzarsi:
1) l’istanza non sarebbe sorretta da adeguata motivazione;
2) la reiterazione di più istanze sarebbe incompatibile con il ritenuto carattere di eccezionalità del cambiamento del cognome;
3) il cognome scelto (-OMISSIS-, in luogo di -OMISSIS-) non avrebbe alcuna relazione con il legame parentale, e sarebbe quindi di pura fantasia. La qual cosa sarebbe contraria ai principi dello stato civile.
Ognuna di tale motivazione deve ritenersi giuridicamente errata.
5. Per quel che attiene al profilo sub 1), vi è in atti copiosa documentazione che rende del tutto evidenti le ragioni di cambiamento del cognome da parte del ricorrente. In particolare, quest’ultimo ha assunto alla nascita il cognome materno -OMISSIS-, avendogli la madre detto che il proprio papà era morto. Di seguito, a seguito del rifiuto della propria madre a tenerlo presso di sé, il ricorrente ha trascorso la propria infanzia passando da un istituto per l’infanzia ad un altro, e di ciò la propria personalità ne ha fortemente e negativamente risentito, come attestato dalle numerose relazioni degli assistenti sociali in atti.
Solo all’età di 16 anni il ricorrente è venuto a conoscenza che il proprio padre era in vita. Contattatolo, il genitore ha rifiutato ogni tipo di riconoscimento, e ciò ha indotto il ricorrente all’instaurazione di giudizio di riconoscimento della paternità, conclusosi con sentenza del Tribunale di Brindisi n. …, di accertamento di paternità giudiziale.
Ad onta del riconoscimento giudiziale, il padre ha continuato a rifiutare ogni contatto con il figlio, evitando finanche di rispondere alle numerose lettere inviategli da quest’ultimo.
Particolarmente significativa è l’ultima missiva rivolta dal ricorrente al padre in data 22.9.2016. Se ne estrapolano i passi più significativi:
Ciao papà sono mesi che ti scrivo lettere … ma non ha mai ricevuto risposta … Avrei voluto capire il motivo della tua scelta, avrei voluto solo capire che ruolo avevi nella mia vita quando ero piccolo e che ruoli vuoi adesso nella mia vita, ma dopo tutti gli insulti e minacce prese dai tuoi figli, dove chiedevo solo il modo di poter parlare con te e vederti, capisco che non ti è mai importato niente, il tuo silenzio è brutale … Ho deciso di non cercarti più, questa sarà la mia ultima lettera; sappi che sono cresciuto solo, circondato dal dolore, sofferenza, solitudine, abbandono, ma a te questo non importa, dentro di me c’è parte di te … ti abbraccio con tutto l’amore che posso, mille emozioni attraversano il mio essere, la mia fragilità non mi permette di scriverti senza che la mia tastiera del pc sia inondata di lacrime, ti auguro tutta la felicità del mondo e spero che in un’altra vita tu possa avere l’occasione di amarmi perché non sai che figlio meraviglioso avete messo al mondo.
Con amore, tuo figlio (non riesco ad odiarti)”.
Alla luce di tale missiva, la cui chiarezza di intenti è tale da non richiedere alcun commento interpretativo, sono di tutta evidenza le profonde motivazioni che hanno indotto il ricorrente a richiedere il cambio di cognome. Trattasi di motivazioni del tutto serie, che legittimano ex se la richiesta di cambiamento.
Motivazioni che, nondimeno, l’Amministrazione ha ignorato.
6. Venendo ora al profilo ostativo descritto sub 2) (la presunta incompatibilità della reiterazione di istanze con il ritenuto carattere di eccezionalità del cambiamento del cognome), esso deve ritenersi parimenti infondato, alla luce del percorso di vita che il ricorrente ha dovuto sostenere. Invero:
- la prima istanza, con cui il ricorrente ha chiesto il mutamento del nome da -OMISSIS- ad -OMISSIS-, fermo restando il cognome della madre (-OMISSIS-), è stata accolta con decreto prefettizio del 19.1.2011;
- la seconda istanza, di mutamento del cognome materno (-OMISSIS-) in altro cognome – e segnatamente: -OMISSIS-; cognome, quest’ultimo, con il quale il ricorrente ha avviato un proprio percorso professionale in campo artistico – è stata rigettata con decreto 20.12.2013, periodo in cui il ricorrente aveva tuttavia già scoperto di avere un padre (-OMISSIS- -OMISSIS-), ottenendone altresì il relativo riconoscimento dal Tribunale di Brindisi. Dunque, il citato diniego prefettizio si giustifica proprio in ragione del recente mutamento di cognome che era scaturito dalla suddetta pronuncia giudiziale (da -OMISSIS- a -OMISSIS-), il che sconsigliava un ulteriore cambio, allorquando, però, nulla lasciava presagire che il genitore giudizialmente riconosciuto persistesse nel suo atteggiamento di rifiuto di accettazione finanche dell’esistenza del proprio figlio;
- infine, la terza istanza, di mutamento del cognome da -OMISSIS- a -OMISSIS-, è quella oggetto della presente controversia. Tale istanza, lungi dal ritenersi meramente reiterativa della precedente, deve invece ritenersi del tutto seria, alla luce del “muro di silenzio” che il ricorrente ha incontrato nel proprio padre, tanto da indurlo ad un’ultima, struggente lettera di amore/addio (la citata lettera del 22.9.2016. Cfr. infra, punto n. 5).
Per tali ragioni, è di tutta evidenza che, contrariamente a quanto ritenuto dall’Amministrazione, la reiterazione di istanze di mutamento del cognome, lungi dal poter essere considerata quale espressione di mero capriccio del ricorrente, è invece sintomo di una scelta del tutto ponderata da parte di quest’ultimo. Scelta che, in difetto di ulteriori ragioni ostative (in alcun modo evidenziate dall’Amministrazione), avrebbe dovuto, pertanto, essere senz’altro assecondata.
7. Infine, per quel che attiene al profilo ostativo descritto sub 3) (il cognome scelto – -OMISSIS-, in luogo di -OMISSIS- – non avrebbe alcuna relazione con il legame parentale, e sarebbe quindi di pura fantasia. La qual cosa sarebbe contraria ai principi dello stato civile), trattasi di argomentazione giuridica errata, essendo essa smentita dal citato dettato normativo (art. 89 d.P.R. n. 396/2000), che non pone alcun divieto all’utilizzo di cognomi di fantasia, unico impedimento essendo quello di assunzione di cognomi di importanza storica, ovvero tali da indurre in errore l’interlocutore.
8. Alla luce di tali considerazioni, è evidente l’illegittimità dell’atto impugnato, avendo l’Amministrazione posto a fondamento del diniego considerazioni ora infondate in fatto (la presunta assenza di motivazioni giustificative del cambio del cognome), ora giuridicamente irrilevanti (la reiterazione di istanze), ora contrastanti con il dettato normativo (la natura di pura fantasia del cognome prescelto), laddove invece l’esame obiettivo della documentazione allegata all’istanza – e in particolare, la serietà della stessa – rendeva doverosa l’attribuzione del cambio del cognome.
9. Ne consegue, in accoglimento del ricorso, l’annullamento dell’atto impugnato.
10. Ricorrono giusti motivi per la compensazione delle spese di lite.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie, e annulla per l’effetto l’atto impugnato.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma 1 D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare il ricorrente e il controinteressato.

venerdì 23 giugno 2017






Corte di Giustizia UE 21 giugno 2017, n. C-449/16

Rinvio pregiudiziale – Previdenza sociale – Regolamento (CE) n. 883/2004 – Articolo 3 – Prestazioni familiari – Direttiva 2011/98/UE – Articolo 12 – Diritto alla parità di trattamento – Cittadini di paesi terzi titolari di un permesso unico






L’articolo 12 della direttiva 2011/98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale come quella oggetto del procedimento principale, in base alla quale il cittadino di un paese terzo, titolare di un permesso unico ai sensi dell’articolo 2, lettera c), di tale direttiva, non può beneficiare di una prestazione come l’assegno a favore dei nuclei familiari con almeno tre figli minori, istituito dalla legge del 23 dicembre 1998, n. 448, recante Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo.












