Corte cost. 24 luglio 2019, n. 195
E’ costituzionalmente illegittimo l’art.
21-bis, comma 2, del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti
in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica,
nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione
e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la
destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata),
convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132, nella
parte in cui prevede «sentita la Conferenza Stato-città
ed autonomie locali», anziché «sentita la Conferenza unificata Stato-regioni, città e
autonomie locali»;
E’ costituzionalmente illegittimo l’art. 28,
comma 1, del d.l. n. 113 del 2018, convertito, con modificazioni, nella legge
n. 132 del 2018;
Non sono fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 1, lettera a), del d.l. n. 113
del 2018, convertito, con modificazioni, nella legge n. 132 del 2018, promosse,
con i ricorsi indicati in epigrafe, rispettivamente dalla Regione
Emilia-Romagna in riferimento agli artt. 3 e 32 della Costituzione, dalla
Regione Toscana in riferimento agli artt. 32 e 117, terzo comma, Cost., e dalla
Regione Calabria in riferimento agli artt. 32 e 117, terzo comma, Cost., nonché
al principio di leale collaborazione
Norme impugnate: Artt. 21, c. 1°, lett.
a), 21 bis, c. 1° e 2°, e 28, c. 1°, del decreto-legge 04/10/2018, n. 113,
convertito, con modificazioni, in legge 01/12/2018, n. 132.
Oggetto: Straniero -
Disposizioni in materia di protezione internazionale e immigrazione,
sicurezza pubblica - Disposizioni in materia di permesso di soggiorno e in
materia di iscrizione anagrafica - Previsione che il permesso di soggiorno
per richiesta di asilo costituisce documento di riconoscimento, ma non
costituisce titolo per l'iscrizione anagrafica. Sicurezza pubblica -
Disposizioni in materia di protezione internazionale e immigrazione,
sicurezza pubblica - Estensione alle aree su cui insistono presidi sanitari
dell'ambito applicativo del divieto di accesso in specifiche aree urbane
[c.d. Daspo urbano] Accordi per misure di prevenzione nei pubblici esercizi a
fini di sicurezza pubblica - Previsione della sottoscrizione di accordi tra
Prefetto e organizzazioni maggiormente rappresentative degli esercenti, al
fine di individuare misure specifiche di prevenzione tramite la cooperazione
tra esercenti e Forze di polizia, cui i gestori si assoggettano secondo gli
accordi Enti locali - Disposizioni in materia di protezione internazionale e
immigrazione, sicurezza pubblica - Modifiche all'art. 143 del decreto
legislativo n. 267 del 2000 [Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli
enti locali] - Esercizio di poteri sostitutivi e di commissariamento nei
confronti delle amministrazioni locali, con riguardo a uno o più settori
amministrativi in ipotesi di situazioni sintomatiche di condotte illecite
gravi e reiterate tali da determinare un'alterazione delle procedure e da
compromettere il buon andamento e l'imparzialità, nonché il regolare
funzionamento dei servizi
.
Dispositivo: illegittimità costituzionale
- illegittimità costituzionale parziale - non fondatezza nei sensi di cui in
motivazione
Atti decisi: ric. 10, 11, 17 e 18/2019
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COMUNICATO STAMPA
“DECRETO SICUREZZA”: NO AL POTERE
SOSTITUTIVO DEI PREFETTI PERCHÉ TROPPO DISCREZIONALE, SÍ AL DASPO URBANO
PURCHÉ IL DIVIETO DI ACCESSO AI PRESÍDI SANITARI NON SI APPLICHI A CHI HA
BISOGNO DI CURE
Il potere sostitutivo del
prefetto nelle attività di comuni e province è illegittimo perché lede
l’autonomia degli enti locali e contrasta con il principio di tipicità e
legalità dell'azione amministrativa. È invece legittima l’estensione ai
presídi sanitari del cosiddetto Daspo urbano (divieto di accedere a taluni
luoghi per esigenze di decoro e sicurezza pubblica) a condizione, però, che
il divieto non si applichi ha chi ha bisogno di cure mediche o di prestazioni
terapeutiche e diagnostiche, poiché il diritto alla salute prevale sempre
sulle altre esigenze.
È quanto ha stabilito la Corte costituzionale con
la sentenza n. 195 depositata oggi (relatore Giovanni Amoroso) riguardante
due aspetti del cosiddetto Decreto sicurezza (Decreto legge n. 113 del 2018):
il potere sostitutivo dei prefetti, previsto dall’articolo 28, primo comma, e
impugnato dalla Regione Umbria; l’estensione del Daspo urbano ai presídi
sanitari prevista dal primo comma, lettera a, dell’articolo 2, e censurata
dalle Regioni Emilia Romagna, Toscana e Calabria. Illegittimo il primo;
legittima la seconda purché, però, la disposizione sia interpretata in modo
costituzionalmente orientato.
Nella motivazione della
sentenza si spiega che il diritto alla salute prevale sulle esigenze di
decoro dei luoghi e di contrasto alle condotte sanzionate in via
amministrativa, quali lo stato di ubriachezza, gli atti contrari alla
pubblica decenza, il commercio e il parcheggio abusivo (presupposti del Daspo
urbano). Così interpretata, la norma è legittima: il diritto alla salute di
chi ha bisogno di cure o di accertamenti sanitari rimane infatti pienamente
tutelato e non vi è alcuna incidenza sul l’organizzazione dei presidi
sanitari, sicché non è violata la competenza regionale concorrente in materia
di tutela della salute.
La Corte ha invece cancellato
l’articolo 28, primo comma del Dl 113/2018, che ha inserito nell’articolo 143
del Testo unico degli enti locali (Tuel) - sullo scioglimento dei consigli
comunali e provinciali per infiltrazioni e condizionamenti mafiosi degli
amministratori locali - un nuovo sub -procedimento per l'attivazione dei
poteri sostitutivi del prefetto sugli atti degli enti locali.
In particolare, il decreto
prevede(va) che, se dalla relazione prefettizia non emergono i presupposti
per l'esercizio del potere governativo di scioglimento dei consigli comunali
e provinciali né quelli per l'adozione di provvedimenti correttivi
dell'azione dell'ente o sanzionatori dei dipendenti coinvolti nelle
infiltrazioni mafiose ma emerge comunque una situazione di “mala gestio”
dell'ente, scatta(va)no i nuovi poteri sostitutivi dei prefetti. E secondo la
norma, si ha “mala gestio” in tutte quelle situazioni sintomatiche di
condotte illecite gravi e reiterate, tali da determinare un’alterazione delle
procedure e da compromettere il buon andamento e l'imparzialità delle
amministrazioni locali nonché il regolare funzionamento dei servizi ad esse
affidati. In queste situazioni il prefetto individua(va) i prioritari
interventi di risanamento, indica(va) gli atti e assegna(va) un termine non
superiore a 20 giorni per la loro adozione, scaduto il quale scatta(va) la
sostituzione all’amministrazione inadempiente, mediante la nomina di un
commissario ad acta.
La Corte ha osservato che la
norma, oltre a violare la complessiva autonomia costituzionalmente garantita
degli enti locali (riconoscimento di funzioni amministrative proprie,
autonomia regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello
svolgimento delle funzioni loro attribuite, autonomia finanziaria), introduce
un nuovo potere prefettizio fondato su presupposti generici ed eccessivamente
discrezionali, violando così il principio di tipicità e legalità dell’azione
amministrativa. Infine, la sentenza mette in rilievo anche che il potere
sostitutivo del prefetto, considerata la sua ampia incidenza nell’attività di
comuni e province, avrebbe dovuto essere rispettoso della leale
collaborazione, nel senso che la norma censurata avrebbe dovuto prevedere
l’adozione della delibera del Governo o il decreto del ministro dell’Interno.
Roma, 24 luglio 2019
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SENTENZA N. 195
ANNO 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI,
Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria
de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio
PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 21, comma 1, lettera
a), 21-bis, commi 1 e 2, e 28, comma 1, del decreto-legge 4 ottobre 2018, n.
113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e
immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del
Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia
nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e
confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, in
legge 1° dicembre 2018, n. 132, promossi con ricorsi delle Regioni Umbria,
Emilia-Romagna, Toscana e Calabria, notificati il 31 gennaio-4 febbraio, il
1°-6 febbraio, il 31 gennaio-4 febbraio e il 1° febbraio 2019, depositati in
cancelleria il 1°, il 4, il 6 e l’8 febbraio 2019, iscritti rispettivamente ai
numeri 10, 11, 17 e 18 del registro ricorsi 2019 e pubblicati nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica numeri 11 e 13, prima serie speciale, dell’anno
2019.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 19 giugno 2019 il Giudice relatore Giovanni
Amoroso;
uditi gli avvocati Massimo Luciani per la Regione Umbria,
Giandomenico Falcon e Andrea Manzi per la Regione Emilia-Romagna,
Marcello Cecchetti per la
Regione Toscana, Giuseppe Naimo e Vincenzo Cannizzaro per la Regione Calabria
e gli avvocati dello Stato Giuseppe Albenzio e Ilia Massarelli per il
Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Le Regioni Emilia-Romagna (r.r. n. 11 del 2019), Toscana (r.r. n. 17 del
2019) e Calabria (r.r. n. 18 del 2019) hanno promosso, tra le altre, questioni
di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 1, lettera a), del
decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di
protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per
la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il
funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione
dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito,
con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132; disposizione questa
che – modificando l’art. 9, comma 3, del decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14
(Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città), convertito, con
modificazioni, nella legge 18 aprile 2017, n. 48 – inserisce, dopo le parole
«su cui insistono», le parole «presidi sanitari,».
