PANOZZO, Le modifiche alla legge sulla cittadinanza (già approvate dalla Camera,
ora) in discussione al Senato: tra (poco) ius soli, (molto) ius culturae e
(alcune) ‘divagazioni’, comunque problemi (di interpretazione e coordinamento)
per i comuni
venerdì 30 giugno 2017
giovedì 29 giugno 2017
Residenza nel Comune dove si svolgerà l’attività oggetto del concorso come requisito di partecipazione
Concorso – Requisiti di partecipazione – Residenza
nel Comune dove si svolgerà l’attività – Illegittimità.
E’ illegittimo il bando per la selezione per la
formazione di una graduatoria relativa allo svolgimento di lavoro occasionale
presso la biblioteca comunale, che richiede quale requisito di partecipazione
la residenza nel Comune (1).
(1) Ha ricordato il Tar che la
Corte costituzionale ha più volte affermato che l'accesso in
condizioni di parità ai pubblici uffici può subire deroghe, con specifico
riferimento al luogo di residenza dei concorrenti, quando il requisito medesimo
sia ricollegabile, come mezzo al fine, all'assolvimento di servizi altrimenti
non attuabili o almeno non attuabili con identico risultato (sent. n. 158 del
1969, n. 86 del 1963, n. 13 del 1961, n. 15 del 1960, secondo la ricostruzione
effettuata dall'ordinanza n. 33 del 1988). Lo stesso giudice delle leggi ha
avuto modo di statuire, peraltro, anche che "non é razionale né
corrisponde propriamente al fine di una migliore organizzazione del servizio,
che sia data prevalenza assoluta, in materia di assunzioni impiegatizie, a
situazioni estrinseche di residenza su situazioni intrinseche di merito",
e che è da considerarsi illegittima una norma che "escludendo la
possibilità di valutazione del merito comparativo, concede un aprioristico
titolo preferenziale ai soli residenti in sede regionale" (sentenza n. 158
del 1969). Sono, pertanto, ammesse ragionevoli discriminazioni fra concorrenti
basate sulla residenza purché queste siano corrispondenti a situazioni connesse
con l'esistenza di particolari e razionali motivi di più idonea organizzazione
di servizi; inoltre, si riconduce una valutazione di illegittimità alle norme
che annettono all'elemento residenza un "valore condizionante", tale
da conferire ad esso la priorità su ogni altra valutazione comparativa di
merito.
Dal sito del Consiglio di Stato:
https://www.giustizia-amministrativa.it/cdsintra/cdsintra/Approfondimenti/Concorso/Requisitidipartecipazione/TarToscana27giugno2017n.891/index.html
Cambiamento di nome e/o cognome e poteri dell’Amministrazione
Tar Puglia, Lecce, 22 giugno 2017,
n. 1046
Nell’ambito del cambiamento del nome e/o del
cognome, l’Amministrazione non è titolare di una potestà discrezionale in senso
“classico”, il cui esercizio debba concludersi con la ponderazione
dell'interesse privato con quello pubblico, ma rileva, piuttosto, (soltanto)
l'esigenza di una verifica della serietà del fatto e dei connessi motivi di
rilievo anche morale dell'istanza avanzata dal privato [osserva il Collegio
che, “per condivisa giurisprudenza amministrativa, “Il legislatore non limita
la possibilità di richiedere il cambiamento del nome a ipotesi specifiche,
citando a titolo meramente esemplificativo le ipotesi del norme "ridicolo
o vergognoso" o capace di "rivelare l'origine naturale"
dell'interessato; l'unico ostacolo predeterminato in termini vincolati dal
legislatore è rappresentato dal fatto che non può essere richiesta
l'attribuzione di cognomi di importanza storica o comunque tali da indurre in
errore circa l'appartenenza del richiedente a famiglie illustri o
particolarmente note nel luogo in cui si trova l'atto di nascita del
richiedente o nel luogo di sua residenza”” ]
L’ordinamento non pone limiti alla
reiterazione di istanze di mutamento del cognome, se frutto non di mero
capriccio ma di scelte ponderate
L’art. 89 del d.P.R. 396/2000 non pone alcun
divieto all’utilizzo di cognomi di fantasia, unico impedimento essendo quello
di assunzione di cognomi di importanza storica, ovvero tali da indurre in
errore l’interlocutore.
FATTO e DIRITTO
1. È impugnata la nota in epigrafe, con cui è stata rigettata
l’istanza di mutamento del cognome proposta dal ricorrente.
A sostegno del ricorso, il ricorrente ha articolato i seguenti
motivi di gravame, appresso sintetizzati: violazione degli artt. 2, 22, 32
Cost; 89 d.P.R. n. 396/2000; art. 3 l. n. 241/90; eccesso di potere per errore,
difetto di istruttoria, irrazionalità; sviamento.
Nella camera di consiglio del 21.6.2017, fissata per la
discussione della domanda cautelare, il Collegio, accertata la completezza del
contraddittorio e dell’istruttoria, sentite sul punto le parti costituite, ha
definito il giudizio in camera di consiglio con sentenza in forma semplificata,
ai sensi dell’art. 60 c.p.a.
2. Con i vari motivi di gravame, che possono essere esaminati
congiuntamente, per comunanza delle relative censure, deduce il ricorrente
l’illegittimità dell’atto impugnato, in quanto assunto in base a presupposti
giuridici e fattuali errati. In particolare, ad avviso del ricorrente, la
scelta di cognome svincolato da pregressi legami parentali non sarebbe vietata
dall’ordinamento. Inoltre, la copiosa documentazione allegata all’istanza
renderebbe del tutto evidenti le ragioni della sua -OMISSIS-ntà di cambiamento,
da ricercarsi nella necessità di affrancarsi, almeno dal punto di vista
documentale, da un cognome – quello paterno – divenuto sinonimo di
incomprensione e di mancanza di amore.
Le censure sono fondate.
2.2. Premette anzitutto il Collegio che il diritto al nome
(quest’ultimo inteso sia come prenome, sia come cognome) costituisce un diritto
assoluto della persona, la cui tutela risulta garantita sia dal codice civile
(artt. 6 e ss.), sia dalla Carta Costituzionale (art. 22), sia dalle Carte sovranazionali
(art. 8 CEDU; art. 7 Carta dei diritti fondamentali UE).
Il nome non rappresenta dunque soltanto lo strumento attraverso
il quale la persona viene identificata all’interno dell’ordinamento, quale
soggetto titolare di diritti e di obblighi, ma si pone anche e soprattutto
quale attributo fondamentale della persona, quale segno distintivo, cioè, nel
quale si identifica e compendia la personalità di ogni individuo.
Per tali ragioni, il legislatore, lungi dall’adottare un
atteggiamento di aprioristica chiusura verso le domande di modifica del nome,
tende invece a salvaguardare le relative istanze, purché esse siano espressione
di scelte serie e ponderate, e non siano invece dettate dal semplice capriccio
e/o vanità estetica, ovvero dalla -OMISSIS-ntà di ingenerare volutamente
confusione negli interlocutori.
2.3. In particolare, ai sensi dell’art. 89, 1° comma, d.P.R. n.
396/2000, “Salvo quanto disposto per le rettificazioni, chiunque vuole cambiare
il nome o aggiungere al proprio un altro nome ovvero vuole cambiare il cognome,
anche perché ridicolo o vergognoso o perché rivela l'origine naturale o
aggiungere al proprio un altro cognome, deve farne domanda al prefetto della
provincia del luogo di residenza o di quello nella cui circoscrizione è situato
l'ufficio dello stato civile dove si trova l'atto di nascita al quale la
richiesta si riferisce. Nella domanda l'istante deve esporre le ragioni a
fondamento della richiesta”.
Dispone poi i successivo secondo comma che: “Nella domanda si
deve indicare la modificazione che si vuole apportare al nome o al cognome
oppure il nome o il cognome che si intende assumere”.
Recita infine il 3° comma che: “In nessun caso può essere
richiesta l'attribuzione di cognomi di importanza storica o comunque tali da
indurre in errore circa l'appartenenza del richiedente a famiglie illustri o
particolarmente note nel luogo in cui si trova l'atto di nascita del
richiedente o nel luogo di sua residenza”.
3. Tale essendo il tenore della cennata previsione normativa,
occorre ora indagarne la portata.
Sul punto, osserva il Collegio che, per condivisa
giurisprudenza amministrativa, “Il legislatore non limita la possibilità di
richiedere il cambiamento del nome a ipotesi specifiche, citando a titolo
meramente esemplificativo le ipotesi del norme "ridicolo o
vergognoso" o capace di "rivelare l'origine naturale"
dell'interessato; l'unico ostacolo predeterminato in termini vincolati dal
legislatore è rappresentato dal fatto che non può essere richiesta
l'attribuzione di cognomi di importanza storica o comunque tali da indurre in
errore circa l'appartenenza del richiedente a famiglie illustri o
particolarmente note nel luogo in cui si trova l'atto di nascita del
richiedente o nel luogo di sua residenza” (TAR Sardegna, I, 20.5.2016, n. 445.
In termini confermativi, cfr, ex multis, TAR Lombardia, I, 10.1.2011, n. 7. Di
recente, cfr. TAR Toscana, II, 14.2.2017, n. 252).
Ne consegue che l’Amministrazione non è titolare di una potestà
discrezionale in senso “classico”, il cui esercizio debba quindi concludersi
con la ponderazione dell'interesse privato con quello pubblico, venendo
piuttosto in evidenza soltanto l'esigenza di una verifica della serietà del
fatto e dei connessi motivi di rilievo anche morale dell'istanza.
4. Venendo ora al caso in esame, si legge nell’impugnato
provvedimento che l’istanza “… non risulta sorretta da adeguata motivazione”.
Inoltre, alla luce di precedenti istanze presentate dal ricorrente per mutare
il proprio nome e cognome, “… la reiterazione di più istanze è incompatibile
con il carattere di eccezionalità che il cambiamento del cognome, quale
elemento fondante della identità personale, riveste nell’ordinamento
giuridico”.
Nel provvedimento odiernamente impugnato si riportano infine le
valutazioni espresse nel preavviso di diniego emesso in altro procedimento
riguardante il ricorrente, in cui si afferma che: “… la richiesta non (può)
essere accolta in quanto priva di elementi validi e sufficienti per procedere
al cambiamento richiesto essendo un cognome scelto senza relazione ad alcun
legame parentale ed essendo tra l’altro l’attribuzione di un cognome di pura
fantasia, in linea generale, contrario ai principi dello stato civile. …”.
Alla luce di tale impianto motivazionale, le ragioni del
diniego possono dunque così sintetizzarsi:
1) l’istanza non sarebbe sorretta da adeguata motivazione;
2) la reiterazione di più istanze sarebbe incompatibile con il
ritenuto carattere di eccezionalità del cambiamento del cognome;
3) il cognome scelto (-OMISSIS-, in luogo di -OMISSIS-) non avrebbe
alcuna relazione con il legame parentale, e sarebbe quindi di pura fantasia. La
qual cosa sarebbe contraria ai principi dello stato civile.
Ognuna di tale motivazione deve ritenersi giuridicamente
errata.