SENTENZA DELLA CORTE (Settima Sezione)
21 giugno 2017
Nella causa C‑449/16,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dalla Corte d’appello di Genova (Italia), con ordinanza dell’8 luglio 2016, pervenuta in cancelleria il 5 agosto 2016, nel procedimento
Kerly Del Rosario Martinez Silva
contro
Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS)
Comune di Genova,
LA CORTE (Settima Sezione),
composta da A. Prechal, presidente di sezione, A. Rosas e E. Jarašiūnas (relatore), giudici,
avvocato generale: E. Tanchev
cancelliere: A. Calot Escobar
vista la fase scritta del procedimento,
considerate le osservazioni presentate:
–        per K.D.R Martinez Silva, da L. Neri e A. Guariso, avvocati,
–        per il governo italiano, da G. Palmieri, in qualità di agente, assistita da P. Gentili, avvocato dello Stato;
–        per la Commissione europea, da D. Martin e C. Cattabriga, in qualità di agenti,
vista la decisione, adottata dopo aver sentito l’avvocato generale, di giudicare la causa senza conclusioni,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1        La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale (GU 2004, L 166, pag. 1 e rettifica in GU 2004, L 200, pag. 1), come modificato dal regolamento (CE) n. 988/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 settembre 2009 (GU 2009, L 284, pag. 43) (in prosieguo: il «regolamento n. 883/2004»), nonché dell’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro (GU 2011, L 343, pag. 1).
2        Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la sig.ra Kerly Del Rosario Martinez Silva, da un lato, e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS, Italia) e il Comune di Genova (Italia), dall’altro, in merito al rigetto di un’istanza volta ad ottenere un assegno a favore dei nuclei familiari con almeno tre figli minori (in prosieguo: l’«ANF»).
 Contesto normativo
 Diritto dell’Unione
3        Un «permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo» è, ai sensi dell’articolo 2, lettera g), della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo (GU 2004, L 16, pag. 44), un titolo di soggiorno rilasciato dallo Stato membro interessato al momento dell’acquisizione dello status di soggiornante di lungo periodo previsto da tale direttiva.
4        L’articolo 2 della direttiva 2011/98, intitolato «Definizioni», prevede quanto segue:
«Ai fini della presente direttiva, si intende per:
a)      “cittadino di un paese terzo” chi non è cittadino dell’Unione ai sensi dell’articolo 20, paragrafo 1, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea;
b)      “lavoratore di un paese terzo” un cittadino di un paese terzo, ammesso nel territorio di uno Stato membro, che soggiorni regolarmente e sia autorizzato a lavorare in tale Stato membro nel quadro di un rapporto di lavoro retribuito conformemente al diritto o alla prassi nazionale;
c)      “permesso unico” un permesso di soggiorno rilasciato dalle autorità di uno Stato membro che consente a un cittadino di un paese terzo di soggiornare regolarmente nel territorio di quello Stato membro a fini lavorativi;
(...)».
5        L’articolo 3, paragrafo 1, di tale direttiva, intitolato «Ambito di applicazione», dispone quanto segue:
«La presente direttiva si applica:
(...)
c)      ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale».
6        Ai sensi dell’articolo 12 di tale direttiva, intitolato «Diritto alla parità di trattamento»:
«1.      I lavoratori dei paesi terzi di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere b e c), beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne:
(...)
e)      i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004;
(...)
2.      Gli Stati membri possono limitare la parità di trattamento:
(...)
b)      limitando i diritti conferiti ai lavoratori di paesi terzi ai sensi del paragrafo 1, lettera e), senza restringerli per i lavoratori di paesi terzi che svolgono o hanno svolto un’attività lavorativa per un periodo minimo di sei mesi e sono registrati come disoccupati.
Inoltre, gli Stati membri possono decidere che il paragrafo 1, lettera e), per quanto concerne i sussidi familiari, non si applichi ai cittadini di paesi terzi che sono stati autorizzati a lavorare nel territorio di uno Stato membro per un periodo non superiore a sei mesi, ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi a scopo di studio o ai cittadini di paesi terzi cui è consentito lavorare in forza di un visto;
(...)».
7        In forza dell’articolo 1, lettera z), del regolamento n. 883/2004, il termine «prestazione familiare», designa tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati nell’allegato I di tale regolamento.
8        L’articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del medesimo regolamento prevede che quest’ultimo si applica a tutte le legislazioni relative alle prestazioni familiari. Esso non si applica, secondo il disposto del paragrafo 5, lettera a), di detto articolo, all’assistenza sociale e medica.
 Diritto italiano
9        Dall’ordinanza di rinvio risulta che, in forza dell’articolo 65 della legge del 23 dicembre 1998, n. 448, recante Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo (supplemento ordinario alla GURI n. 210, del 29 dicembre 1998; in prosieguo: la «legge n. 448/1998»), i nuclei familiari con tre o più figli di età inferiore ai 18 anni, titolari di redditi inferiori a un determinato limite (EUR 25 384,91 nel 2014) percepiscono l’ANF. L’importo mensile di quest’ultimo era fissato, per il 2014, in EUR 141,02.
10      Inizialmente riservato ai soli cittadini italiani, l’ANF è stato esteso ai cittadini dell’Unione europea nel 2000, poi ai cittadini di paesi terzi titolari dello status di rifugiato politico o della protezione sussidiaria nel 2007 e, infine, mediante l’articolo 13 della legge del 6 agosto 2013, n. 97, recante Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2013 (GURI n. 194, del 20 agosto 2013), ai titolari di un permesso di soggiorno di lungo periodo e ai familiari dei cittadini dell’Unione.
11      Il recepimento della direttiva 2011/98 nel diritto interno è avvenuto con decreto legislativo del 4 marzo 2014, n. 40, recante Attuazione della direttiva 2011/98/UE relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di Paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di Paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro (GURI n. 68, del 22 marzo 2014), che ha istituito il «permesso unico di lavoro».
 Procedimento principale e questioni pregiudiziali
12      La sig.ra Martinez Silva, cittadina di un paese terzo, risiede nel Comune di Genova ed è titolare di un permesso unico di lavoro di durata superiore a sei mesi. Madre di tre figli di età inferiore ai 18 anni e titolare di redditi inferiori al limite stabilito dalla legge n. 448/1998, nel 2014 essa ha chiesto l’attribuzione dell’ANF, che le è stata negata con il motivo che era priva del permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo‑CE.
13      Dinanzi al Tribunale di Genova (Italia), essa ha quindi esperito, nei confronti del Comune di Genova e dell’INPS, un’azione civile contro la discriminazione al fine di ottenere il pagamento della somma di EUR 1 833,26 relativamente all’anno 2014 nonché il riconoscimento della spettanza di detto assegno per gli anni successivi, facendo valere che tale rifiuto era contrario all’articolo 12 della direttiva 2011/98. Tali domande sono state respinte con ordinanza del 18 agosto 2015, con la motivazione che le disposizioni di cui al regolamento n. 883/2004 invocate erano di carattere meramente programmatico, che detto regolamento non comprendeva gli assegni alimentari tra le prestazioni di sicurezza sociale a carico della collettività e che non risultava dimostrato che la sig.ra Martinez Silva si trovasse legalmente in Italia da almeno cinque anni.
14      La Corte d’appello di Genova (Italia), adita in appello, nutre dubbi in merito alla compatibilità dell’articolo 65 della legge n. 448/1998 con il diritto dell’Unione, poiché tale disposizione non consente al cittadino di un paese terzo, titolare di un permesso unico, di ottenere l’ANF, in contrasto con il principio di parità di trattamento enunciato all’articolo 12 della direttiva 2011/98.
15      Il giudice del rinvio espone anzitutto che l’ANF è una prestazione in denaro, destinata a compensare i carichi familiari, che viene concessa alle famiglie che ne abbiano particolare bisogno in considerazione del numero di figli minori e delle condizioni economiche. A suo avviso, tale prestazione appare riconducibile a quelle di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento n. 883/2004, con la precisazione che essa non costituisce un anticipo su assegno alimentare né sugli assegni menzionati all’allegato I del medesimo regolamento.
16      Richiamandosi alla sentenza del 24 aprile 2012, Kamberaj (C‑571/10, EU:C:2012:233), il giudice del rinvio osserva poi che nessuna delle limitazioni al principio di parità di trattamento previste dall’articolo 12, paragrafo 2, lettera b) della direttiva 2011/98 è applicabile al caso oggetto del procedimento principale, dato che la Repubblica italiana non ha inteso avvalersi della facoltà, prevista da tale disposizione, di limitare l’applicazione di detto principio e che, per di più, la sig.ra Martinez Silva non si trova in alcuna delle situazioni indicate al secondo comma della medesima disposizione, essendo titolare di un permesso unico di lavoro avente durata superiore ai sei mesi. Il giudice ritiene che l’interessata faccia dunque parte delle persone alle quali si applica il principio di parità di trattamento.
17      In tale contesto, la Corte d’appello di Genova ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1)      Se una prestazione come quella prevista dall’articolo 65 della legge n. 448/1998, denominata [ANF], costituisca una prestazione familiare ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento (CE) n. 883/2004.
2)      In caso di riposta positiva, se il principio di parità di trattamento sancito dall’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE osti ad una normativa, come quella italiana, in base alla quale un lavoratore di paese terzo in possesso di “permesso unico per lavoro” (avente durata superiore ai sei mesi) non può beneficiare del suddetto [ANF] pur essendo convivente con tre o più figli minori e titolare di redditi inferiori al limite di legge».
 Sulle questioni pregiudiziali
18      Con le sue due questioni, che è opportuno esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 12 della direttiva 2011/98 debba essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale come quella oggetto del procedimento principale, in base alla quale il cittadino di un paese terzo, titolare di un permesso unico ai sensi dell’articolo 2, lettera c), di tale direttiva, non può ottenere il beneficio di una prestazione come l’ANF, istituito dalla legge n. 448/1998.
