martedì 30 ottobre 2018


Alla Corte costituzionale l’automaticità delle conseguenze derivanti dalla dichiarazione mendace

Procedimento amministrativo – Dichiarazione sostitutiva atto di notorietà – Dichiarazione falsa – Conseguenza – Art. 75, d.P.R. n. 445 del 2000 – Conseguenza – Decadenza automatica del beneficio – Violazione art. 3 Cost. – Rilevante e non manifestamente infondata.
E’ rilevante e non manifestamente infondata, per violazione dei principi di proporzionalità, ragionevolezza e uguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 75, d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, nella parte in cui introduce un automatismo legislativo tra la non veridicità della dichiarazione resa dall’interessato e la perdita dei benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera (1).

(1) Analoga rimessione è stata disposta dalla Sezione con ordinanze 23 ottobre 2018, n. 1531, 25 ottobre 2018, n. 1552 e 17 settembre 2018, n. 1346.
Ha chiarito la Sezione che le conseguenze decadenziali (definitive) dal beneficio (peraltro, latu sensusanzionatorie), legate alla non veridicità obiettiva della dichiarazione e, a fortiori, l’impedimento a conseguire il beneficio medesimo, ai sensi del citato art. 75, d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, appaiono irragionevoli e incostituzionali, contrastando con il principio di proporzione, che è alla base della razionalità che, a sua volta, informa il principio di uguaglianza sostanziale, ex art. 3 Cost.. E tanto ove si considerino (innanzitutto e in via dirimente) il meccanico automatismo legale (del tutto “slegato” dalla fattispecie concreta) e l’assoluta rigidità applicativa della norma in questione, che (da un lato) impone tout court (senza alcun distinguo, né gradazione) la decadenza dal beneficio (o l’impedimento al conseguimento dello stesso), a prescindere dall’effettiva gravità del fatto contestato (sia per le fattispecie in cui la dichiarazione non veritiera riveste un’incidenza del tutto marginale rispetto all’interesse pubblico perseguito dalla P.A., sia per quelle nelle quali tale dichiarazione risulta in netto contrasto con tale interesse, riservando, quindi, il medesimo trattamento a situazioni di oggettiva diversa gravità), e (dall’altro) non consente di escludere nemmeno le ipotesi di non veridicità delle autodichiarazioni su aspetti di minima rilevanza concreta, con ogni possibile (e finanche prevedibile) abnormità e sproporzione delle relative conseguenze, rispetto al reale disvalore del fatto commesso.
Ha aggiunto la Sezione che è ben vero, infatti, che l’art. 75, d.P.R. n. 445 del 2000 deve qualificarsi quale norma generale di semplificazione amministrativa. Tuttavia, proprio in quanto tale, la suddetta norma, se, da un lato, è sicuramente volta a rendere più efficiente ed efficace l’azione dell’Amministrazione pubblica (buon andamento, ai sensi dell’art. 97 Cost.), dall’altro è (altrettanto inequivocabilmente) finalizzata a garantire i diritti dei singoli costituzionalmente tutelati e di volta in volta coinvolti nel procedimento amministrativo attivato (e nell’ambito del quale sono state rese le autodichiarazioni medesime): si pensi, ad esempio, al diritto allo studio (art. 34), al diritto alla salute (art. 32), al diritto al lavoro (artt. 4 e 35), al diritto all’assistenza sociale (art. 38), al diritto di iniziativa economica privata (art. 41). Sicchè, anche nella prospettiva del necessario bilanciamento degli interessi costituzionali coinvolti (nonché della massima espansione possibile delle relative tutele), il rigido automatismo applicativo (in uno ai correlati e definitivi effetti preclusivi e/o decadenziali) si rivela, in concreto, lesivo del doveroso equilibrio fra le diverse esigenze in gioco, e persino tale da pregiudicare definitivamente proprio quei diritti costituzionali del singolo alla cui migliore e più rapida realizzazione la norma di semplificazione de qua è, in definitiva, finalizzata.
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/alla-corte-costituzionale-l-automaticita-delle-conseguenze-derivanti-dalla-dichiarazione-mendace

Al giudice ordinario la cognizione delle circolari Inps sul c.d. “premio di natalità”

Giurisdizione – Assistenza – Premio di natalità – Circolari Inps – Impugnazione – Giurisdizione giudice ordinario.

     Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia, promossa da associazioni e da cittadine extracomunitarie, avente ad oggetto le circolari Inps concernenti la prestazione assistenziale denominata “premio di natalità” di cui all’art. 1, comma 353, l. 11 dicembre 2016, n. 232, nella parte in cui escludono dall’attribuzione del beneficio economico le cittadine straniere titolari di permesso di soggiorno ordinario (1).

(1) Ha premesso la Sezione che la questione di giurisdizione si coagula intorno all’alternativa tra l’azione collettiva exart. 5, comma 1, d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150 (ai sensi del quale “sono legittimati ad agire ai sensi dell’art. 4, in forza di delega, rilasciata, a pena di nullità, per atto pubblico o scrittura privata autenticata, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, le associazioni e gli enti inseriti in un apposito elenco approvato con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità ed individuati sulla base delle finalità programmatiche e della continuità dell’azione”) e l’azione “generale” proponibile dinanzi al giudice amministrativo da parte degli enti esponenziali degli interessi categoriali, deve osservarsi che l’azione collettiva non può che essere riconducibile, nei suoi risvolti anti-discriminatori, al paradigma normativo suindicato, con la connessa attribuzione della giurisdizione al giudice ordinario: ciò perché si è in presenza di un interesse adespota espressamente erto dal legislatore ad interesse processualmente azionabile, con la conseguente necessità di osservare in tutti i suoi aspetti il sistema di tutela all’uopo prefigurato (quindi, anche quanto alla individuazione del plesso giurisdizionale cui è affidata la relativa cura).
La Sezione ha escluso che al fine di radicare la giurisdizione amministrativa in subiecta materia, potrebbe farsi leva sull’individuazione di un interesse (collettivo) autonomo, sia da quello (legislativamente tipizzato) anti-discriminatorio sia da quello facente capo ai singoli aventi diritto (alla prestazione assistenziale de qua): interesse che sembrerebbe emergere dalle censure attoree intese a lamentare (non tanto o non solo il carattere discriminatorio degli atti impugnati, ma) la generica irragionevolezza della previsione limitatrice contestata, ovvero la sua difformità dal sovraordinato parametro legislativo, ed all’ombra delle quali potrebbe delinearsi un interesse alla eliminazione degli ostacoli che si frappongono alla piena fruibilità del beneficio assistenziale di cui si tratta da parte delle sue aspiranti finali, azionabile per ipotesi dall’ente collettivo che assuma, quale oggetto statutario, la tutela degli immigrati e lo svolgimento di ogni attività intesa a favorire l’accesso a parte loro alle prestazioni socio-assistenziali.
Premesso invero che anche l’interesse collettivo, quale posizione legittimante l’accesso alla giustizia amministrativa, deve essere connotato, al pari di quello individuale, da un bene sostanziale alla cui tutela sia finalizzato e di cui sia predicabile la titolarità in capo all’ente esponenziale, deve osservarsi che non è rinvenibile un interesse, proprio degli enti appellanti, alla eliminazione degli ostacoli giuridici che si frappongono al godimento, da parte di tutte le potenziali aspiranti, di una determinata prestazione assistenziale, attesi da un lato il carattere meramente strumentale e giuridicamente “sfuggente” di siffatto ipotetico interesse, che finisce per essere attratto e scolorire nel grembo di quello direttamente finalizzato al conseguimento della prestazione ex art. 1, comma 353, d.lgs. n. 232 del 2016, dall’altro lato l’evidente non imputabilità soggettiva di quest’ultimo agli enti appellanti (a differenza di quello che potrebbe ritenersi leso da una eventuale azione della P.A. intesa ad ostacolare la loro azione di tutela degli interessi degli immigrati), ma semmai, ancora una volta, alle singole madri interessate.
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/al-giudice-ordinario-la-cognizione-delle-circolari-inps-sul-c-d-premio-di-natalita-

mercoledì 24 ottobre 2018




Straniero - Cittadinanza – Acquisizione – Permesso di soggiorno in attesa cittadinanza – Convertibilità in permesso di soggiorno per lavoro – Artt. 1, l. n. 379 del 2000 e 6, d.lgs. n. 286 del 1998 - Esclusione – Violazione art. 3 Cost. – Rilevante e non manifestamente infondata
Straniero - Cittadinanza – Acquisizione – Permesso di soggiorno in attesa cittadinanza – Convertibilità in permesso di soggiorno per lavoro – Artt.  1, l. n. 379 del 2000 e 6, d.lgs. n. 286 del  1998 - Esclusione – Violazione art. 3 Cost. – Rilevante e non manifestamente infondata
               E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, l. 14 dicembre 2000, n. 379 e dell’art. 6, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 in relazione all’art. 3 Cost. e del principio di ragionevolezza con riferimento alla situazione di quei soggetti che, per essere discendenti di persone nate e già residenti nei territori che sono appartenuti all’Impero austro-ungarico prima del 16 luglio 1920, emigrate all’estero, possono ottenere la cittadinanza ai sensi della normativa speciale di cui alla menzionata legge n. 379 del 2000, senza che tale riconoscimento risulti subordinato al possesso di un titolo di soggiorno, e che, tuttavia, proprio perché privi di un permesso di soggiorno (diverso da quello per “attesa cittadinanza” di cui all’art. 11, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 394 del 1999 che non è convertibile in permesso per lavoro), non possono svolgere attività lavorativa nell’attesa di ottenere la cittadinanza italiana (1).
(1) Ha ricordato il Tar che occorre innanzi tutto considerare che, in generale, per coloro che attendono il rilascio della cittadinanza il problema della convertibilità del relativo permesso non si pone: l’art. 11, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 394 del 1999 ne prevede il rilascio, per la durata del procedimento di concessione, “a favore dello straniero già in possesso del permesso di soggiorno per altri motivi”. Ciò significa che, costituendo tale diverso e già posseduto permesso di soggiorno presupposto imprescindibile per ottenere quello per attesa di cittadinanza, il problema (che in questa sede non rileva) si sposta, semmai, sulla convertibilità di tale diverso permesso, ovvero sull’ambito delle attività consentite da tale diverso permesso.
Altro è il caso dei soggetti che sono discendenti di persone nate e già residenti nei territori che sono appartenuti all’Impero austro-ungarico prima del 16 luglio 1920, emigrate all’estero: ad essi si applica la normativa speciale contenuta nella legge 14 dicembre 2000, n. 379, che, all’art. 1 comma 2, riconosce la cittadinanza italiana, senza subordinare tale riconoscimento al possesso di un diverso titolo di soggiorno. Ecco che allora viene in rilievo la convertibilità dello speciale permesso, o l’ampiezza dei diritti e delle facoltà collegate al possesso di tale specifico e speciale permesso di soggiorno per attesa di cittadinanza, che, non essendo collegato ad alcun altro, diverso, titolo, e non prevedendo l’autorizzazione all’attività lavorativa, ne preclude, in forza del principio di tassatività sopra delineato, lo svolgimento, come ha giustamente rilevato il Ministero dell’interno.
Tale diversità di trattamento tra soggetti in identica situazione, rappresentata dall’aver proposto domanda di cittadinanza e di essere in attesa della risposta, gli uni già in possesso di altro permesso di soggiorno, potenzialmente convertibile, e gli altri sforniti di qualsiasi titolo che li abiliti allo svolgimento di attività lavorativa, è tale da far dubitare della rispondenza dello schema normativo all’art. 3 Cost..
Il sistema emergente dalla diversità di trattamento normativo si presta anche a dubbi di irragionevolezza, dato che alla situazione che il legislatore ha ritenuto evidentemente meritevole di speciale considerazione, quale quella dei discendenti degli ex appartenenti all’Impero austro-ungarico emigrati all’estero, ai quali la cittadinanza è concessa su semplice dichiarazione, rispetto ai casi generali, nei quali è richiesto il possesso di un diverso permesso di soggiorno, è collegato un effetto deteriore, che consegna il richiedente all’impossibilità di lavorare.
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/straniero-cittadinanza-acquisizione-permesso-di-soggiorno-in-attesa-cittadinanza-convertibilita-in-permesso-di-soggiorno-per-lavoro-artt-1-l-n-379-del

sabato 20 ottobre 2018


Corte di Giustizia UE 18 ottobre 2018, n. C-662/17, E.G.