5. Per quel che attiene al profilo sub 1), vi è in atti copiosa
documentazione che rende del tutto evidenti le ragioni di cambiamento del
cognome da parte del ricorrente. In particolare, quest’ultimo ha assunto alla
nascita il cognome materno -OMISSIS-, avendogli la madre detto che il proprio
papà era morto. Di seguito, a seguito del rifiuto della propria madre a tenerlo
presso di sé, il ricorrente ha trascorso la propria infanzia passando da un
istituto per l’infanzia ad un altro, e di ciò la propria personalità ne ha
fortemente e negativamente risentito, come attestato dalle numerose relazioni
degli assistenti sociali in atti.
Solo all’età di 16 anni il ricorrente è venuto a conoscenza che
il proprio padre era in vita. Contattatolo, il genitore ha rifiutato ogni tipo
di riconoscimento, e ciò ha indotto il ricorrente all’instaurazione di giudizio
di riconoscimento della paternità, conclusosi con sentenza del Tribunale di
Brindisi n. …, di accertamento di paternità giudiziale.
Ad onta del riconoscimento giudiziale, il padre ha continuato a
rifiutare ogni contatto con il figlio, evitando finanche di rispondere alle
numerose lettere inviategli da quest’ultimo.
Particolarmente significativa è l’ultima missiva rivolta dal
ricorrente al padre in data 22.9.2016. Se ne estrapolano i passi più
significativi:
“Ciao papà sono mesi che ti scrivo lettere … ma non ha mai
ricevuto risposta … Avrei voluto capire il motivo della tua scelta, avrei
voluto solo capire che ruolo avevi nella mia vita quando ero piccolo e che
ruoli vuoi adesso nella mia vita, ma dopo tutti gli insulti e minacce prese dai
tuoi figli, dove chiedevo solo il modo di poter parlare con te e vederti,
capisco che non ti è mai importato niente, il tuo silenzio è brutale … Ho
deciso di non cercarti più, questa sarà la mia ultima lettera; sappi che sono cresciuto
solo, circondato dal dolore, sofferenza, solitudine, abbandono, ma a te questo
non importa, dentro di me c’è parte di te … ti abbraccio con tutto l’amore che
posso, mille emozioni attraversano il mio essere, la mia fragilità non mi
permette di scriverti senza che la mia tastiera del pc sia inondata di lacrime,
ti auguro tutta la felicità del mondo e spero che in un’altra vita tu possa
avere l’occasione di amarmi perché non sai che figlio meraviglioso avete messo
al mondo.
Con amore, tuo figlio (non riesco ad odiarti)”.
Alla luce di tale missiva, la cui chiarezza di intenti è tale
da non richiedere alcun commento interpretativo, sono di tutta evidenza le
profonde motivazioni che hanno indotto il ricorrente a richiedere il cambio di
cognome. Trattasi di motivazioni del tutto serie, che legittimano ex se la
richiesta di cambiamento.
Motivazioni che, nondimeno, l’Amministrazione ha ignorato.
6. Venendo ora al profilo ostativo descritto sub 2) (la
presunta incompatibilità della reiterazione di istanze con il ritenuto
carattere di eccezionalità del cambiamento del cognome), esso deve ritenersi
parimenti infondato, alla luce del percorso di vita che il ricorrente ha dovuto
sostenere. Invero:
- la prima istanza, con cui il ricorrente ha chiesto il
mutamento del nome da -OMISSIS- ad -OMISSIS-, fermo restando il cognome della
madre (-OMISSIS-), è stata accolta con decreto prefettizio del 19.1.2011;
- la seconda istanza, di mutamento del cognome materno
(-OMISSIS-) in altro cognome – e segnatamente: -OMISSIS-; cognome,
quest’ultimo, con il quale il ricorrente ha avviato un proprio percorso
professionale in campo artistico – è stata rigettata con decreto 20.12.2013,
periodo in cui il ricorrente aveva tuttavia già scoperto di avere un padre
(-OMISSIS- -OMISSIS-), ottenendone altresì il relativo riconoscimento dal
Tribunale di Brindisi. Dunque, il citato diniego prefettizio si giustifica
proprio in ragione del recente mutamento di cognome che era scaturito dalla
suddetta pronuncia giudiziale (da -OMISSIS- a -OMISSIS-), il che sconsigliava
un ulteriore cambio, allorquando, però, nulla lasciava presagire che il
genitore giudizialmente riconosciuto persistesse nel suo atteggiamento di
rifiuto di accettazione finanche dell’esistenza del proprio figlio;
- infine, la terza istanza, di mutamento del cognome da
-OMISSIS- a -OMISSIS-, è quella oggetto della presente controversia. Tale
istanza, lungi dal ritenersi meramente reiterativa della precedente, deve
invece ritenersi del tutto seria, alla luce del “muro di silenzio” che il
ricorrente ha incontrato nel proprio padre, tanto da indurlo ad un’ultima,
struggente lettera di amore/addio (la citata lettera del 22.9.2016. Cfr. infra,
punto n. 5).
Per tali ragioni, è di tutta evidenza che, contrariamente a
quanto ritenuto dall’Amministrazione, la reiterazione di istanze di mutamento
del cognome, lungi dal poter essere considerata quale espressione di mero
capriccio del ricorrente, è invece sintomo di una scelta del tutto ponderata da
parte di quest’ultimo. Scelta che, in difetto di ulteriori ragioni ostative (in
alcun modo evidenziate dall’Amministrazione), avrebbe dovuto, pertanto, essere
senz’altro assecondata.
7. Infine, per quel che attiene al profilo ostativo descritto
sub 3) (il cognome scelto – -OMISSIS-, in luogo di -OMISSIS- – non avrebbe
alcuna relazione con il legame parentale, e sarebbe quindi di pura fantasia. La
qual cosa sarebbe contraria ai principi dello stato civile), trattasi di
argomentazione giuridica errata, essendo essa smentita dal citato dettato
normativo (art. 89 d.P.R. n. 396/2000), che non pone alcun divieto all’utilizzo
di cognomi di fantasia, unico impedimento essendo quello di assunzione di
cognomi di importanza storica, ovvero tali da indurre in errore
l’interlocutore.
8. Alla luce di tali considerazioni, è evidente l’illegittimità
dell’atto impugnato, avendo l’Amministrazione posto a fondamento del diniego
considerazioni ora infondate in fatto (la presunta assenza di motivazioni
giustificative del cambio del cognome), ora giuridicamente irrilevanti (la reiterazione
di istanze), ora contrastanti con il dettato normativo (la natura di pura
fantasia del cognome prescelto), laddove invece l’esame obiettivo della
documentazione allegata all’istanza – e in particolare, la serietà della stessa
– rendeva doverosa l’attribuzione del cambio del cognome.
9. Ne consegue, in accoglimento del ricorso, l’annullamento
dell’atto impugnato.
10. Ricorrono giusti motivi per la compensazione delle spese di
lite.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce -
Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe
proposto, lo accoglie, e annulla per l’effetto l’atto impugnato.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità
amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma
1 D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della
parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle
generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare il ricorrente
e il controinteressato.
venerdì 23 giugno 2017
Corte di Giustizia UE 21 giugno
2017, n. C-449/16
Rinvio pregiudiziale – Previdenza sociale – Regolamento (CE)
n. 883/2004 – Articolo 3 – Prestazioni familiari –
Direttiva 2011/98/UE – Articolo 12 – Diritto alla parità di
trattamento – Cittadini di paesi terzi titolari di un permesso unico
L’articolo 12 della direttiva 2011/98/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una
procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai
cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato
membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che
soggiornano regolarmente in uno Stato membro, deve essere interpretato nel
senso che esso osta a una normativa nazionale come quella oggetto del
procedimento principale, in base alla quale il cittadino di un paese terzo,
titolare di un permesso unico ai sensi dell’articolo 2, lettera c), di tale
direttiva, non può beneficiare di una prestazione come l’assegno a favore dei
nuclei familiari con almeno tre figli minori, istituito dalla legge del 23
dicembre 1998, n. 448, recante Misure di finanza pubblica per la
stabilizzazione e lo sviluppo.
SENTENZA DELLA CORTE (Settima Sezione)
21 giugno 2017
Nella causa C‑449/16,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale
proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dalla Corte
d’appello di Genova (Italia), con ordinanza dell’8 luglio 2016, pervenuta in
cancelleria il 5 agosto 2016, nel procedimento
Kerly Del Rosario Martinez Silva
contro
Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS)
Comune di Genova,
LA CORTE
(Settima Sezione),
composta da A. Prechal, presidente di sezione,
A. Rosas e E. Jarašiūnas (relatore), giudici,
avvocato generale: E. Tanchev
cancelliere: A. Calot Escobar
vista la fase scritta del procedimento,
considerate le osservazioni presentate:
– per
K.D.R Martinez Silva, da L. Neri e A. Guariso, avvocati,
– per il
governo italiano, da G. Palmieri, in qualità di agente, assistita da
P. Gentili, avvocato dello Stato;
– per la Commissione europea,
da D. Martin e C. Cattabriga, in qualità di agenti,
vista la decisione, adottata dopo aver sentito
l’avvocato generale, di giudicare la causa senza conclusioni,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1 La
domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 3,
paragrafo 1, lettera j), del regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei
sistemi di sicurezza sociale (GU 2004, L 166, pag. 1 e rettifica
in GU 2004, L 200, pag. 1), come modificato dal regolamento (CE)
n. 988/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 settembre 2009
(GU 2009, L 284, pag. 43) (in prosieguo: il «regolamento
n. 883/2004»), nonché dell’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della
direttiva 2011/98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre
2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso
unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel
territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i
lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro
(GU 2011, L 343, pag. 1).
2 Tale
domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la
sig.ra Kerly Del Rosario Martinez Silva, da un lato, e l’Istituto
nazionale della previdenza sociale (INPS, Italia) e il Comune di Genova
(Italia), dall’altro, in merito al rigetto di un’istanza volta ad ottenere un
assegno a favore dei nuclei familiari con almeno tre figli minori (in
prosieguo: l’«ANF»).
Contesto normativo
Diritto dell’Unione
3 Un
«permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo» è, ai sensi
dell’articolo 2, lettera g), della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25
novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano
soggiornanti di lungo periodo (GU 2004, L 16, pag. 44), un
titolo di soggiorno rilasciato dallo Stato membro interessato al momento
dell’acquisizione dello status di soggiornante di lungo periodo previsto da
tale direttiva.
4 L’articolo
2 della direttiva 2011/98, intitolato «Definizioni», prevede quanto segue:
«Ai fini della presente direttiva, si intende per:
a) “cittadino
di un paese terzo” chi non è cittadino dell’Unione ai sensi dell’articolo 20,
paragrafo 1, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea;
b) “lavoratore
di un paese terzo” un cittadino di un paese terzo, ammesso nel territorio di
uno Stato membro, che soggiorni regolarmente e sia autorizzato a lavorare in
tale Stato membro nel quadro di un rapporto di lavoro retribuito conformemente
al diritto o alla prassi nazionale;
c) “permesso
unico” un permesso di soggiorno rilasciato dalle autorità di uno Stato membro
che consente a un cittadino di un paese terzo di soggiornare regolarmente nel
territorio di quello Stato membro a fini lavorativi;
(...)».
5 L’articolo
3, paragrafo 1, di tale direttiva, intitolato «Ambito di applicazione», dispone
quanto segue:
«La presente direttiva si applica:
(...)
c) ai
cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini
lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale».