19      Dato che l’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98 prevede che i lavoratori provenienti da paesi terzi di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere b e c), della medesima direttiva beneficino dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento n. 883/2004, occorre in primo luogo esaminare, come suggerito dal giudice del rinvio, se una prestazione come l’ANF costituisca una prestazione di sicurezza sociale, riconducibile alle prestazioni familiari di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del medesimo regolamento, oppure una prestazione di assistenza sociale, esclusa dall’ambito di applicazione di tale regolamento ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 5, lettera a), di quest’ultimo, come sostiene il governo italiano.
20      A tale riguardo si deve ricordare che, come ripetutamente giudicato dalla Corte con riferimento al regolamento (CEE) n. 1408/71 del Consiglio, del 14 giugno 1971, relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità (GU 1971, L 149, pag. 2), la distinzione fra prestazioni escluse dall’ambito di applicazione del regolamento n. 883/2004 e prestazioni che vi rientrano è basata essenzialmente sugli elementi costitutivi di ciascuna prestazione, in particolare sulle sue finalità e sui presupposti per la sua attribuzione, e non sul fatto che essa sia o no qualificata come prestazione di sicurezza sociale da una normativa nazionale (v., in tal senso, in particolare, sentenze del 16 luglio 1992, Hughes, C‑78/91, EU:C:1992:331, punto 14; del 20 gennaio 2005, Noteboom, C‑101/04, EU:C:2005:51, punto 24, e del 24 ottobre 2013, Lachheb, C‑177/12, EU:C:2013:689, punto 28). Una prestazione può essere considerata come una prestazione di sicurezza sociale qualora sia attribuita ai beneficiari prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle loro esigenze personali, in base ad una situazione definita per legge, e si riferisca a uno dei rischi espressamente elencati nell’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento n. 883/2004 (v. in tal senso, in particolare, sentenze del 16 luglio 1992, Hughes, C‑78/91, EU:C:1992:331, punto 15; del 15 marzo 2001, Offermanns, C‑85/99, EU:C:2001:166, punto 28, nonché del 19 settembre 2013, Hliddal e Bornand, C‑216/12 e C‑217/12, EU:C:2013:568, punto 48).
21      La Corte ha già dichiarato che le modalità di finanziamento di una prestazione e, in particolare, il fatto che la sua attribuzione non sia subordinata ad alcun presupposto contributivo sono irrilevanti per la sua qualificazione come prestazione di sicurezza sociale (v. in tal senso, sentenze del 16 luglio 1992, Hughes, C‑78/91, EU:C:1992:331, punto 21; del 15 marzo 2001, Offermanns, C‑85/99, EU:C:2001:166, punto 46, e del 24 ottobre 2013, Lachheb, C‑177/12, EU:C:2013:689, punto 32).
22      Peraltro, il fatto che una prestazione sia concessa o negata in considerazione dei redditi e del numero di figli non implica che la sua concessione dipenda da una valutazione individuale delle esigenze personali del richiedente, caratteristica dell’assistenza sociale, nei limiti in cui si tratta di criteri obiettivi e definiti per legge che, quando sono soddisfatti, danno diritto a tale prestazione senza che l’autorità competente possa tener conto di altre circostanze personali (v., in tal senso, sentenza del 16 luglio 1992, Hughes, C‑78/91, EU:C:1992:331, punto 17). Così, prestazioni attribuite automaticamente alle famiglie che rispondono a determinati criteri obiettivi, riguardanti segnatamente le loro dimensioni, il loro reddito e le loro risorse di capitale, prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali, e destinate a compensare i carichi familiari, devono essere considerate prestazioni di sicurezza sociale (sentenza del 14 giugno 2016, Commissione/Regno Unito, C‑308/14, EU:C:2016:436, punto 60).
23      In merito alla questione se una data prestazione rientri nelle prestazioni familiari di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento n. 883/2004, si deve rilevare che, ai sensi dell’articolo 1, lettera z), del medesimo regolamento, l’espressione «prestazione familiare» indica tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati nell’allegato I di tale regolamento. La Corte ha già dichiarato che l’espressione «compensare i carichi familiari» deve essere interpretata nel senso che essa fa riferimento, in particolare, a un contributo pubblico al bilancio familiare, destinato ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli (v., in tal senso, sentenza del 19 settembre 2013, Hliddal e Bornand, C‑216/12 e C‑217/12, EU:C:2013:568, punto 55 e giurisprudenza ivi citata).
24      Per quanto concerne la prestazione oggetto del procedimento principale, risulta dagli atti che, da un lato, l’ANF è versato ai beneficiari che ne facciano richiesta e che soddisfino le condizioni relative al numero di figli minori e ai redditi previste dall’articolo 65 della legge n. 448/1998. Tale prestazione, pertanto, viene concessa prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali del richiedente, in base a una situazione definita per legge. Dall’altro lato, l’ANF consiste in una somma di denaro versata ogni anno ai suddetti beneficiari e destinata a compensare i carichi familiari. Si tratta dunque proprio di una prestazione in denaro destinata, attraverso un contributo pubblico al bilancio familiare, ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli.
25      Dall’insieme delle suesposte considerazioni risulta che una prestazione quale l’ANF costituisce una prestazione di sicurezza sociale, rientrante nelle prestazioni familiari di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento n. 883/2004.
26      Occorre pertanto esaminare, in secondo luogo, se il cittadino di un paese terzo, titolare di un permesso unico ai sensi dell’articolo 2, lettera c), della direttiva 2011/98, possa essere escluso dal beneficio di una siffatta prestazione da una normativa nazionale come quella oggetto del procedimento principale.
27      A tal riguardo, dall’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98, in combinato disposto con l’articolo 3, paragrafo 1, lettera c), di quest’ultima, risulta che devono beneficiare della parità di trattamento prevista dalla prima di tali disposizioni, fra gli altri, i cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o del diritto nazionale. Ebbene, è questo il caso del cittadino di un paese terzo titolare di un permesso unico ai sensi dell’articolo 2, lettera c), di tale direttiva, dato che, in forza di tale disposizione, detto permesso consente a tale cittadino di soggiornare regolarmente a fini lavorativi nel territorio dello Stato membro che l’ha rilasciato.
28      Tuttavia, ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 2, lettera b), primo comma, della direttiva 2011/98, gli Stati membri possono limitare i diritti conferiti dall’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della medesima direttiva ai lavoratori di paesi terzi, eccezion fatta per quelli che svolgono o hanno svolto un’attività lavorativa per un periodo minimo di sei mesi e sono registrati come disoccupati. Inoltre, conformemente all’articolo 12, paragrafo 2, lettera b), secondo comma, della predetta direttiva, gli Stati membri possono decidere che l’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della stessa, che concerne i sussidi familiari, non si applichi ai cittadini di paesi terzi che sono stati autorizzati a lavorare nel territorio di uno Stato membro per un periodo non superiore a sei mesi, nonché ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in tale territorio a scopo di studio o ai cittadini di paesi terzi cui è ivi consentito lavorare in forza di un visto.
29      Quindi, analogamente alla direttiva 2003/109, la direttiva 2011/98 prevede, in favore di taluni cittadini di paesi terzi, un diritto alla parità di trattamento, che costituisce la regola generale, ed elenca le deroghe a tale diritto che gli Stati membri hanno la facoltà di istituire. Tali deroghe possono dunque essere invocate solo qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato per l’attuazione di tale direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di avvalersi delle stesse (v., per analogia, sentenza del 24 aprile 2012, Kamberaj, C‑571/10, EU:C:2012:233, punti 86 e 87).
30      Orbene, il giudice del rinvio osserva che la Repubblica italiana non ha inteso avvalersi della facoltà di limitare la parità di trattamento facendo ricorso all’articolo 12, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2011/98, giacché essa non ha manifestato in alcun modo una simile volontà. Quindi, le disposizioni della normativa italiana che limitano il beneficio dell’ANF, nel caso di cittadini di paesi terzi, ai titolari di un permesso di soggiorno di lungo periodo e alle famiglie dei cittadini dell’Unione, disposizioni adottate del resto prima del recepimento nel diritto interno della suddetta direttiva, come risulta dai punti 10 e 11 della presente sentenza, non possono essere considerate come istitutive delle limitazioni al diritto alla parità di trattamento che gli Stati membri hanno la facoltà di introdurre ai sensi della medesima direttiva.
31      Ne consegue che il cittadino di un paese terzo, titolare di un permesso unico ai sensi dell’articolo 2, lettera c), della direttiva 2011/98 non può essere escluso dal beneficio di una prestazione quale l’ANF mediante una tale normativa nazionale.
32      In considerazione di tutto quanto precede, alle questioni sollevate occorre rispondere dichiarando che l’articolo 12 della direttiva 2011/98 deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale come quella oggetto del procedimento principale, in base alla quale il cittadino di un paese terzo, titolare di un permesso unico ai sensi dell’articolo 2, lettera c), di tale direttiva, non può beneficiare di una prestazione come l’ANF, istituito dalla legge n. 448/1998.
 Sulle spese
33      Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Settima Sezione) dichiara:
L’articolo 12 della direttiva 2011/98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale come quella oggetto del procedimento principale, in base alla quale il cittadino di un paese terzo, titolare di un permesso unico ai sensi dell’articolo 2, lettera c), di tale direttiva, non può beneficiare di una prestazione come l’assegno a favore dei nuclei familiari con almeno tre figli minori, istituito dalla legge del 23 dicembre 1998, n. 448, recante Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo.