Rinvio pregiudiziale – Sistema europeo comune di asilo – Direttiva 2013/32/UE – Articolo 46, paragrafo 2 – Ricorso contro una decisione che nega il riconoscimento dello status di rifugiato, ma accorda lo status conferito dalla protezione sussidiaria – Ricevibilità – Assenza di interesse sufficiente qualora lo status di protezione sussidiaria concesso da uno Stato membro offra gli stessi diritti e gli stessi vantaggi che il diritto dell’Unione e quello nazionale riconoscono allo status di rifugiato – Rilevanza, ai fini dell’esame dell’identità dei suddetti diritti e vantaggi, della situazione individuale del richiedente











L’articolo 46, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, deve essere interpretato nel senso che lo status conferito dalla protezione sussidiaria, concesso da una normativa di uno Stato membro come quella di cui trattasi nel procedimento principale, non offre «gli stessi diritti e gli stessi vantaggi che il diritto dell’Unione e quello nazionale riconoscono allo status di rifugiato», ai sensi di tale disposizione, di modo che un giudice di tale Stato membro non può respingere, in quanto irricevibile, un ricorso proposto contro una decisione che considera una domanda infondata sotto il profilo del riconoscimento dello status di rifugiato, ma che concede lo status conferito dalla protezione sussidiaria, a causa dell’insufficiente interesse del richiedente alla continuazione del procedimento, allorché si accerti che, conformemente alla normativa nazionale applicabile, tali diritti e vantaggi attribuiti da tali due status di protezione internazionale non sono effettivamente identici.
Un ricorso siffatto non può essere respinto, in quanto irricevibile, neanche qualora si constati, alla luce della concreta situazione del richiedente, che il riconoscimento dello status di rifugiato non sarebbe tale da attribuirgli maggiori diritti e vantaggi rispetto alla concessione dello status conferito dalla protezione sussidiaria, dal momento che il richiedente non fa valere, o non fa ancora valere, diritti che sono attribuiti in forza dello status di rifugiato, ma che non lo sono, ovvero lo sono, ma in misura minore, in forza dello status conferito dalla protezione sussidiaria.