Le ricorrenti, assumendo la violazione di parametri pressoché coincidenti,
hanno svolto un motivo di censura sostanzialmente analogo, impugnando la
disposizione nella parte in cui prevede l’ampliamento dell’elenco dei luoghi in
relazione ai quali, per tutelarne il decoro, può trovare applicazione il
divieto di accesso in specifiche aree urbane (cosiddetto DASPO urbano) consentendo
così che, a fronte di una delle condotte presupposto della misura (stato di
ubriachezza, compimento di atti contrari alla pubblica decenza, esercizio di
commercio abusivo di spazi pubblici e attività di parcheggiatore abusivo), il
soggetto possa essere colpito dal provvedimento di allontanamento anche da aree
urbane in cui insistono «presidi sanitari».
In particolare, la
Regione Emilia-Romagna ha ravvisato la violazione dell’art.
32 della Costituzione, unitamente all’art. 3 Cost., in quanto «[l]a reazione
dell’ordinamento rispetto alla condotta […] si rivela del tutto irragionevole e
sproporzionata nel momento in cui comprime gravemente il diritto alla salute di
determinati soggetti che, oltretutto, in una parte dei casi previsti, possono
essere particolarmente bisognosi di cure (come chi sia colto in stato di
ubriachezza, magari in ragione di un’abitualità in tale condotta) e in un’altra
parte non hanno tenuto alcuna condotta che suggerisca una misura grave come
l’allontanamento dalle strutture ospedaliere».
Anche la Regione
Toscana ha sostenuto la violazione dell’art. 32 Cost., in
quanto, in applicazione della norma impugnata, alla persona sottoposta a DASPO
urbano potrà essere vietata la possibilità di accedere al luogo ove è ubicato
il presidio sanitario con la conseguenza che, in caso di sopravvenuti problemi
di salute (anche, in ipotesi, non conclamati da situazioni di assoluta urgenza
o evidenza), potrebbero ingenerarsi dubbi sul diritto della persona sottoposta
alla misura ad accedere alla struttura sanitaria. Inoltre, secondo la citata
Regione, l’art. 21, comma 1, lettera a) del d.l. n. 113 del 2018, si porrebbe
in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., poiché concerne la materia
della «tutela della salute», in ordine alla quale le Regioni hanno competenza
concorrente.
La Regione
Calabria ha promosso la questione in riferimento all’art.
117, terzo comma (e non anche quarto, erroneamente indicato per mero refuso),
Cost., congiuntamente all’art. 34 Cost. (recte: 32), nonché al principio di leale
collaborazione fra Stato e Regioni.
La ricorrente afferma che la norma censurata viola i parametri evocati (che
la difesa tecnica ben ha articolato con maggiore completezza rispetto alla
delibera della Giunta regionale, richiamante il solo art. 117, terzo comma,
Cost.) in quanto consente di precludere l’accesso alle strutture sanitarie ai
soggetti bisognosi di cure mediche ledendo, così, il diritto alla salute,
inteso non solo come diritto fondamentale dell’individuo, ma anche come
interesse della collettività a che vengano garantite cure gratuite per gli
indigenti.
Per altro verso, ricordato che ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.,
la tutela della salute costituisce materia di legislazione concorrente, lamenta
che la disposizione «incide indebitamente sulla competenza regionale relativa
all’organizzazione dei servizi sanitari», impedendo l’accesso nelle «aree nelle
quali la Regione
realizza l’interesse pubblico alla tutela della salute».
Secondo la ricorrente sarebbe violato anche il principio di leale
collaborazione fra Stato e Regioni.
2.– La sola Regione Emilia-Romagna ha promosso, con lo stesso ricorso,
questioni di legittimità costituzionale, tra gli altri, anche dell’art. 21-bis,
commi 1 e 2, del d.l. n. 113 del 2018. Ad avviso della Regione ricorrente, la
norma impugnata lederebbe l’art. 117, quarto comma, Cost., in quanto concerne
anche la materia del commercio, in ordine alla quale le Regioni hanno
competenza residuale, materia «chiaramente coinvolta nel momento in cui vengono
chiamate in causa le organizzazioni rappresentative degli esercenti e i gestori
degli esercizi commerciali»; nonché violerebbe l’art. 118, terzo comma, Cost.,
nella parte in cui – al fine di rafforzare la tutela della sicurezza pubblica
nelle vicinanze di esercizi pubblici, in un regime di collaborazione e
coordinamento tra il prefetto e le organizzazioni degli esercenti, nel quadro
di linee guida ministeriali – «prevede il solo coinvolgimento della Conferenza
Stato-città ed autonomie locali, anziché quello della Conferenza unificata, e
nella parte in cui non prevede la possibile partecipazione delle Regioni e
degli enti locali interessati agli accordi locali rivolti al rafforzamento
della sicurezza pubblica».
La disposizione stabilisce che «ai fini di una più efficace prevenzione di
atti illegali o di situazioni di pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica
all’interno e nelle immediate vicinanze degli esercizi pubblici […], con
appositi accordi sottoscritti tra il prefetto e le organizzazioni maggiormente
rappresentative degli esercenti possono essere individuate specifiche misure di
prevenzione, basate sulla cooperazione tra i gestori degli esercizi e le Forze
di polizia, cui i gestori medesimi si assoggettano, con le modalità previste
dagli stessi accordi». Tali accordi sono adottati localmente nel rispetto delle
linee guida nazionali approvate, su proposta del Ministro dell’interno,
d’intesa con le organizzazioni maggiormente rappresentative degli esercenti,
sentita la
Conferenza Stato-città ed autonomie locali.
La ricorrente contesta il mancato coinvolgimento delle Regioni
all’elaborazione di tali linee guida e chiede che sia invece la Conferenza unificata a
dover essere sentita.
3.– In relazione a tutti tali ricorsi, con argomenti in larga parte
coincidenti, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate
inammissibili o comunque infondate.
In punto di ammissibilità, la difesa dello Stato rileva che le Regioni,
secondo la costante giurisprudenza costituzionale, sono legittimate a censurare
le leggi dello Stato solo con riferimento a parametri relativi al riparto delle
competenze legislative, mentre l’invocazione di parametri diversi è ammissibile
esclusivamente quando la violazione ridondi su competenze regionali che la Regione abbia
espressamente individuato. Nella specie, per contro, le ricorrenti non hanno
sufficientemente specificato i motivi per cui l’intervento del legislatore
statale avrebbe compromesso le attribuzioni regionali.
Nel merito, in relazione all’art. 21, comma 1, lettera a), del d.l. n. 113
del 2018, il Presidente del Consiglio dei ministri osserva che la disposizione,
lungi dal costituire un impedimento all’accesso alle strutture interessate, è
volta, piuttosto, a contrastare i fenomeni che ne ostacolano la libera
fruizione da parte dei cittadini.
Pertanto, a suo avviso, nessuna violazione del diritto alla salute può
essere ravvisata. Tale conclusione risulterebbe confermata anche dall’art. 10,
comma 2, del d.l. n. 14 del 2017, ai sensi del quale il questore che dispone il
DASPO urbano deve individuare modalità «compatibili con le esigenze di
mobilità, salute e lavoro del destinatario dell’atto».
Quanto all’omesso coinvolgimento della Regione nell’elaborazione delle linee
guida di cui all’art. 21-bis, la difesa dello Stato assume l’insussistenza di
motivi giuridici che impongano l’attivazione di strumenti di cooperazione. In
particolare, il Presidente del Consiglio dei ministri sostiene che la
previsione del coinvolgimento della sola Conferenza Stato-città ed autonomie
locali e non della Conferenza unificata si spiega in ragione del fatto che le
attività, alle quali si riferisce la disposizione, sono soggette a licenza ai
sensi dell’art. 86 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Testo unico delle
leggi di pubblica sicurezza) e che le specifiche misure di prevenzione previste
dalla disposizione oggetto di censura, basate sulla cooperazione tra i gestori
degli esercizi e le forze di polizia, sono destinate a incidere solo su di
esse.
4.– Con memorie del 28 maggio 2019, depositate in pari data, l’Avvocatura
generale ha ribadito le sue difese, comuni a tutti i ricorsi proposti dalle
Regioni.