Così deciso e pronunciato a Lussemburgo il 21 giugno 2017.
Dal sito http://curia.europa.eu

venerdì 16 giugno 2017





Cass. 15 giugno 2017, n. 14878

La Prima Sezione civile ha ritenuto non essere contraria all’ordine pubblico (internazionale) la rettifica, in Italia, in conformità al corrispondente atto britannico già validamente rettificato, dell’atto di nascita di un minore registrato come figlio originariamente solo di una donna italiana e, successivamente, anche di un’altra, con stessa nazionalità, che, pur non avendo con lui alcun rapporto biologico, aveva con la prima contratto matrimonio all’estero


giovedì 15 giugno 2017









Camera dei Deputati, Interrogazione a risposta immediata in Assemblea n. 3/03072 presentata dall’on. GALGANO il 13 giugno 2017,  sulle iniziative volte a disciplinare l’attribuzione del cognome ai figli, alla luce della sentenza n. 286 del 2016 della Corte costituzionale, con particolare riguardo al rispetto del principio di parità tra i genitori, Seduta di mercoledì 14 giugno 2017


con sentenza 8 novembre 2016, n. 286, pubblicata nella Gazzetta ufficiale, serie speciale n. 52, del 28 dicembre 2016, inviata alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica, la Corte costituzionale, pronunciandosi sulla questione di costituzionalità sollevata dalla corte di appello di Genova, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma di sistema «nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno», estendendo la pronuncia anche ai figli nati fuori dal matrimonio o adottati;
la sentenza ha una portata storica perché segna il superamento dell'attribuzione automatica del cognome paterno, già definita dalla stessa Corte costituzionale come «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia» (sentenza n. 61 del 2006);
come evidenziato nella stessa sentenza «in assenza dell'accordo dei genitori, residua la generale previsione dell'attribuzione del cognome paterno, in attesa di un indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità»;
nonostante le numerose proposte di legge d'iniziativa parlamentare avanzate sin dagli anni ’80, la condanna nel 2014 della Corte di Strasburgo e la conseguente presentazione di un disegno di legge governativo, il Parlamento non ha approvato alcuna norma al riguardo: l'atto Senato 1628, già approvato dalla Camera dei deputati, è da oltre due anni all'esame del Senato della Repubblica unitamente ad altri disegni di legge;
a due mesi dalla data di pubblicazione della sentenza, le problematiche connesse alla fase di sua prima e concreta applicazione risultano in gran parte non risolte;
oltre alle necessarie misure amministrative ed organizzative, si impone un urgente adeguamento del quadro normativo, affinché sia dato doveroso seguito alle perentorie e chiarissime conclusioni della Corte costituzionale sopra riportate –:
se il Governo intenda adottare opportune iniziative, per quanto di competenza, allo scopo di eliminare la persistente discriminazione dell'attuale disciplina di cui in premessa e dare piena attuazione, in linea con quanto emerge dalla sentenza della Corte costituzionale, ai principi di cui agli articoli 2, 3 e 29 della Costituzione, in modo da garantire il «diritto del minore all'identità personale unitamente al riconoscimento del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione di tale identità», come rilevato nella sentenza n. 286 del 2016 della Corte costituzionale






PRESIDENTE. La deputata Galgano ha facoltà di illustrare la sua interrogazione n. 3-03072 (Vedi l’allegato A), per un minuto.

ADRIANA GALGANO. Grazie, signora Presidente. Buongiorno, Ministro Orlando, la Corte costituzionale, a novembre 2016, ha di fatto dichiarato incostituzionale la norma nella parte nella quale non consentiva ai coniugi di attribuire anche il cognome materno ai figli all’atto della nascita. Oggi, quindi, è possibile attribuire il doppio cognome, però un vuoto regolamentare e normativo lo rende veramente molto difficile. Perciò noi chiediamo al Governo cosa intenda fare per garantire ai genitori il diritto costituzionale di attribuire il doppio cognome ai figli e per garantire al minore il diritto alla costruzione di un’identità personale che tenga conto di contributi paritari di entrambi i genitori.

PRESIDENTE. Il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha facoltà di rispondere.


ANDREA ORLANDO, Ministro della Giustizia. Grazie, Presidente. Con l’atto di sindacato ispettivo in discussione l’onorevole interrogante rileva l’urgenza di un pronto adeguamento del nostro sistema ordinamentale alla recente sentenza della Corte costituzionale 8 novembre 2016 n. 286 affinché trovino piena ed effettiva realizzazione il diritto del minore all’identità personale e il principio di eguaglianza dei coniugi rispettivamente sanciti agli articoli 2 e 3 della Costituzione. Com’è noto, il giudice delle leggi è stato chiamato a valutare della legittimità della norma sull’automatica attribuzione del cognome paterno laddove non consente ai genitori che ne facciano concorde richiesta al momento della nascita di attribuire al figlio anche il cognome materno. Nel ripercorrere la giurisprudenza della CEDU in materia nonché precedenti pronunce della stessa Corte, ha rilevato come l’attuale ordinamento pregiudichi il diritto di identità personale del minore e al contempo costituisca un’irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi che non trova alcuna giustificazione nella finalità di salvaguardia dell’unità familiare. In particolare, la Corte Costituzionale ha evidenziato come il diritto all’identità personale trovi nel nome il suo primo ed immediato riscontro, riconoscendo così il diritto del figlio ad essere identificato sin dalla nascita attraverso l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori che concordino in tal senso. Su tali premesse ha dunque dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma desumibile dalle disposizioni del codice civile in materia di filiazione legittima e naturale e di adozione nella parte in cui non consente ai coniugi di comune accordo di trasmettere ai figli al momento della nascita anche il cognome materno. Mi preme rilevare che il tema è oggetto di dibattito parlamentare ancor prima della pronunzia in parola e conferma la necessità di un intervento riformatore della materia con l’obiettivo di una definizione di nuovi criteri di attribuzione dei cognomi ai figli rispettosi dell’uguaglianza dei coniugi e del diritto alla piena identità personale del minore. In tale prospettiva si inserisce infatti il disegno di legge n. 1628 recante disposizioni in materia di attribuzione del cognome ai figli attualmente all’esame della II Commissione giustizia del Senato. Il provvedimento infatti prevede che i genitori all’atto della dichiarazione di nascita del figlio possano attribuirgli, secondo la loro volontà, il cognome del padre o quello della madre o quelli di entrambi nell’ordine concordato e che, in caso di mancato accordo tra i genitori, al figlio siano attribuiti i cognomi di entrambi i genitori in ordine alfabetico. Intendo rassicurare l’onorevole interrogante che il Governo e il Ministero che rappresento, nel condividere gli obiettivi del provvedimento, assicureranno il massimo contributo al dibattito parlamentare per una rapida definizione dell’iter legislativo.

PRESIDENTE. La deputata Galgano ha facoltà di replicare.


ADRIANA GALGANO. Grazie, Ministro, per averci assicurato che parteciperà ai lavori parlamentari ma chiaramente, per tutta la parte che riguarda il Parlamento, ero già abbondantemente aggiornata, poiché il disegno di legge, di cui lei parla, è stato approvato dalla Camera nel 2014, l’anno nel quale poi la Corte di Strasburgo ci ha punito proprio sul tema. Quindi mi aspettavo di sapere invece da parte sua cosa intende fare il Governo - era questa la domanda - perché la circolare fatta dal Ministero dell’interno all’inizio del 2017 per dare delle indicazioni non si è rivelata assolutamente sufficiente. Esistono molti problemi pratici che possono essere risolti solo da un tavolo interministeriale al quale partecipano il Ministero dell’interno e il Ministero della giustizia e mi aspettavo di sentirle dire questo. Ora quindi capiamo che c’è bisogno di un ulteriore intervento, un’azione di spinta nei confronti del Governo affinché prenda atto che questo tavolo interministeriale è assolutamente indispensabile perché non è giusto che i genitori siano sottoposti a una situazione di incertezza nell’esercitare tale loro diritto e, come Civici e Innovatori, assicuriamo che daremo un grande impulso perché il tavolo ministeriale venga finalmente organizzato.




Circolare Ministero dell’Interno – Dip. affari interni e territoriali – Dir. Centr. Serv. Dem. 14 giugno 2017, n. 7,  Sentenza della Corte Costituzionale n. 286 del 21 dicembre 2016. Attribuzione del cognome materno ai nuovi nati. Indicazioni operative e monitoraggio


La sentenza della Corte Costituzionale in oggetto - in relazione alla quale è stata diramata, lo scorso 19 gennaio, una prima circolare informativa - ha, come noto, accolto la questione di legittimità secondo cui «la norma che impone l'attribuzione automatica ed esclusiva del solo cognome paterno .... sarebbe lesiva sia dei principi che garantiscono la tutela del diritto al nome, sia di quelli in tema di eguaglianza e di non discriminazione tra uomo e donna nella trasmissione del cognome al figlio, sia esso legittimo o naturale».

Dunque, è ora consentito ai genitori del nuovo nato - tra loro coniugati o meno - di attribuire, di comune accordo, il doppio cognome, paterno e materno, al momento della nascita.

Al fine di corrispondere alle richieste di chiarimento finora pervenute, si forniscono le seguenti indicazioni operative.

Una. prima questione attiene all'esistenza o meno di formalità necessarie per documentare l'accordo tra i genitori sul cognome materno, e come tali preliminari all'accoglimento, da parte dell'ufficio dello stato civile, della richiesta dei genitori di attribuire al nuovo nato «anche» tale cognome. In particolare, con riguardo alla fattispecie, invero frequente, in cui è il padre che rende la dichiarazione di nascita, è stato posta la questione circa la necessità che questi fornisca all'ufficio anche la prova dell'accordo, mediante la presentazione di una dichiarazione sottoscritta dalla madre, ancora ricoverata presso il centro di nascita.

Al riguardo va chiarito che, in assenza di apposite disposizioni normative, gli uffici dello stato civile non possono richiedere agli interessati oneri documentali ulteriori rispetto a quelli previsti dall'ordinamento.