Edizione provvisoria
SENTENZA DELLA CORTE (Settima Sezione)
18 ottobre 2018 
Nella causa C‑662/17,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Vrhovno sodišče (Corte suprema, Slovenia), con decisione dell’8 novembre 2017, pervenuta in cancelleria il 27 novembre 2017, nel procedimento
E. G.
contro
Republika Slovenija,
LA CORTE (Settima Sezione),
composta da A. Prechal (relatore), presidente della Terza Sezione, facente funzione di presidente della Settima Sezione, C. Toader e A. Rosas, giudici,
avvocato generale: M. Campos Sánchez-Bordona
cancelliere: A. Calot Escobar
vista la fase scritta del procedimento,
considerate le osservazioni presentate:
–        per E. G., par D. Bulog, odvetnica;
–        per il governo sloveno, da J. Morela, višja državna odvetnica;
–        per il governo dei Paesi Bassi, da P. Huurnink e K. Bulterman, in qualità di agenti;
–        per la Commissione europea, da M. Condou-Durande e M. Žebre, in qualità di agenti,
vista la decisione, adottata dopo aver sentito l’avvocato generale, di giudicare la causa senza conclusioni,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1        La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 46, paragrafo 2, della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (GU 2013, L 180, pag. 60).
2        Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra E. G., cittadino afgano, e la Republika Slovenija (Repubblica di Slovenia), rappresentata dal Ministrstvo za notranje zadeve (Ministro dell’Interno), per quanto riguarda il rigetto, da parte di quest’ultimo, della domanda presentata da E. G. al fine di ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato.
 Contesto normativo
 Diritto dell’Unione
 Direttiva 2011/95/UE
3        I considerando 8, 9 e 39 della direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta (GU 2011, L 337, pag. 9), recitano:
«(8)      Nel Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo, adottato il 15 e 16 ottobre 2008, il Consiglio europeo ha rilevato che sussistono forti divergenze fra gli Stati membri per quanto riguarda la concessione della protezione [e le forme di quest’ultima] e ha sollecitato ulteriori iniziative, compresa una proposta di procedura unica in materia di asilo che preveda garanzie comuni, per completare l’istituzione, prevista dal programma dell’Aia [adottato dal Consiglio europeo del 4 novembre 2004, che determina gli obiettivi da conseguire nel periodo 2005-2010 nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia], del sistema europeo comune di asilo, e offrire così un livello di protezione più elevato.
(9)      Nel programma di Stoccolma [adottato nel 2010], il Consiglio europeo ha ribadito il suo impegno per il raggiungimento dell’obiettivo di istituire entro il 2012 uno spazio comune di protezione e solidarietà basato su una procedura comune in materia d’asilo e su uno status uniforme per coloro che hanno ottenuto la protezione internazionale, conformemente all’articolo 78 [TFUE].
(...)
(39)      In risposta alla richiesta del programma di Stoccolma di instaurare uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, e fatte salve le deroghe necessarie e oggettivamente giustificate, ai beneficiari dello status di protezione sussidiaria dovrebbero essere riconosciuti gli stessi diritti e gli stessi benefici di cui godono i rifugiati ai sensi della presente direttiva, alle stesse condizioni di ammissibilità».
4        L’articolo 2 di tale direttiva, intitolato «Definizioni», alle lettere da d) a g), dispone quanto segue:
«Ai fini della presente direttiva, si intende per:
(...)
d)      “rifugiato”: cittadino di un paese terzo il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale, si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto paese, oppure apolide che si trova fuori dal paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate e non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno, e al quale non si applica l’articolo 12;
e)      “status di rifugiato”: il riconoscimento, da parte di uno Stato membro, di un cittadino di un paese terzo o di un apolide quale rifugiato;
f)      “persona avente titolo a beneficiare della protezione sussidiaria”: cittadino di un paese terzo o apolide che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito all’articolo 15, e al quale non si applica l’articolo 17, paragrafi 1 e 2, e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto paese;
g)      “status di protezione sussidiaria”: il riconoscimento, da parte di uno Stato membro, di un cittadino di un paese terzo o di un apolide quale persona avente titolo alla protezione sussidiaria;
(...)».
5        L’articolo 3 della suddetta direttiva, intitolato «Disposizioni più favorevoli», recita:
«Gli Stati membri hanno facoltà di introdurre o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli in ordine alla determinazione dei soggetti che possono essere considerati rifugiati o persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché in ordine alla definizione degli elementi sostanziali della protezione internazionale, purché siano compatibili con le disposizioni della presente direttiva».
6        L’articolo 11 della stessa direttiva elenca i casi in cui un cittadino di un paese terzo o un apolide cessa di essere un rifugiato. Tale articolo dispone al suo paragrafo 1, lettera e), che ciò si verifica qualora la persona di cui trattasi non possa più rinunciare alla protezione del paese di cui ha la cittadinanza, perché sono venute meno le circostanze che hanno determinato il riconoscimento dello status di rifugiato.
7        L’articolo 12 della direttiva 2011/95 stabilisce norme in materia di esclusione dello status di rifugiato.
8        All’articolo 14 di tale direttiva sono riportate le norme riguardanti la revoca, la cessazione o il rifiuto del rinnovo dello status di rifugiato.
9        L’articolo 16 della suddetta direttiva, intitolato «Cessazione», dispone, al suo paragrafo 1:
«Un cittadino di un paese terzo o un apolide cessa di avere titolo a beneficiare della protezione sussidiaria quando le circostanze che hanno indotto alla concessione dello status di protezione sussidiaria sono venute meno o mutate in una misura tale che la protezione non è più necessaria».
10      L’articolo 17 della stessa direttiva contiene norme relative ai casi in cui è escluso il riconoscimento dello status conferito dalla protezione sussidiaria.
11      L’articolo 19 della direttiva 2011/95 contiene norme riguardanti la revoca, la cessazione o il rifiuto del rinnovo dello status di protezione sussidiaria.
12      Ai sensi dell’articolo 20 di tale direttiva, riportato nel Capo VII di quest’ultima, relativo al «Contenuto della protezione internazionale»:
«1.      Le disposizioni del presente capo non pregiudicano i diritti sanciti dalla convenzione di Ginevra.
2.      Le disposizioni del presente capo si applicano sia ai rifugiati sia alle persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, ove non diversamente indicato.
3.      Nell’attuare il presente capo, gli Stati membri tengono conto della specifica situazione di persone vulnerabili, quali i minori, i minori non accompagnati (...)
(...)
5.      L’interesse superiore del minore è la principale considerazione degli Stati membri quando attuano le disposizioni del presente capo che coinvolgono i minori».
13      L’articolo 21 della direttiva in parola stabilisce quanto segue:
«1.      Gli Stati membri rispettano il principio di “non refoulement” in conformità dei propri obblighi internazionali.
2.      Qualora non sia vietato dagli obblighi internazionali previsti dal paragrafo 1, gli Stati membri possono respingere un rifugiato, formalmente riconosciuto o meno:
a)      quando vi siano ragionevoli motivi per considerare che rappresenti un pericolo per la sicurezza dello Stato membro nel quale si trova; o
b)      quando, essendo stato condannato con sentenza passata in giudicato per un reato di particolare gravità, costituisce un pericolo per la comunità di tale Stato membro.
3.      Gli Stati membri hanno la facoltà di revocare, di cessare o di rifiutare il rinnovo o il rilascio di un permesso di soggiorno di un (o a un) rifugiato al quale si applichi il paragrafo 2».
14      L’articolo 24 della direttiva 2011/95, intitolato «Permesso di soggiorno», recita:
«1.      Gli Stati membri rilasciano ai beneficiari dello status di rifugiato, quanto prima a seguito del riconoscimento della protezione internazionale, un permesso di soggiorno valido per un periodo di almeno tre anni e rinnovabile, purché non vi ostino imperiosi motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico e fatto salvo l’articolo 21, paragrafo 3.
(...)
2.      Gli Stati membri rilasciano ai beneficiari dello status di protezione sussidiaria e ai loro familiari, quanto prima a seguito del riconoscimento della protezione internazionale, un permesso di soggiorno rinnovabile che deve essere valido per un periodo di almeno un anno e, in caso di rinnovo, per un periodo di almeno due anni, purché non vi ostino imperiosi motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico».
 Direttiva 2013/32
15      Risulta dall’articolo 1 della direttiva 2013/32 che quest’ultima mira a stabilire procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca della protezione internazionale a norma della direttiva 2011/95.
16      Ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2013/32:
«Nell’esaminare una domanda di protezione internazionale, l’autorità accertante determina anzitutto se al richiedente sia attribuibile la qualifica di rifugiato e, in caso contrario, se l’interessato sia ammissibile alla protezione sussidiaria».
17      L’articolo 46 di tale direttiva, intitolato «Diritto a un ricorso effettivo», che costituisce la sola disposizione del Capo V della suddetta direttiva, Capo intitolato a sua volta «Procedure di impugnazione», recita:
«1.      Gli Stati membri dispongono che il richiedente abbia diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice avverso i seguenti casi:
a)      la decisione sulla sua domanda di protezione internazionale, compresa la decisione:
i)      di ritenere la domanda infondata in relazione allo status di rifugiato e/o allo status di protezione sussidiaria;
(...)
c)      una decisione di revoca della protezione internazionale a norma dell’articolo 45.
2.      Gli Stati membri provvedono affinché le persone che l’autorità accertante reputa ammissibili alla protezione sussidiaria abbiano diritto a un ricorso effettivo ai sensi del paragrafo 1 avverso una decisione di ritenere inammissibile una domanda in relazione allo status di rifugiato.
Fatto salvo il paragrafo 1, lettera c), qualora lo status di protezione sussidiaria concessa da uno Stato membro offra gli stessi diritti e gli stessi vantaggi che il diritto dell’Unione e quello nazionale riconoscono allo status di rifugiato, detto Stato membro può ritenere inammissibile un’impugnazione di una decisione di ritenere inammissibile una domanda in relazione allo status di rifugiato a motivo di un insufficiente interesse del richiedente alla continuazione del procedimento.
(...)».
 Diritto sloveno
18      L’articolo 20 del Zakon o mednarodni zaščiti (legge relativa alla protezione internazionale) (Uradni list RS, n. 16/17; in prosieguo: lo «ZMZ-1») dispone quanto segue:
«(1)      In Slovenia, si intende per “protezione internazionale”, lo status di rifugiato e lo status conferito dalla protezione sussidiaria.
(2)      Lo status di rifugiato e riconosciuto a un cittadino di uno Stato terzo il quale, a causa di un timore giustificato di persecuzioni fondate sull’appartenenza a una determinata razza o gruppo etnico, ad una determinata confessione religiosa, sull’appartenenza nazionale, sull’appartenenza ad un determinato gruppo sociale o su convinzioni politiche, si trovi al di fuori del paese di cui è cittadino e, a causa di tale timore, non può o non intende beneficiare della protezione di tale Stato, ovvero a un apolide che si trova al di fuori dello Stato in cui risiedeva abitualmente e che, a causa di un timore giustificato, non può o non intende ritornare in tale Stato, se non sussistono motivi di esclusione ai sensi dell’articolo 31, paragrafo 1, della presente legge.
(3)      Lo status conferito dalla protezione sussidiaria è riconosciuto al cittadino di uno Stato terzo o a un apolide che non soddisfa le condizioni previste per lo status di rifugiato se sussiste un valido motivo di credere che, in caso di ritorno nello Stato d’origine o nello Stato dell’ultima dimora abituale, se si tratta di un apolide, il richiedente correrà un rischio concreto di subire gravi danni, come disposto dall’articolo 28 della presente legge, e se non sussistono motivi di esclusione ai sensi dell’articolo 31, paragrafo 2, della presente legge».
19      L’articolo 66, paragrafo 1, dello ZMZ-1, che disciplina la procedura di proroga della protezione internazionale, recita:
«Sessanta giorni prima della scadenza dello status, il ministero invia alle persone alle quali è stata concessa la protezione sussidiaria una comunicazione scritta riguardante le condizioni di proroga della protezione sussidiaria, le conseguenze dell’assenza di domanda di proroga e la possibilità di presentare una domanda diretta ad avviare un nuovo procedimento. La suddetta comunicazione comprende altresì il formulario con il quale la persona alla quale è stata concessa la protezione sussidiaria chiede la proroga della protezione sussidiaria in Slovenia».
20      L’articolo 67 dello ZMZ-1, che stabilisce i motivi della cessazione della protezione internazionale, dispone quanto segue ai suoi paragrafi 1 e 2:
«(1)      Lo status cessa per il rifugiato nei casi seguenti:
–        se ha volontariamente richiesto nuovamente la protezione dello Stato di cui è cittadino,
–        se, avendo perduto la propria cittadinanza, l’ha volontariamente riacquistata,
–        se ha acquistato una nuova cittadinanza e gode della protezione dello Stato di cui ha acquistato la cittadinanza,
–        se è tornato volontariamente a stabilirsi nello stato che aveva lasciato o al di fuori del quale è rimasto per timore di essere perseguitato,
–        se non può più continuare a rifiutarsi di chiedere la protezione dello Stato di cui è cittadino, perché sono venute meno le circostanze che hanno determinato il riconoscimento dello status di rifugiato,
–        se trattasi di un apolide, è in grado di tornare nello Stato nel quale aveva la dimora abituale, perché sono venute meno le circostanze che hanno determinato il riconoscimento dello status di rifugiato.
(2)      Per la persona alla quale è stata concessa la protezione sussidiaria, lo status cessa allorché le circostanze che hanno determinato la concessione della protezione sussidiaria cessano o evolvono in una misura tale da non rendere più necessaria una siffatta protezione».
21      L’articolo 90, paragrafo 1, dello ZMZ-1 ha il seguente tenore letterale:
«La persona alla quale è stata concessa la protezione internazionale ha il diritto:
–        di ricevere informazioni sullo status, i diritti e gli obblighi delle persone che beneficiano di una protezione internazionale in Slovenia,
–        di risiedere in Slovenia,
–        di percepire un’indennità pecuniaria per l’alloggio privato,
–        di ricevere una copertura sanitaria,
–        alla protezione sociale,
–        di ricevere un’istruzione,