6 Ai
sensi dell’articolo 12 di tale direttiva, intitolato «Diritto alla parità di
trattamento»:
«1. I lavoratori dei
paesi terzi di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere b e c), beneficiano
dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui
soggiornano per quanto concerne:
(...)
e) i settori
della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004;
(...)
2. Gli Stati membri
possono limitare la parità di trattamento:
(...)
b) limitando i
diritti conferiti ai lavoratori di paesi terzi ai sensi del paragrafo 1,
lettera e), senza restringerli per i lavoratori di paesi terzi che svolgono o
hanno svolto un’attività lavorativa per un periodo minimo di sei mesi e sono
registrati come disoccupati.
Inoltre, gli Stati membri possono decidere che il paragrafo
1, lettera e), per quanto concerne i sussidi familiari, non si applichi ai
cittadini di paesi terzi che sono stati autorizzati a lavorare nel territorio
di uno Stato membro per un periodo non superiore a sei mesi, ai cittadini di
paesi terzi che sono stati ammessi a scopo di studio o ai cittadini di paesi
terzi cui è consentito lavorare in forza di un visto;
(...)».
7 In
forza dell’articolo 1, lettera z), del regolamento n. 883/2004, il termine
«prestazione familiare», designa tutte le prestazioni in natura o in denaro
destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli
assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati
nell’allegato I di tale regolamento.
8 L’articolo
3, paragrafo 1, lettera j), del medesimo regolamento prevede che quest’ultimo
si applica a tutte le legislazioni relative alle prestazioni familiari. Esso
non si applica, secondo il disposto del paragrafo 5, lettera a), di detto
articolo, all’assistenza sociale e medica.
Diritto italiano
9 Dall’ordinanza
di rinvio risulta che, in forza dell’articolo 65 della legge del 23 dicembre
1998, n. 448, recante Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e
lo sviluppo (supplemento ordinario alla GURI n. 210, del 29 dicembre 1998;
in prosieguo: la «legge n. 448/1998»), i nuclei familiari con tre o più
figli di età inferiore ai 18 anni, titolari di redditi inferiori a un
determinato limite (EUR 25 384,91 nel 2014) percepiscono l’ANF.
L’importo mensile di quest’ultimo era fissato, per il 2014, in EUR 141,02.
10 Inizialmente
riservato ai soli cittadini italiani, l’ANF è stato esteso ai cittadini
dell’Unione europea nel 2000, poi ai cittadini di paesi terzi titolari dello
status di rifugiato politico o della protezione sussidiaria nel 2007 e, infine,
mediante l’articolo 13 della legge del 6 agosto 2013, n. 97, recante
Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza
dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2013 (GURI n. 194, del
20 agosto 2013), ai titolari di un permesso di soggiorno di lungo periodo e ai
familiari dei cittadini dell’Unione.
11 Il
recepimento della direttiva 2011/98 nel diritto interno è avvenuto con decreto
legislativo del 4 marzo 2014, n. 40, recante Attuazione della direttiva
2011/98/UE relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un
permesso unico che consente ai cittadini di Paesi terzi di soggiornare e
lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti
per i lavoratori di Paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato
membro (GURI n. 68, del 22 marzo 2014), che ha istituito il «permesso
unico di lavoro».
Procedimento principale e questioni pregiudiziali
12 La
sig.ra Martinez Silva, cittadina di un paese terzo, risiede nel Comune di
Genova ed è titolare di un permesso unico di lavoro di durata superiore a sei
mesi. Madre di tre figli di età inferiore ai 18 anni e titolare di redditi
inferiori al limite stabilito dalla legge n. 448/1998, nel 2014 essa ha chiesto
l’attribuzione dell’ANF, che le è stata negata con il motivo che era priva del
permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo‑CE.
13 Dinanzi
al Tribunale di Genova (Italia), essa ha quindi esperito, nei confronti del
Comune di Genova e dell’INPS, un’azione civile contro la discriminazione al
fine di ottenere il pagamento della somma di EUR 1 833,26
relativamente all’anno 2014 nonché il riconoscimento della spettanza di detto
assegno per gli anni successivi, facendo valere che tale rifiuto era contrario
all’articolo 12 della direttiva 2011/98. Tali domande sono state respinte con
ordinanza del 18 agosto 2015, con la motivazione che le disposizioni di cui al
regolamento n. 883/2004 invocate erano di carattere meramente
programmatico, che detto regolamento non comprendeva gli assegni alimentari tra
le prestazioni di sicurezza sociale a carico della collettività e che non
risultava dimostrato che la sig.ra Martinez Silva si trovasse legalmente
in Italia da almeno cinque anni.
14 La Corte d’appello di Genova
(Italia), adita in appello, nutre dubbi in merito alla compatibilità
dell’articolo 65 della legge n. 448/1998 con il diritto dell’Unione,
poiché tale disposizione non consente al cittadino di un paese terzo, titolare
di un permesso unico, di ottenere l’ANF, in contrasto con il principio di
parità di trattamento enunciato all’articolo 12 della direttiva 2011/98.
15 Il
giudice del rinvio espone anzitutto che l’ANF è una prestazione in denaro,
destinata a compensare i carichi familiari, che viene concessa alle famiglie
che ne abbiano particolare bisogno in considerazione del numero di figli minori
e delle condizioni economiche. A suo avviso, tale prestazione appare
riconducibile a quelle di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento
n. 883/2004, con la precisazione che essa non costituisce un anticipo su
assegno alimentare né sugli assegni menzionati all’allegato I del medesimo
regolamento.
16 Richiamandosi
alla sentenza del 24 aprile 2012, Kamberaj (C‑571/10, EU:C:2012:233), il
giudice del rinvio osserva poi che nessuna delle limitazioni al principio di
parità di trattamento previste dall’articolo 12, paragrafo 2, lettera b) della
direttiva 2011/98 è applicabile al caso oggetto del procedimento principale,
dato che la Repubblica
italiana non ha inteso avvalersi della facoltà, prevista da tale disposizione,
di limitare l’applicazione di detto principio e che, per di più, la
sig.ra Martinez Silva non si trova in alcuna delle situazioni indicate al
secondo comma della medesima disposizione, essendo titolare di un permesso
unico di lavoro avente durata superiore ai sei mesi. Il giudice ritiene che
l’interessata faccia dunque parte delle persone alle quali si applica il
principio di parità di trattamento.
17 In
tale contesto, la Corte
d’appello di Genova ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre
alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se una
prestazione come quella prevista dall’articolo 65 della legge n. 448/1998,
denominata [ANF], costituisca una prestazione familiare ai sensi dell’articolo
3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento (CE) n. 883/2004.
2) In caso di
riposta positiva, se il principio di parità di trattamento sancito
dall’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE osti ad
una normativa, come quella italiana, in base alla quale un lavoratore di paese
terzo in possesso di “permesso unico per lavoro” (avente durata superiore ai
sei mesi) non può beneficiare del suddetto [ANF] pur essendo convivente con tre
o più figli minori e titolare di redditi inferiori al limite di legge».
Sulle questioni pregiudiziali
18 Con
le sue due questioni, che è opportuno esaminare congiuntamente, il giudice del
rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 12 della direttiva 2011/98 debba
essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale come
quella oggetto del procedimento principale, in base alla quale il cittadino di
un paese terzo, titolare di un permesso unico ai sensi dell’articolo 2, lettera
c), di tale direttiva, non può ottenere il beneficio di una prestazione come
l’ANF, istituito dalla legge n. 448/1998.
19 Dato
che l’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98 prevede che
i lavoratori provenienti da paesi terzi di cui all’articolo 3, paragrafo 1,
lettere b e c), della medesima direttiva beneficino dello stesso trattamento
riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto
concerne i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento n. 883/2004,
occorre in primo luogo esaminare, come suggerito dal giudice del rinvio, se una
prestazione come l’ANF costituisca una prestazione di sicurezza sociale,
riconducibile alle prestazioni familiari di cui all’articolo 3, paragrafo 1,
lettera j), del medesimo regolamento, oppure una prestazione di assistenza
sociale, esclusa dall’ambito di applicazione di tale regolamento ai sensi
dell’articolo 3, paragrafo 5, lettera a), di quest’ultimo, come sostiene il
governo italiano.
20 A
tale riguardo si deve ricordare che, come ripetutamente giudicato dalla Corte
con riferimento al regolamento (CEE) n. 1408/71 del Consiglio, del 14
giugno 1971, relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai
lavoratori subordinati e ai loro familiari che si spostano all’interno della
Comunità (GU 1971, L 149, pag. 2), la distinzione fra
prestazioni escluse dall’ambito di applicazione del regolamento
n. 883/2004 e prestazioni che vi rientrano è basata essenzialmente sugli
elementi costitutivi di ciascuna prestazione, in particolare sulle sue finalità
e sui presupposti per la sua attribuzione, e non sul fatto che essa sia o no
qualificata come prestazione di sicurezza sociale da una normativa nazionale
(v., in tal senso, in particolare, sentenze del 16 luglio 1992, Hughes, C‑78/91,
EU:C:1992:331, punto 14; del 20 gennaio 2005, Noteboom, C‑101/04, EU:C:2005:51,
punto 24, e del 24 ottobre 2013, Lachheb, C‑177/12, EU:C:2013:689, punto 28).
Una prestazione può essere considerata come una prestazione di sicurezza
sociale qualora sia attribuita ai beneficiari prescindendo da ogni valutazione
individuale e discrezionale delle loro esigenze personali, in base ad una
situazione definita per legge, e si riferisca a uno dei rischi espressamente
elencati nell’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento n. 883/2004 (v. in
tal senso, in particolare, sentenze del 16 luglio 1992, Hughes, C‑78/91,
EU:C:1992:331, punto 15; del 15 marzo 2001, Offermanns, C‑85/99, EU:C:2001:166,
punto 28, nonché del 19 settembre 2013, Hliddal e Bornand, C‑216/12 e C‑217/12,
EU:C:2013:568, punto 48).
21 La Corte ha già dichiarato che
le modalità di finanziamento di una prestazione e, in particolare, il fatto che
la sua attribuzione non sia subordinata ad alcun presupposto contributivo sono
irrilevanti per la sua qualificazione come prestazione di sicurezza sociale (v.
in tal senso, sentenze del 16 luglio 1992, Hughes, C‑78/91, EU:C:1992:331,
punto 21; del 15 marzo 2001, Offermanns, C‑85/99, EU:C:2001:166, punto 46, e
del 24 ottobre 2013, Lachheb, C‑177/12, EU:C:2013:689, punto 32).
22 Peraltro,
il fatto che una prestazione sia concessa o negata in considerazione dei
redditi e del numero di figli non implica che la sua concessione dipenda da una
valutazione individuale delle esigenze personali del richiedente,
caratteristica dell’assistenza sociale, nei limiti in cui si tratta di criteri
obiettivi e definiti per legge che, quando sono soddisfatti, danno diritto a
tale prestazione senza che l’autorità competente possa tener conto di altre
circostanze personali (v., in tal senso, sentenza del 16 luglio 1992, Hughes, C‑78/91,
EU:C:1992:331, punto 17). Così, prestazioni attribuite automaticamente alle
famiglie che rispondono a determinati criteri obiettivi, riguardanti
segnatamente le loro dimensioni, il loro reddito e le loro risorse di capitale,
prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze
personali, e destinate a compensare i carichi familiari, devono essere
considerate prestazioni di sicurezza sociale (sentenza del 14 giugno 2016, Commissione/Regno
Unito, C‑308/14, EU:C:2016:436, punto 60).