La Regione
Calabria, con memoria del 28 maggio 2019, depositata in pari
data, e le Regioni Emilia-Romagna e Toscana, con distinte memorie del 29 maggio
2019, depositate in pari data, hanno anch’esse ulteriormente ribadito le loro
difese, contestando in particolare l’eccezione, sollevata dall’Avvocatura, di
inammissibilità delle censure riferite a parametri non competenziali.
5.– Con ricorso depositato in data 1° febbraio 2019 (r.r. n. 10 del 2019) la Regione Umbria ha
promosso questioni di legittimità costituzionale, tra gli altri, dell’art. 28,
comma 1, del d.l. n. 113 del 2018, in riferimento agli artt. 3, 5, 23, 25, 27,
77, 97, 114, 117, secondo e terzo comma, 118, primo e secondo comma, 119 e 120,
secondo comma, Cost., nonché all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione
agli artt. 6 e 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950,
ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
In particolare, l’art. 28, comma 1, del d.l. n. 113 del 2018, novellando
l’art. 143 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle
leggi sull’ordinamento degli enti locali), inserendovi il comma 7-bis, sarebbe
gravemente lesivo dell’autonomia degli enti locali.
Ad avviso della Regione la norma in questione detterebbe una disciplina
irragionevole, lesiva del principio di legalità, di buon andamento e
imparzialità della pubblica amministrazione e sarebbe, altresì, in violazione
del principio autonomistico.
Con la disposizione in esame – si osserva da parte della ricorrente – si
introducono provvedimenti di sostituzione e di commissariamento «la cui logica
è del tutto incomprensibile».
La Regione
ricorrente osserva, altresì, l’estrema latitudine dei presupposti legittimanti
l’esercizio dei poteri sostitutivi e di commissariamento da parte dei prefetti,
evincibile dal generico riferimento a «condotte illecite», alla semplice
«alterazione delle procedure», al «buon andamento», al «regolare funzionamento
dei servizi». In tal modo la disposizione apre un campo così indefinito, tale
che l’autonomia degli enti locali finisce per essere aperta alle discrezionali
determinazioni dell’esecutivo statale sul territorio regionale.
Sarebbe compromesso anche il principio di buon andamento (art. 97 Cost.),
tra l’altro perché l’amministrazione degli enti locali può essere soggetta alla
misura anche per il semplice fatto dei suoi dipendenti, là dove, in simile
fattispecie, l’ordinamento prevede una pluralità di ben più efficienti rimedi e
meno invasivi strumenti, quali l’azione disciplinare nei confronti dei
dipendenti degli enti interessati.
Compromessa sarebbe anche l’autonomia degli enti locali, di cui agli artt. 5
e 114 Cost., venendo questa rimessa all’ampia discrezionalità di un organo
dello Stato, qual è il prefetto.
La nuova disciplina violerebbe, altresì, gli artt. 117, secondo e terzo
comma, 118, primo e secondo comma, 119 e 120, secondo comma, Cost.
In primo luogo, gli enti territoriali risultano sostanzialmente espropriati
delle loro funzioni e la
Regione si vede incisa la propria competenza in materia di
attribuzione di funzioni agli enti locali, desumibile dal secondo e terzo comma
dell’art. 117 Cost. Verrebbe, altresì, impedito il funzionamento del principio
di sussidiarietà verticale di cui all’art. 118, primo comma, e all’art. 120,
secondo comma, Cost., attraendo le funzioni degli enti locali verso l’alto,
oltretutto in sede di decisione prefettizia senza coinvolgimento della
responsabilità politica del Governo.
Sarebbe violato anche l’art. 118, secondo comma, Cost., in quanto il
commissariamento e la sostituzione sono forme di interferenza con l’esercizio
delle funzioni amministrative proprie riconosciute al Comune, alle Province e
alle Città metropolitane.
Conseguentemente, sarebbe violato anche l’art. 120, secondo comma, Cost., in
quanto la sostituzione e il commissariamento non sarebbero disposti dal
Governo, ma dal prefetto, con completo disinteresse per il principio di
sussidiarietà e leale collaborazione, dal momento che «l’ente locale può
sfuggire al commissariamento solo se resta prono a quanto il prefetto impone
(addirittura stabilendo gli atti da adottare e il termine per la loro adozione)
rinunciando completamente alla propria autonomia».
Altresì, risulterebbe violato l’art. 119 Cost., in quanto gli enti locali
sarebbero costretti a sostenere le spese di qualsivoglia attività ritenuta
opportuna dal prefetto nell’individuare «i prioritari interventi di
risanamento».
Da ultimo, la norma censurata configura una forma di vera e propria
responsabilità oggettiva, che il nostro ordinamento rifiuta, salvi casi
eccezionali. Ad avviso della difesa regionale si è di fronte a una misura di
tipo sanzionatorio che, per la sua gravità in applicazione dei criteri “Engel”,
dovrebbe ricevere un trattamento analogo a quello delle sanzioni penali. Di
qui, la lesione anche degli artt. 25 e 27 Cost., nonché, per il tramite
dell’art. 117, primo comma, Cost., degli artt. 6 e 7 CEDU.
Infine, in via sostanzialmente subordinata, la Regione deduce anche la
violazione dell’art. 77 Cost., in quanto il decreto-legge sarebbe stato
adottato, quanto alla disposizione censurata, in carenza dei presupposti di cui
al parametro costituzionale.
6.– Anche in relazione a tale ricorso è intervenuto in giudizio il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano
dichiarate inammissibili o comunque infondate.
La difesa della Stato ritiene che il ricorso sia inammissibile per la
mancanza di un’adeguata motivazione in merito all’asserita lesione delle sfere
di competenza legislativa regionale e al riguardo richiama la giurisprudenza
costituzionale secondo cui è possibile invocare parametri costituzionali
diversi da quelli relativi al riparto delle competenze legislative soltanto
quando la violazione di questi comporti una compromissione delle attribuzioni
regionali costituzionalmente garantite.
Nel merito, la difesa dello Stato osserva che quello previsto dalla
disposizione censurata è un potere straordinario riconosciuto al prefetto,
rappresentante dello Stato sul territorio, nel caso in cui, all’esito
dell’attività di accesso, pur non rinvenendosi elementi concreti, univoci e
rilevanti per disporre lo scioglimento degli organi degli enti locali, tuttavia
siano state riscontrate in relazione a uno o più settori amministrativi,
anomalie e illiceità tali da determinare uno sviamento dell’attività dell’ente,
nonché un’alterazione delle procedure atte a compromettere il buon andamento e
l’imparzialità dell’amministrazione e il regolare funzionamento dei servizi a
essa affidati.
Pone in rilievo che l’art. 120, secondo comma, Cost., attribuisce al Governo
il potere di sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane,
delle Province e dei Comuni, nei casi ivi indicati, e anche la censurata
disposizione, di cui all’art. 28 del decreto-legge citato, è posta a presidio
di fondamentali esigenze di eguaglianza, sicurezza e legalità.
Il potere sostitutivo è attribuito al prefetto, cui è riconosciuto
tradizionalmente un potere di vigilanza sull’andamento delle pubbliche
amministrazioni sul territorio. È il prefetto che avvia un’interlocuzione con
l’amministrazione locale interessata, un’attività di mediazione che prevede
anche ogni utile supporto tecnico-amministrativo a mezzo dei propri uffici, con
l’individuazione degli interventi prioritari da assumere per il risanamento
dell’ente, fissando un termine per l’adozione degli stessi. Solo se il termine è
disatteso, si configura l’ipotesi di nomina del commissario ad acta prevista,
dunque, come extrema ratio. Di talché, non sarebbe violata in alcun modo
l’autonomia dell’ente.
La difesa dello Stato osserva, poi, che la disposizione censurata non fa
altro che introdurre un’ulteriore ipotesi di intervento in materia di controlli
sugli organi, già disciplinata dal t.u. enti locali, agli artt. 141 e 142, i
quali riguardano situazioni eccezionali derivanti da accertate gravi anomalie
idonee a compromettere il regolare funzionamento e l’imparzialità delle
amministrazioni locali coinvolte.
L’Avvocatura evidenzia che la disposizione censurata non contempla un
intervento sugli amministratori e sull’ente locale, ma un intervento
dell’autorità statale, rientrante nell’ambito delle sue competenze, qualora
emergano situazioni sintomatiche di condotte gravi e reiterate e di mala gestio
– condotte di cui possono essere responsabili sia gli organi di governo sia
l’apparato burocratico – e si pone come clausola di chiusura dell’ordinamento.
L’intervento surrogatorio del prefetto si giustifica in presenza di situazioni
indicative di illiceità o di mala gestio.
7.– Con memoria depositata il 28 maggio 2019 la difesa dello Stato ha
ulteriormente ribadito le proprie difese e conclusioni.
8.– Con memoria del 29 maggio 2019 anche la Regione Umbria ha
ribadito le argomentazioni a sostegno delle censure svolte in ricorso.
