Caratterizzazioni
dell’organismo di diritto pubblico (la Fondazione Arena
di Verona)
Cons. di Stato, VI, 10 dicembre 2015, n. 5617
L’elemento fondante dell’organismo di
diritto pubblico è la rilevanza degli interessi generali perseguiti, in
rapporto ai quali non può venire meno una funzione amministrativa di controllo,
anche qualora la gestione sia produttiva di utili, posto che è propria
dell’Amministrazione la cura concreta di interessi della collettività, che lo
Stato ritiene corrispondenti a servizi da rendere ai cittadini e che pertanto,
ove affidati a soggetti esterni all’Apparato amministrativo vero e proprio,
debbono comunque rispondere a corretti parametri gestionali, anche sul piano
dell’imparzialità e del buon andamento
OMISSIS
DIRITTO
Deve quindi essere prioritariamente affrontata, nel merito, la
questione di legittimità dell’avvenuto inserimento, per l’anno 2012, della Fondazione
Arena di Verona nell’elenco delle amministrazioni pubbliche.
Tale inserimento è contestato (censure nn. III.1, III.2 e
III.3), per violazione o falsa applicazione dell’art. 1 della legge n. 196 del
2009, nonché del regolamento UE n. 2223/1996 – SEC 95 e per eccesso di potere
sotto vari profili: profili diversi, ma strettamente correlati e, quindi, tali
da meritare trattazione congiunta.
Per affrontare le problematiche
sollevate, il Collegio ritiene necessarie alcune considerazioni, per quanto
riguarda la natura giuridica dell’ente interessato, il rilievo di tale
circostanza ai fini della normativa di riferimento e la corretta lettura delle
norme regolamentari, in base alle quali debbono essere individuate le
amministrazioni pubbliche, da inserire nel conto consolidato dello Stato..
Come già ricordato, in primo luogo, la Fondazione Arena
di Verona ha personalità giuridica di ordine privatistico, a norma del
decreto legislativo n. 367 del 1996; nondimeno, la stessa ha connotati tali da
consentire di qualificare l’ente come organismo di diritto pubblico, nei
termini recepiti dall’art. 3, comma 26, del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (Codice
dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, in attuazione
delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE).
I parametri di individuazione degli
organismi di diritto pubblico enunciati nella norma citata sono:
a) finalizzazione istituzionale al
soddisfacimento di specifiche “esigenze di interesse generale, aventi
carattere non industriale e commerciale”;
b) possesso di personalità giuridica
(anche di natura privata);
c) attività finanziata in percentuale
maggioritaria “dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri
organismi di diritto pubblico”, o – in alternativa – “la cui gestione
sia soggetta al controllo di questi ultimi, oppure il cui organo
d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri, dei
quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali,
o da altri organismi di diritto pubblico” (sul carattere cumulativo di
detti requisiti, salvo il carattere alternativo di quelli di cui al punto c,
cfr. Cass. SS.UU. 7.4.2010, n. 8225).
La rispondenza della fondazione
appellante (della quale sono soci fondatori lo Stato, la Regione Veneto e il
Comune di Verona) ai parametri sopra indicati risulta innegabile in base a dati
non controversi, quali il possesso di personalità giuridica – la cui natura
privata non esclude il perseguimento di rilevanti interessi pubblici, connessi
alla diffusione dell’arte musicale e quindi alla promozione della cultura,
quale valore riconducibile all’art. 9, primo comma, della Costituzione – con ulteriore
(e di primario rilievo sotto il profilo in esame) percezione di contributi
pubblici , nonchè assoggettamento a controlli di assoluta pregnanza.
Questi controlli si concretizzano non
solo, come sottolineato dalla stessa appellante, nella vigilanza, ex art. 19
d.lgs. n. 367 del 1996, del Ministero per i beni e le attività culturali (nei
cui confronti sussiste obbligo di rendiconto) e nella possibilità di
commissariamento, ex art. 21 del medesimo d.lgs. n. 367, ma anche
nell’affidamento della presidenza al sindaco della città che è sede dell’ente
(art. 11 d.lgs. cit.), nell’obbligatoria presenza, nel consiglio di
amministrazione, di due rappresentanti dell’autorità di Governo competente
(art. 12), nella nomina da parte del Ministro [allora] del tesoro – di concerto
con la predetta autorità di Governo – del collegio dei revisori, composto da
tre membri effettivi ed un supplente, la maggioranza dei quali designati dalle
medesime autorità di Governo (art. 14) e nel controllo della gestione
finanziaria da parte della Corte dei Conti (art. 15); in caso di insolvenza,
infine, si prevede non il fallimento, ma la liquidazione coatta amministrativa
degli enti così disciplinati (art. 20).