23 In
merito alla questione se una data prestazione rientri nelle prestazioni
familiari di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento
n. 883/2004, si deve rilevare che, ai sensi dell’articolo 1, lettera z),
del medesimo regolamento, l’espressione «prestazione familiare» indica tutte le
prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari,
ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali
di nascita o di adozione menzionati nell’allegato I di tale regolamento. La Corte ha già dichiarato che
l’espressione «compensare i carichi familiari» deve essere interpretata nel
senso che essa fa riferimento, in particolare, a un contributo pubblico al
bilancio familiare, destinato ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento
dei figli (v., in tal senso, sentenza del 19 settembre 2013, Hliddal e Bornand,
C‑216/12 e C‑217/12, EU:C:2013:568, punto 55 e giurisprudenza ivi citata).
24 Per
quanto concerne la prestazione oggetto del procedimento principale, risulta
dagli atti che, da un lato, l’ANF è versato ai beneficiari che ne facciano
richiesta e che soddisfino le condizioni relative al numero di figli minori e
ai redditi previste dall’articolo 65 della legge n. 448/1998. Tale
prestazione, pertanto, viene concessa prescindendo da ogni valutazione
individuale e discrezionale delle esigenze personali del richiedente, in base a
una situazione definita per legge. Dall’altro lato, l’ANF consiste in una somma
di denaro versata ogni anno ai suddetti beneficiari e destinata a compensare i
carichi familiari. Si tratta dunque proprio di una prestazione in denaro
destinata, attraverso un contributo pubblico al bilancio familiare, ad
alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli.
25 Dall’insieme
delle suesposte considerazioni risulta che una prestazione quale l’ANF
costituisce una prestazione di sicurezza sociale, rientrante nelle prestazioni
familiari di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento
n. 883/2004.
26 Occorre
pertanto esaminare, in secondo luogo, se il cittadino di un paese terzo,
titolare di un permesso unico ai sensi dell’articolo 2, lettera c), della
direttiva 2011/98, possa essere escluso dal beneficio di una siffatta
prestazione da una normativa nazionale come quella oggetto del procedimento
principale.
27 A
tal riguardo, dall’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva
2011/98, in combinato disposto con l’articolo 3, paragrafo 1, lettera c), di
quest’ultima, risulta che devono beneficiare della parità di trattamento
prevista dalla prima di tali disposizioni, fra gli altri, i cittadini di paesi
terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del
diritto dell’Unione o del diritto nazionale. Ebbene, è questo il caso del
cittadino di un paese terzo titolare di un permesso unico ai sensi
dell’articolo 2, lettera c), di tale direttiva, dato che, in forza di tale
disposizione, detto permesso consente a tale cittadino di soggiornare
regolarmente a fini lavorativi nel territorio dello Stato membro che l’ha
rilasciato.
28 Tuttavia,
ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 2, lettera b), primo comma, della
direttiva 2011/98, gli Stati membri possono limitare i diritti conferiti
dall’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della medesima direttiva ai
lavoratori di paesi terzi, eccezion fatta per quelli che svolgono o hanno
svolto un’attività lavorativa per un periodo minimo di sei mesi e sono
registrati come disoccupati. Inoltre, conformemente all’articolo 12, paragrafo
2, lettera b), secondo comma, della predetta direttiva, gli Stati membri
possono decidere che l’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della stessa, che
concerne i sussidi familiari, non si applichi ai cittadini di paesi terzi che
sono stati autorizzati a lavorare nel territorio di uno Stato membro per un
periodo non superiore a sei mesi, nonché ai cittadini di paesi terzi che sono
stati ammessi in tale territorio a scopo di studio o ai cittadini di paesi
terzi cui è ivi consentito lavorare in forza di un visto.
29 Quindi,
analogamente alla direttiva 2003/109, la direttiva 2011/98 prevede, in favore
di taluni cittadini di paesi terzi, un diritto alla parità di trattamento, che
costituisce la regola generale, ed elenca le deroghe a tale diritto che gli
Stati membri hanno la facoltà di istituire. Tali deroghe possono dunque essere
invocate solo qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato per
l’attuazione di tale direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di
avvalersi delle stesse (v., per analogia, sentenza del 24 aprile 2012,
Kamberaj, C‑571/10, EU:C:2012:233, punti 86 e 87).
30 Orbene,
il giudice del rinvio osserva che la Repubblica italiana non ha inteso avvalersi della
facoltà di limitare la parità di trattamento facendo ricorso all’articolo 12,
paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2011/98, giacché essa non ha
manifestato in alcun modo una simile volontà. Quindi, le disposizioni della
normativa italiana che limitano il beneficio dell’ANF, nel caso di cittadini di
paesi terzi, ai titolari di un permesso di soggiorno di lungo periodo e alle
famiglie dei cittadini dell’Unione, disposizioni adottate del resto prima del
recepimento nel diritto interno della suddetta direttiva, come risulta dai
punti 10 e 11 della presente sentenza, non possono essere considerate come
istitutive delle limitazioni al diritto alla parità di trattamento che gli
Stati membri hanno la facoltà di introdurre ai sensi della medesima direttiva.
31 Ne
consegue che il cittadino di un paese terzo, titolare di un permesso unico ai
sensi dell’articolo 2, lettera c), della direttiva 2011/98 non può essere
escluso dal beneficio di una prestazione quale l’ANF mediante una tale
normativa nazionale.
32 In
considerazione di tutto quanto precede, alle questioni sollevate occorre
rispondere dichiarando che l’articolo 12 della direttiva 2011/98 deve essere
interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale come quella
oggetto del procedimento principale, in base alla quale il cittadino di un
paese terzo, titolare di un permesso unico ai sensi dell’articolo 2, lettera
c), di tale direttiva, non può beneficiare di una prestazione come l’ANF,
istituito dalla legge n. 448/1998.
Sulle spese
33 Nei
confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce
un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire
sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni
alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Settima Sezione)
dichiara:
L’articolo 12 della direttiva 2011/98/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una
procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai
cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato
membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che
soggiornano regolarmente in uno Stato membro, deve essere interpretato nel
senso che esso osta a una normativa nazionale come quella oggetto del
procedimento principale, in base alla quale il cittadino di un paese terzo,
titolare di un permesso unico ai sensi dell’articolo 2, lettera c), di tale
direttiva, non può beneficiare di una prestazione come l’assegno a favore dei
nuclei familiari con almeno tre figli minori, istituito dalla legge del 23
dicembre 1998, n. 448, recante Misure di finanza pubblica per la
stabilizzazione e lo sviluppo.
Così deciso e pronunciato a Lussemburgo il 21 giugno
2017.
Dal sito http://curia.europa.eu
venerdì 16 giugno 2017
Cass. 15 giugno 2017, n. 14878
La Prima Sezione civile
ha ritenuto non essere contraria all’ordine pubblico (internazionale) la
rettifica, in Italia, in conformità al corrispondente atto britannico già
validamente rettificato, dell’atto di nascita di un minore registrato come
figlio originariamente solo di una donna italiana e, successivamente, anche di
un’altra, con stessa nazionalità, che, pur non avendo con lui alcun rapporto
biologico, aveva con la prima contratto matrimonio all’estero
giovedì 15 giugno 2017
Camera dei Deputati, Interrogazione a risposta immediata in
Assemblea n. 3/03072 presentata dall’on. GALGANO il 13 giugno 2017, sulle iniziative volte a disciplinare
l’attribuzione del cognome ai figli, alla luce della sentenza n. 286 del 2016
della Corte costituzionale, con particolare riguardo al rispetto del principio
di parità tra i genitori, Seduta di mercoledì 14 giugno 2017
con sentenza
8 novembre 2016, n. 286, pubblicata nella Gazzetta ufficiale, serie speciale
n. 52, del 28 dicembre 2016, inviata alla Camera dei deputati e al Senato
della Repubblica, la Corte
costituzionale, pronunciandosi sulla questione di costituzionalità sollevata
dalla corte di appello di Genova, ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale della norma di sistema «nella parte in cui non consente ai
coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della
nascita, anche il cognome materno», estendendo la pronuncia anche ai figli
nati fuori dal matrimonio o adottati;
la sentenza
ha una portata storica perché segna il superamento dell'attribuzione
automatica del cognome paterno, già definita dalla stessa Corte
costituzionale come «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia»
(sentenza n. 61 del 2006);
come
evidenziato nella stessa sentenza «in assenza dell'accordo dei genitori,
residua la generale previsione dell'attribuzione del cognome paterno, in
attesa di un indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare
organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di
parità»;
nonostante
le numerose proposte di legge d'iniziativa parlamentare avanzate sin dagli
anni ’80, la condanna nel 2014 della Corte di Strasburgo e la conseguente
presentazione di un disegno di legge governativo, il Parlamento non ha
approvato alcuna norma al riguardo: l'atto Senato 1628, già approvato dalla
Camera dei deputati, è da oltre due anni all'esame del Senato della
Repubblica unitamente ad altri disegni di legge;
a due mesi
dalla data di pubblicazione della sentenza, le problematiche connesse alla
fase di sua prima e concreta applicazione risultano in gran parte non
risolte;
oltre alle
necessarie misure amministrative ed organizzative, si impone un urgente
adeguamento del quadro normativo, affinché sia dato doveroso seguito alle
perentorie e chiarissime conclusioni della Corte costituzionale sopra
riportate –:
se il Governo intenda adottare
opportune iniziative, per quanto di competenza, allo scopo di eliminare la
persistente discriminazione dell'attuale disciplina di cui in premessa e dare
piena attuazione, in linea con quanto emerge dalla sentenza della Corte
costituzionale, ai principi di cui agli articoli 2, 3 e 29 della
Costituzione, in modo da garantire il «diritto del minore all'identità
personale unitamente al riconoscimento del paritario rilievo di entrambe le
figure genitoriali nel processo di costruzione di tale identità», come
rilevato nella sentenza n. 286 del 2016 della Corte costituzionale
|
PRESIDENTE. La deputata Galgano
ha facoltà di illustrare la sua interrogazione n. 3-03072 (Vedi l’allegato A),
per un minuto.
ADRIANA GALGANO. Grazie, signora
Presidente. Buongiorno, Ministro Orlando, la Corte costituzionale, a novembre 2016, ha di
fatto dichiarato incostituzionale la norma nella parte nella quale non
consentiva ai coniugi di attribuire anche il cognome materno ai figli all’atto
della nascita. Oggi, quindi, è possibile attribuire il doppio cognome, però un
vuoto regolamentare e normativo lo rende veramente molto difficile. Perciò noi
chiediamo al Governo cosa intenda fare per garantire ai genitori il diritto
costituzionale di attribuire il doppio cognome ai figli e per garantire al
minore il diritto alla costruzione di un’identità personale che tenga conto di
contributi paritari di entrambi i genitori.
PRESIDENTE. Il Ministro della
Giustizia, Andrea Orlando, ha facoltà di rispondere.