Considerato in diritto
1.– Le Regioni Emilia-Romagna (r.r. n. 11 del 2019), Toscana (r.r. n. 17 del
2019) e Calabria (r.r. n. 18 del 2019) hanno, tra le altre, promosso, in
riferimento agli artt. 3, 32 e 117, terzo comma, della Costituzione e al
principio di leale collaborazione, questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 21, comma 1, lettera a), del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113
(Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione,
sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero
dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per
l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla
criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, nella legge 1°
dicembre 2018, n. 132; disposizione questa che – modificando l’art. 9, comma 3,
del decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14 (Disposizioni urgenti in materia di
sicurezza delle città), convertito, con modificazioni, nella legge 18 aprile
2017, n. 48 – ha inserito, dopo le parole «su cui insistono», le parole
«presidi sanitari,».
Assumono le ricorrenti che l’ampliamento dell’elenco dei luoghi in relazione
ai quali, al fine di tutelarne il decoro e la sicurezza pubblica, può trovare
applicazione il divieto di accesso in specifiche aree urbane (il cosiddetto
DASPO urbano) consente che, a fronte di una delle condotte previste a
presupposto della misura (stato di ubriachezza, compimento di atti contrari
alla pubblica decenza, esercizio di commercio abusivo e attività di
parcheggiatore abusivo), la persona bisognosa di cure mediche possa essere
colpita dal provvedimento di allontanamento proprio da quelle aree urbane su
cui insistono «presidi sanitari» con conseguente lesione del suo diritto alla
salute.
La sola Regione Emilia-Romagna, con lo stesso ricorso, ha promosso anche
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 21-bis, commi 1 e 2, del d.l.
n. 113 del 2018 in riferimento all’art. 117, quarto comma, Cost., per quanto
concerne, come competenza legislativa residuale, la materia del commercio,
«chiaramente coinvolta nel momento in cui vengono chiamate in causa le
organizzazioni rappresentative degli esercenti e i gestori degli esercizi
commerciali», nonché in relazione all’art. 118, terzo comma, Cost., nella parte
in cui – al fine di rafforzare la tutela della sicurezza pubblica nelle
vicinanze di esercizi pubblici, in un regime di collaborazione e coordinamento
tra l’autorità di pubblica sicurezza e le organizzazioni degli esercenti, nel
quadro di linee guida ministeriali – prevede il solo coinvolgimento della
Conferenza Stato-città ed autonomie locali, anziché quello della Conferenza
unificata Stato-Regioni e autonomie locali.
Con ricorso depositato in data 1° febbraio 2019 (r.r. n. 10 del 2019) la Regione Umbria ha,
tra le altre, promosso in riferimento agli artt. 3, 5, 23, 25, 27, 77, 97, 114,
117, secondo e terzo comma, 118, secondo e terzo comma, 119 e 120, secondo
comma, Cost., nonché all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt.
6 e 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e
resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 28, comma 1, del d.l. n. 113 del 2018, disposizione
questa che ha inserito il comma 7-bis nell’art. 143 del decreto legislativo 18
agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti
locali), che prevede lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali
conseguente a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso o
similare.
La Regione
lamenta, in particolare, che l’ampiezza del potere prefettizio sostitutivo,
previsto dalla disposizione censurata, in caso emergano «situazioni
sintomatiche di condotte illecite gravi e reiterate tali da determinare
un’alterazione delle procedure e da compromettere il buon andamento e
l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali nonché il regolare
funzionamento dei servizi ad esse affidati», comporti, sotto plurimi profili,
la lesione dell’autonomia costituzionalmente garantita degli enti locali
territoriali.
2.– I giudizi aventi a oggetto le suddette disposizioni − riconducibili a
una matrice unitaria, in quanto tutte contenute nel Titolo II del d.l. n. 113
del 2018, concernente la materia di sicurezza pubblica, prevenzione e contrasto
al terrorismo e alla criminalità mafiosa – possono essere riuniti e trattati
congiuntamente, restando riservata a separate pronunce la decisione delle
questioni relative alle altre disposizioni impugnate con i medesimi ricorsi.
3.– Va esaminata innanzi tutto la questione di legittimità costituzionale
avente a oggetto l’art. 21, comma 1, lettera a), del menzionato decreto-legge.
La disposizione ha inserito il riferimento ai «presidi sanitari» nel comma 3
dell’art. 9 del richiamato d.l. n. 14 del 2017, in materia di sicurezza delle
città.
Il legislatore del 2017, nel contesto di un articolato intervento diretto a
rafforzare la sicurezza nelle città, ha introdotto una speciale misura, mirata
a tutelare anche il decoro di particolari luoghi (il cosiddetto DASPO urbano),
conformandola al modello del divieto di accesso ai luoghi dove si svolgono
manifestazioni sportive (DASPO), regolato dall’art. 6 della legge 13 dicembre
1989, n. 401 (Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e
tutela della correttezza nello svolgimento di manifestazioni sportive);
disposizione richiamata, in particolare, quanto al regime di convalida
giudiziaria dei provvedimenti interdittivi e della ricorribilità per
cassazione.
L’art. 9 del d.l. n. 14 del 2017 prende in considerazione, sanzionandola, la
condotta di chi – commettendo la violazione, alternativamente, degli artt. 688
(Ubriachezza) e 726 del codice penale (Atti contrari alla pubblica decenza e
turpiloquio), nonché dell’art. 29 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114
(Riforma della disciplina relativa al settore del commercio), quanto
all’abusivo esercizio del commercio su aree pubbliche, e dell’art. 7, comma
15-bis, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della
strada), quanto all’esercizio senza autorizzazione dell’attività di
parcheggiatore o guardiamacchine – impedisce l’accessibilità e la fruizione
delle infrastrutture ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto
pubblico locale. Oltre alla sanzione amministrativa pecuniaria, l’organo
accertatore può ordinare l’allontanamento dalle aree interne di tali
infrastrutture (art. 9, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017, nelle forme previste
dal successivo art. 10, comma 1) e in caso di reiterazione della condotta, così
sanzionata, il questore può adottare il maggiormente incisivo provvedimento di
divieto di accesso a una o più delle aree suddette (art. 10, comma 2, del d.l.
n. 14 del 2017).
Il comma 3 del richiamato art. 9 consente ai regolamenti di polizia urbana
di individuare aree ulteriori, la cui accessibilità e fruizione possano essere
parimenti presidiate dalla misura suddetta, articolata nella sanzione
amministrativa e nell’ordine di allontanamento, nonché, in progressione, nel
provvedimento recante il divieto di accesso. La disposizione indica la
tipologia di queste aree suscettibili dell’estensione della possibilità di
applicazione della misura: scuole, plessi scolastici e siti universitari,
musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e
luoghi della cultura o comunque interessati da consistenti flussi turistici,
ovvero adibite a verde pubblico.
L’art. 21, comma 1, lettera a), del d.l. n. 113 del 2018 ha esteso questo
elenco, aggiungendo i «presidi sanitari» e le «aree destinate allo svolgimento
di fiere, mercati, pubblici spettacoli».
Le Regioni ricorrenti censurano tale disposizione limitatamente alla parte
in cui nell’elenco suddetto è stata aggiunta la previsione dei presidi
sanitari, che ora i regolamenti di polizia urbana possono includere tra le aree
protette dalla misura in questione (il cosiddetto DASPO urbano).
I parametri che le Regioni ricorrenti assumono violati sono, da una parte,
l’art. 32 Cost., congiuntamente all’art. 3 Cost., perché l’estensione della
misura viola il diritto alla salute della persona che sia bisognosa di cure
mediche, precludendole o comunque ostacolando la necessaria assistenza
sanitaria, così assoggettandola a una misura sproporzionata e irragionevole;
dall’altra parte, l’art. 117, terzo comma, Cost., e il principio di leale
collaborazione, perché sarebbe lesa la competenza concorrente del legislatore
regionale in materia di tutela della salute, senza peraltro la previsione di
alcuna forma di leale collaborazione dello Stato con la Regione.
4.– Va innanzi tutto riconosciuta l’ammissibilità delle censure anche con
riferimento ai parametri estranei al riparto di competenze legislative.
Le Regioni ricorrenti evocano anche parametri non compresi nel Titolo V
della Parte seconda della Costituzione – l’art. 32 Cost. (tutte le Regioni)
nonché, in connessione con quest’ultimo, l’art. 3 Cost. (la sola Regione
Emilia-Romagna) – e, asserendo la ridondanza dei vizi denunciati sulle
attribuzioni regionali, lamentano l’irragionevole impedimento dell’accesso ai
presidi sanitari per le persone – quali quelle previste dalla disposizione
censurata – che si trovino ad essere bisognevoli di cure, con conseguente
compromissione del loro diritto alla salute.