Ed, infatti, nell'ordinamento dello stato civile, le formalità che sorreggono il legittimo e corretto operare degli uffici sono esclusivamente quelle poste dalle apposite fonti di settore e, quindi, dal codice civile e dalle altre leggi rilevanti, dai regolamento di cui al D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, nonché dal decreto del Ministro dell'Interno del 5 aprile 2002, recante le formule per la redazione degli atti e dei processi verbali da inserire nei registri e da conservare negli archivi.

Del resto, la stessa disciplina dell'attribuzione del nome al nuovo nato - nella quale è da sempre escluso qualsivoglia automatismo - fa perno sull'accordo dei genitori, presunto e non da provare davanti all'ufficiale, in quanto elemento presupposto nella dichiarazione di nascita, ancorché resa da uno solo dei genitori.

L'attribuzione del nome - cui ora è possibile ricondurre anche l'attribuzione del cognome - è infatti un atto di esercizio della responsabilità genitoriale che implica non un effetto ope legis bensì la previa e concorde scelta dei genitori.

E già dal 1975 la riforma del diritto di famiglia ha superato il principio per cui tale potere spetti al padre quale capo della famiglia e titolare delle decisioni familiari.

D'altra parte, va pure rimarcato che si collocano su un piano ben diverso quelle disposizioni che, invece, prescrivono che l'accordo delle parti, quale incontro delle volontà, si formi davanti all'ufficiale dello stato civile, stabilendo specifiche formalità, come In materia di separazione e divorzio (art. 12, D.L. n. 132/2014, conv. L. n. 164/2014).



***



In relazione alle altre problematiche sinora emerse, si forniscono - alla luce della pronuncia costituzionale, e in attesa di auspicati interventi del legislatore, anche ivi richiamati - i seguenti, ulteriori chiarimenti:

1.Considerato che la pronuncia ha riguardo alla trasmissione «anche» del cognome materno, deve ritenersi che le relative novità ordinamentali riguardino unicamente la posposizione di questo al cognome paterno, e non l'anteposizione.

2. L'attribuzione «anche» del cognome materno al nuovo nato, ove prescelta, non può non riguardare tutti gli elementi onomastici di cui detto cognome sia composto.

3. In tema di adozione, ambito pure attinto dalla declaratoria di incostituzionalità, l'attribuzione «anche» del cognome materno all'adottato, che risulti dal pertinente provvedimento giudiziario, va esattamente riportata in sede di trascrizione dello stesso.

4. L'attribuzione «anche» del cognome materno, ove risultante dagli atti di nascita formati dalle autorità indicate nell'art. 8, D.P.R. n. 396/2000, va esattamente riportata in sede di trascrizione degli stessi.

5. La volontà della madre di non essere nominata nella dichiarazione di nascita (art. 30, comma 1, D.P.R. n. 396/2000) deve ritenersi incompatibile con la presunzione di accordo tra i genitori - coniugati o meno - sull'attribuzione del cognome materno.

6. Sui piano del diritto Internazionale privato, anche gli atti di nascita, formati all'estero, di figli di genitori entrambi esclusivamente italiani, recanti il cognome materno di seguito a quello paterno, sono ora ricevibili ai fini della trascrizione.

7. Le novità in esame trovano applicazione per gli atti di nascita che si formano dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza (avvenuta nella G.U. n. 52 del 28/12/2016), fermo restando che, dopo la chiusura dell'atto di nascita, ogni modifica del cognome rientra nella disciplina autorizzatoria di cui agli artt. 89 e ss., D.P.R. n. 396/2000.

A tale ultimo riguardo si pone in evidenza che le SS.LL. - nel valutare le domande volte a conseguire, ai sensi dei citati artt. 89 e ss., l'autorizzazione ad aggiungere il cognome materno a quello paterno - non potranno non tener conto dei principi generali espressi nella nota sentenza, seppure riferiti ad un diverso ambito.

Le SS.LL. vorranno portare a conoscenza dei Sigg. Sindaci quanto sopra rappresentato, segnalando ulteriori questioni di rilievo, monitorando l'attuazione delle descritte novità, con particolare riferimento a:
a) dichiarazioni di nascita;
b) richieste di trascrizione;
c) istanze ex artt. 89 e ss., D.P.R. n. 396/2000, riguardanti l'aggiunta del cognome materno.


Confidando nella consueta collaborazione, si resta in attesa, entro il 15 luglio p.v., di una prima rappresentazione alla data del 30 giugno 2017.

mercoledì 14 giugno 2017





La questione del crocefisso (negli uffici pubblici)

Tar Sardegna 7 giugno 2017, n. 383

Il Collegio ricorda: 1) che “la Grande Camera della Corte europea per i diritti dell'uomo, con sentenza del 18 marzo 2011, ric.30814/06, ha assolto l’Italia dall'accusa di violazione dei diritti umani per l'esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche, affermando che la cultura dei diritti dell’uomo non deve essere posta in contraddizione con i fondamenti religiosi della civiltà europea, a cui il cristianesimo ha dato un contributo essenziale”; 2)  che, nella pronuncia suddetta, si è evidenziato come, “secondo il principio di sussidiarietà, (…sia..)  doveroso garantire ad ogni Paese un margine di apprezzamento quanto al valore dei simboli religiosi nella propria storia culturale e identità nazionale e quanto al luogo della loro esposizione; in caso contrario, in nome della libertà religiosa si tenderebbe paradossalmente invece a limitare o persino a negare questa libertà, finendo per escluderne dallo spazio pubblico ogni espressione”; 3) che, secondo i giudici di Strasburgo, “il crocifisso non viene considerato un elemento di indottrinamento, ma espressione dell’identità culturale e religiosa dei Paesi di tradizione cristiana”. Critico sulla lettura della sentenza di Strasburgo, fornita dal Tar, CORTESE, Il giudice crocefisso, in www.lacostituzione.info (13 giugno 2017)




FATTO e DIRITTO
Con ricorso notificato in data 20 gennaio 2010 e depositato in data 17 febbraio 2010, l’Unione ricorrente ha impugnato l’ordinanza del 23 novembre 2009 n. 21, adottata ai sensi degli artt. 50 e 54 del D.Lgs. n. 267/2000, con la quale il Sindaco del Comune di M. ha ordinato l’immediata affissione del crocifisso in tutti gli uffici pubblici presenti nel territorio comunale, e ha previsto la sanzione amministrativa di euro 500,00 a carico dei trasgressori, incaricando la polizia locale alla vigilanza sulla esatta osservanza dell’ordine impartito.
In data 22 gennaio 2010, il Sindaco di M., con ordinanza n. 3/2010, ha disposto la revoca del provvedimento impugnato.
In seguito alla revoca dell’ordinanza n. 21/2009, è sopravvenuta la carenza di interesse della ricorrente all’annullamento del provvedimento impugnato, che deve sussistere non solo al momento della proposizione del ricorso ma anche in epoca successiva, in base al principio per cui le condizioni dell’azione devono permanere fino al passaggio in decisione della controversia; ciò stante, non resta al Collegio che prendere atto della sopravvenuta carenza di interesse e dichiarare l’improcedibilità della domanda di annullamento.
Tuttavia l’UUAR, con memoria depositata il 29.4.2017, ha insistito per la pronuncia sulla fondatezza delle proprie pretese.
Tralasciando i vizi formali dell’ordinanza impugnata, divenuti irrilevanti in seguito alla revoca del provvedimento medesimo, questo Collegio ritiene di doversi pronunciare sui vizi di merito eccepiti nel ricorso e ribaditi nella memoria di parte ricorrente.
Nel merito il ricorso è infondato.
Invero, la Grande Camera della Corte europea per i diritti dell'uomo, con sentenza del 18 marzo 2011, ric.30814/06, ha assolto l’Italia dall'accusa di violazione dei diritti umani per l'esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche, affermando che la cultura dei diritti dell’uomo non deve essere posta in contraddizione con i fondamenti religiosi della civiltà europea, a cui il cristianesimo ha dato un contributo essenziale. La Corte ha evidenziato inoltre che, secondo il principio di sussidiarietà, è doveroso garantire ad ogni Paese un margine di apprezzamento quanto al valore dei simboli religiosi nella propria storia culturale e identità nazionale e quanto al luogo della loro esposizione; in caso contrario, in nome della libertà religiosa si tenderebbe paradossalmente invece a limitare o persino a negare questa libertà, finendo per escluderne dallo spazio pubblico ogni espressione. Il crocifisso, in particolare, non viene considerato dai giudici di Strasburgo un elemento di indottrinamento, ma espressione dell’identità culturale e religiosa dei Paesi di tradizione cristiana.
Alla luce delle suesposte considerazioni, anche le doglianze di merito devono essere disattese.
In conclusione il ricorso va in parte respinto ed in parte dichiarato improcedibile.
Sussistono giusti motivi per disporre l’integrale compensazione fra le parti delle spese e degli onorari del giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando, in parte respinge ed in parte dichiara improcedibile il ricorso come in epigrafe. Compensa integralmente fra le parti le spese e gli onorari del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

martedì 13 giugno 2017





Cambiamento di cognome del bipolide (cittadino dell’Unione)


Corte di Giustizia UE 8 giugno 2017, n. C-541/15

Rinvio pregiudiziale – Cittadinanza dell’Unione – Articolo 21 TFUE – Libertà di circolare e di soggiornare negli Stati membri – Cittadino avente sia la cittadinanza dello Stato membro di residenza sia quella dello Stato membro di nascita – Cambiamento di cognome nello Stato membro di nascita al di fuori di un periodo di residenza abituale – Nome corrispondente al nome di nascita – Domanda d’iscrizione di tale nome nel registro dello stato civile dello Stato membro di residenza – Rigetto di tale domanda – Motivo – Non acquisizione del nome nel corso di un periodo di residenza abituale – Esistenza di altre procedure nel diritto nazionale per ottenere il riconoscimento del medesimo nome








L’articolo 21 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a che l’ufficio dello stato civile di uno Stato membro rifiuti di riconoscere e di trascrivere nel registro dello stato civile il nome legalmente ottenuto da un cittadino di tale Stato membro in un altro Stato membro, di cui egli parimenti possiede la cittadinanza, e corrispondente al suo nome di nascita, sulla base di una disposizione del diritto nazionale che subordina la possibilità di ottenere una siffatta trascrizione tramite dichiarazione all’ufficio dello stato civile alla condizione che tale nome sia stato acquisito durante un periodo di residenza abituale in tale altro Stato membro, a meno che esistano nel diritto nazionale altre disposizioni che consentano effettivamente il riconoscimento di detto nome.