ANDREA ORLANDO, Ministro della
Giustizia. Grazie, Presidente. Con l’atto di sindacato ispettivo in discussione
l’onorevole interrogante rileva l’urgenza di un pronto adeguamento del nostro sistema
ordinamentale alla recente sentenza della Corte costituzionale 8 novembre 2016
n. 286 affinché trovino piena ed effettiva realizzazione il diritto del minore
all’identità personale e il principio di eguaglianza dei coniugi
rispettivamente sanciti agli articoli 2 e 3 della Costituzione. Com’è noto, il
giudice delle leggi è stato chiamato a valutare della legittimità della norma
sull’automatica attribuzione del cognome paterno laddove non consente ai
genitori che ne facciano concorde richiesta al momento della nascita di
attribuire al figlio anche il cognome materno. Nel ripercorrere la
giurisprudenza della CEDU in materia nonché precedenti pronunce della stessa
Corte, ha rilevato come l’attuale ordinamento pregiudichi il diritto di
identità personale del minore e al contempo costituisca un’irragionevole
disparità di trattamento tra i coniugi che non trova alcuna giustificazione
nella finalità di salvaguardia dell’unità familiare. In particolare, la Corte Costituzionale
ha evidenziato come il diritto all’identità personale trovi nel nome il suo
primo ed immediato riscontro, riconoscendo così il diritto del figlio ad essere
identificato sin dalla nascita attraverso l’attribuzione del cognome di
entrambi i genitori che concordino in tal senso. Su tali premesse ha dunque
dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma desumibile dalle
disposizioni del codice civile in materia di filiazione legittima e naturale e
di adozione nella parte in cui non consente ai coniugi di comune accordo di
trasmettere ai figli al momento della nascita anche il cognome materno. Mi
preme rilevare che il tema è oggetto di dibattito parlamentare ancor prima
della pronunzia in parola e conferma la necessità di un intervento riformatore
della materia con l’obiettivo di una definizione di nuovi criteri di
attribuzione dei cognomi ai figli rispettosi dell’uguaglianza dei coniugi e del
diritto alla piena identità personale del minore. In tale prospettiva si
inserisce infatti il disegno di legge n. 1628 recante disposizioni in materia
di attribuzione del cognome ai figli attualmente all’esame della II Commissione
giustizia del Senato. Il provvedimento infatti prevede che i genitori all’atto
della dichiarazione di nascita del figlio possano attribuirgli, secondo la loro
volontà, il cognome del padre o quello della madre o quelli di entrambi
nell’ordine concordato e che, in caso di mancato accordo tra i genitori, al
figlio siano attribuiti i cognomi di entrambi i genitori in ordine alfabetico.
Intendo rassicurare l’onorevole interrogante che il Governo e il Ministero che
rappresento, nel condividere gli obiettivi del provvedimento, assicureranno il
massimo contributo al dibattito parlamentare per una rapida definizione
dell’iter legislativo.
PRESIDENTE. La deputata Galgano
ha facoltà di replicare.
ADRIANA GALGANO. Grazie,
Ministro, per averci assicurato che parteciperà ai lavori parlamentari ma
chiaramente, per tutta la parte che riguarda il Parlamento, ero già
abbondantemente aggiornata, poiché il disegno di legge, di cui lei parla, è
stato approvato dalla Camera nel 2014, l’anno nel quale poi la Corte di Strasburgo ci ha
punito proprio sul tema. Quindi mi aspettavo di sapere invece da parte sua cosa
intende fare il Governo - era questa la domanda - perché la circolare fatta dal
Ministero dell’interno all’inizio del 2017 per dare delle indicazioni non si è
rivelata assolutamente sufficiente. Esistono molti problemi pratici che possono
essere risolti solo da un tavolo interministeriale al quale partecipano il
Ministero dell’interno e il Ministero della giustizia e mi aspettavo di
sentirle dire questo. Ora quindi capiamo che c’è bisogno di un ulteriore
intervento, un’azione di spinta nei confronti del Governo affinché prenda atto
che questo tavolo interministeriale è assolutamente indispensabile perché non è
giusto che i genitori siano sottoposti a una situazione di incertezza
nell’esercitare tale loro diritto e, come Civici e Innovatori, assicuriamo che
daremo un grande impulso perché il tavolo ministeriale venga finalmente
organizzato.
Circolare Ministero dell’Interno
– Dip. affari interni e territoriali – Dir. Centr. Serv. Dem. 14 giugno 2017,
n. 7, Sentenza della Corte Costituzionale n. 286 del 21 dicembre 2016. Attribuzione
del cognome materno ai nuovi nati. Indicazioni operative e monitoraggio
La sentenza della Corte
Costituzionale in oggetto - in relazione alla quale è stata diramata, lo scorso
19 gennaio, una prima circolare informativa - ha, come noto, accolto la
questione di legittimità secondo cui «la norma che impone l'attribuzione
automatica ed esclusiva del solo cognome paterno .... sarebbe lesiva sia dei
principi che garantiscono la tutela del diritto al nome, sia di quelli in tema
di eguaglianza e di non discriminazione tra uomo e donna nella trasmissione del
cognome al figlio, sia esso legittimo o naturale».
Dunque, è ora consentito ai
genitori del nuovo nato - tra loro coniugati o meno - di attribuire, di comune
accordo, il doppio cognome, paterno e materno, al momento della nascita.
Al fine di corrispondere alle richieste
di chiarimento finora pervenute, si forniscono le seguenti indicazioni
operative.
Una. prima questione attiene
all'esistenza o meno di formalità necessarie per documentare l'accordo tra i
genitori sul cognome materno, e come tali preliminari all'accoglimento, da
parte dell'ufficio dello stato civile, della richiesta dei genitori di
attribuire al nuovo nato «anche» tale cognome. In particolare, con riguardo
alla fattispecie, invero frequente, in cui è il padre che rende la
dichiarazione di nascita, è stato posta la questione circa la necessità che
questi fornisca all'ufficio anche la prova dell'accordo, mediante la presentazione
di una dichiarazione sottoscritta dalla madre, ancora ricoverata presso il
centro di nascita.
Al riguardo va chiarito che, in
assenza di apposite disposizioni normative, gli uffici dello stato civile non
possono richiedere agli interessati oneri documentali ulteriori rispetto a
quelli previsti dall'ordinamento.
Ed, infatti, nell'ordinamento
dello stato civile, le formalità che sorreggono il legittimo e corretto operare
degli uffici sono esclusivamente quelle poste dalle apposite fonti di settore
e, quindi, dal codice civile e dalle altre leggi rilevanti, dai regolamento di
cui al D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, nonché dal decreto del Ministro
dell'Interno del 5 aprile 2002, recante le formule per la redazione degli atti
e dei processi verbali da inserire nei registri e da conservare negli archivi.
Del resto, la stessa disciplina
dell'attribuzione del nome al nuovo nato - nella quale è da sempre escluso
qualsivoglia automatismo - fa perno sull'accordo dei genitori, presunto e non
da provare davanti all'ufficiale, in quanto elemento presupposto nella
dichiarazione di nascita, ancorché resa da uno solo dei genitori.
L'attribuzione del nome - cui ora
è possibile ricondurre anche l'attribuzione del cognome - è infatti un atto di
esercizio della responsabilità genitoriale che implica non un effetto ope legis bensì la previa e concorde scelta
dei genitori.
E già dal 1975 la riforma del
diritto di famiglia ha superato il principio per cui tale potere spetti al
padre quale capo della famiglia e titolare delle decisioni familiari.
D'altra parte, va pure rimarcato
che si collocano su un piano ben diverso quelle disposizioni che, invece,
prescrivono che l'accordo delle parti, quale incontro delle volontà, si formi
davanti all'ufficiale dello stato civile, stabilendo specifiche formalità, come
In materia di separazione e divorzio (art. 12, D.L. n. 132/2014, conv. L. n.
164/2014).
***
In relazione alle altre
problematiche sinora emerse, si forniscono - alla luce della pronuncia
costituzionale, e in attesa di auspicati interventi del legislatore, anche ivi
richiamati - i seguenti, ulteriori chiarimenti:
1.Considerato che la pronuncia ha
riguardo alla trasmissione «anche» del cognome materno, deve ritenersi che le
relative novità ordinamentali riguardino unicamente la posposizione di questo
al cognome paterno, e non l'anteposizione.
2. L'attribuzione «anche» del
cognome materno al nuovo nato, ove prescelta, non può non riguardare tutti gli
elementi onomastici di cui detto cognome sia composto.
3. In tema di adozione, ambito
pure attinto dalla declaratoria di incostituzionalità, l'attribuzione «anche»
del cognome materno all'adottato, che risulti dal pertinente provvedimento
giudiziario, va esattamente riportata in sede di trascrizione dello stesso.
4. L'attribuzione «anche» del
cognome materno, ove risultante dagli atti di nascita formati dalle autorità
indicate nell'art. 8, D.P.R. n. 396/2000, va esattamente riportata in sede di
trascrizione degli stessi.
5. La volontà della madre di non
essere nominata nella dichiarazione di nascita (art. 30, comma 1, D.P.R. n.
396/2000) deve ritenersi incompatibile con la presunzione di accordo tra i
genitori - coniugati o meno - sull'attribuzione del cognome materno.
6. Sui piano del diritto
Internazionale privato, anche gli atti di nascita, formati all'estero, di figli
di genitori entrambi esclusivamente italiani, recanti il cognome materno di
seguito a quello paterno, sono ora ricevibili ai fini della trascrizione.
7. Le novità in esame trovano
applicazione per gli atti di nascita che si formano dal giorno successivo alla
pubblicazione della sentenza (avvenuta nella G.U. n. 52 del 28/12/2016), fermo
restando che, dopo la chiusura dell'atto di nascita, ogni modifica del cognome
rientra nella disciplina autorizzatoria di cui agli artt. 89 e ss., D.P.R. n.
396/2000.
A tale ultimo riguardo si pone in
evidenza che le SS.LL. - nel valutare le domande volte a conseguire, ai sensi
dei citati artt. 89 e ss., l'autorizzazione ad aggiungere il cognome materno a
quello paterno - non potranno non tener conto dei principi generali espressi
nella nota sentenza, seppure riferiti ad un diverso ambito.
Le SS.LL. vorranno portare a
conoscenza dei Sigg. Sindaci quanto sopra rappresentato, segnalando ulteriori
questioni di rilievo, monitorando l'attuazione delle descritte novità, con
particolare riferimento a:
a) dichiarazioni di nascita;
b) richieste di trascrizione;
c) istanze ex artt. 89 e ss.,
D.P.R. n. 396/2000, riguardanti l'aggiunta del cognome materno.