Come questa Corte ha da ultimo ribadito nella coeva sentenza n. 194 del
2019, «le Regioni possono evocare parametri di legittimità costituzionale
diversi da quelli che sovrintendono al riparto di competenze tra Stato e
Regioni solo a due condizioni: quando la violazione denunciata sia
potenzialmente idonea a riverberarsi sulle attribuzioni regionali
costituzionalmente garantite […] e quando le Regioni ricorrenti abbiano
sufficientemente motivato in ordine alla ridondanza della lamentata
illegittimità costituzionale sul riparto delle competenze, indicando la
specifica competenza che risulterebbe offesa e argomentando adeguatamente in
proposito». In particolare, con riferimento allo stesso d.l. n. 113 del 2018,
questa Corte ha precisato che «la ridondanza del vizio sulle competenze
regionali e locali deve essere argomentata in relazione allo specifico
contenuto normativo del decreto e alla idoneità dello stesso ad obbligare la Regione a esercitare le
proprie attribuzioni in conformità ad una disciplina legislativa statale in
contrasto con norme costituzionali».
Nella specie, la disposizione censurata riguarda l’accesso e la permanenza
di determinate categorie di persone nei presidi sanitari, la cui organizzazione
rientra nella competenza concorrente del legislatore regionale in materia di
«tutela della salute» (art. 117, terzo comma, Cost.), e quindi essa, prevedendo
la possibilità dell’ordine di allontanamento e del divieto di accesso di
persone individuate in ragione di determinate condotte da esse tenute, avrebbe
un’incidenza su tale competenza in quanto asseritamente imporrebbe di escludere
le stesse dalle prestazioni sanitarie erogate in tali presidi.
Le Regioni ricorrenti hanno, inoltre, adeguatamente motivato in ordine alla
conseguente compressione degli spazi della loro autonomia costituzionalmente
garantita nella misura in cui sarebbe loro imposto, per effetto della
disposizione censurata, un criterio selettivo di accesso alle prestazioni
sanitarie, la cui regolamentazione rientra nella loro competenza legislativa
concorrente.
Ciò assicura la ridondanza della dedotta lesione di parametri (artt. 3 e 32
Cost.) che, pur non attenendo direttamente alla competenza legislativa
regionale, riguardano la tutela della salute e quindi sono ammissibili le
relative censure.
5.– Nel merito, le questioni non sono fondate in riferimento ai parametri evocati,
essendo possibile un’interpretazione adeguatrice, costituzionalmente orientata,
della disposizione impugnata; la quale, comunque, perseguendo la finalità di
evitare turbative dell’ordine pubblico nelle aree alle quali il regolamento di
polizia urbana può estendere l’applicabilità del DASPO urbano, concerne la
materia «ordine pubblico e sicurezza» e appartiene quindi alla competenza
legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, primo comma, lettera h, Cost.).
Il perseguimento degli interessi costituzionali alla sicurezza, all’ordine
pubblico e alla pacifica convivenza, infatti, è affidato dalla Costituzione in
via esclusiva allo Stato, mentre le Regioni possono cooperare a tal fine solo
mediante misure ricomprese nelle proprie attribuzioni (ex plurimis, sentenze n.
63 del 2016 e n. 35 del 2012).
Nella fattispecie in esame l’art. 10, comma 2, del d.l. n. 14 del 2017
prevede espressamente che le modalità applicative del divieto di accesso alle
aree protette devono essere compatibili con le esigenze di salute del
destinatario dell’atto. Una lettura di tale disposizione orientata alla
conformità ai parametri evocati (artt. 3 e 32 Cost.), comporta che tale
destinatario può comunque fruire dei servizi sanitari per ragioni di cura,
senza che gli sia precluso l’accesso, anche ove egli sia stato destinatario del
provvedimento del questore, che per il resto gli abbia fatto divieto di
accedere a tale area per ogni altra ragione.
La stessa interpretazione può adottarsi, pur in mancanza di un riferimento
testuale, stante la medesima ratio sottesa all’una e all’altra misura, per
delimitare l’ambito applicativo dell’ordine di allontanamento dal presidio
sanitario negli stessi termini previsti per il divieto di accesso.
In ogni caso, quindi, la persona che ricorre al presidio sanitario, perché
le siano erogate cure mediche (o prestazioni terapeutiche o di analisi e
diagnostica), non può essere allontanata, né le può essere precluso l’accesso
alla struttura, essendo il diritto alla salute prevalente sull’esigenza di decoro
dell’area e di contrasto, per ragioni di sicurezza pubblica, delle condotte –
tutte sanzionate solo in via amministrativa – elencate nel comma 2 dell’art. 9
del d.l. n. 14 del 2017.
La necessità di accedere alle prestazioni sanitarie, verificata dal personale
del presidio, non esclude, però, la sanzionabilità, in via amministrativa,
delle eventuali condotte che la persona, pur bisognosa di cure mediche, abbia
posto in essere in violazione delle disposizioni richiamate dal comma 2
dell’art. 9.
Così interpretata la disposizione censurata, non vi è alcun ostacolo alla
fruizione delle prestazioni sanitarie da parte di chi ne ha bisogno, il cui
diritto alla salute rimane pienamente tutelato, e non vi è, in concreto, alcuna
incidenza sull’organizzazione dei presidi sanitari, sicché non è violata la
competenza regionale concorrente in materia di tutela della salute, né il
principio di leale collaborazione.
6.– Va, poi, esaminata la questione di legittimità costituzionale avente ad
oggetto l’art. 21-bis, commi 1 e 2, del menzionato d.l. n. 113 del 2018,
promossa dalla sola Regione Emilia-Romagna, la quale, pur non contestando la
sua riferibilità alla competenza esclusiva dello Stato in materia di ordine
pubblico e sicurezza (art. 117, secondo comma, lettera h, Cost.), deduce la sua
incidenza sulla competenza residuale regionale in materia di commercio, che
richiederebbe un coinvolgimento delle Regioni nella predisposizione delle linee
guida per l’applicazione della norma in conformità del principio di leale collaborazione.
In realtà la censura investe il comma 2 dell’art. 21-bis del citato d.l. n.
113 del 2018 che prevede che sia sentita la Conferenza Stato-città
ed autonomie locali e non invece la Conferenza unificata, come dovrebbe essere
secondo la Regione
ricorrente.
7.– La questione è fondata.
L’art. 21-bis, comma 1, del medesimo d.l. prevede che «[a]i fini di una più
efficace prevenzione di atti illegali o di situazioni di pericolo per l’ordine
e la sicurezza pubblica all’interno e nelle immediate vicinanze degli esercizi
pubblici, individuati a norma dell’articolo 86 del testo unico delle leggi di
pubblica sicurezza, di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, con
appositi accordi sottoscritti tra il prefetto e le organizzazioni maggiormente
rappresentative degli esercenti possono essere individuate specifiche misure di
prevenzione, basate sulla cooperazione tra i gestori degli esercizi e le Forze
di polizia, cui i gestori medesimi si assoggettano, con le modalità previste
dagli stessi accordi».
Si tratta di una norma ascrivibile alla materia dell’ordine pubblico e
sicurezza, di competenza esclusiva statale (art. 117, primo comma, lettera h,
Cost.); ciò di cui non dubita la
Regione ricorrente. È in essa previsto non già un potere
autoritativo del prefetto, ma un modulo convenzionale di regolazione pattizia
di specifiche misure di prevenzione, non ignoto all’ordinamento giuridico che
già conosce i «patti per l’attuazione della sicurezza urbana» di cui all’art. 5
del d.l. n. 14 del 2017.
Mentre per questi ultimi, che intervengono tra prefetto e sindaco, le
associazioni di categoria comparativamente più rappresentative, interessate
alla misura, possono solo presentare indicazioni o osservazioni, invece gli
accordi contemplati dalla disposizione impugnata sono sottoscritti direttamente
dalle organizzazioni maggiormente rappresentative degli esercenti e dal
prefetto.
A questi accordi possono aderire individualmente i gestori degli esercizi
pubblici, autorizzati con licenza ai sensi dell’art. 86 del regio decreto 18
giugno 1931, n. 773 (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza),
assoggettandosi così volontariamente al «loro puntuale e integrale rispetto» e
quindi adottando le specifiche misure di prevenzione in essi convenute. Tale
comportamento collaborativo è valutato – in chiave sostanzialmente di esimente
o di circostanza attenuante – ai fini dell’adozione dei provvedimenti di
sospensione o di revoca della licenza ove si verifichino eventi rilevanti ai
sensi dell’art. 100 TULPS, quali tumulti o gravi disordini.
Gli accordi suddetti – prevede il comma 2 del citato art. 21-bis – sono
adottati localmente nel rispetto delle linee guida nazionali approvate, su
proposta del Ministro dell’interno, d’intesa con le organizzazioni maggiormente
rappresentative degli esercenti, sentita la Conferenza Stato-città
e autonomie locali.
Pur essendo l’oggetto di tali linee guida ascrivibile alla materia
dell’ordine pubblico e sicurezza, di competenza esclusiva statale, vi è
comunque una possibile ricaduta sulla disciplina del commercio, appartenente,
come materia, alla competenza legislativa residuale della Regione (art. 117,
quarto comma, Cost.), come già riconosciuto da questa Corte (ex plurimis,
sentenza n. 98 del 2017); disciplina alla quale è connessa anche la regolamentazione
dell’attività svolta negli esercizi pubblici suddetti. Ciò richiede un
coinvolgimento delle Regioni, tanto più necessario se si considera che l’art.