–        all’impiego e al lavoro,
–        di ricevere un aiuto all’integrazione sociale».
22      Ai sensi dell’articolo 92 dello ZMZ-1:
«(1)      Per la persona alla quale è stato riconosciuto lo status di rifugiato in Slovenia, la decisione di riconoscimento è valida, a partire dal giorno della notifica, anche come autorizzazione di soggiorno a tempo indeterminato in Slovenia.
(2)      Per la persona alla quale è stata concessa in Slovenia la protezione sussidiaria, la decisione di concessione o di proroga dello status è valida, a partire dal giorno della notifica, anche come autorizzazione di soggiorno a tempo determinato in Slovenia, per la durata di tale protezione.
(3)      L’autorizzazione di soggiorno di cui ai 1 e 2 del presente articolo è rilasciata dal ministero nel formato previsto dalla legge che regola l’ingresso, l’uscita e il soggiorno degli stranieri in Slovenia».
 Procedimento principale e questioni pregiudiziali
23      E. G., il quale sostiene di essere nato il 31 dicembre 2001, è entrato nel territorio sloveno il 9 dicembre 2015 dopo aver viaggiato, solo o con suo cugino, a piedi, in camion e in treno, attraverso la Turchia, la Grecia, la Serbia e la Croazia, proveniente dall’Iran, dove viveva con i suoi genitori da quando aveva circa un anno.
24      Durante la sua permanenza al centro di accoglienza urgente per minori di Capodistria (Slovenia), E. G. ha chiesto al Ministero dell’Interno, l’11 dicembre 2015, di beneficiare della protezione internazionale.
25      Con decisione del 9 febbraio 2016, tale ministero, dopo aver invitato E. G. a un colloquio individuale, che si è svolto il 22 gennaio 2016, ha considerato che quest’ultimo non soddisfaceva le condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato, ma che gli poteva essere concesso lo status conferito dalla protezione sussidiaria, fino alla sua maggiore età, ovvero fino al 31 dicembre 2019.
26      E. G. ha proposto un ricorso contro tale decisione, che è stato accolto con sentenze dell’Upravno sodišče (tribunale amministrativo, Slovenia) del 26 aprile e del 7 settembre 2016. Con l’ultima di tali sentenze, la suddetta decisione è stata annullata e la causa è stata rinviata al Ministero dell’Interno.
27      Il 21 febbraio 2017, tale ministero ha adottato una nuova decisione, dal contenuto identico a quello della suddetta decisione del 9 febbraio 2016.
28      Tale decisione era fondata in particolare sul motivo secondo il quale, se E. G. fosse stato rinviato in Afghanistan, sarebbe stato abbandonato a se stesso, senza sostegno familiare, e sarebbe stato, in quanto minorenne, un facile obiettivo di violenze fisiche, di tratta degli esseri umani, di abusi sessuali o di lavoro in condizioni inumane e pericolose, di modo che sussisterebbe un serio rischio di trattamenti inumani o degradanti.
29      Poiché il ricorso proposto contro tale decisione è stato respinto con sentenza dell’Upravno sodišče (tribunale amministrativo) del 10 maggio 2017, il giudice del rinvio, il Vrhovno sodišče (corte suprema, Slovenia), è stato investito di un ricorso amministrativo contro tale sentenza, con il quale E. G. contesta il rigetto della sua domanda, diretta ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato.
30      Il giudice del rinvio osserva che, a sostegno del suo ricorso, E. G. ha fatto valere, segnatamente, che intende integrarsi in Slovenia, imparare lo sloveno e portare a termine la sua istruzione in tale Stato membro, ma che, per questo, è necessario che gli sia riconosciuto lo status di rifugiato, in quanto solo tale status gli offrirebbe un sufficiente grado di sicurezza, contrariamente allo status conferito dalla protezione sussidiaria, il quale cesserà al momento della sua maggiore età, il 31 dicembre 2019.
31      Lo stesso giudice ritiene che, considerata l’identità dei diritti conferiti dai due status di protezione internazionale nel diritto sloveno, conformemente all’articolo 90, paragrafo 1, dello ZMZ-1, si ponga il problema di sapere se, alla luce tanto del diritto sloveno quanto del diritto dell’Unione, in particolare dell’articolo 46, paragrafo 2, della direttiva 2013/32, il ricorso proposto contro la decisione contestata, nella parte in cui respinge la domanda di ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato, sia irricevibile a causa dell’insufficiente interesse del richiedente, al quale viene riconosciuto lo status conferito dalla protezione sussidiaria, alla continuazione del procedimento.
32      Il giudice del rinvio considera che, in tale contesto, si pone il problema se, per riconoscere al richiedente un interesse sufficiente, sia necessario valutare se, alla luce della situazione concreta del richiedente, il riconoscimento dello status di rifugiato gli attribuirebbe maggiori diritti di quelli previsti dallo status conferito dalla protezione sussidiaria o se sia sufficiente constatare che la normativa contiene una distinzione riguardante i diritti accessori fondati sui diritti previsti dalle due forme di protezione internazionale, indipendentemente dal problema di sapere se tale distinzione riguardi altresì il richiedente in modo concreto.
33      A tal riguardo, il giudice del rinvio osserva che, conformemente all’articolo 92, paragrafo 1, dello ZMZ-1, lo status di rifugiato, a differenza dello status conferito dalla protezione sussidiaria, consente al richiedente di ottenere un titolo di soggiorno permanente nonché taluni diritti accessori rispetto a quest’ultimo, tra i quali il diritto di voto alle elezioni locali, il diritto a un passaporto di validità, in linea di principio, decennale o il diritto al ricongiungimento familiare, che consente ai familiari di ottenere un titolo di soggiorno permanente.
34      Lo stesso giudice ritiene, tuttavia, che malgrado tale differenza relativa in particolare alla durata del titolo di soggiorno rilasciato in forza dell’uno o dell’altro status di protezione internazionale, si potrebbe considerare che tali due status e, di conseguenza, i titoli di soggiorno ad essi collegati, hanno essenzialmente la stessa durata e conferiscono quindi gli stessi diritti e gli stessi vantaggi, ai sensi dell’articolo 46, paragrafo 2, della direttiva 2013/32.
35      Infatti, lo status di rifugiato, come lo status conferito dalla protezione sussidiaria, cesserebbe nel momento in cui la protezione di cui trattasi non fosse più necessaria e la protezione sussidiaria, pur essendo concessa per un periodo determinato, sarebbe prorogata per tutto il tempo durante il quale sussistono i motivi per farlo.
36      Il giudice del rinvio, inoltre, afferma di privilegiare l’approccio secondo il quale la differenza, sul piano astratto, nella durata delle due forme di protezione internazionale è irrilevante ai fini della valutazione della sussistenza di un interesse giuridico ai sensi dell’articolo 46, paragrafo 2, della direttiva 2013/32. La posizione contraria comporterebbe che un richiedente avrebbe sempre un interesse giuridico a proporre un ricorso sulla base delle diverse regole previste per tali due forme di protezione per quanto attiene alla loro durata rispettiva.
37      Di conseguenza, se tale interesse giuridico dovesse essere valutato non astrattamente, bensì concretamente, la persona alla quale è stata concessa la protezione sussidiaria dovrebbe dimostrare se, concretamente, la sua situazione giuridica possa essere migliorata mediante il riconoscimento dello status di rifugiato. Orbene, ciò non avverrebbe nel caso in esame. Infatti, lo status di rifugiato, se fosse riconosciuto a E. G., gli sarebbe riconosciuto non già per un periodo illimitato, bensì per un periodo limitato alla sua minore età, dal momento che l’interessato ha chiesto una protezione in ragione della sua qualità di minore.
38      Di conseguenza, il Vrhovno sodišče (Corte suprema) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1)      Se l’interesse del richiedente ai sensi del secondo comma dell’articolo 46, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva [2013/32] debba essere interpretato nel senso che lo status di protezione sussidiaria non offre gli stessi diritti e vantaggi dello status di rifugiato, laddove, ai sensi della normativa nazionale gli stranieri che beneficiano della protezione internazionale godono sì degli stessi diritti e vantaggi, ma diverso è il modo di definire la durata o la cessazione della protezione internazionale, poiché lo status è riconosciuto al rifugiato a tempo indeterminato, ma cessa quando cessano le circostanze in base alle quali era stato concesso, mentre la protezione sussidiaria è concessa per un periodo determinato ed è prorogata ove ne sussistano le ragioni.
2)      Se l’interesse del richiedente ai sensi del secondo comma dell’articolo 46, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva [2013/32] debba essere interpretato nel senso che lo status di protezione sussidiaria non offre gli stessi diritti e vantaggi dello status di rifugiato, laddove, ai sensi della la normativa nazionale, gli stranieri che beneficiano della protezione internazionale godono sì degli stessi diritti e vantaggi ma diversi sono i diritti accessori che su tali diritti e vantaggi si fondano.
3)      Se sia necessario, alla luce della situazione individuale del richiedente, valutare se, alla luce delle circostanze concrete che lo riguardano, il riconoscimento dello status di rifugiato gli procurerebbe più diritti di quelli concessi dal riconoscimento della protezione sussidiaria, o se sia sufficiente, affinché sussista l’interesse di cui al secondo comma dell’articolo 46, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva [2013/32], una disciplina legislativa che opera una differenziazione tra diritti accessori che si fondano sui diritti e sui vantaggi di entrambe le forme di protezione internazionale».
 Sulle questioni pregiudiziali
39      Con le sue tre questioni, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 46, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2013/32 debba essere interpretato nel senso che lo status conferito dalla protezione sussidiaria, concesso da una normativa di uno Stato membro, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, offre gli «stessi diritti e gli stessi vantaggi che il diritto dell’Unione e quello nazionale riconoscono allo status di rifugiato», ai sensi di tale disposizione, di modo che un giudice di tale Stato membro può respingere, in quanto irricevibile, un ricorso proposto contro una decisione che considera una domanda infondata sotto il profilo del riconoscimento dello status di rifugiato, ma che concede lo status conferito dalla protezione sussidiaria, a causa dell’insufficiente interesse del richiedente alla continuazione del procedimento, e se, allorché si accerti che i suddetti diritti e vantaggi attribuiti da tali due status di protezione internazionale conformemente alla normativa nazionale applicabile non sono gli stessi, un siffatto ricorso possa ciò nondimeno essere respinto, in quanto irricevibile, qualora si constati, alla luce della concreta situazione del richiedente, che il riconoscimento dello status di rifugiato non sarebbe tale da attribuirgli maggiori diritti e vantaggi rispetto alla concessione dello status conferito dalla protezione sussidiaria, dal momento che il richiedente non fa valere, o non fa ancora valere, diritti che sono attribuiti in forza dello status di rifugiato, ma che non lo sono, ovvero lo sono, ma in misura minore, in forza dello status conferito dalla protezione sussidiaria.
40      A tal riguardo, si deve ricordare che dai considerando 8, 9 e 39 della direttiva 2011/95 risulta che il legislatore dell’Unione ha inteso istituire uno status uniforme a favore dell’insieme dei beneficiari di protezione internazionale, e che esso ha, di conseguenza, scelto di concedere ai beneficiari dello status di protezione sussidiaria gli stessi diritti e gli stessi benefici di cui godono i rifugiati, fatte salve le deroghe necessarie e oggettivamente giustificate (sentenza del 1° marzo 2016, Alo e Osso, C‑443/14 e C‑444/14, EU:C:2016:127, punto 32).
41      Risulta inoltre dall’articolo 3 della direttiva 2011/95 che gli Stati membri hanno facoltà di introdurre o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli riguardanti tanto le condizioni per la concessione della protezione internazionale quanto il contenuto dei diritti conferiti dalla protezione internazionale, purché tali disposizioni siano compatibili con tale direttiva.
42      Ne consegue che, se è vero che la direttiva 2011/95 ha istituito un sistema di diritti e vantaggi che, in linea di principio, è lo stesso per tutti coloro che beneficiano di una protezione internazionale, taluni dei diritti e vantaggi di cui godono le persone che hanno ottenuto lo status di rifugiato non sono attribuiti, o non lo sono nella stessa misura, a coloro che beneficiano dello status conferito dalla protezione sussidiaria, pur se gli Stati membri, nella loro normativa diretta a trasporre tale direttiva, possono allineare i diritti e vantaggi attribuiti da tale status a quelli collegati allo status di rifugiato.
43      L’articolo 46, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2013/32 consente a uno Stato membro di prevedere che possa essere respinto, in quanto irricevibile, per insufficienza di interesse un ricorso proposto contro una decisione che considera infondata una domanda diretta ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato, ma che concede lo status conferito dalla protezione sussidiaria, qualora quest’ultimo status, concesso da tale Stato membro, offra «gli stessi diritti e gli stessi vantaggi» che il diritto dell’Unione e quello nazionale riconoscono allo status di rifugiato.
44      Tale disposizione prevede una deroga all’obbligo imposto agli Stati membri dall’articolo 46 della direttiva 2013/32 di prevedere un diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice contro qualsiasi decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale (v., in tal senso, sentenza del 26 luglio 2017, Sacko, C‑348/16, EU:C:2017:591, punto 28).
45      L’articolo 46, paragrafo 2, primo comma, della direttiva 2013/32 dispone peraltro espressamente che tale diritto di ricorso deve essere previsto, in linea di principio, anche qualora, come nel caso di specie, si tratti di una decisione che respinge, in quanto infondata, la domanda diretta ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato, ma che concede lo status conferito dalla protezione sussidiaria.
46      Peraltro, l’obbligo così imposto agli Stati membri di prevedere un siffatto diritto di ricorso corrisponde al diritto sancito dall’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»), intitolato «Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale», secondo cui ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice (sentenza del 26 luglio 2017, Sacko, C‑348/16, EU:C:2017:591, punto 30).
47      Ne consegue che le caratteristiche del ricorso previsto dall’articolo 46 della direttiva 2013/32 devono essere determinati conformemente all’articolo 47 della Carta, che costituisce una riaffermazione del principio della tutela giurisdizionale effettiva (sentenza del 26 luglio 2017, Sacko, C‑348/16, EU:C:2017:591, punto 31).