Confidando nella consueta
collaborazione, si resta in attesa, entro il 15 luglio p.v., di una prima
rappresentazione alla data del 30 giugno 2017.
mercoledì 14 giugno 2017
La questione del
crocefisso (negli uffici pubblici)
Tar Sardegna 7 giugno 2017, n. 383
Il Collegio ricorda: 1) che “la Grande Camera della
Corte europea per i diritti dell'uomo, con sentenza del 18 marzo 2011,
ric.30814/06, ha assolto l’Italia dall'accusa di violazione dei diritti umani
per l'esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche, affermando che la
cultura dei diritti dell’uomo non deve essere posta in contraddizione con i
fondamenti religiosi della civiltà europea, a cui il cristianesimo ha dato un
contributo essenziale”; 2) che, nella
pronuncia suddetta, si è evidenziato come, “secondo il principio di
sussidiarietà, (…sia..) doveroso
garantire ad ogni Paese un margine di apprezzamento quanto al valore dei
simboli religiosi nella propria storia culturale e identità nazionale e quanto
al luogo della loro esposizione; in caso contrario, in nome della libertà
religiosa si tenderebbe paradossalmente invece a limitare o persino a negare
questa libertà, finendo per escluderne dallo spazio pubblico ogni espressione”;
3) che, secondo i giudici di Strasburgo, “il crocifisso non viene considerato
un elemento di indottrinamento, ma espressione dell’identità culturale e
religiosa dei Paesi di tradizione cristiana”. Critico sulla lettura della sentenza di Strasburgo, fornita dal
Tar, CORTESE, Il giudice crocefisso,
in www.lacostituzione.info (13
giugno 2017)
FATTO e DIRITTO
Con ricorso notificato in data 20 gennaio 2010 e depositato in
data 17 febbraio 2010, l’Unione ricorrente ha impugnato l’ordinanza del 23
novembre 2009 n. 21, adottata ai sensi degli artt. 50 e 54 del D.Lgs. n.
267/2000, con la quale il Sindaco del Comune di M. ha ordinato l’immediata
affissione del crocifisso in tutti gli uffici pubblici presenti nel territorio
comunale, e ha previsto la sanzione amministrativa di euro 500,00 a carico dei
trasgressori, incaricando la polizia locale alla vigilanza sulla esatta
osservanza dell’ordine impartito.
In data 22 gennaio 2010, il Sindaco di M., con ordinanza n.
3/2010, ha disposto la revoca del provvedimento impugnato.
In seguito alla revoca dell’ordinanza n. 21/2009, è
sopravvenuta la carenza di interesse della ricorrente all’annullamento del
provvedimento impugnato, che deve sussistere non solo al momento della
proposizione del ricorso ma anche in epoca successiva, in base al principio per
cui le condizioni dell’azione devono permanere fino al passaggio in decisione
della controversia; ciò stante, non resta al Collegio che prendere atto della sopravvenuta
carenza di interesse e dichiarare l’improcedibilità della domanda di
annullamento.
Tuttavia l’UUAR, con memoria depositata il 29.4.2017, ha
insistito per la pronuncia sulla fondatezza delle proprie pretese.
Tralasciando i vizi formali dell’ordinanza impugnata, divenuti
irrilevanti in seguito alla revoca del provvedimento medesimo, questo Collegio
ritiene di doversi pronunciare sui vizi di merito eccepiti nel ricorso e
ribaditi nella memoria di parte ricorrente.
Nel merito il ricorso è infondato.
Invero, la
Grande Camera della Corte europea per i diritti dell'uomo,
con sentenza del 18 marzo 2011, ric.30814/06, ha assolto l’Italia dall'accusa
di violazione dei diritti umani per l'esposizione del crocefisso nelle aule
scolastiche, affermando che la cultura dei diritti dell’uomo non deve essere
posta in contraddizione con i fondamenti religiosi della civiltà europea, a cui
il cristianesimo ha dato un contributo essenziale. La Corte ha evidenziato inoltre
che, secondo il principio di sussidiarietà, è doveroso garantire ad ogni Paese
un margine di apprezzamento quanto al valore dei simboli religiosi nella
propria storia culturale e identità nazionale e quanto al luogo della loro
esposizione; in caso contrario, in nome della libertà religiosa si tenderebbe
paradossalmente invece a limitare o persino a negare questa libertà, finendo
per escluderne dallo spazio pubblico ogni espressione. Il crocifisso, in
particolare, non viene considerato dai giudici di Strasburgo un elemento di
indottrinamento, ma espressione dell’identità culturale e religiosa dei Paesi
di tradizione cristiana.
Alla luce delle suesposte considerazioni, anche le doglianze di
merito devono essere disattese.
In conclusione il ricorso va in parte respinto ed in parte
dichiarato improcedibile.
Sussistono giusti motivi per disporre l’integrale compensazione
fra le parti delle spese e degli onorari del giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione
Seconda), definitivamente pronunciando, in parte respinge ed in parte dichiara
improcedibile il ricorso come in epigrafe. Compensa integralmente fra le parti
le spese e gli onorari del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità
amministrativa.
martedì 13 giugno 2017
Cambiamento di
cognome del bipolide (cittadino dell’Unione)
Corte di Giustizia UE 8 giugno
2017, n. C-541/15
Rinvio pregiudiziale – Cittadinanza dell’Unione – Articolo
21 TFUE – Libertà di circolare e di soggiornare negli Stati
membri – Cittadino avente sia la cittadinanza dello Stato membro di
residenza sia quella dello Stato membro di nascita – Cambiamento di
cognome nello Stato membro di nascita al di fuori di un periodo di residenza
abituale – Nome corrispondente al nome di nascita – Domanda d’iscrizione
di tale nome nel registro dello stato civile dello Stato membro di
residenza – Rigetto di tale domanda – Motivo – Non acquisizione
del nome nel corso di un periodo di residenza abituale – Esistenza di
altre procedure nel diritto nazionale per ottenere il riconoscimento del
medesimo nome
L’articolo 21 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a
che l’ufficio dello stato civile di uno Stato membro rifiuti di riconoscere e
di trascrivere nel registro dello stato civile il nome legalmente ottenuto da
un cittadino di tale Stato membro in un altro Stato membro, di cui egli
parimenti possiede la cittadinanza, e corrispondente al suo nome di nascita,
sulla base di una disposizione del diritto nazionale che subordina la
possibilità di ottenere una siffatta trascrizione tramite dichiarazione
all’ufficio dello stato civile alla condizione che tale nome sia stato
acquisito durante un periodo di residenza abituale in tale altro Stato membro,
a meno che esistano nel diritto nazionale altre disposizioni che consentano
effettivamente il riconoscimento di detto nome.
SENTENZA DELLA CORTE (Seconda Sezione)
8 giugno 2017
Nella causa C‑541/15,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale
proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dall’Amtsgericht
Wuppertal (tribunale distrettuale di Wuppertal, Germania), con decisione del 24
settembre 2015, pervenuta in cancelleria il 16 ottobre 2015, nel procedimento
promosso da
Mircea Florian Freitag
con l’intervento di:
Angela Freitag,
Vica Pavel,
Stadt Wuppertal,
Oberbürgermeister der Stadt Wuppertal,
LA CORTE
(Seconda Sezione),
composta da M. Ilešič, presidente di sezione,
A. Prechal, A. Rosas (relatore), C. Toader e E. Jarašiūnas,
giudici,
avvocato generale: M. Szpunar
cancelliere: R. Schiano, amministratore
vista la fase scritta del procedimento e in seguito
all’udienza del 15 settembre 2016,
considerate le osservazioni presentate:
– per il
governo tedesco, da M. Hellmann, T. Henze e J. Mentgen, in
qualità di agenti;
– per il
governo portoghese, da L. Inez Fernandes, M. Figueiredo e
M. Castelo-Branco, in qualità di agenti;
– per il
governo rumeno, da A. Wellman e R.H. Radu, in qualità di agenti;
– per la Commissione europea,
da E. Montaguti e G. von Rintelen, in qualità di agenti,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale,
presentate all’udienza del 24 novembre 2016,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1 La
domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli articoli 18
e 21 TFUE.
2 Tale
domanda è stata presentata nell’ambito di un procedimento promosso dal
sig. Mircea Florian Freitag in merito al riconoscimento, in Germania, e
alla trascrizione nel registro dello stato civile di un cambiamento di cognome
a vantaggio di un nome legalmente acquisito in Romania.
Contesto normativo
Disposizioni pertinenti della legge introduttiva al
codice civile
3 L’articolo
5 dell’Einführungsgesetz zum Bürgerlichen Gesetzbuch (legge introduttiva al
codice civile), del 21 settembre 1994 (BGBl. 1994 I, pag. 2494, e
rettificativo BGBl. 1997 I, pag. 1061), nella versione applicabile ai
fatti di cui al procedimento principale (in prosieguo: l’«EGBGB»), rubricato
«Status personale», dispone, al suo paragrafo 1, prima e seconda frase:
«Quando è fatto rinvio al diritto dello Stato di cui una
persona ha la cittadinanza e quest’ultima ne possiede più d’una, trova
applicazione il diritto dello Stato con cui tale persona ha il legame più
stretto, in particolare alla luce della sua residenza abituale o del suo
percorso di vita. Se tale persona possiede parimenti la cittadinanza tedesca,
tale status giuridico prevale».
4 L’articolo
10 dell’EGBGB, intitolato «Nome», prevede, al suo paragrafo 1:
«Il nome di una persona è disciplinato dalla legge dello
Stato di cui essa ha la cittadinanza».
5 L’articolo
48 dell’EGBGB, intitolato «Scelta di un nome acquisito in un altro Stato membro
dell’Unione», così dispone:
«Qualora il nome di una persona sia soggetto al diritto
tedesco, la persona stessa può scegliere, mediante dichiarazione resa dinanzi
all’ufficio dello stato civile, il nome acquisito durante un periodo di
residenza abituale in un altro Stato membro dell’Unione e ivi trascritto nei
registri dello stato civile, a condizione che ciò non sia palesemente
incompatibile con principi fondamentali del diritto tedesco. La scelta del nome
ha effetto retroattivo dal momento della trascrizione nei registri dello stato
civile dell’altro Stato membro, salvo che la persona dichiari espressamente che
tale scelta debba produrre effetti solo ex nunc. La dichiarazione deve essere
resa per atto pubblico o per scrittura privata autenticata. (...)».
Legge sul cambiamento di nome
6 In
diritto tedesco, il cambiamento di nome è disciplinato dal diritto pubblico,
più precisamente dalla procedura prevista dalla Gesetz über die Änderung von
Familiennamen und Vornamen (NamÄndG) (legge sul cambiamento di cognome e di
nome), del 5 gennaio 1938 (RGBl. 1938 I, pag. 9), come modificata
dall’articolo 54 della legge del 17 dicembre 2008 (BGBl. 2008 I,
pag. 2586) (in prosieguo: la «legge sul cambiamento di nome»).
7 L’articolo
1 della legge sul cambiamento di nome è così formulato:
«Il cognome di un cittadino tedesco o di un apolide che
risieda o soggiorni abitualmente in Germania può essere modificato su
richiesta».
8 L’articolo
3, paragrafo 1, di detta legge così dispone:
«Un cognome può essere modificato solo se un motivo
importante giustifica tale cambiamento».
9 Conformemente
all’articolo 3, paragrafo 2, della legge sul cambiamento di nome, le
circostanze del caso di specie rilevanti ai fini della decisione devono essere
valutate d’ufficio.
10 In
forza dell’articolo 5, paragrafo 1, della legge sul cambiamento di nome, la
richiesta di cambiamento di cognome deve essere presentata presso
l’amministrazione di grado inferiore nella circoscrizione nella quale il
richiedente risiede o soggiorna.