SENTENZA DELLA CORTE (Seconda Sezione)
8 giugno 2017
Nella causa C‑541/15,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dall’Amtsgericht Wuppertal (tribunale distrettuale di Wuppertal, Germania), con decisione del 24 settembre 2015, pervenuta in cancelleria il 16 ottobre 2015, nel procedimento promosso da
Mircea Florian Freitag
con l’intervento di:
Angela Freitag,
Vica Pavel,
Stadt Wuppertal,
Oberbürgermeister der Stadt Wuppertal,
LA CORTE (Seconda Sezione),
composta da M. Ilešič, presidente di sezione, A. Prechal, A. Rosas (relatore), C. Toader e E. Jarašiūnas, giudici,
avvocato generale: M. Szpunar
cancelliere: R. Schiano, amministratore
vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 15 settembre 2016,
considerate le osservazioni presentate:
–        per il governo tedesco, da M. Hellmann, T. Henze e J. Mentgen, in qualità di agenti;
–        per il governo portoghese, da L. Inez Fernandes, M. Figueiredo e M. Castelo-Branco, in qualità di agenti;
–        per il governo rumeno, da A. Wellman e R.H. Radu, in qualità di agenti;
–        per la Commissione europea, da E. Montaguti e G. von Rintelen, in qualità di agenti,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 24 novembre 2016,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1        La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli articoli 18 e 21 TFUE.
2        Tale domanda è stata presentata nell’ambito di un procedimento promosso dal sig. Mircea Florian Freitag in merito al riconoscimento, in Germania, e alla trascrizione nel registro dello stato civile di un cambiamento di cognome a vantaggio di un nome legalmente acquisito in Romania.
 Contesto normativo
 Disposizioni pertinenti della legge introduttiva al codice civile
3        L’articolo 5 dell’Einführungsgesetz zum Bürgerlichen Gesetzbuch (legge introduttiva al codice civile), del 21 settembre 1994 (BGBl. 1994 I, pag. 2494, e rettificativo BGBl. 1997 I, pag. 1061), nella versione applicabile ai fatti di cui al procedimento principale (in prosieguo: l’«EGBGB»), rubricato «Status personale», dispone, al suo paragrafo 1, prima e seconda frase:
«Quando è fatto rinvio al diritto dello Stato di cui una persona ha la cittadinanza e quest’ultima ne possiede più d’una, trova applicazione il diritto dello Stato con cui tale persona ha il legame più stretto, in particolare alla luce della sua residenza abituale o del suo percorso di vita. Se tale persona possiede parimenti la cittadinanza tedesca, tale status giuridico prevale».
4        L’articolo 10 dell’EGBGB, intitolato «Nome», prevede, al suo paragrafo 1:
«Il nome di una persona è disciplinato dalla legge dello Stato di cui essa ha la cittadinanza».
5        L’articolo 48 dell’EGBGB, intitolato «Scelta di un nome acquisito in un altro Stato membro dell’Unione», così dispone:
«Qualora il nome di una persona sia soggetto al diritto tedesco, la persona stessa può scegliere, mediante dichiarazione resa dinanzi all’ufficio dello stato civile, il nome acquisito durante un periodo di residenza abituale in un altro Stato membro dell’Unione e ivi trascritto nei registri dello stato civile, a condizione che ciò non sia palesemente incompatibile con principi fondamentali del diritto tedesco. La scelta del nome ha effetto retroattivo dal momento della trascrizione nei registri dello stato civile dell’altro Stato membro, salvo che la persona dichiari espressamente che tale scelta debba produrre effetti solo ex nunc. La dichiarazione deve essere resa per atto pubblico o per scrittura privata autenticata. (...)».
 Legge sul cambiamento di nome
6        In diritto tedesco, il cambiamento di nome è disciplinato dal diritto pubblico, più precisamente dalla procedura prevista dalla Gesetz über die Änderung von Familiennamen und Vornamen (NamÄndG) (legge sul cambiamento di cognome e di nome), del 5 gennaio 1938 (RGBl. 1938 I, pag. 9), come modificata dall’articolo 54 della legge del 17 dicembre 2008 (BGBl. 2008 I, pag. 2586) (in prosieguo: la «legge sul cambiamento di nome»).
7        L’articolo 1 della legge sul cambiamento di nome è così formulato:
«Il cognome di un cittadino tedesco o di un apolide che risieda o soggiorni abitualmente in Germania può essere modificato su richiesta».
8        L’articolo 3, paragrafo 1, di detta legge così dispone:
«Un cognome può essere modificato solo se un motivo importante giustifica tale cambiamento».
9        Conformemente all’articolo 3, paragrafo 2, della legge sul cambiamento di nome, le circostanze del caso di specie rilevanti ai fini della decisione devono essere valutate d’ufficio.
10      In forza dell’articolo 5, paragrafo 1, della legge sul cambiamento di nome, la richiesta di cambiamento di cognome deve essere presentata presso l’amministrazione di grado inferiore nella circoscrizione nella quale il richiedente risiede o soggiorna.
11      Il punto 27, paragrafo 1, dell’Allgemeine Verwaltungsvorschrift zum Gesetz über die Änderung von Familiennamen und Vornamen (NamÄndVwV) (regolamento amministrativo generale relativo alla legge sul cambiamento di cognome e di nome), dell’11 agosto 1980, come modificato da ultimo dal regolamento amministrativo dell’11 febbraio 2014 (BAnz. AT, del 18 febbraio 2014, B2) (in prosieguo: il «regolamento relativo alla legge sul cambiamento di nome»), è così formulato:
«Il nome delle persone è disciplinato in dettaglio e – in linea di principio – in maniera esaustiva dalle disposizioni applicabili di diritto civile. La modifica del nome, che rientra nell’ambito del diritto amministrativo pubblico, è diretta a eliminare gli effetti dannosi in un determinato caso. Essa ha carattere eccezionale. Di conseguenza, occorre previamente verificare se l’obiettivo perseguito non possa essere raggiunto con una dichiarazione di cambiamento di nome in forza del diritto civile o tramite un’ordinanza del giudice tutelare».
12      Il punto 28 di tale regolamento stabilisce quanto segue:
«Un cognome può essere modificato solo se un motivo importante giustifica tale cambiamento. Si è in presenza di un motivo importante quando l’interesse legittimo del richiedente (...) al cambiamento di nome è superiore agli interessi legittimi eventualmente contrari di altre parti interessate (...) e ai principi relativi al nome derivanti dalle disposizioni legali, di cui fanno parte la funzione di regolamentazione sociale del nome e l’interesse pubblico al mantenimento del nome trasmesso (...)».
13      Ai sensi del punto 31 di detto regolamento:
«Se il bilanciamento che deve essere effettuato conformemente al punto 28 fa emergere un interesse legittimo superiore del richiedente alla modifica del cognome e che sussiste di conseguenza un motivo importante per la modifica del suo nome, occorre di norma accogliere la richiesta. Elementi già considerati nell’ambito del bilanciamento volto a stabilire la sussistenza del motivo importante non possono più essere presi in considerazione come motivi discrezionali. Se non sussiste alcun motivo importante che giustifichi il cambiamento di nome, la domanda deve essere respinta».
14      Il punto 49 del regolamento relativo alla legge sul cambiamento di nome così prevede:
«Quando un cittadino tedesco, che possiede parimenti la cittadinanza di un altro Stato, porta, in base al diritto di detto altro Stato, un cognome diverso da quello che è tenuto a portare in forza del diritto sul territorio di applicazione della legge, tale ambiguità nella titolarità del nome può essere eliminata cambiando il cognome che dev’essere portato sul territorio di applicazione della legge con il cognome che dev’essere portato in base al diritto dell’altro Stato. Di contro, in caso di rinuncia all’altro cognome, occorre rimettere l’interessato dinanzi alle autorità dell’altro Stato di cui egli possiede la cittadinanza».
15      Nel caso in cui l’amministrazione competente neghi il cambiamento di nome, contro una siffatta decisione di diniego sono aperte le possibilità di ricorso amministrativo. Nel caso, invece, di accoglimento della richiesta di cambiamento di cognome da parte dell’amministrazione competente, essa assicura che il cambiamento di nome sia seguito dall’aggiornamento o sia constatato nel registro dello stato civile.
 Fatti del procedimento principale e questione pregiudiziale
16      Il ricorrente nel procedimento principale è nato il 25 aprile 1986 in Romania con il cognome di Pavel. Egli è il figlio della sig.ra Angela Freitag e del sig. Vica Pavel, cittadini rumeni, e ha la cittadinanza rumena.
17      Dopo il divorzio dei suoi genitori, sua madre si è risposata con un cittadino tedesco, il sig. Freitag.
18      Con una decisione giudiziaria del 21 maggio 1997, il sig. Freitag ha adottato il ricorrente nel procedimento principale e quest’ultimo ha acquisito così la cittadinanza tedesca e porta, da allora, il cognome Freitag.
19      Con decisione del consiglio distrettuale di Brașov (Romania) del 9 luglio 2013, il cognome del ricorrente nel procedimento principale è tornato ad essere Pavel, a richiesta di quest’ultimo. Durante la procedura di cambiamento di nome in Romania, il ricorrente nel procedimento principale aveva la residenza abituale in Germania.