48      Detto principio della tutela giurisdizionale effettiva dei diritti che gli amministrati traggono dal diritto dell’Unione è costituito da diversi elementi, tra i quali rientrano, segnatamente, i diritti della difesa, il principio della parità delle armi, il diritto di ricorso ad un giudice nonché la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare (sentenza del 26 luglio 2017, Sacko, C‑348/16, EU:C:2017:591, punto 32).
49      Di conseguenza, deve essere interpretata restrittivamente l’esclusione del diritto a un ricorso prevista dall’articolo 46, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2013/32, in quanto essa costituisce una deroga al diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice avverso qualsiasi decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale previsto dall’articolo 46 di tale direttiva, nonché una limitazione del diritto fondamentale a una tutela giurisdizionale effettiva sancito dall’articolo 47 della Carta.
50      Ne discende che tale esclusione del diritto a un ricorso effettivo deve essere interpretata nel senso che essa può essere applicata qualora sussista un’effettiva identità tra i diritti e i vantaggi offerti dallo status conferito dalla protezione sussidiaria, concessa dallo Stato membro di cui trattasi, e quelli riconosciuti dal diritto dell’Unione e dal diritto nazionale applicabile allo status di rifugiato.
51      Per quanto concerne il problema di sapere se, nel caso di specie, sia soddisfatto tale requisito di identità, unico requisito di applicazione posto dall’articolo 46, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2013/32, si deve constatare, anzitutto, che il giudice del rinvio, pur facendo riferimento, nella sua prima questione, a una differenziazione tra tali due status, prevista dal diritto sloveno per quanto riguarda «il modo di definire la durata o la cessazione della protezione internazionale», menziona altresì le regole riportate all’articolo 92 dello ZMZ-1, il quale dispone, al suo paragrafo 1, che al rifugiato è riconosciuta un’autorizzazione di soggiorno a tempo indeterminato mentre, conformemente al paragrafo 2 di tale articolo, la protezione sussidiaria conferisce solo il diritto a un’autorizzazione di soggiorno a tempo determinato.
52      Tali regole relative alla durata delle autorizzazioni di soggiorno associate ai due status di protezione internazionale di cui trattasi sono dirette a trasporre nell’ordinamento sloveno l’articolo 24 della direttiva 2011/95, il quale fissa in modo differenziato per tali due status i requisiti minimi per quanto riguarda la validità del titolo di soggiorno e che prevede, a tal riguardo, che debba essere rilasciato ai rifugiati un titolo di almeno tre anni, mentre ai beneficiari dello status conferito dalla protezione sussidiaria deve essere garantito un titolo di una durata minima di un anno.
53      Tali regole minime relative al diritto di soggiorno nello Stato membro nel quale è chiesta la protezione internazionale si riferiscono, come hanno fatto valere il governo dei Paesi Bassi e la Commissione europea, al contenuto dei rispettivi diritti conferiti da tali due status e, quindi, a «diritti e vantaggi», ai sensi dell’articolo 46, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2013/32.
54      Orbene, è giocoforza constatare che, per quanto riguarda il diritto di soggiorno, lo status conferito dalla protezione sussidiaria, previsto dalla normativa slovena, non riconosce gli stessi diritti e gli stessi vantaggi che il diritto dell’Unione e quello nazionale riconoscono allo status di rifugiato, atteso che, come risulta dalle constatazioni svolte dal giudice del rinvio e richiamate al punto 33 della presente sentenza, la durata del titolo di soggiorno associato allo status conferito dalla protezione sussidiaria non è allineata su quella del titolo di soggiorno rilasciato alle persone alle quali è riconosciuto lo status di rifugiato.
55      A tale riguardo, va osservato che vi è certamente una differenza tra, da un lato, il titolo di soggiorno a tempo indeterminato al quale hanno diritto i rifugiati in forza del diritto sloveno, nonostante il fatto che la sua validità possa cessare allorché, in particolare, non sono più soddisfatte le condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato, e, dall’altro, il titolo di soggiorno limitato nel tempo, al quale hanno diritto, secondo il diritto sloveno, le persone che beneficiano dello status conferito dalla protezione sussidiaria, nonostante il fatto che quest’ultimo titolo possa essere prorogato per un ulteriore periodo, nell’ambito di un procedimento previsto a tal fine e che la validità di tale titolo possa cessare allorché, in particolare, non sono più soddisfatte le condizioni fissate per la concessione di quest’ultimo status.
56      Nel caso di specie, a E. G. è stato rilasciato un titolo di soggiorno a tempo determinato in quanto persona che beneficia dello status conferito dalla protezione sussidiaria per un periodo inferiore a tre anni, più precisamente per il periodo tra il 21 febbraio 2017 e il 31 dicembre 2019. Orbene, se a E. G. fosse stato riconosciuto lo status di rifugiato, egli avrebbe avuto diritto, conformemente all’articolo 24, paragrafo 1, della direttiva 2011/95, a un titolo di soggiorno valido per un periodo di almeno tre anni, vale a dire, quanto meno, fino al 21 febbraio 2020.
57      Al contrario, come hanno sostenuto il governo dei Paesi Bassi e la Commissione, le regole del diritto sloveno relative alla concessione, alla cessazione, alla revoca o alla proroga dei rispettivi status di protezione internazionale, ai quali fa riferimento il giudice del rinvio nella sua prima questione, non riguardano il contenuto dei diritti conferiti da tali status, bensì la determinazione dello status di cui trattasi.
58      Tali regole sono stabilite in via imperativa e distinta per i due status di protezione internazionale di cui trattano i capi da III a VI della direttiva 2011/95.
59      Di conseguenza, le suddette regole, contrariamente a quelle che riguardano il contenuto dei diritti conferiti dal suddetto status, non possono essere considerate come «diritti e vantaggi», ai sensi dell’articolo 46, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2013/32.
60      Inoltre, il giudice del rinvio si chiede se occorra, ai fini della valutazione, alla luce del diritto nazionale applicabile, dell’equivalenza dei diritti e dei vantaggi conferiti in forza dei due status di protezione internazionale previsti dal diritto dell’Unione, che taluni diritti cosiddetti «accessori», da esso definiti come diritti fondati su diritti e vantaggi conferiti in forza di uno di tali due status di protezione internazionale, non siano gli stessi per tali due status.
61      A tal riguardo, è sufficiente osservare che, considerata anche l’interpretazione restrittiva da applicare all’articolo 46, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2013/32, la quale comporta che tale disposizione può essere applicata solo nel caso di un’effettiva identità dei diritti e dei vantaggi conferiti in forza dei due status di protezione internazionale di cui trattasi, siffatti diritti accessori, come i diritti conferiti direttamente dagli status sui quali sono fondati, tra i quali figurano il diritto di voto alle elezioni locali, il diritto a un passaporto valido, in linea di principio, dieci anni, o ancora il diritto al ricongiungimento familiare, che permette ai familiari di ottenere un titolo di soggiorno permanente, tali diritti, che secondo il giudice del rinvio sono riconosciuti dal diritto sloveno ai rifugiati, ma non, o quantomeno non nella stessa misura, alle persone che beneficiano della protezione sussidiaria, sono diritti che devono essere presi in considerazione allorché si esamina se, ai fini del suddetto articolo 46, paragrafo 2, secondo comma, i diritti e i vantaggi riconosciuti da tali due status di protezione internazionale siano gli stessi.
62      Infine, il giudice del rinvio chiede se, nell’ambito della valutazione della condizione di cui all’articolo 46, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2013/32, relativa all’identità dei diritti e dei vantaggi conferiti dai due status di protezione internazionale, sia necessario tener conto della situazione individuale del richiedente, nel senso che, anche in assenza di una siffatta identità di diritti e di vantaggi, mancherebbe comunque un interesse sufficiente a proporre un ricorso avverso una decisione di diniego dello status di rifugiato, il che condurrebbe ad una dichiarazione di irricevibilità del ricorso, qualora la concessione di tale status non fornisse al suddetto richiedente, alla luce della sua situazione di fatto, maggiori diritti e vantaggi rispetto alla concessione dello status conferito dalla protezione sussidiaria.
63      Orbene, il problema di sapere se sia soddisfatta la condizione, posta all’articolo 46, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2013/32, secondo la quale sussiste un’effettiva identità dei diritti ricollegati ai due status di protezione internazionale di cui trattasi deve essere affrontato sulla base di un esame d’insieme della normativa nazionale in questione, e non alla luce della situazione concreta del richiedente di cui trattasi.
64      Infatti, anzitutto, una contraria interpretazione dell’articolo 46, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2013/32, secondo la quale dovrebbe essere presa in considerazione la situazione concreta del richiedente di cui trattasi, non trova alcuna conferma nel tenore letterale di tale disposizione, dal quale risulta, infatti, che quest’ultima va applicata nella sola ipotesi in cui esista un’effettiva identità dei diritti e dei vantaggi conferiti dai due status di protezione internazionale.
65      Inoltre, tale contraria interpretazione non sarebbe neanche compatibile con l’interpretazione restrittiva da applicare a tale disposizione, come già dichiarato al punto 49 della presente sentenza.
66      Infine, una siffatta contraria interpretazione sarebbe difficilmente conciliabile con l’imperativo che consiste nel garantire la prevedibilità dell’applicazione dell’articolo 46, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2013/32 e nell’evitare una disparità di trattamento in tale applicazione.
67      Se si verifica che, nel caso della normativa di uno Stato membro, non è soddisfatta la condizione relativa all’effettiva identità dei diritti e dei vantaggi conferiti dai due status di protezione internazionale di cui trattasi, come accade nel diritto sloveno per quanto riguarda il diritto di soggiorno e taluni diritti cosiddetti «accessori», un richiedente deve poter proporre un ricorso contro una decisione che gli nega lo status di rifugiato, ma che gli accorda lo status conferito dalla protezione sussidiaria, anche se tale richiedente non fa valere, o non fa ancora valere, uno dei suddetti diritti riconosciuti in modo differenziato in forza dei due status di protezione internazionale di cui trattasi.
68      In ogni caso, se è vero che E. G. sembra non far valere, o non far valere ancora, taluni dei diritti accessori riconosciuti in modo differenziato in forza di tali due status di protezione internazionale, lo stesso non può dirsi per quanto riguarda il diritto di soggiorno, atteso che l’obiettivo principale del ricorso proposto dall’interessato consiste precisamente nell’ottenere un diritto di soggiorno più esteso e più stabile, che gli consenta, in particolare, di continuare i suoi studi in Slovenia oltre la sua maggiore età.
69      Peraltro, se tale ricorso, in una situazione di assenza di effettiva identità dei diritti e dei vantaggi riconosciuti in forza dei due status di protezione internazionale in questione, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, dovesse ciononostante essere respinto in quanto irricevibile, a causa dell’assenza di un interesse sufficiente, non sarebbe rispettato il diritto fondamentale a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, come garantito dall’articolo 47 della Carta.
70      Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, si deve rispondere alle questioni sollevate dichiarando quanto segue:
–        L’articolo 46, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2013/32 deve essere interpretato nel senso che lo status conferito dalla protezione sussidiaria, concesso da una normativa di uno Stato membro come quella di cui trattasi nel procedimento principale, non offre «gli stessi diritti e gli stessi vantaggi che il diritto dell’Unione e quello nazionale riconoscono allo status di rifugiato», ai sensi di tale disposizione, di modo che un giudice di tale Stato membro non può respingere, in quanto irricevibile, un ricorso proposto contro una decisione che considera una domanda infondata sotto il profilo del riconoscimento dello status di rifugiato, ma che concede lo status conferito dalla protezione sussidiaria, a causa dell’insufficiente interesse del richiedente alla continuazione del procedimento, allorché si accerti che, conformemente alla normativa nazionale applicabile, tali diritti e vantaggi attribuiti da tali due status di protezione internazionale non sono effettivamente identici.
–        Un ricorso siffatto non può essere respinto, in quanto irricevibile, neanche qualora si constati, alla luce della concreta situazione del richiedente, che il riconoscimento dello status di rifugiato non sarebbe tale da attribuirgli maggiori diritti e vantaggi rispetto alla concessione dello status conferito dalla protezione sussidiaria, dal momento che il richiedente non fa valere, o non fa ancora valere, diritti che sono attribuiti in forza dello status di rifugiato, ma che non lo sono, ovvero lo sono, ma in misura minore, in forza dello status conferito dalla protezione sussidiaria.
 Sulle spese
71      Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Settima Sezione) dichiara:
L’articolo 46, paragrafo 2, secondo comma, della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, deve essere interpretato nel senso che lo status conferito dalla protezione sussidiaria, concesso da una normativa di uno Stato membro come quella di cui trattasi nel procedimento principale, non offre «gli stessi diritti e gli stessi vantaggi che il diritto dell’Unione e quello nazionale riconoscono allo status di rifugiato», ai sensi di tale disposizione, di modo che un giudice di tale Stato membro non può respingere, in quanto irricevibile, un ricorso proposto contro una decisione che considera una domanda infondata sotto il profilo del riconoscimento dello status di rifugiato, ma che concede lo status conferito dalla protezione sussidiaria, a causa dell’insufficiente interesse del richiedente alla continuazione del procedimento, allorché si accerti che, conformemente alla normativa nazionale applicabile, tali diritti e vantaggi attribuiti da tali due status di protezione internazionale non sono effettivamente identici.
Un ricorso siffatto non può essere respinto, in quanto irricevibile, neanche qualora si constati, alla luce della concreta situazione del richiedente, che il riconoscimento dello status di rifugiato non sarebbe tale da attribuirgli maggiori diritti e vantaggi rispetto alla concessione dello status conferito dalla protezione sussidiaria, dal momento che il richiedente non fa valere, o non fa ancora valere, diritti che sono attribuiti in forza dello status di rifugiato, ma che non lo sono, ovvero lo sono, ma in misura minore, in forza dello status conferito dalla protezione sussidiaria.
Dal sito http://curia.europa.eu