11 Il
punto 27, paragrafo 1, dell’Allgemeine Verwaltungsvorschrift zum Gesetz über
die Änderung von Familiennamen und Vornamen (NamÄndVwV) (regolamento
amministrativo generale relativo alla legge sul cambiamento di cognome e di
nome), dell’11 agosto 1980, come modificato da ultimo dal regolamento
amministrativo dell’11 febbraio 2014 (BAnz. AT, del 18 febbraio 2014, B2) (in
prosieguo: il «regolamento relativo alla legge sul cambiamento di nome»), è
così formulato:
«Il nome delle persone è disciplinato in dettaglio
e – in linea di principio – in maniera esaustiva dalle disposizioni
applicabili di diritto civile. La modifica del nome, che rientra nell’ambito
del diritto amministrativo pubblico, è diretta a eliminare gli effetti dannosi
in un determinato caso. Essa ha carattere eccezionale. Di conseguenza, occorre
previamente verificare se l’obiettivo perseguito non possa essere raggiunto con
una dichiarazione di cambiamento di nome in forza del diritto civile o tramite
un’ordinanza del giudice tutelare».
12 Il
punto 28 di tale regolamento stabilisce quanto segue:
«Un cognome può essere modificato solo se un motivo
importante giustifica tale cambiamento. Si è in presenza di un motivo
importante quando l’interesse legittimo del richiedente (...) al cambiamento di
nome è superiore agli interessi legittimi eventualmente contrari di altre parti
interessate (...) e ai principi relativi al nome derivanti dalle disposizioni
legali, di cui fanno parte la funzione di regolamentazione sociale del nome e
l’interesse pubblico al mantenimento del nome trasmesso (...)».
13 Ai
sensi del punto 31 di detto regolamento:
«Se il bilanciamento che deve essere effettuato
conformemente al punto 28 fa emergere un interesse legittimo superiore del
richiedente alla modifica del cognome e che sussiste di conseguenza un motivo
importante per la modifica del suo nome, occorre di norma accogliere la
richiesta. Elementi già considerati nell’ambito del bilanciamento volto a
stabilire la sussistenza del motivo importante non possono più essere presi in
considerazione come motivi discrezionali. Se non sussiste alcun motivo
importante che giustifichi il cambiamento di nome, la domanda deve essere
respinta».
14 Il
punto 49 del regolamento relativo alla legge sul cambiamento di nome così
prevede:
«Quando un cittadino tedesco, che possiede parimenti la
cittadinanza di un altro Stato, porta, in base al diritto di detto altro Stato,
un cognome diverso da quello che è tenuto a portare in forza del diritto sul
territorio di applicazione della legge, tale ambiguità nella titolarità del
nome può essere eliminata cambiando il cognome che dev’essere portato sul
territorio di applicazione della legge con il cognome che dev’essere portato in
base al diritto dell’altro Stato. Di contro, in caso di rinuncia all’altro
cognome, occorre rimettere l’interessato dinanzi alle autorità dell’altro Stato
di cui egli possiede la cittadinanza».
15 Nel
caso in cui l’amministrazione competente neghi il cambiamento di nome, contro
una siffatta decisione di diniego sono aperte le possibilità di ricorso
amministrativo. Nel caso, invece, di accoglimento della richiesta di
cambiamento di cognome da parte dell’amministrazione competente, essa assicura
che il cambiamento di nome sia seguito dall’aggiornamento o sia constatato nel
registro dello stato civile.
Fatti del procedimento principale e questione
pregiudiziale
16 Il
ricorrente nel procedimento principale è nato il 25 aprile 1986 in Romania con
il cognome di Pavel. Egli è il figlio della sig.ra Angela Freitag e del
sig. Vica Pavel, cittadini rumeni, e ha la cittadinanza rumena.
17 Dopo
il divorzio dei suoi genitori, sua madre si è risposata con un cittadino
tedesco, il sig. Freitag.
18 Con
una decisione giudiziaria del 21 maggio 1997, il sig. Freitag ha adottato
il ricorrente nel procedimento principale e quest’ultimo ha acquisito così la
cittadinanza tedesca e porta, da allora, il cognome Freitag.
19 Con
decisione del consiglio distrettuale di Brașov (Romania) del 9 luglio 2013, il
cognome del ricorrente nel procedimento principale è tornato ad essere Pavel, a
richiesta di quest’ultimo. Durante la procedura di cambiamento di nome in
Romania, il ricorrente nel procedimento principale aveva la residenza abituale
in Germania.
20 Egli
si è rivolto in seguito allo Standesamt der Stadt Wuppertal (ufficio dello
stato civile di Wuppertal, Germania) presentando il proprio nuovo passaporto
rumeno emesso con il cognome Pavel, e ha chiesto che la modifica del nome fosse
riconosciuta anche dal diritto tedesco e che la trascrizione nel registro dello
stato civile fosse integrata in tal senso.
21 Nutrendo
dubbi circa la possibilità di iscrivere un atto successivo nel registro dello
stato civile, l’ufficio dello stato civile di Wuppertal e l’Oberbürgermeister
der Stadt Wuppertal (sindaco di Wuppertal, Germania) hanno sottoposto la
questione alla valutazione dell’Amtsgericht Wuppertal (tribunale distrettuale
di Wuppertal, Germania).
22 Secondo
il giudice del rinvio, poiché il ricorrente nel procedimento principale aveva
la residenza abituale in Germania nel corso della procedura di cambiamento di nome
in Romania, l’articolo 48 dell’EGBGB non può applicarsi, in quanto tale
disposizione subordina la possibilità di scegliere, tramite dichiarazione
all’ufficio dello stato civile, un nome acquisito in un altro Stato membro
dell’Unione alla condizione che il nome di cui trattasi sia stato acquisito nel
corso di un periodo di residenza abituale in tale altro Stato membro,
condizione che non è soddisfatta nella specie.
23 Il
giudice del rinvio precisa che non è possibile neanche un’applicazione analogica
dell’articolo 48 dell’EGBGB. Dai documenti relativi alla procedura legislativa
risulterebbe che il legislatore volesse in particolare attuare i requisiti
risultanti dalla sentenza del 14 ottobre 2008, Grunkin e Paul (C‑353/06,
EU:C:2008:559), e che fosse consapevole del fatto che non rientrano in tale
disposizione tutte le situazioni di divergenza di cognome.
24 Di
conseguenza, il giudice del rinvio si chiede se gli articoli 18 e 21 TFUE
impongano il riconoscimento di un cambiamento di nome effettuato in un altro
Stato membro qualora l’interessato non abbia la residenza abituale in tale
altro Stato membro, ma presenti con questo un legame diverso a motivo della sua
doppia cittadinanza.
25 In
tali circostanze, l’Amtsgericht Wuppertal (tribunale distrettuale di Wuppertal)
ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente
questione pregiudiziale:
«Se gli articoli 18 e 21 TFUE debbano essere
interpretati nel senso che le autorità di uno Stato membro siano tenute a
riconoscere la modifica del cognome di un cittadino di tale Stato qualora
questi sia, al contempo, cittadino di un altro Stato membro e in tale Stato
abbia (ri‑)acquisito, a seguito di una modifica del cognome non legata a una
variazione dello stato di famiglia, il proprio cognome originario ricevuto alla
nascita, benché l’acquisizione di tale cognome non sia avvenuta quando il
cittadino aveva la residenza abituale nell’altro Stato membro e sia avvenuta
dietro sua richiesta».
Sulla questione pregiudiziale
Osservazioni preliminari
26 In
limine, occorre indicare che il giudice del rinvio si basa sull’articolo 48
dell’EGBGB, ove, con la sua questione, esso desidera sapere se gli articoli 18
e 21 TFUE ostino a che le autorità competenti di uno Stato membro rifiutino
di riconoscere il cognome legalmente ottenuto, da un cittadino di tale Stato
membro, in un altro Stato membro di cui egli parimenti possiede la
cittadinanza, sebbene lo stesso non avesse la residenza abituale in tale altro
Stato membro.
27 Occorre
rilevare che, nella sua domanda, il giudice del rinvio menziona l’esistenza,
sottolineata altresì dal governo tedesco e dalla Commissione europea, di una
procedura distinta, rientrante nel diritto pubblico, prevista dalla legge sul
cambiamento di nome e che consente di richiedere, presso l’amministrazione, la
modifica del nome.
28 Tale
procedura ai sensi della legge sul cambiamento di nome è applicabile, secondo
il governo tedesco, in una situazione come quella del ricorrente nel
procedimento principale, nei limiti in cui, anche se l’articolo 48 dell’EGBGB
è, in linea di principio, applicabile a quest’ultimo, egli non soddisfa
tuttavia il requisito della residenza abituale in un altro Stato membro posto
da tale disposizione. Secondo il governo tedesco, la procedura ai sensi della
legge sul cambiamento di nome consente a una persona, in una situazione
comparabile a quella del ricorrente nel procedimento principale, di acquisire
il diritto di portare il nome ottenuto in forza del diritto di un altro Stato
membro presentando una richiesta in tal senso presso l’amministrazione
competente.
29 Nell’ambito
della procedura di cooperazione tra i giudici nazionali e la Corte, spetta a quest’ultima
fornire al giudice nazionale una risposta utile che gli consenta di dirimere la
controversia sottopostagli. In tale prospettiva, spetta alla Corte, se
necessario, riformulare le questioni che le sono sottoposte (v., in
particolare, sentenza del 19 settembre 2013, Betriu Montull, C‑5/12,
EU:C:2013:571, punto 40).
30 In
tali circostanze, la questione posta dal giudice del rinvio va intesa come
volta, in sostanza, a sapere se gli articoli 18 e 21 TFUE debbano essere
interpretati nel senso che ostano a che l’ufficio dello stato civile di uno
Stato membro neghi di riconoscere e di trascrivere nel registro dello stato
civile il nome legalmente ottenuto da un cittadino di tale Stato membro, in un
altro Stato membro di cui parimenti possiede la cittadinanza, e corrispondente
al suo nome di nascita, sulla base di una disposizione del diritto nazionale
che subordina la possibilità di richiedere una siffatta trascrizione tramite
dichiarazione all’ufficio dello stato civile alla condizione che tale nome sia
stato acquisito durante un periodo di residenza abituale in tale altro Stato
membro, sebbene altre disposizioni del diritto nazionale consentano allo stesso
cittadino di presentare una richiesta di cambiamento di nome a un’altra
autorità, che ha il potere discrezionale di statuire su tale richiesta.
31 Si
deve aggiungere che, conformemente a una giurisprudenza costante della Corte,
l’articolo 21 TFUE comporta non soltanto il diritto di circolare e di
soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, ma parimenti il
divieto di qualsivoglia discriminazione basata sulla cittadinanza. Di
conseguenza, occorre esaminare la situazione del ricorrente nel procedimento
principale esclusivamente alla luce di tale disposizione (sentenza del 12
maggio 2011, Runevič-Vardyn e Wardyn, C‑391/09, EU:C:2011:291, punto 65; v.,
per analogia, sentenza del 2 giugno 2016, Bogendorff von Wolffersdorff, C‑438/14,
EU:C:2016:401, punto 34).
Sull’ambito di applicazione del diritto dell’Unione
32 In
limine, occorre esaminare se la situazione del ricorrente nel procedimento
principale rientri nell’ambito di applicazione materiale del diritto
dell’Unione e, in particolare, delle norme che disciplinano l’esercizio, da
parte di un cittadino dell’Unione, del suo diritto di libera circolazione e che
vietano la discriminazione.