118, terzo comma, Cost., prescrive che la legge statale disciplina forme di
coordinamento fra Stato e Regioni proprio nella materia dell’«ordine pubblico e
sicurezza», di cui alla lettera h) del secondo comma dell’art. 117 Cost.
La mancanza di alcun coinvolgimento della Regione nella formazione di tali
linee guida costituisce quindi – come lamenta la ricorrente – lesione dei
parametri evocati e comporta, in questa parte, l’illegittimità costituzionale
dell’art. 21-bis, comma 2, del d. l. n. 113 del 2018.
La reductio ad legitimitatem della norma può avvenire – come richiesto dalla
Regione ricorrente – sostituendo, nel comma 2 del citato art. 21-bis, il
riferimento alla Conferenza Stato-città e autonomie locali con quello alla
Conferenza unificata Stato-regioni, città e autonomie locali (art. 8 del
decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, recante «Definizione ed ampliamento
delle attribuzioni della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le
regioni e le province autonome di Trento e Bolzano ed unificazione, per le
materie ed i compiti di interesse comune delle regioni, delle province e dei
comuni, con la
Conferenza Stato-città ed autonomie locali»), che, vedendo la
partecipazione delle Regioni, soddisfa l’esigenza di coinvolgimento delle
stesse, in conformità al principio di leale collaborazione.
7.1.‒ Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art.
21-bis, comma 2, del d.l. n. 113 del 2018, convertito, con modificazioni, nella
legge n. 132 del 2018, nella parte in cui prevede «sentita la Conferenza Stato-città
e autonomie locali» anziché «sentita la Conferenza unificata Stato-Regioni, città e
autonomie locali».
8.– Vanno, infine, esaminate le questioni di legittimità costituzionale
aventi ad oggetto l’art. 28, comma 1, del d.l. n. 113 del 2018, promosse dalla
sola Regione Umbria.
Tale disposizione ha inserito – nell’art. 143 del t.u. enti locali, che
regola lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali conseguente a
fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso – un nuovo comma
(7-bis), oggetto delle plurime censure della ricorrente; comma la cui
formulazione è la seguente: «Nell’ipotesi di cui al comma 7, qualora dalla
relazione del prefetto emergano, riguardo ad uno o più settori amministrativi,
situazioni sintomatiche di condotte illecite gravi e reiterate, tali da
determinare un’alterazione delle procedure e da compromettere il buon andamento
e l’imparzialità delle amministrazioni comunali o provinciali, nonché il
regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati, il prefetto, sulla base
delle risultanze dell’accesso, al fine di far cessare le situazioni riscontrate
e di ricondurre alla normalità l’attività amministrativa dell’ente, individua,
fatti salvi i profili di rilevanza penale, i prioritari interventi di
risanamento indicando gli atti da assumere, con la fissazione di un termine per
l’adozione degli stessi, e fornisce ogni utile supporto tecnico-amministrativo
a mezzo dei propri uffici. Decorso inutilmente il termine fissato, il prefetto
assegna all’ente un ulteriore termine, non superiore a 20 giorni, per la loro
adozione, scaduto il quale si sostituisce, mediante commissario ad acta,
all’amministrazione inadempiente. Ai relativi oneri gli enti locali provvedono
con le risorse disponibili a legislazione vigente sui propri bilanci».
9.– Giova premettere il contesto normativo di riferimento.
Nell’ambito dei controlli sugli organi disciplinati dal Capo II del Titolo
VI del citato decreto legislativo, dove è regolata la fattispecie generale
dello scioglimento e sospensione dei consigli comunali e provinciali (art.
141), oltre quella della rimozione o sospensione dei loro amministratori (art.
142), il successivo art. 143, in cui è inserita la disposizione censurata,
prevede un’ipotesi più specifica, centrata sui fenomeni di infiltrazione e di
condizionamento di tipo mafioso nella vita e nell’azione amministrativa di
Comuni e Province, e ne regola il procedimento. Si tratta di una «misura
governativa straordinaria di carattere sanzionatorio» che è «funzionale
all’esigenza di contrasto della criminalità organizzata mafiosa o similare»
(sentenza n. 182 del 2014).
L’iniziativa parte dal prefetto competente per territorio, che promuove
l’accesso presso l’ente interessato e contestualmente nomina una commissione
d’indagine, disponendo comunque ogni opportuno accertamento e acquisendo anche
informazioni dal procuratore della Repubblica competente, il quale le comunica
in deroga all’obbligo di segreto di cui all’art. 329 del codice di procedura
penale, sempre che a ciò non siano di impedimento particolari esigenze di
segretezza del procedimento penale.
Raccolti e valutati tutti gli elementi utili, a partire dalle conclusioni
della commissione d’indagine, il prefetto, sentito il comitato provinciale per
l’ordine e la sicurezza pubblica, stila una relazione finale inviandola al
Ministro dell’interno. Il quale, sulla base di tale relazione, può ritenere che
emergano «concreti, univoci e rilevanti» elementi indicativi del collegamento,
diretto o indiretto, con la criminalità organizzata di tipo mafioso. In tal
caso, può proporre lo scioglimento del consiglio comunale o provinciale
interessato all’indagine, se i collegamenti con la criminalità emergono a
carico di un amministratore locale (art. 77 t.u. enti locali); scioglimento che
è deliberato dal Consiglio dei ministri e disposto con decreto del Presidente
della Repubblica (art. 143, comma 4).
Se, invece, sono coinvolti, non già gli amministratori locali, bensì il
segretario (comunale o provinciale), il direttore generale, i dirigenti o
dipendenti a qualunque titolo dell’ente locale, il Ministro dell’interno, su
proposta del prefetto, adotta ogni provvedimento utile a far cessare il
pregiudizio in atto e ricondurre alla normalità la vita amministrativa
dell’ente, ivi inclusi provvedimenti, in senso lato cautelari, riguardanti i
dipendenti suddetti (quali la sospensione dall’impiego o la destinazione ad
altro ufficio o altra mansione) con obbligo di avvio del procedimento
disciplinare da parte dell’ente (art. 143, comma 5).
Laddove, al contrario, non emergano «concreti, univoci e rilevanti» elementi
indicativi del collegamento con la criminalità organizzata di tipo mafioso, il
Ministro dell’interno emana un decreto di conclusione del procedimento, in cui
dà conto degli esiti dell’attività di accertamento (art. 143, comma 7).
In tale evenienza – ossia quando dalla relazione del prefetto non risulta il
presupposto per l’attivazione del potere governativo di scioglimento dei
consigli comunali e provinciali, sia perché emerge che non vi sono in realtà
gli ipotizzati collegamenti con la criminalità organizzata, sia perché, pur
sussistendone elementi indiziari, questi non raggiungono quella soglia di
affidabilità probatoria tale da qualificarli «concreti, univoci e rilevanti» –
il procedimento si conclude con una sorta di provvedimento di non luogo a
procedere oltre, senza pertanto attivare la fase deliberativa finale mirata
allo scioglimento del consiglio comunale o provinciale, interessato
dall’iniziativa prefettizia: è adottato dal Ministro dell’interno un decreto
motivato di conclusione (e quindi chiusura) del procedimento.
10.– È qui che si inserisce la disposizione impugnata.
All’esito del procedimento previsto dai primi sette commi dell’art. 143, di
cui si è detto sopra, si innesta in sequenza, senza soluzione di continuità, la
nuova misura introdotta (comma 7-bis). L’esito negativo di tale procedimento
costituisce il primo presupposto di avvio di un distinto, ma collegato,
subprocedimento mirato all’attivazione di poteri sostitutivi del prefetto sugli
atti dell’ente locale. L’esordio del comma 7-bis rende manifesto tale
collegamento sequenziale prevedendo che questo subprocedimento può essere
attivato «[n]ell’ipotesi di cui al comma 7», ossia nell’ipotesi di
insussistenza del presupposto per lo scioglimento del consiglio comunale o
provinciale (comma 1) ovvero per l’adozione di provvedimenti, correttivi
dell’azione dell’ente e sanzionatori, in senso lato, dei dipendenti coinvolti
nell’infiltrazione di tipo mafioso (comma 5).
La finalità del legislatore traspare proprio da questa singolare
collocazione della disposizione censurata come appendice del procedimento
regolato dai primi sette commi dell’art. 143 t.u. enti locali.
Può accadere, in effetti, che il collegamento di amministratori (o
dipendenti) di enti locali con la criminalità di tipo mafioso, che altera
l’attività e la gestione dell’ente locale, pregiudicandola, si presenti senza
raggiungere proprio l’evidenza di «concreti, univoci e rilevanti elementi», ma
abbia comunque comportato una riscontrata mala gestio dell’ente.