20      Egli si è rivolto in seguito allo Standesamt der Stadt Wuppertal (ufficio dello stato civile di Wuppertal, Germania) presentando il proprio nuovo passaporto rumeno emesso con il cognome Pavel, e ha chiesto che la modifica del nome fosse riconosciuta anche dal diritto tedesco e che la trascrizione nel registro dello stato civile fosse integrata in tal senso.
21      Nutrendo dubbi circa la possibilità di iscrivere un atto successivo nel registro dello stato civile, l’ufficio dello stato civile di Wuppertal e l’Oberbürgermeister der Stadt Wuppertal (sindaco di Wuppertal, Germania) hanno sottoposto la questione alla valutazione dell’Amtsgericht Wuppertal (tribunale distrettuale di Wuppertal, Germania).
22      Secondo il giudice del rinvio, poiché il ricorrente nel procedimento principale aveva la residenza abituale in Germania nel corso della procedura di cambiamento di nome in Romania, l’articolo 48 dell’EGBGB non può applicarsi, in quanto tale disposizione subordina la possibilità di scegliere, tramite dichiarazione all’ufficio dello stato civile, un nome acquisito in un altro Stato membro dell’Unione alla condizione che il nome di cui trattasi sia stato acquisito nel corso di un periodo di residenza abituale in tale altro Stato membro, condizione che non è soddisfatta nella specie.
23      Il giudice del rinvio precisa che non è possibile neanche un’applicazione analogica dell’articolo 48 dell’EGBGB. Dai documenti relativi alla procedura legislativa risulterebbe che il legislatore volesse in particolare attuare i requisiti risultanti dalla sentenza del 14 ottobre 2008, Grunkin e Paul (C‑353/06, EU:C:2008:559), e che fosse consapevole del fatto che non rientrano in tale disposizione tutte le situazioni di divergenza di cognome.
24      Di conseguenza, il giudice del rinvio si chiede se gli articoli 18 e 21 TFUE impongano il riconoscimento di un cambiamento di nome effettuato in un altro Stato membro qualora l’interessato non abbia la residenza abituale in tale altro Stato membro, ma presenti con questo un legame diverso a motivo della sua doppia cittadinanza.
25      In tali circostanze, l’Amtsgericht Wuppertal (tribunale distrettuale di Wuppertal) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:
«Se gli articoli 18 e 21 TFUE debbano essere interpretati nel senso che le autorità di uno Stato membro siano tenute a riconoscere la modifica del cognome di un cittadino di tale Stato qualora questi sia, al contempo, cittadino di un altro Stato membro e in tale Stato abbia (ri‑)acquisito, a seguito di una modifica del cognome non legata a una variazione dello stato di famiglia, il proprio cognome originario ricevuto alla nascita, benché l’acquisizione di tale cognome non sia avvenuta quando il cittadino aveva la residenza abituale nell’altro Stato membro e sia avvenuta dietro sua richiesta».
 Sulla questione pregiudiziale
 Osservazioni preliminari
26      In limine, occorre indicare che il giudice del rinvio si basa sull’articolo 48 dell’EGBGB, ove, con la sua questione, esso desidera sapere se gli articoli 18 e 21 TFUE ostino a che le autorità competenti di uno Stato membro rifiutino di riconoscere il cognome legalmente ottenuto, da un cittadino di tale Stato membro, in un altro Stato membro di cui egli parimenti possiede la cittadinanza, sebbene lo stesso non avesse la residenza abituale in tale altro Stato membro.
27      Occorre rilevare che, nella sua domanda, il giudice del rinvio menziona l’esistenza, sottolineata altresì dal governo tedesco e dalla Commissione europea, di una procedura distinta, rientrante nel diritto pubblico, prevista dalla legge sul cambiamento di nome e che consente di richiedere, presso l’amministrazione, la modifica del nome.
28      Tale procedura ai sensi della legge sul cambiamento di nome è applicabile, secondo il governo tedesco, in una situazione come quella del ricorrente nel procedimento principale, nei limiti in cui, anche se l’articolo 48 dell’EGBGB è, in linea di principio, applicabile a quest’ultimo, egli non soddisfa tuttavia il requisito della residenza abituale in un altro Stato membro posto da tale disposizione. Secondo il governo tedesco, la procedura ai sensi della legge sul cambiamento di nome consente a una persona, in una situazione comparabile a quella del ricorrente nel procedimento principale, di acquisire il diritto di portare il nome ottenuto in forza del diritto di un altro Stato membro presentando una richiesta in tal senso presso l’amministrazione competente.
29      Nell’ambito della procedura di cooperazione tra i giudici nazionali e la Corte, spetta a quest’ultima fornire al giudice nazionale una risposta utile che gli consenta di dirimere la controversia sottopostagli. In tale prospettiva, spetta alla Corte, se necessario, riformulare le questioni che le sono sottoposte (v., in particolare, sentenza del 19 settembre 2013, Betriu Montull, C‑5/12, EU:C:2013:571, punto 40).
30      In tali circostanze, la questione posta dal giudice del rinvio va intesa come volta, in sostanza, a sapere se gli articoli 18 e 21 TFUE debbano essere interpretati nel senso che ostano a che l’ufficio dello stato civile di uno Stato membro neghi di riconoscere e di trascrivere nel registro dello stato civile il nome legalmente ottenuto da un cittadino di tale Stato membro, in un altro Stato membro di cui parimenti possiede la cittadinanza, e corrispondente al suo nome di nascita, sulla base di una disposizione del diritto nazionale che subordina la possibilità di richiedere una siffatta trascrizione tramite dichiarazione all’ufficio dello stato civile alla condizione che tale nome sia stato acquisito durante un periodo di residenza abituale in tale altro Stato membro, sebbene altre disposizioni del diritto nazionale consentano allo stesso cittadino di presentare una richiesta di cambiamento di nome a un’altra autorità, che ha il potere discrezionale di statuire su tale richiesta.
31      Si deve aggiungere che, conformemente a una giurisprudenza costante della Corte, l’articolo 21 TFUE comporta non soltanto il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, ma parimenti il divieto di qualsivoglia discriminazione basata sulla cittadinanza. Di conseguenza, occorre esaminare la situazione del ricorrente nel procedimento principale esclusivamente alla luce di tale disposizione (sentenza del 12 maggio 2011, Runevič-Vardyn e Wardyn, C‑391/09, EU:C:2011:291, punto 65; v., per analogia, sentenza del 2 giugno 2016, Bogendorff von Wolffersdorff, C‑438/14, EU:C:2016:401, punto 34).
 Sull’ambito di applicazione del diritto dell’Unione
32      In limine, occorre esaminare se la situazione del ricorrente nel procedimento principale rientri nell’ambito di applicazione materiale del diritto dell’Unione e, in particolare, delle norme che disciplinano l’esercizio, da parte di un cittadino dell’Unione, del suo diritto di libera circolazione e che vietano la discriminazione.
33      Da una consolidata giurisprudenza risulta che, sebbene, allo stato attuale del diritto dell’Unione, le norme che disciplinano la trascrizione negli atti dello stato civile del cognome di una persona rientrino nella competenza degli Stati membri, questi ultimi, nell’esercizio di tale competenza, devono comunque rispettare il diritto dell’Unione e, in particolare, le disposizioni del Trattato relative alla libertà riconosciuta a ciascun cittadino dell’Unione di circolare e di soggiornare nel territorio degli Stati membri (sentenze del 2 ottobre 2003, Garcia Avello, C‑148/02, EU:C:2003:539, punto 25; del 14 ottobre 2008, Grunkin e Paul, C‑353/06, EU:C:2008:559, punto 16; del 22 dicembre 2010, Sayn-Wittgenstein, C‑208/09, EU:C:2010:806, punti 38 e 39; del 12 maggio 2011, Runevič-Vardyn e Wardyn, C‑391/09, EU:C:2011:291, punto 63, nonché del 2 giugno 2016, Bogendorff von Wolffersdorff, C‑438/14, EU:C:2016:401, punto 32).
34      Secondo una giurisprudenza costante, un collegamento con il diritto dell’Unione sussiste nei confronti di persone cittadini di uno Stato membro e che soggiornano legalmente sul territorio di un altro Stato membro (sentenza del 2 ottobre 2003, Garcia Avello, C‑148/02, EU:C:2003:539, punto 27). Ciò accade nel caso del ricorrente nel procedimento principale, che ha la cittadinanza rumena e soggiorna nel territorio della Repubblica federale di Germania, di cui parimenti possiede la cittadinanza.
 Sull’esistenza di una restrizione alla libera circolazione ai sensi dell’articolo 21 TFUE
35      Si deve ricordare che la Corte ha ripetutamente dichiarato che una normativa nazionale che sfavorisca taluni cittadini nazionali per il solo fatto che essi abbiano esercitato la loro libertà di circolare e di soggiornare in un altro Stato membro rappresenta una restrizione alle libertà riconosciute dall’articolo 21, paragrafo 1, TFUE ad ogni cittadino dell’Unione (sentenze del 14 ottobre 2008, Grunkin e Paul, C‑353/06, EU:C:2008:559, punto 21; del 22 dicembre 2010, Sayn-Wittgenstein, C‑208/09, EU:C:2010:806, punto 53; del 12 maggio 2011, Runevič-Vardyn e Wardyn, C‑391/09, EU:C:2011:291, punto 68, nonché del 2 giugno 2016, Bogendorff von Wolffersdorff, C‑438/14, EU:C:2016:401, punto 36).