In tale contesto, giuridico e
finanziario, non può essere posta in dubbio la sussistenza di un controllo
pubblico, del tutto rispondente a quanto previsto dal citato art. 3, comma 26,
del. d.lgs. n. 163 del 2006, a nulla rilevando al riguardo le argomentazioni
dell’appellante, che sottolinea l’autonomia statutariamente prevista, a norma
dell’art. 10 del più volte citato d.lgs. n. 367 del 1996, della fondazione di
cui trattasi, per quanto riguarda l’attività di produzione artistica e le
attività connesse, o strumentali.
Detta autonomia, infatti, attiene alla
fase attiva dell’esercizio delle funzioni affidate alla Fondazione, ma non
esclude il controllo, quale relazione interorganica nell’ambito della quale
l’operato degli organi attivi può essere sindacato per valutare la relativa
rispondenza alla legge, o alla convenienza amministrativa, o a regole tecniche
di varia natura, potendo il controllo essere finalizzato ad assicurare non solo
la legittimità, ma anche l’economicità o l’efficacia della gestione operativa.
A tale nozione di controllo –
risultante dal testo normativo di riferimento (art. 3, comma 26, d.lgs. n. 163
del 2006) – si è attenuta la prevalente giurisprudenza, nel definire “organismi
di diritto pubblico” figure soggettive anche molto diverse fra loro, come la Fondazione Ca’
d’Industria (Cons. Stato, VI, 3 giugno 2014, n. 2843); la Fondazione La
Biennale di Venezia (Cons. Stato, VI, 8 maggio 2014, n. 2362), le Autorità
Portuali (Cons. Stato, VI, 15 dicembre 2014, n. 6146), gli Aeroporti di Milano
Linate e Malpensa (Cons. Stato, VI, 8 ottobre 2013, n. 4934) e gli Aeroporti di
Roma (Cons. Stato, VI, 22 aprile 2014, n. 2026): questi ultimi solo attraverso
la specificazione dei parametri identificativi degli organismi in questione,
parametri che possono anche prescindere, come ampiamente dedotto, dal
finanziamento pubblico ed associarsi a criteri imprenditoriali di gestione
(cfr. in tal senso Cons. Stato,. VI, n. 6014 del 2012 cit.; II, 25 luglio 2008,
parere n. 2361 e IV, 8 maggio 2013, ordinanza n. 2492, emessa ai sensi
dell’art. 267 TFUE; sulla connotazione pubblicistica delle Fondazioni
lirico-sinfoniche cfr. anche Corte cost., 21 aprile 2011, n. 153).
Appare evidente, dunque, come
l’elemento fondante dell’organismo di diritto pubblico sia appunto
quello, riconducibile alla rilevanza degli interessi generali perseguiti, in rapporto
ai quali non può venire meno una funzione amministrativa di controllo, anche
qualora la gestione fosse produttiva di utili (come dimostra il carattere
espressamente disgiunto dei requisiti, di cui al precedente punto “c”):
è propria dell’Amministrazione, infatti, la cura concreta di interessi della
collettività, che lo Stato ritiene corrispondenti a servizi da rendere ai
cittadini e che pertanto, ove affidati a soggetti esterni all’Apparato
amministrativo vero e proprio, debbono comunque rispondere a corretti parametri
gestionali, anche sul piano dell’imparzialità e del buon andamento .
Altrettanto evidente invece – ed
essenziale per le finalità di contenimento della spesa pubblica, cui
corrisponde la ratio della normativa in esame (che non può tollerare,
essendo posta in relazione al sistema economico nazionale, eccezioni
formalistiche) – è la rilevanza prioritaria del fattore di finanziamento
pubblico per le amministrazioni, da inserire nell’elenco di cui al più volte
citato art. 1 della legge n. 196 del 2009, in conformità ai criteri enunciati
nel c.d. SEC 95.
Deve pertanto ammettersi che la mera
qualificazione della fondazione in questione come organismo di diritto
pubblico non sia sufficiente, perché la stessa risulti inserita nell’elenco
delle “amministrazioni”, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1 della
legge n. 196 del 2009.
Detta qualificazione, tuttavia,
consente di aderire alla prospettazione dell’ISTAT, secondo cui la fondazione
di cui trattasi deve essere ricondotta alla prima tipologia di unità
istituzionali, comprese nel settore S13 del SEC 95 (par. 2.68), ovvero a quella
degli “organismi pubblici che gestiscono e finanziano un insieme di
attività, principalmente consistenti nel fornire alla collettività beni e
servizi non destinabili alla vendita” (e non fra le “Istituzioni senza
scopo di lucro dotate di personalità giuridica”, per le quale si richiede –
in forma cumulativa e non alternativa – che sussistano controlli e
finanziamenti, provenienti “in prevalenza” da amministrazioni pubbliche).
L’unico requisito, che appare quindi
suscettibile di accertamento, per valutare il legittimo inserimento della Fondazione
Arena di Verona fra le “amministrazioni pubbliche”, ai fini che qui
rilevano, è dunque quello della produzione e offerta al pubblico, da parte
della stessa, di beni e servizi “non destinabili alla vendita”.