Può ricordarsi che la formulazione originaria della norma che ha preceduto
l’art. 143 – ossia l’art. 15-bis della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove
disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre
gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale) – prevedeva la
possibilità di scioglimento di consigli comunali e provinciali, sempre in
ragione di collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la
criminalità organizzata, ma sulla base solo dell’emersione di «elementi» non
meglio qualificati. Questa Corte (sentenza n. 103 del 1993) ha ritenuto non
fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento a
plurimi parametri, indicando, in sostanza, un’interpretazione adeguatrice della
norma, nel senso che questa «rend[e] possibile lo straordinario potere di
scioglimento solo in presenza di situazioni di fatto evidenti e quindi
necessariamente suffragate da obiettive risultanze che rendano attendibili le
ipotesi di collusioni anche indirette degli organi elettivi con la criminalità
organizzata».
Successivamente il legislatore, nel riformulare la disposizione, attualmente
recata dall’art. 143 t.u. enti locali, tenendo conto della pronuncia di questa
Corte, ha prescritto che gli elementi indicativi dei collegamenti con la
criminalità organizzata di tipo mafioso siano «concreti, univoci e rilevanti».
Tale rigoroso presupposto è richiesto proprio perché risulta essere
particolarmente incisivo e drastico l’esercizio del potere governativo di
scioglimento del consiglio comunale o provinciale, espressione della volontà
popolare, presidiata da garanzia costituzionale.
Ma, tra la misura estrema dello scioglimento del consiglio comunale o
provinciale (del comma 1 dell’art. 143) e la dismissione dell’iniziativa di
controllo mediante il decreto di conclusione del procedimento (del successivo
comma 7), non era previsto, a valle di quest’ultimo, uno sbocco intermedio,
meno invasivo, con la previsione di una misura non incidente sugli organi, ma
riguardante solo l’attività dell’ente volta a promuovere, intanto, la
correzione della eventuale mala gestio di quest’ultimo, in ipotesi causata da
possibili infiltrazioni della criminalità organizzata.
Invero vi era – e vi è – in generale, l’art. 135 t.u. enti locali che, in
caso di tentativi di infiltrazioni di tipo mafioso nelle attività dell’ente
locale, prevede già un potere del prefetto, che però è solo di iniziativa,
perché può richiedere ai competenti organi statali e regionali gli interventi
di controllo e sostitutivi previsti dalla legge; interventi in ipotesi già
attivati proprio con il procedimento di cui al suddetto art. 143, ma sfociati
nel decreto di conclusione del procedimento di cui al comma 7 della medesima
disposizione.
Il legislatore, allora, si è fatto carico di questa ritenuta non piena
adeguatezza degli strumenti di contrasto della criminalità organizzata di tipo
mafioso e ha introdotto la disposizione censurata nel tentativo di costruire
uno strumento correttivo meno invasivo dello scioglimento dei consigli comunali
e provinciali, nonché più duttile degli ordinari interventi sostitutivi.
Ma ciò ha fatto disegnando un potere prefettizio sostitutivo extra ordinem,
ampiamente discrezionale, sulla base di presupposti generici e assai poco
definiti, e per di più non mirati specificamente al contrasto della criminalità
organizzata; ossia complessivamente in termini tali da non essere compatibili
con l’autonomia costituzionalmente garantita degli enti locali territoriali.
11.– Tutto ciò premesso, va preliminarmente ritenuta l’ammissibilità delle
censure che riguardano la dedotta violazione dell’autonomia costituzionalmente
garantita degli enti locali territoriali.
In generale, le Regioni sono legittimate a denunciare la legge statale anche
per la lesione delle attribuzioni degli enti locali, indipendentemente dalla
prospettazione della violazione della competenza legislativa regionale
(sentenze n. 220 del 2013, n. 311 del 2012 e n. 298 del 2009). Questa Corte,
infatti, ha più volte affermato che tale legittimazione sussiste in capo alle
Regioni, in quanto «la stretta connessione […] tra le attribuzioni regionali e
quelle delle autonomie locali consente di ritenere che la lesione delle
competenze locali sia potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione
delle competenze regionali» (sentenze n. 169 e n. 95 del 2007, n. 417 del 2005
e n. 196 del 2004).
Va pertanto ulteriormente ribadita la possibilità, per la Regione, di impugnare la
legge statale per dedotta violazione di attribuzioni costituzionalmente
garantite degli enti locali territoriali (sentenze n. 261 del 2017 e n. 29 del
2016).
Parimenti ammissibile – in disparte gli altri parametri non appartenenti al
titolo V della seconda parte della Costituzione che, come si dirà, risulteranno
assorbiti – è la censura di violazione dell’art. 97, secondo comma, Cost. sotto
il profilo del buon andamento della pubblica amministrazione, che include anche
il principio di legalità dell’azione amministrativa (sentenza n. 115 del 2011),
stante l’evidente incidenza sull’autonomia costituzionalmente garantita degli
enti locali territoriali. La disposizione censurata infatti, prevedendo che il
prefetto indica gli «atti da assumere» quali «prioritari interventi di
risanamento», afferisce proprio alla regolamentazione dell’azione
amministrativa dell’ente.
12.– Nel merito, le questioni sono fondate.
13.– Va considerato innanzi tutto che la disposizione censurata affianca, al
presupposto negativo della mancanza di «concreti, univoci e rilevanti» elementi
su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo
mafioso, un presupposto positivo: il riscontro di «situazioni sintomatiche di
condotte illecite gravi e reiterate, tali da determinare un’alterazione delle
procedure e da compromettere il buon andamento e l’imparzialità delle
amministrazioni comunali o provinciali, nonché il regolare funzionamento dei
servizi ad esse affidati».
Entrambi questi presupposti devono sussistere, senza però che il dato
testuale della disposizione evidenzi, in realtà, alcuna connessione logica o
causale tra loro, che non sia la loro mera sequenzialità temporale.
Situazioni analoghe, se emerse in un contesto diverso, quale in ipotesi
quello del controllo sugli atti dell’ente locale, secondo le disposizioni
previste dal Capo I del Titolo VI del t.u. enti locali, sarebbero fuori
dall’ambito applicativo della disposizione censurata e non consentirebbero
l’esercizio del potere sostitutivo prefettizio in esame. Ciò appare
inspiegabile, tanto più che è prevista, in termini generali, la fattispecie di
«gravi e persistenti violazioni di legge», anche al di fuori dell’ipotesi di
collegamenti con la criminalità organizzata di tipo mafioso, che già rende
attivabile una misura di contrasto, quale l’ordinario procedimento di
scioglimento e sospensione dei consigli comunali e provinciali di cui all’art.
141 t.u. enti locali, con specifiche garanzie.
A ciò si aggiunge l’assoluta genericità della definizione di tale
presupposto positivo del potere sostitutivo introdotto dalla disposizione censurata.
Essendo già previsto dal t.u. enti locali – oltre al potere sostitutivo del
Governo in determinate circostanze (art. 137) – anche un generale potere di
annullamento straordinario con cui il Governo si sostituisce agli organi degli
enti locali in caso di «atti […] viziati di illegittimità» (art. 138), le
«condotte illecite gravi e reiterate», di cui al censurato comma 7-bis
dell’art. 143, non possono consistere soltanto in meri atti illegittimi, per i
quali è già previsto un rimedio in chiave di potere sostitutivo. Occorre
qualcosa di più, che però la disposizione censurata non solo non specifica, ma
neppure espressamente richiede.
Il riferimento a «condotte illecite gravi e reiterate», se inteso come
riguardante fatti penalmente rilevanti di amministratori dell’ente locale o di
dipendenti dello stesso, sarebbe comunque ampiamente generico se comparato a
quello del primo comma dell’art. 143, il quale evoca chiaramente una
fattispecie penale ben specifica: il reato di associazione a delinquere di tipo
mafioso di cui all’art. 416-bis cod. pen.
Né tale presupposto di fatto risulta meglio definito dalle conseguenze che
da tali «condotte illecite gravi e reiterate» devono derivare. È richiesto
infatti che esse siano tali da comportare «un’alterazione delle procedure e da
compromettere il buon andamento e l’imparzialità delle amministrazioni comunali
o provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi»; formulazione
questa pur sempre generica e che non aggiunge nulla alla definizione del
presupposto, se sol si consideri che ogni condotta illecita, grave e reiterata,
non può che incidere negativamente ex se sul buon andamento dell’attività
dell’ente.
Alla genericità del presupposto per l’attivazione del potere sostitutivo del
prefetto si aggiunge la vaghezza del livello indiziario degli elementi emersi
nell’attività di accertamento di cui al comma 3 dell’art. 143. Mentre per
l’attivazione del potere di scioglimento del consiglio comunale o provinciale
occorre che tali elementi, su collegamenti diretti o indiretti con la
criminalità organizzata di tipo mafioso, raggiungano un livello di coerenza e
significatività tali da poterli qualificare come «concreti, univoci e
rilevanti» (art. 143, comma 1, t.u. enti locali), invece, quanto alle «condotte
illecite gravi e reiterate», di cui al comma 7-bis impugnato, è sufficiente che
risultino mere «situazioni sintomatiche».