36      Dalla giurisprudenza della Corte risulta altresì che il diniego, da parte dell’amministrazione di uno Stato membro, di riconoscere il nome di un cittadino di tale Stato che abbia esercitato il proprio diritto di libera circolazione e che possegga parimenti la cittadinanza di un altro Stato membro, così come determinato in quest’ultimo Stato membro, è idoneo ad ostacolare l’esercizio del diritto, sancito all’articolo 21 TFUE, di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. Infatti, da una diversità tra i due nomi applicati ad una stessa persona possono nascere confusioni ed inconvenienti (v., in tal senso, sentenza del 2 giugno 2016, Bogendorff von Wolffersdorff, C‑438/14, EU:C:2016:401, punto 37).
37      A tale riguardo, va ricordato che numerose attività della vita quotidiana, sia in ambito pubblico che privato, richiedono di fornire la prova della propria identità e, trattandosi di una famiglia, la prova della natura dei vincoli familiari esistenti fra i vari membri della stessa (sentenze del 12 maggio 2011, Runevič-Vardyn e Wardyn, C‑391/09, EU:C:2011:291, punto 73, nonché del 2 giugno 2016, Bogendorff von Wolffersdorff, C‑438/14, EU:C:2016:401, punto 43).
38      Per un cittadino avente la cittadinanza di due Stati membri, come avviene nel caso del ricorrente nel procedimento principale, esiste un rischio concreto, a causa del fatto di portare due cognomi differenti, ossia Pavel e Freitag, di dovere dissipare dubbi riguardo alla propria identità nonché all’autenticità dei documenti prodotti o alla veridicità dei dati in essi contenuti, situazione che, come dichiarato dalla Corte, costituisce una circostanza idonea ad ostacolare l’esercizio del diritto conferito dall’articolo 21 TFUE (v. sentenze del 22 dicembre 2010, Sayn-Wittgenstein, C‑208/09, EU:C:2010:806, punto 70, e del 2 giugno 2016, Bogendorff von Wolffersdorff, C‑438/14, EU:C:2016:401, punto 40).
39      Di conseguenza, il diniego, da parte dell’ufficio dello stato civile di uno Stato membro, di riconoscere e di trascrivere nei registri dello stato civile il nome legalmente ottenuto da un cittadino di tale Stato membro in un altro Stato membro di cui egli possiede parimenti la cittadinanza, sulla base di una disposizione di diritto nazionale che subordina la possibilità di chiedere una siffatta trascrizione tramite dichiarazione all’ufficio dello stato civile alla condizione che detto nome sia stato acquisito nel corso di un periodo di residenza abituale in tale altro Stato membro, è idonea ad ostacolare l’esercizio del diritto, sancito all’articolo 21 TFUE, di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.
40      Il governo tedesco sostiene tuttavia che, poiché il diritto tedesco prevede altre basi giuridiche per procedere al cambiamento di nome a richiesta dell’interessato, ossia le disposizioni pertinenti della legge sul cambiamento di nome, non sussistono ostacoli alla libera circolazione delle persone che potrebbero sorgere da una divergenza di cognomi. Infatti, sebbene l’articolo 3, paragrafo 1, della legge sul cambiamento di nome subordini un siffatto cambiamento alla condizione che esso sia giustificato da un motivo importante, dal punto 49 del regolamento relativo alla legge sul cambiamento di nome risulterebbe che l’eliminazione di una divergenza di cognomi in relazione a cittadini tedeschi aventi doppia cittadinanza costituisce un siffatto motivo importante. Così, in una situazione come quella di cui trattasi nel procedimento principale, l’interessato potrebbe ottenere il riconoscimento del nome legalmente adottato nell’altro Stato membro presentando una richiesta ai sensi della legge sul cambiamento di nome presso l’amministrazione competente.
41      A tale riguardo, affinché una normativa come quella tedesca relativa al nome, considerata nel suo complesso, possa essere ritenuta compatibile con il diritto dell’Unione, è necessario che le disposizioni o la procedura interna che consentono di presentare una richiesta di cambiamento di nome non rendano impossibile o eccessivamente difficile l’attuazione dei diritti conferiti dall’articolo 21 TFUE. In linea di principio, poco importa sapere, dal punto di vista del diritto dell’Unione, quale sia la disposizione nazionale o la procedura interna in forza della quale il ricorrente può far valere i suoi diritti riguardanti il proprio nome.
42      Infatti, in mancanza di una normativa dell’Unione in materia di modifica del cognome, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro disciplinare le modalità previste dal diritto nazionale e destinate a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione, purché, da un lato dette modalità non siano meno favorevoli di quelle relative ai diritti che trovino origine nell’ordinamento giuridico interno (principio di equivalenza) e, dall’altro, esse non rendano impossibile o eccessivamente difficile, in pratica, l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione (principio di effettività) (v. in particolare, per analogia, sentenze del 12 settembre 2006, Eman e Sevinger, C‑300/04, EU:C:2006:545, punto 67; del 3 luglio 2014, Kamino International Logistics e Datema Hellmann Worldwide Logistics, C‑129/13 e C‑130/13, EU:C:2014:2041, punto 75, nonché dell’8 marzo 2017, Euro Park Service, C‑14/16, EU:C:2017:177, punto 36).
43      Spetta al giudice del rinvio valutare se gli sia possibile attuare esso stesso i diritti conferiti dall’articolo 21 TFUE e riconoscere il diritto al riconoscimento del nome acquisito in circostanze quali quelle di cui al procedimento principale o se il ricorrente in tale procedimento debba ricorrere alla procedura di diritto pubblico di cui alla legge sul cambiamento di nome.
44      Com’è stato indicato al punto 40 della presente sentenza, il governo tedesco sostiene che l’eliminazione di una divergenza di cognomi costituisce un «motivo importante» ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della legge sul cambiamento di nome. Inoltre, l’esercizio dei diritti di un cittadino come il ricorrente nel procedimento principale a norma dell’articolo 21 TFUE non sarebbe rimesso in discussione dal potere discrezionale di cui dispongono le autorità tedesche competenti.
45      Occorre sottolineare, a tale riguardo, che un siffatto potere discrezionale deve essere esercitato dalle autorità competenti in modo da garantire la piena efficacia dell’articolo 21 TFUE.
46      Occorre, in particolare, che la procedura esistente nel diritto tedesco e volta a consentire il cambiamento di nome sia idonea a garantire che l’esistenza di un «motivo importante» possa essere ammessa in circostanze quali quelle di cui al procedimento principale, nelle quali l’interessato presenta con l’altro Stato membro nel quale ha ottenuto il nome un collegamento diverso dalla residenza abituale, come la cittadinanza, al fine di consentire il riconoscimento del nome ottenuto in un altro Stato membro.
47      Si deve, pertanto, rispondere alla questione sollevata dichiarando che l’articolo 21 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a che l’ufficio dello stato civile di uno Stato membro rifiuti di riconoscere e di trascrivere nel registro dello stato civile il nome legalmente ottenuto da un cittadino di tale Stato membro in un altro Stato membro, di cui egli parimenti possiede la cittadinanza, e corrispondente al suo nome di nascita, sulla base di una disposizione del diritto nazionale che subordina la possibilità di ottenere una siffatta trascrizione tramite dichiarazione all’ufficio dello stato civile alla condizione che tale nome sia stato acquisito durante un periodo di residenza abituale in tale altro Stato membro, a meno che esistano nel diritto nazionale altre disposizioni che consentano effettivamente il riconoscimento di detto nome.
 Sulle spese
48      Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara:
L’articolo 21 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a che l’ufficio dello stato civile di uno Stato membro rifiuti di riconoscere e di trascrivere nel registro dello stato civile il nome legalmente ottenuto da un cittadino di tale Stato membro in un altro Stato membro, di cui egli parimenti possiede la cittadinanza, e corrispondente al suo nome di nascita, sulla base di una disposizione del diritto nazionale che subordina la possibilità di ottenere una siffatta trascrizione tramite dichiarazione all’ufficio dello stato civile alla condizione che tale nome sia stato acquisito durante un periodo di residenza abituale in tale altro Stato membro, a meno che esistano nel diritto nazionale altre disposizioni che consentano effettivamente il riconoscimento di detto nome.
Dal sito http://curia.europa.eu