Corte di Giustizia UE 17 ottobre 2018, n. C-393/18, UD



Rinvio pregiudiziale – Procedimento pregiudiziale d’urgenza – Cooperazione giudiziaria in materia civile – Regolamento (CE) n. 2201/2003 – Articolo 8, paragrafo 1 – Competenza in materia di responsabilità genitoriale – Nozione di “residenza abituale del minore” – Necessità di una presenza fisica – Trattenimento della madre e del minore in un paese terzo contro la volontà della madre – Violazione dei diritti fondamentali della madre e del minore











L’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000, deve essere interpretato nel senso che un minore deve essere stato fisicamente presente in uno Stato membro perché possa essere considerato come residente abitualmente in questo Stato, ai sensi della disposizione sopra citata. Anche a supporle dimostrate, circostanze quali quelle in discussione nel procedimento principale, ossia, da un lato, la coercizione esercitata dal padre sulla madre, da cui è derivato come conseguenza che la madre ha partorito la loro figlia comune in uno Stato terzo e ivi risiede con tale minore sin dalla nascita di quest’ultima, e, dall’altro, la lesione dei diritti fondamentali della madre o della minore, non hanno alcuna incidenza al riguardo.







Edizione provvisoria
SENTENZA DELLA CORTE (Prima Sezione)
17 ottobre 2018 
Nella causa C‑393/18 PPU,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dalla High Court of Justice (England and Wales), Family Division [Alta Corte di giustizia (Inghilterra e Galles), Divisione del diritto di famiglia, Regno Unito], con decisione del 6 giugno 2018, pervenuta in cancelleria il 14 giugno 2018, nel procedimento
UD
contro
XB,
LA CORTE (Prima Sezione),
composta da R. Silva de Lapuerta, vicepresidente, facente funzione di presidente della Prima Sezione, J. C. Bonichot, E. Regan (relatore), C. G. Fernlund e S. Rodin, giudici,
avvocato generale: H. Saugmandsgaard Øe
cancelliere: M. Ferreira, amministratore principale
vista la richiesta del giudice del rinvio del 6 giugno 2018, pervenuta alla Corte il 14 giugno 2018, di trattare il rinvio pregiudiziale con procedimento d’urgenza, in conformità dell’articolo 107 del regolamento di procedura della Corte,
vista la decisione della Prima Sezione in data 5 luglio 2018 di accogliere la suddetta richiesta,
vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 7 settembre 2018,
considerate le osservazioni presentate:
–        per UD, da C. Hames, QC, B. Jubb, barrister, nonché da J. Patel e M. Hussain, solicitors;
–        per XB, da T. Gupta, QC, e J. Renton, barrister, nonché da J. Stebbing, solicitor;
–        per il governo del Regno Unito, da S. Brandon, in qualità di agente, assistito da M. Gration, barrister;
–        per il governo ceco, da M. Smolek e A. Kasalická, in qualità di agenti;
–        per la Commissione europea, da M. Wilderspin, in qualità di agente,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 20 settembre 2018,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1        La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 8 del regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000 (GU 2003, L 338, pag. 1).
2        Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia che oppone UD, madre di una minore nata in Bangladesh il 2 febbraio 2017 (in prosieguo: la «minore»), a XB, il padre di questa minore, e vertente su domande presentate da UD affinché sia ordinato, da un lato, il collocamento di detta minore sotto la protezione del giudice del rinvio e, dall’altro, il ritorno di detta richiedente con la minore nel Regno Unito ai fini della loro partecipazione al procedimento dinanzi al giudice del rinvio.
 Contesto normativo
3        I considerando 1 e 12 del regolamento n. 2201/2003 enunciano quanto segue:
«(1)      [L’Unione] europea si prefigge l’obiettivo di istituire uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel quale sia garantita la libera circolazione delle persone. A tal fine, [l’Unione] adotta, tra l’altro, le misure nel settore della cooperazione giudiziaria in materia civile necessarie al corretto funzionamento del mercato interno.
(…)
(12)      È opportuno che le regole di competenza in materia di responsabilità genitoriale accolte nel presente regolamento si informino all’interesse superiore del minore e in particolare al criterio di vicinanza. Ciò significa che la competenza giurisdizionale appartiene anzitutto ai giudici dello Stato membro in cui il minore risiede abitualmente, salvo ove si verifichi un cambiamento della sua residenza o in caso di accordo fra i titolari della responsabilità genitoriale».
4        L’articolo 1 di detto regolamento, intitolato «Ambito d’applicazione», precisa le materie civili alle quali tale regolamento si applica e quelle alle quali esso non si applica.
5        L’articolo 2 del regolamento n. 2201/2003, intitolato «Definizioni», è così formulato:
«Ai fini del presente regolamento valgono le seguenti definizioni:
(…)
4)      “decisione”: una decisione di divorzio, separazione personale dei coniugi o annullamento del matrimonio emessa dal giudice di uno Stato membro, nonché una decisione relativa alla responsabilità genitoriale, a prescindere dalla denominazione usata per la decisione, quale ad esempio decreto, sentenza o ordinanza;
(…)».
6        Il capo II del medesimo regolamento, intitolato «Competenza», contiene, nella sezione 2, dal titolo «Responsabilità genitoriale», l’articolo 8, rubricato «Competenza generale», il quale dispone, al paragrafo 1, quanto segue:
«Le autorità giurisdizionali di uno Stato membro sono competenti per le domande relative alla responsabilità genitoriale su un minore, se il minore risiede abitualmente in quello Stato membro alla data in cui sono adit[e]».
7        L’articolo 9 del citato regolamento, intitolato «Ultrattività della competenza della precedente residenza abituale del minore», recita:
«1.      In caso di lecito trasferimento della residenza di un minore da uno Stato membro ad un altro che diventa la sua residenza abituale, la competenza delle autorità giurisdizionali dello Stato membro della precedente residenza abituale del minore permane in deroga all’articolo 8 per un periodo di 3 mesi dal trasferimento, per modificare una decisione sul diritto di visita resa in detto Stato membro prima del trasferimento del minore, quando il titolare del diritto di visita in virtù della decisione sul diritto di visita continua a risiedere abitualmente nello Stato membro della precedente residenza abituale del minore.
(…)».
8        L’articolo 10 del regolamento n. 2201/2003, intitolato «Competenza nei casi di sottrazione di minori», dispone:
«In caso di trasferimento illecito o mancato rientro del minore, l’autorità giurisdizionale dello Stato membro nel quale il minore aveva la residenza abituale immediatamente prima del trasferimento o del mancato rientro conserva la competenza giurisdizionale fino a che il minore non abbia acquisito [una] residenza [abituale] in un altro Stato membro (…)».
9        L’articolo 12 di detto regolamento precisa le condizioni alle quali è possibile una proroga di competenza ai sensi del regolamento medesimo.
10      L’articolo 13 del regolamento in parola, intitolato «Competenza fondata sulla presenza del minore», prevede, al paragrafo 1, quanto segue:
«Qualora non sia possibile stabilire la residenza abituale del minore né determinare la competenza ai sensi dell’articolo 12, sono competenti i giudici dello Stato membro in cui si trova il minore».
11      L’articolo 14 del regolamento n. 2201/2003, intitolato «Competenza residua», recita:
«Qualora nessuna autorità giurisdizionale di uno Stato membro sia competente ai sensi degli articoli da 8 a 13[,] la competenza, in ciascuno Stato membro, è determinata dalla legge di tale Stato».
12      L’articolo 15 del medesimo regolamento, dal titolo «Trasferimento delle competenze a una autorità giurisdizionale più adatta a trattare il caso», dispone, al paragrafo 1, quanto segue:
«In via eccezionale le autorità giurisdizionali di uno Stato membro competenti a conoscere del merito, qualora ritengano che l’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro con il quale il minore abbia un legame particolare sia più adatt[a] a trattare il caso o una sua parte specifica e ove ciò corrisponda all’interesse superiore del minore, possono:
a)      interrompere l’esame del caso o della parte in questione e invitare le parti a presentare domanda all’autorità giurisdizionale dell’altro Stato membro conformemente al paragrafo 4 oppure
b)      chiedere all’autorità giurisdizionale dell’altro Stato membro di assumere la competenza ai sensi del paragrafo 5».
13      L’articolo 21 del citato regolamento, intitolato «Riconoscimento delle decisioni», stabilisce, al paragrafo 1, quanto segue:
«Le decisioni pronunciate in uno Stato membro sono riconosciute negli altri Stati membri senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento».
 Procedimento principale e questioni pregiudiziali
14      La ricorrente nel procedimento principale, madre della minore (in prosieguo: la «madre»), è una cittadina bengalese che nel 2013 si è unita in matrimonio, in Bangladesh, con il convenuto nel procedimento principale, cittadino britannico, che è il padre della minore (in prosieguo: il «padre»).
15      Nel mese di giugno o di luglio 2016, la madre si è stabilita nel Regno Unito per viverci con il padre. Essa ha beneficiato di un visto per coniuge straniero rilasciato dall’United Kingdom Home Office (Ministero dell’Interno del Regno Unito), valido dal 1º luglio 2016 al 1º luglio 2019.
16      Nel mese di dicembre 2016, il padre e la madre si sono recati in Bangladesh. La madre era in stato di gravidanza avanzata. Il 2 febbraio 2017 la minore è nata in Bangladesh. Da allora la minore è rimasta in questo paese e non ha dunque mai soggiornato nel Regno Unito.
17      Nel mese di gennaio 2018, il padre è ritornato nel Regno Unito senza la madre.
18      Il 20 marzo 2018 la madre ha proposto un ricorso dinanzi al giudice del rinvio affinché la minore venga posta sotto la protezione di tale giudice e affinché venga ordinato il ritorno di essa ricorrente nel Regno Unito nonché quello della minore al fine di partecipare al procedimento dinanzi a questo stesso giudice. La madre sostiene che tale giudice è competente a risolvere la controversia di cui al procedimento principale. A questo proposito la madre fa valere, in particolare, che, alla data in cui essa ha adito il giudice del rinvio, la minore risiedeva in maniera abituale nel Regno Unito. Per parte sua, il padre contesta la competenza di detto giudice ad emettere qualsiasi decisione nei confronti della minore.
19      Il giudice del rinvio fa presente di non aver proceduto ad alcuna constatazione di fatti nell’ambito del procedimento principale, in quanto reputa necessario risolvere, preliminarmente, la questione della propria competenza ad emettere una decisione riguardante la minore. In merito a tale questione, il giudice suddetto è del parere che spetti ad esso valutare, anzitutto, se la minore abbia la propria residenza abituale, ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003, nel Regno Unito. Solo in un secondo momento, se del caso, detto giudice verificherebbe la sussistenza in capo a sé medesimo di una competenza ad altro titolo ad esaminare la controversia di cui al procedimento principale.
20      Secondo il giudice del rinvio, l’interpretazione, nell’ambito del procedimento a quo, della nozione di «residenza abituale», che figura all’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003, solleva delle questioni che non sono ancora state esaminate dalla Corte, in particolare quella se la presenza fisica sia un elemento costitutivo di detta nozione. Inoltre, la coercizione asseritamente esercitata dal padre sulla madre avrebbe avuto come conseguenza che quest’ultima ha partorito in un paese terzo. Il comportamento del padre al riguardo costituirebbe verosimilmente una lesione dei diritti della madre o della minore. La posizione difesa dalla madre solleverebbe dunque la questione subordinata dell’incidenza, sulla nozione di cui sopra, delle circostanze nelle quali la minore è nata in uno Stato terzo, e in particolare del fatto che il padre ha trattenuto illegalmente, mediante coercizione, la madre in tale Stato, malgrado che i titolari della responsabilità genitoriale non abbiano alcuna intenzione comune di risiedere in quest’ultimo.
21      Alla luce di tali circostanze, la High Court of Justice (England and Wales), Family Division [Alta Corte di giustizia (Inghilterra e Galles), Divisione del diritto di famiglia, Regno Unito], ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1)      Se la presenza fisica di un minore in uno Stato costituisca un elemento essenziale della residenza abituale ai sensi dell’articolo 8 del regolamento n. 2201/2003.
2)      Nel caso in cui entrambi i genitori siano titolari della responsabilità genitoriale, se il fatto che la madre sia stata indotta con l’inganno a recarsi in un altro Stato e poi sia stata ivi illegalmente trattenuta dal padre, mediante coercizione o qualsiasi altro atto illecito, con il risultato di costringerla a partorire in tale Stato, abbia o meno un impatto sulla risposta alla prima questione, in circostanze in cui potrebbe essersi verificata una violazione dei [diritti] della madre e/o del minore, ai sensi degli articoli 3 e 5 della [Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950], o in altro modo».