Nel complesso, quindi, il presupposto positivo del potere sostitutivo
prefettizio è disegnato dalla disposizione censurata in termini vaghi,
ampiamente discrezionali e certamente assai meno definiti di quelli del potere
governativo di scioglimento dei consigli comunali e provinciali, pur essendo il
primo agganciato a quest’ultimo come occasionale appendice procedimentale.
14.– Inoltre, la disposizione censurata assegna allo stesso prefetto, che
ritenga sussistere una situazione di mala gestio dell’ente, non già un potere
d’impulso e sollecitatorio dell’adempimento di obblighi di legge (come, ad
esempio, nel procedimento che può condurre alla deliberazione dello stato di
dissesto dell’ente: art. 243-quater, comma 7, t.u. enti locali), bensì quello
ben più incisivo della diretta individuazione, ampiamente discrezionale, di
«prioritari interventi di risanamento» da cui sorge, per l’ente locale, l’obbligo
di conformazione. È quest’obbligo – non preesistente nella legge, ma sorto ad
hoc per determinazione del prefetto – che poi, ove non adempiuto dall’ente,
facoltizza l’esercizio del potere sostitutivo mediante commissario ad acta.
L’insufficiente determinazione del presupposto del potere sostitutivo
risulta così aggravata dalla latitudine del suo contenuto atipico e
indifferenziato, mentre – ha affermato questa Corte (sentenza n. 115 del 2011)
– ogni potere amministrativo deve essere «determinato nel contenuto e nelle
modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur elastica, copertura
legislativa dell’azione amministrativa».
Tutto ciò inficia irrimediabilmente la compatibilità di tale potere
sostitutivo extra ordinem, in primo luogo, con il principio di legalità
dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), nonché con l’autonomia
costituzionalmente garantita che la Repubblica promuove e riconosce agli enti locali
territoriali (art. 5 Cost.); autonomia anche recentemente richiamata da questa
Corte (sentenze n. 33 e n. 29 del 2019).
L’enunciazione dell’art. 114, secondo comma, Cost., secondo cui Comuni,
Province e Città metropolitane sono enti autonomi con «propri statuti, poteri e
funzioni», si salda con il riconoscimento della titolarità di «funzioni
amministrative proprie» (art. 118, secondo comma, Cost.) e della potestà
regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento
delle funzioni loro attribuite (art. 117, sesto comma, Cost.), nonché con
l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa (art. 119, primo comma, Cost.).
Tale complessiva garanzia costituzionale di autonomia risulta accentuata dopo
la riforma costituzionale del 2001 – ispirata a un «largo decentramento di
funzioni» (sentenza n. 44 del 2014) – la quale, tra l’altro, più non prevede il
controllo preventivo di legittimità, e talora di merito, sugli atti degli enti
locali, essendo stato abrogato l’art. 130 Cost. dall’art. 9, comma 2, della
legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte
seconda della Costituzione).
15.– Da ultimo, ma non con minor rilievo, c’è da considerare che il potere
sostitutivo introdotto dalla disposizione censurata – essendo previsto con
un’incidenza nell’attività dell’ente locale tendenzialmente molto ampia, stante
che l’individuazione da parte del prefetto di «prioritari interventi di
risanamento» non è limitata ad attività vincolata per legge e non discrezionale
– avrebbe dovuto essere rispettoso del canone dell’art. 120, secondo comma,
Cost., secondo cui i poteri sostitutivi devono essere esercitati secondo il
principio di sussidiarietà e di leale collaborazione. Questa Corte, con
riferimento a tale parametro, ha affermato che «[l]a previsione del potere
sostitutivo fa […] sistema con le norme costituzionali di allocazione delle
competenze» (sentenza n. 236 del 2004) e quindi occorre che tale potere sia
rispettoso delle autonomie locali. È lo stesso art. 120, secondo comma, Cost. a
prevedere l’intervento sostitutivo del Governo, implicante l’assunzione di
responsabilità politica del potere esecutivo, quando vi è, in particolare,
un’esigenza di «tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica»
dell’ordinamento. Ha affermato questa Corte (sentenza n. 43 del 2004) che «[l]a
Costituzione ha voluto […] che, a prescindere dal riparto delle competenze
amministrative, come attuato dalle leggi statali e regionali nelle diverse
materie, fosse sempre possibile un intervento sostitutivo del Governo per
garantire tali interessi essenziali». Si è ritenuto, ad esempio, che la
protratta inerzia degli enti locali «giustifica la previsione di un potere
sostitutivo, che consenta un intervento di organi centrali a salvaguardia di
interessi generali ed unitari» (sentenza n. 44 del 2014), mentre è il prefetto
che rileva la mancata attuazione da parte dell’ente locale di quanto prescritto
dalla legge; potere «attribuito al Prefetto che lo esercita senza margini di
discrezionalità» (ancora, la sentenza n. 44 del 2014).
Lo stesso t.u. enti locali, del resto, assegna al Governo il potere
sostitutivo in plurime fattispecie di maggiore incidenza nell’autonomia
dell’ente locale, quali quelle di sua inattività qualificata (art. 138), di
atti viziati da illegittimità (art. 139), di malfunzionamento di organi e
servizi o di gravi e persistenti violazioni di legge (art. 141), e finanche per
gravi motivi di ordine pubblico (art. 142). Mentre il prefetto può sostituirsi
in fattispecie più limitate e circoscritte, come in caso di inosservanza degli
obblighi di convocazione del consiglio (art. 39) o di inerzia del sindaco
nell’esercizio di funzioni statali (art. 54) ovvero, in via solo provvisoria,
per motivi di grave e urgente necessità nei procedimenti di cui agli artt. 141,
142 e 143.
Insomma, quanto più il potere sostitutivo, incidente nell’autonomia
dell’ente locale territoriale, presenta una connotazione di discrezionalità nei
presupposti e nel contenuto, tanto più il livello di assunzione di
responsabilità si eleva da quello amministrativo (provvedimento del prefetto) a
quello politico (deliberazione del Governo).
La garanzia costituzionale di autonomia degli enti locali territoriali
(Comuni, Province e Città metropolitane) richiede non solo che i presupposti di
tali poteri sostitutivi, incidenti nell’attività dell’ente, siano sufficientemente
determinati dalla legge, ma anche che l’eventuale sostituzione a organi
dell’ente rispetti il canone dell’art. 120, secondo comma, Cost., integrato
dalla norma di attuazione di cui all’art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131
(Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), sull’assunzione a livello governativo
della responsabilità per l’esercizio di tali poteri.
Invece, la disposizione censurata lascia l’esercizio di un potere sostitutivo,
che si è visto essere ampiamente discrezionale, al livello meramente
amministrativo dei poteri del prefetto, senza alcun coinvolgimento del Governo
(come nell’ipotesi del comma 1 dell’art. 143) e neppure del Ministro
dell’interno (come nell’ipotesi del comma 5 della stessa disposizione).
Risulta, quindi, violato anche tale parametro, parimenti evocato dalla
Regione ricorrente.
16.– Le considerazioni finora esposte convergono nel far ritenere la norma
censurata essere viziata di illegittimità costituzionale per violazione degli
artt. 5, 97, secondo comma, 114, 118, secondo comma, e 120, secondo comma,
Cost.
Rimane ovviamente nella discrezionalità del legislatore riformulare la norma
in termini compatibili con il principio di legalità dell’azione amministrativa
e con la garanzia di autonomia costituzionalmente garantita di cui godono gli
enti locali territoriali.
In conclusione – assorbiti gli altri parametri indicati dalla Regione
ricorrente – va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, comma
1, del d.l. n. 113 del 2018, convertito, con modificazioni, nella legge 1°
dicembre 2018, n. 132.
per questi motivi
LA CORTE
COSTITUZIONALE
riservata a separata pronuncia la decisione delle ulteriori questioni di
legittimità costituzionale promosse con i ricorsi indicati in epigrafe;
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 21-bis, comma 2, del
decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di
protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per
la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il
funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione
dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito,
con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132, nella parte in cui
prevede «sentita la
Conferenza Stato-città ed autonomie locali», anziché «sentita
la Conferenza
unificata Stato-regioni, città e autonomie locali»;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, comma 1, del d.l.
n. 113 del 2018, convertito, con modificazioni, nella legge n. 132 del 2018;
3) dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 1, lettera a), del d.l. n. 113
del 2018, convertito, con modificazioni, nella legge n. 132 del 2018, promosse,
con i ricorsi indicati in epigrafe, rispettivamente dalla Regione
Emilia-Romagna in riferimento agli artt. 3 e 32 della Costituzione, dalla
Regione Toscana in riferimento agli artt. 32 e 117, terzo comma, Cost., e dalla
Regione Calabria in riferimento agli artt. 32 e 117, terzo comma, Cost., nonché
al principio di leale collaborazione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 20 giugno 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Giovanni AMOROSO, Redattore
Filomena PERRONE, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 24 luglio 2019.
Il Cancelliere