33 Da
una consolidata giurisprudenza risulta che, sebbene, allo stato attuale del
diritto dell’Unione, le norme che disciplinano la trascrizione negli atti dello
stato civile del cognome di una persona rientrino nella competenza degli Stati
membri, questi ultimi, nell’esercizio di tale competenza, devono comunque
rispettare il diritto dell’Unione e, in particolare, le disposizioni del
Trattato relative alla libertà riconosciuta a ciascun cittadino dell’Unione di
circolare e di soggiornare nel territorio degli Stati membri (sentenze del 2
ottobre 2003, Garcia Avello, C‑148/02, EU:C:2003:539, punto 25; del 14 ottobre
2008, Grunkin e Paul, C‑353/06, EU:C:2008:559, punto 16; del 22 dicembre 2010,
Sayn-Wittgenstein, C‑208/09, EU:C:2010:806, punti 38 e 39; del 12 maggio 2011,
Runevič-Vardyn e Wardyn, C‑391/09, EU:C:2011:291, punto 63, nonché del 2 giugno
2016, Bogendorff von Wolffersdorff, C‑438/14, EU:C:2016:401, punto 32).
34 Secondo
una giurisprudenza costante, un collegamento con il diritto dell’Unione
sussiste nei confronti di persone cittadini di uno Stato membro e che
soggiornano legalmente sul territorio di un altro Stato membro (sentenza del 2
ottobre 2003, Garcia Avello, C‑148/02, EU:C:2003:539, punto 27). Ciò accade nel
caso del ricorrente nel procedimento principale, che ha la cittadinanza rumena
e soggiorna nel territorio della Repubblica federale di Germania, di cui
parimenti possiede la cittadinanza.
Sull’esistenza di una restrizione alla libera
circolazione ai sensi dell’articolo 21 TFUE
35 Si
deve ricordare che la Corte
ha ripetutamente dichiarato che una normativa nazionale che sfavorisca taluni
cittadini nazionali per il solo fatto che essi abbiano esercitato la loro
libertà di circolare e di soggiornare in un altro Stato membro rappresenta una
restrizione alle libertà riconosciute dall’articolo 21, paragrafo 1, TFUE ad
ogni cittadino dell’Unione (sentenze del 14 ottobre 2008, Grunkin e Paul, C‑353/06,
EU:C:2008:559, punto 21; del 22 dicembre 2010, Sayn-Wittgenstein, C‑208/09,
EU:C:2010:806, punto 53; del 12 maggio 2011, Runevič-Vardyn e Wardyn, C‑391/09,
EU:C:2011:291, punto 68, nonché del 2 giugno 2016, Bogendorff von
Wolffersdorff, C‑438/14, EU:C:2016:401, punto 36).
36 Dalla
giurisprudenza della Corte risulta altresì che il diniego, da parte
dell’amministrazione di uno Stato membro, di riconoscere il nome di un
cittadino di tale Stato che abbia esercitato il proprio diritto di libera
circolazione e che possegga parimenti la cittadinanza di un altro Stato membro,
così come determinato in quest’ultimo Stato membro, è idoneo ad ostacolare
l’esercizio del diritto, sancito all’articolo 21 TFUE, di circolare e di
soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. Infatti, da una
diversità tra i due nomi applicati ad una stessa persona possono nascere
confusioni ed inconvenienti (v., in tal senso, sentenza del 2 giugno 2016,
Bogendorff von Wolffersdorff, C‑438/14, EU:C:2016:401, punto 37).
37 A
tale riguardo, va ricordato che numerose attività della vita quotidiana, sia in
ambito pubblico che privato, richiedono di fornire la prova della propria
identità e, trattandosi di una famiglia, la prova della natura dei vincoli
familiari esistenti fra i vari membri della stessa (sentenze del 12 maggio
2011, Runevič-Vardyn e Wardyn, C‑391/09, EU:C:2011:291, punto 73, nonché del 2
giugno 2016, Bogendorff von Wolffersdorff, C‑438/14, EU:C:2016:401, punto 43).
38 Per
un cittadino avente la cittadinanza di due Stati membri, come avviene nel caso
del ricorrente nel procedimento principale, esiste un rischio concreto, a causa
del fatto di portare due cognomi differenti, ossia Pavel e Freitag, di dovere
dissipare dubbi riguardo alla propria identità nonché all’autenticità dei
documenti prodotti o alla veridicità dei dati in essi contenuti, situazione
che, come dichiarato dalla Corte, costituisce una circostanza idonea ad
ostacolare l’esercizio del diritto conferito dall’articolo 21 TFUE (v.
sentenze del 22 dicembre 2010, Sayn-Wittgenstein, C‑208/09, EU:C:2010:806,
punto 70, e del 2 giugno 2016, Bogendorff von Wolffersdorff, C‑438/14,
EU:C:2016:401, punto 40).
39 Di
conseguenza, il diniego, da parte dell’ufficio dello stato civile di uno Stato
membro, di riconoscere e di trascrivere nei registri dello stato civile il nome
legalmente ottenuto da un cittadino di tale Stato membro in un altro Stato
membro di cui egli possiede parimenti la cittadinanza, sulla base di una
disposizione di diritto nazionale che subordina la possibilità di chiedere una
siffatta trascrizione tramite dichiarazione all’ufficio dello stato civile alla
condizione che detto nome sia stato acquisito nel corso di un periodo di
residenza abituale in tale altro Stato membro, è idonea ad ostacolare
l’esercizio del diritto, sancito all’articolo 21 TFUE, di circolare e di
soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.
40 Il
governo tedesco sostiene tuttavia che, poiché il diritto tedesco prevede altre
basi giuridiche per procedere al cambiamento di nome a richiesta
dell’interessato, ossia le disposizioni pertinenti della legge sul cambiamento
di nome, non sussistono ostacoli alla libera circolazione delle persone che
potrebbero sorgere da una divergenza di cognomi. Infatti, sebbene l’articolo 3,
paragrafo 1, della legge sul cambiamento di nome subordini un siffatto
cambiamento alla condizione che esso sia giustificato da un motivo importante,
dal punto 49 del regolamento relativo alla legge sul cambiamento di nome
risulterebbe che l’eliminazione di una divergenza di cognomi in relazione a
cittadini tedeschi aventi doppia cittadinanza costituisce un siffatto motivo
importante. Così, in una situazione come quella di cui trattasi nel
procedimento principale, l’interessato potrebbe ottenere il riconoscimento del
nome legalmente adottato nell’altro Stato membro presentando una richiesta ai
sensi della legge sul cambiamento di nome presso l’amministrazione competente.
41 A
tale riguardo, affinché una normativa come quella tedesca relativa al nome,
considerata nel suo complesso, possa essere ritenuta compatibile con il diritto
dell’Unione, è necessario che le disposizioni o la procedura interna che
consentono di presentare una richiesta di cambiamento di nome non rendano
impossibile o eccessivamente difficile l’attuazione dei diritti conferiti
dall’articolo 21 TFUE. In linea di principio, poco importa sapere, dal
punto di vista del diritto dell’Unione, quale sia la disposizione nazionale o
la procedura interna in forza della quale il ricorrente può far valere i suoi
diritti riguardanti il proprio nome.
42 Infatti,
in mancanza di una normativa dell’Unione in materia di modifica del cognome,
spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro disciplinare
le modalità previste dal diritto nazionale e destinate a garantire la tutela
dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione, purché, da
un lato dette modalità non siano meno favorevoli di quelle relative ai diritti
che trovino origine nell’ordinamento giuridico interno (principio di
equivalenza) e, dall’altro, esse non rendano impossibile o eccessivamente
difficile, in pratica, l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione
(principio di effettività) (v. in particolare, per analogia, sentenze del 12
settembre 2006, Eman e Sevinger, C‑300/04, EU:C:2006:545, punto 67; del 3
luglio 2014, Kamino International Logistics e Datema Hellmann Worldwide
Logistics, C‑129/13 e C‑130/13, EU:C:2014:2041, punto 75, nonché dell’8 marzo
2017, Euro Park Service, C‑14/16, EU:C:2017:177, punto 36).
43 Spetta
al giudice del rinvio valutare se gli sia possibile attuare esso stesso i
diritti conferiti dall’articolo 21 TFUE e riconoscere il diritto al
riconoscimento del nome acquisito in circostanze quali quelle di cui al
procedimento principale o se il ricorrente in tale procedimento debba ricorrere
alla procedura di diritto pubblico di cui alla legge sul cambiamento di nome.
44 Com’è
stato indicato al punto 40 della presente sentenza, il governo tedesco sostiene
che l’eliminazione di una divergenza di cognomi costituisce un «motivo
importante» ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della legge sul cambiamento
di nome. Inoltre, l’esercizio dei diritti di un cittadino come il ricorrente
nel procedimento principale a norma dell’articolo 21 TFUE non sarebbe
rimesso in discussione dal potere discrezionale di cui dispongono le autorità
tedesche competenti.
45 Occorre
sottolineare, a tale riguardo, che un siffatto potere discrezionale deve essere
esercitato dalle autorità competenti in modo da garantire la piena efficacia
dell’articolo 21 TFUE.
46 Occorre,
in particolare, che la procedura esistente nel diritto tedesco e volta a
consentire il cambiamento di nome sia idonea a garantire che l’esistenza di un
«motivo importante» possa essere ammessa in circostanze quali quelle di cui al
procedimento principale, nelle quali l’interessato presenta con l’altro Stato
membro nel quale ha ottenuto il nome un collegamento diverso dalla residenza
abituale, come la cittadinanza, al fine di consentire il riconoscimento del
nome ottenuto in un altro Stato membro.
47 Si
deve, pertanto, rispondere alla questione sollevata dichiarando che l’articolo 21 TFUE
deve essere interpretato nel senso che osta a che l’ufficio dello stato civile
di uno Stato membro rifiuti di riconoscere e di trascrivere nel registro dello
stato civile il nome legalmente ottenuto da un cittadino di tale Stato membro
in un altro Stato membro, di cui egli parimenti possiede la cittadinanza, e
corrispondente al suo nome di nascita, sulla base di una disposizione del
diritto nazionale che subordina la possibilità di ottenere una siffatta trascrizione
tramite dichiarazione all’ufficio dello stato civile alla condizione che tale
nome sia stato acquisito durante un periodo di residenza abituale in tale altro
Stato membro, a meno che esistano nel diritto nazionale altre disposizioni che
consentano effettivamente il riconoscimento di detto nome.
Sulle spese
48 Nei
confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce
un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire
sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni
alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione)
dichiara:
L’articolo 21 TFUE deve essere
interpretato nel senso che osta a che l’ufficio dello stato civile di uno Stato
membro rifiuti di riconoscere e di trascrivere nel registro dello stato civile
il nome legalmente ottenuto da un cittadino di tale Stato membro in un altro
Stato membro, di cui egli parimenti possiede la cittadinanza, e corrispondente
al suo nome di nascita, sulla base di una disposizione del diritto nazionale
che subordina la possibilità di ottenere una siffatta trascrizione tramite
dichiarazione all’ufficio dello stato civile alla condizione che tale nome sia
stato acquisito durante un periodo di residenza abituale in tale altro Stato
membro, a meno che esistano nel diritto nazionale altre disposizioni che
consentano effettivamente il riconoscimento di detto nome.
Dal sito http://curia.europa.eu
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