 Sul procedimento d’urgenza
22      Il giudice del rinvio ha chiesto che il presente rinvio pregiudiziale venga trattato con il procedimento pregiudiziale d’urgenza previsto dall’articolo 107 del regolamento di procedura della Corte.
23      A sostegno della propria richiesta, detto giudice ha osservato che il procedimento principale riguarda una minore molto giovane, dell’età di un anno e due mesi alla data della decisione di rinvio, e che qualsiasi ritardo nell’avanzamento di tale procedimento è pregiudizievole per l’interesse superiore della suddetta minore.
24      Il giudice del rinvio ha inoltre fatto presente che, secondo le allegazioni della madre, che vengono contestate dal padre, la madre si trova attualmente trattenuta in modo illegale, per coercizione esercitata dal padre, in un villaggio del Bangladesh, senza gas, né elettricità, né acqua potabile e senza il minimo reddito, in seno ad una comunità che la stigmatizza per la sua separazione dal padre. Il giudice del rinvio chiarisce che, nel caso in cui fosse accertata la sua competenza e i diritti della madre e della minore fossero stati violati dal padre, esso sarebbe tenuto ad agire il più rapidamente possibile, eventualmente adottando le misure necessarie al fine di assicurare la protezione degli interessi della minore.
25      A questo proposito occorre constatare, in primo luogo, che il presente rinvio pregiudiziale verte sull’interpretazione del regolamento n. 2201/2003, che è stato adottato, in particolare, sulla base dell’articolo 61, lettera c), CE, divenuto ora articolo 67 TFUE, il quale è inserito, nell’ambito della Parte Terza del Trattato FUE, nel titolo V, relativo allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, sicché tale rinvio pregiudiziale rientra nell’ambito di applicazione del procedimento pregiudiziale d’urgenza definito all’articolo 107 del regolamento di procedura (sentenze del 9 ottobre 2014, C, C‑376/14 PPU, EU:C:2014:2268, punto 34; del 9 gennaio 2015, Bradbrooke, C‑498/14 PPU, EU:C:2015:3, punto 36, e del 19 novembre 2015, P, C‑455/15 PPU, EU:C:2015:763, punto 31).
26      In secondo luogo, quanto al criterio relativo all’urgenza, risulta dalla decisione di rinvio che, nel caso in cui la coercizione esercitata dal padre sulla madre fosse dimostrata, il benessere attuale della minore ne risulterebbe gravemente compromesso. In un caso siffatto, qualsiasi ritardo nella presa di decisioni giudiziarie nei riguardi della minore prolungherebbe la situazione attuale e rischierebbe così di nuocere in modo serio, o addirittura irreparabile, allo sviluppo della minore stessa. Nel caso di un eventuale ritorno nel Regno Unito, un simile ritardo rischierebbe altresì di essere pregiudizievole per l’integrazione della minore nel suo nuovo ambiente familiare e sociale.
27      Inoltre, il procedimento principale riguarda una minore la cui giovanissima età rappresenta una fase particolarmente delicata per la sua maturazione e il suo sviluppo.
28      Alla luce di quanto sopra esposto, la Prima Sezione della Corte ha deciso, il 5 luglio 2018, su proposta del giudice relatore, sentito l’avvocato generale, di accogliere la domanda del giudice del rinvio intesa a che il presente rinvio pregiudiziale venga trattato con procedimento pregiudiziale d’urgenza.
 Sulle questioni pregiudiziali
 Sulla competenza della Corte
29      Sebbene il governo del Regno Unito formalmente deduca l’irricevibilità del presente rinvio pregiudiziale, risulta dalle sue osservazioni che esso, in realtà, contesta la competenza della Corte a rispondere alle questioni sollevate, in quanto la presente causa verte su un potenziale conflitto di competenza tra uno Stato membro – nella fattispecie, il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord – e uno Stato terzo – ossia la Repubblica popolare del Bangladesh.
30      In particolare, detto governo fa valere che, alla luce dell’articolo 61, lettera c), e dell’articolo 67, paragrafo 1, CE, sul cui fondamento è stato adottato il regolamento n. 2201/2003, quest’ultimo è destinato ad applicarsi unicamente alle situazioni transfrontaliere all’interno dell’Unione. Nelle situazioni transfrontaliere implicanti uno Stato membro e uno Stato terzo, come la situazione oggetto del procedimento principale, sarebbe applicabile il diritto nazionale.
31      A questo proposito, per quanto riguarda, in primo luogo, il tenore letterale delle disposizioni pertinenti del regolamento n. 2201/2003, occorre far osservare che l’articolo 1 di quest’ultimo, che definisce l’ambito di applicazione di tale regolamento, precisa le materie civili alle quali questo si applica e quelle alle quali esso non si applica, senza fare riferimento ad una qualsivoglia limitazione dell’ambito di applicazione territoriale del regolamento stesso.
32      Per quanto riguarda precisamente l’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003, tale disposizione stabilisce che i giudici di uno Stato membro sono competenti in materia di responsabilità genitoriale nei confronti di un minore se questi risiede abitualmente in tale Stato membro nel momento in cui il giudice viene adito. Pertanto, nulla nel tenore letterale di tale disposizione indica che l’applicazione della regola generale di competenza in materia di responsabilità genitoriale da essa enunciata sia subordinata alla condizione dell’esistenza di un rapporto giuridico implicante più Stati membri.
33      Ne consegue – come evidenziato dall’avvocato generale ai paragrafi 23 e 25 delle sue conclusioni – che, contrariamente ad alcune disposizioni del regolamento n. 2201/2003 relative alla competenza, come gli articoli 9, 10 e 15 di quest’ultimo, la cui formulazione implica necessariamente che la loro applicazione dipende da un potenziale conflitto di competenza tra giudici di più Stati membri, dal tenore letterale dell’articolo 8, paragrafo 1, di detto regolamento non discende che tale disposizione sia applicabile unicamente a liti relative a siffatti conflitti di competenza tra Stati membri.
34      A questo proposito, l’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 si distingue anche dalle norme in materia di riconoscimento e di esecuzione previste da tale regolamento.
35      In particolare, la Corte ha già statuito che essa era manifestamente incompetente a rispondere a quesiti pregiudiziali riguardanti il riconoscimento di una decisione di divorzio emessa in uno Stato terzo, e ha sottolineato, in particolare, che, a norma dell’articolo 2, punto 4, e dell’articolo 21, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003, tale regolamento si limita al riconoscimento di decisioni emesse da un giudice di uno Stato membro (ordinanza del 12 maggio 2016, Sahyouni, C‑281/15, EU:C:2016:343, punti 21, 22 e 33).
36      Orbene, contrariamente alle norme in materia di riconoscimento e di esecuzione delle decisioni giudiziarie previste dal regolamento n. 2201/2003, quest’ultimo, come risulta in particolare dai punti 32 e 33 della presente sentenza, non contiene alcuna disposizione che limiti espressamente l’ambito di applicazione territoriale dell’insieme delle norme relative alla competenza dettate dal regolamento stesso.
37      In secondo luogo, per quanto riguarda l’obiettivo del regolamento n. 2201/2003, risulta dal suo considerando 1 che tale regolamento mira a contribuire all’obiettivo che l’Unione si è prefissa di istituire uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel quale sia garantita la libera circolazione delle persone. A questo scopo, l’Unione adotta, in particolare, le misure nel settore della cooperazione giudiziaria in materia civile necessarie per il buon funzionamento del mercato interno.
38      Infatti, conformemente all’articolo 61, lettera c), CE, il quale costituisce uno dei fondamenti giuridici del regolamento n. 2201/2003, e all’articolo 65 CE, i quali sono divenuti rispettivamente l’articolo 67, paragrafo 3, e l’articolo 81 TFUE, l’Unione adotta misure nel settore della cooperazione giudiziaria in materia civile che presenti implicazioni transfrontaliere e nella misura necessaria per il buon funzionamento del mercato interno.
39      Orbene, contrariamente a quanto sostiene, in sostanza, il governo del Regno Unito, simili considerazioni non hanno come conseguenza che la regola di competenza prevista dall’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 debba essere ritenuta applicabile unicamente alle liti che implicano rapporti tra giudici di Stati membri.
40      In particolare, le regole uniformi di competenza contenute nel regolamento n. 2201/2003 non sono destinate ad applicarsi unicamente a situazioni comportanti un nesso effettivo e sufficiente con il funzionamento del mercato interno, che implica, per definizione, più Stati membri. Infatti, l’unificazione in sé stessa delle regole di competenza, operata dal suddetto regolamento, ha sicuramente come obiettivo di eliminare gli ostacoli al funzionamento del mercato interno che possono risultare dalle differenze tra le legislazioni nazionali in materia [v., per analogia, in merito alla Convenzione del 27 settembre 1968 concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (GU 1972, L 299, pag. 32), come modificata dalle successive convenzioni relative all’adesione dei nuovi Stati membri a tale convenzione, sentenza del 1º marzo 2005, Owusu, C‑281/02, EU:C:2005:120, punto 34].
41      Alla luce di quanto sopra esposto, occorre constatare che la regola di competenza generale prevista dall’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 è suscettibile di trovare applicazione a liti che implicano rapporti tra i giudici di un solo Stato membro e quelli di un paese terzo, e non soltanto rapporti tra giudici di più Stati membri.
42      La Corte è dunque competente a rispondere alle questioni sollevate dal giudice del rinvio.
 Nel merito
43      Con le sue questioni, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 debba essere interpretato nel senso che un minore deve essere stato fisicamente presente in uno Stato membro perché possa essere considerato come residente abitualmente in tale Stato, ai sensi della disposizione sopra citata. Detto giudice chiede altresì se, supponendole dimostrate, circostanze quali quelle in discussione nel procedimento principale, ossia, da un lato, la coercizione esercitata dal padre sulla madre, da cui è derivato come conseguenza che la madre ha partorito la loro figlia comune in uno Stato terzo ed ivi risiede con tale minore sin dalla nascita di quest’ultima, e, dall’altro, la lesione dei diritti fondamentali della madre o della minore, abbiano un’incidenza al riguardo.
44      Il padre e la Commissione europea sostengono che la residenza abituale della minore non può situarsi in uno Stato membro nel quale la minore non è mai stata fisicamente presente, mentre la madre, il governo del Regno Unito e il governo ceco ritengono che circostanze quali quelle di cui al procedimento principale possano giustificare il fatto che la minore venga considerata come residente abitualmente in uno Stato siffatto.
45      Occorre constatare, anzitutto, che il regolamento n. 2201/2003 non contiene alcuna definizione della nozione di «residenza abituale». L’utilizzazione dell’aggettivo «abituale» indica soltanto che la residenza deve presentare un certo carattere di stabilità o di regolarità (sentenza del 22 dicembre 2010, Mercredi, C‑497/10 PPU, EU:C:2010:829, punto 44).
46      Secondo una costante giurisprudenza, tanto l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione quanto il principio di uguaglianza esigono che i termini in cui è formulata una disposizione di diritto dell’Unione, la quale non contenga alcun rinvio espresso al diritto degli Stati membri al fine di determinare il suo senso e la sua portata, devono di norma ricevere, in tutta l’Unione, un’interpretazione autonoma e uniforme, da ricercarsi tenendo conto del contesto della disposizione stessa e dell’obiettivo perseguito dalla normativa di cui trattasi (sentenza del 22 dicembre 2010, Mercredi, C‑497/10 PPU, EU:C:2010:829, punto 45 e la giurisprudenza ivi citata).
47      La nozione di «residenza abituale» viene utilizzata in articoli del regolamento n. 2201/2003 che non contengono alcun rinvio espresso al diritto degli Stati membri. Occorre dunque definire tale nozione alla luce del contesto nel quale si inscrivono le disposizioni di detto regolamento, nonché dell’obiettivo perseguito da quest’ultimo (v., in tal senso, sentenza del 22 dicembre 2010, Mercredi, C‑497/10 PPU, EU:C:2010:829, punto 46).
48      A questo proposito, risulta dal considerando 12 del regolamento n. 2201/2003 che quest’ultimo è stato elaborato con l’obiettivo di rispondere all’interesse superiore del minore, e che esso privilegia, a tal fine, il criterio della vicinanza. Il legislatore ha infatti ritenuto che il giudice geograficamente vicino alla residenza abituale del minore si trovi nella situazione più favorevole per valutare i provvedimenti da disporre nell’interesse del minore stesso. Ai sensi di tale considerando, la competenza giurisdizionale dovrebbe quindi spettare, anzitutto, ai giudici dello Stato membro in cui il minore risiede abitualmente, salvo in alcuni casi di cambiamento di residenza del minore oppure a seguito di un accordo concluso tra i titolari della responsabilità genitoriale (sentenza del 15 febbraio 2017, W e V, C‑499/15, EU:C:2017:118, punto 51 nonché la giurisprudenza ivi citata).
49      L’articolo 8 del regolamento n. 2201/2003 traduce tale obiettivo attribuendo una competenza generale in materia di responsabilità genitoriale alle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui il minore ha la propria residenza abituale (sentenza del 15 febbraio 2017, W e V, C‑499/15, EU:C:2017:118, punto 52).
50      Come la Corte ha peraltro precisato in più occasioni, per determinare la residenza abituale di un minore, altri fattori, oltre alla presenza fisica del minore stesso in uno Stato membro, devono far apparire che tale presenza non ha assolutamente carattere temporaneo o occasionale (sentenze del 2 aprile 2009, A, C‑523/07, EU:C:2009:225, punto 38; del 22 dicembre 2010, Mercredi, C‑497/10 PPU, EU:C:2010:829, punto 49; del 9 ottobre 2014, C, C‑376/14 PPU, EU:C:2014:2268, punto 51; del 15 febbraio 2017, W e V, C‑499/15, EU:C:2017:118, punto 60; dell’8 giugno 2017, OL, C‑111/17 PPU, EU:C:2017:436, punto 43, nonché del 28 giugno 2018, HR, C‑512/17, EU:C:2018:513, punto 41).
51      L’importanza accordata dal legislatore dell’Unione alla vicinanza geografica ai fini della determinazione del giudice competente in materia di responsabilità genitoriale risulta anche dall’articolo 13, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003, il quale fonda la competenza di un giudice di uno Stato membro sulla sola presenza del minore, per l’appunto nel caso in cui la residenza di quest’ultimo non abbia potuto essere qualificata come «abituale», ex articolo 8, paragrafo 1, del citato regolamento, in nessuno Stato membro e tale competenza non possa essere stabilita sulla base dell’articolo 12 del medesimo regolamento.
52      Così, la Corte ha statuito che il riconoscimento della residenza abituale di un minore in un determinato Stato membro esige, quanto meno, che il minore sia stato fisicamente presente in tale Stato (sentenza del 15 febbraio 2017, W e V, C‑499/15, EU:C:2017:118, punto 61).
53      Risulta dalle considerazioni esposte ai punti da 45 a 52 della presente sentenza che una presenza fisica nello Stato membro nel quale si suppone che il minore sia integrato è una condizione necessariamente preliminare alla valutazione della stabilità di tale presenza, e che dunque la «residenza abituale», ai sensi del regolamento n. 2201/2003, non può essere fissata in uno Stato membro nel quale il minore non si è mai recato.
54      Tale interpretazione è confortata dal posto che l’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 occupa nell’ambito delle regole di competenza previste da quest’ultimo in materia di responsabilità genitoriale.
55      Infatti, alla luce del considerando 12 del regolamento n. 2201/2003, e come risulta dal punto 49 della presente sentenza, l’articolo 8 di tale regolamento stabilisce la regola generale di competenza in materia di responsabilità genitoriale, di modo che tale disposizione occupa il posto centrale nell’ambito delle regole di competenza dettate dal suddetto regolamento in questa materia.
56      Così, l’articolo 8 del regolamento n. 2201/2003 è completato da regole particolari applicabili, segnatamente, qualora la residenza abituale del minore, presente in uno Stato membro, non possa essere accertata e la competenza non possa essere determinata sulla base dell’articolo 12 del regolamento stesso (articolo 13), qualora nessun giudice di uno Stato membro sia competente ai sensi degli articoli da 8 a 13 del citato regolamento (articolo 14), od anche, in via eccezionale e a determinate condizioni, qualora il giudice competente rinvii la causa ad un giudice di un altro Stato membro che esso ritenga più adatto a trattare il caso (articolo 15) (sentenza del 15 febbraio 2017, W e V, C‑499/15, EU:C:2017:118, punto 56).
57      Ne consegue che il fatto che una controversia portata dinanzi ad un giudice di uno Stato membro non sia suscettibile di rientrare nell’ambito di applicazione dell’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 non costituisce necessariamente un ostacolo a che tale giudice sia competente a conoscere di tale controversia ad altro titolo. In particolare, anche supponendo che l’interpretazione esposta ai punti 52 e 53 della presente sentenza – secondo cui una presenza fisica del minore in uno Stato membro è una condizione preliminare per stabilire la sua residenza abituale in tale Stato – avrebbe come conseguenza, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, che non sarebbe possibile designare come competente un giudice di uno Stato membro in virtù delle disposizioni del citato regolamento, resta comunque il fatto che, come evidenziato dalla Commissione, ciascuno Stato membro rimane libero, in conformità dell’articolo 14 del regolamento summenzionato, di fondare la competenza dei propri giudici in virtù di norme di diritto interno discostandosi dal criterio della vicinanza sul quale si fondano le disposizioni di questo regolamento.
58      Risulta, inoltre, dalle disposizioni citate al punto 56 della presente sentenza, e segnatamente dall’articolo 13, paragrafo 1, e dall’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003, che il legislatore dell’Unione ha specificamente preso in considerazione, rispettivamente, l’esistenza di situazioni nelle quali la residenza abituale di un minore non può essere stabilita e il rinvio ad un giudice più adatto a conoscere del caso di un minore, che non è necessariamente il giudice previsto dall’articolo 8, paragrafo 1, di detto regolamento, né quello contemplato dagli articoli da 9 a 14 di quest’ultimo.
59      Di conseguenza, né l’assenza di residenza abituale del minore, ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003, a motivo della mancanza di una presenza fisica di tale minore in uno Stato membro dell’Unione, né l’esistenza di giudici di uno Stato membro che si trovano in una posizione più favorevole per trattare casi riguardanti questo minore, malgrado che questi non abbia mai risieduto in tale Stato, possono permettere di stabilire la residenza abituale del minore in uno Stato nel quale quest’ultimo non è mai stato presente.
60      Poi, anche a supporla dimostrata, la circostanza controversa nel procedimento principale, secondo cui il padre avrebbe esercitato una coercizione sulla madre, con la conseguenza che la loro figlia comune è nata e risiede, sin dalla nascita, in Bangladesh, non è idonea a rimettere in discussione tale interpretazione.
61      Indubbiamente, in assenza della coercizione suddetta, la minore di cui si discute nel procedimento principale avrebbe eventualmente potuto nascere, secondo le intenzioni asserite dalla madre, nel Regno Unito. Orbene, la Corte ha già statuito che l’intenzione del titolare della responsabilità genitoriale di stabilirsi con il minore in un altro Stato membro, manifestata attraverso talune iniziative tangibili, come l’acquisto o la locazione di un alloggio nello Stato membro ospitante, può costituire un indizio del trasferimento della residenza abituale (sentenza del 22 dicembre 2010, Mercredi, C‑497/10 PPU, EU:C:2010:829, punto 50 e la giurisprudenza ivi citata).
62      Tuttavia, in assenza di una presenza fisica del minore stesso nello Stato membro in questione, non può accordarsi un’importanza determinante, ai fini dell’interpretazione della nozione di «residenza abituale», a circostanze come l’intenzione del genitore che esercita di fatto la custodia del minore, od anche l’eventuale residenza abituale dell’uno o dell’altro genitore in tale Stato membro, a discapito di considerazioni geografiche oggettive, a pena di disattendere la volontà del legislatore dell’Unione (v., per analogia, sentenza del 28 giugno 2018, HR, C‑512/17, EU:C:2018:513, punto 60).
63      Infatti, l’interpretazione secondo cui la mancanza di presenza fisica dello stesso minore interessato nello Stato membro in questione osta a che si tenga conto di considerazioni quali quelle esposte al punto precedente della presente sentenza, è maggiormente conforme al criterio della vicinanza, privilegiato dal legislatore dell’Unione nel contesto del regolamento n. 2201/2003, proprio al fine di assicurare la presa in considerazione dell’interesse superiore del minore (v., per analogia, sentenza dell’8 giugno 2017, OL, C‑111/17 PPU, EU:C:2017:436, punto 67).
64      Infine, la tutela dell’interesse superiore del minore garantita dall’articolo 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e il rispetto dei diritti fondamentali del minore, quali sanciti dagli articoli 4, 6 e 24 di tale Carta, non impongono un’interpretazione differente da quella esposta ai punti 52 e 53 della presente sentenza.
65      In primo luogo, come risulta dal punto 48 della presente sentenza, l’interesse superiore del minore è stato preso in considerazione in sede di redazione del regolamento n. 2201/2003, posto che il criterio della vicinanza adottato in quest’ultimo concretizza tale interesse.
66      In secondo luogo, il regolamento n. 2201/2003 istituisce già un meccanismo che autorizza gli Stati membri a proteggere gli interessi di un minore anche nel caso di controversie non ricadenti sotto l’articolo 8, paragrafo 1, di detto regolamento. In particolare, come si è ricordato al punto 57 della presente sentenza, per il caso in cui nessun giudice di uno Stato membro sia competente a norma degli articoli da 8 a 13 di detto regolamento, l’articolo 14 di quest’ultimo precisa che gli Stati membri possono, in via residuale, attribuire la competenza ai propri giudici in virtù delle loro norme nazionali.
67      Nel caso di specie, risulta dal fascicolo sottoposto alla Corte che una siffatta competenza residuale esiste nell’ordinamento giuridico del Regno Unito sotto forma di «competenza parens patriae» dei giudici di tale Stato membro, laddove tale regola di competenza si applica ai cittadini britannici a discrezione dei giudici nazionali.
68      Risulta da tali considerazioni che l’interesse superiore del minore non richiede un’interpretazione dell’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 quale quella proposta dalla madre, dal governo del Regno Unito e dal governo ceco, neanche in circostanze come quelle che caratterizzano la situazione in discussione nel procedimento principale, dato che un’interpretazione siffatta va al di là dei limiti della nozione di «residenza abituale», prevista dal regolamento n. 2201/2003, e del ruolo assegnato a tale disposizione nel quadro delle disposizioni di tale regolamento disciplinanti la competenza in materia di responsabilità genitoriale.
69      Ne consegue che, in un caso come quello in discussione nel procedimento principale, né il comportamento illecito messo in atto da uno dei genitori sull’altro, da cui è derivato come conseguenza che la minore è nata e risiede dalla nascita in uno Stato terzo, né la violazione dei diritti fondamentali della madre o di tale minore, anche supponendo dimostrate tali circostanze, consentono di ritenere che la suddetta minore potrebbe avere la propria residenza abituale, ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003, in uno Stato membro nel quale ella non si è mai recata.
70      Alla luce dell’insieme delle considerazioni sopra esposte, l’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 2201/2003 deve essere interpretato nel senso che un minore deve essere stato fisicamente presente in uno Stato membro perché possa essere considerato come residente abitualmente in questo Stato, ai sensi della disposizione sopra citata. Anche a supporle dimostrate, circostanze quali quelle in discussione nel procedimento principale, ossia, da un lato, la coercizione esercitata dal padre sulla madre, da cui è derivato come conseguenza che la madre ha partorito la loro figlia comune in uno Stato terzo e ivi risiede con tale minore sin dalla nascita di quest’ultima, e, dall’altro, la lesione dei diritti fondamentali della madre o della minore, non hanno alcuna incidenza al riguardo.
 Sulle spese
71      Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara:
L’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000, deve essere interpretato nel senso che un minore deve essere stato fisicamente presente in uno Stato membro perché possa essere considerato come residente abitualmente in questo Stato, ai sensi della disposizione sopra citata. Anche a supporle dimostrate, circostanze quali quelle in discussione nel procedimento principale, ossia, da un lato, la coercizione esercitata dal padre sulla madre, da cui è derivato come conseguenza che la madre ha partorito la loro figlia comune in uno Stato terzo e ivi risiede con tale minore sin dalla nascita di quest’ultima, e, dall’altro, la lesione dei diritti fondamentali della madre o della minore, non hanno alcuna incidenza al riguardo.
Dal sito http://curia.europa.eu