Quest’ultima espressione, come chiarito dal regolamento SEC 95
e dal relativo Manuale esplicativo (rispettivamente, nei paragrafi 3.33
e 5.2) implica una ricognizione del carattere economicamente significativo, o
meno, del prezzo di vendita, dovendo ritenersi “non destinabile alla vendita”
un bene o un servizio, il cui prezzo influisce in maniera scarsa sia sulla
domanda che sull’offerta: convenzionalmente, è stato scelto al riguardo – come
riportato dal Manuale – il “criterio del 50%”, in base al quale
deve essere accertato se i ricavi realizzati, in condizioni di mercato, coprano
o meno una quota superiore alla metà dei costi di produzione (fermo restando
che, per la rilevanza dell’interesse pubblico sotteso, l’attività viene
comunque espletata, anche ove non sfruttabile economicamente in modo
produttivo).
Nell’impugnativa vengono prodotti al riguardo conteggi, dai
quali dovrebbe desumersi che “il rapporto tra ricavi e costi di produzione
supera ampiamente il valore del 50%”. Quanto sopra, tuttavia, sulla base di
criteri valutativi, che appaiono efficacemente contestati dall’ISTAT, per
quanto riguarda l’inserimento, tra i ricavi, di quote di finanziamento
pubblico, nonché per lo scorporo di parte dei costi, con particolare riguardo a
quelli per il personale, peraltro senza tenere conto di peculiari eventi, che
il medesimo Istituto rappresenta senza puntuale smentita (apporti patrimoniali
straordinari intervenuti ed altri contributi in conto esercizio, dopo un
periodo peraltro di gestione commissariale).
Appare rilevante, inoltre, che il SEC 95 (par. 3.33 b) imponga
non un mero riscontro contabile, ma un vero e proprio giudizio prognostico,
formulato nei seguenti termini: “Il criterio del 50% va applicato in
un’ottica pluriennale, ossia solo se vale per diversi anni, oppure se vale per
l’anno in corso e si attende che varrà per il prossimo futuro. Le fluttuazioni
secondarie del volume delle vendite da un anno all’altro non richiedono una
riclassificazione delle Unità Istituzionali….”: quanto sopra, all’evidente
fine di riconoscere o meno all’ente – con relativa stabilità – carattere
imprenditoriale in un sistema di mercato, ovvero più marcato perseguimento di
interessi pubblici non economici, con mezzi prevalentemente a carico dello
Stato.
In tale contesto fondatamente, ad avviso del Collegio,
l’Istituto nazionale di statistica sottolinea la sussistenza di margini di
discrezionalità tecnica richiedenti il “possesso di conoscenze specialistiche”,
contestabili non con mere argomentazioni difensive o ricostruzioni soggettive
dei fatti, ma solo per erronea rappresentazione della realtà, palese
incongruenza o inosservanza di regole tecnico-scientifiche di inequivoca
lettura (come riconosciuto da giurisprudenza ormai consolidata, per il
sindacato giurisdizionale di legittimità su atti del tipo indicato).
Data la complessità dei parametri di riscontro, appare pertanto
rafforzata la tesi della natura provvedimentale – e non di mero strumento
contabile, come talvolta ritenuto dalla giurisprudenza (senza tuttavia che
sussista, al riguardo, un orientamento consolidato) – dell’elenco di cui
trattasi, da formare in base ad un apprezzamento sistematico, nonché ad una
proiezione anche futura dei dati stessi e da cui discende una qualificazione,
produttiva per gli enti interessati di effetti giuridici. Nel caso di specie,
l’ISTAT ha ragionevolmente rappresentato il carattere tendenzialmente non
remunerativo dell’attività tipica della Fondazione, nei termini richiesti dalla
normativa vigente, tanto da poter esprimere – su scala pluriennale – un
giudizio di sostanziale sottrazione della stessa a criteri imprenditoriali di
mercato, nonostante l’indubbio valore, sul piano culturale, del servizio
offerto alla collettività. Alla ragionevole impostazione di cui sopra – che
sembra escludere vizi di accertamento e di istruttoria (contrariamente a quanto
sostenuto, in particolare, nel terzo motivo di gravame, al punto n. 3) non si
contrappongono da parte dell’appellante controdeduzioni tecniche idonee, nel
senso in precedenza chiarito, a smentire le risultanze contabili illustrate
dall’ISTAT.
In base alle considerazioni svolte, nessuna delle censure
prospettate nell’impugnativa appare quindi meritevole di accoglimento: oltre
alle argomentazioni, già puntualmente disattese nella presente decisione,
l’appellante espone infatti tesi difensive che attengono a scelte di indirizzo
politico, non sindacabili in tema di finanziamento pubblico e di revisione
della spesa (c.d. “spending review”). Quest’ultima, come è noto, risulta
finalizzata a migliorare efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa
nell’impiego di risorse della collettività, attraverso una sistematica analisi
e valutazione di obiettivi e risultati, tenuto conto delle strutture
organizzative e delle procedure decisionali esistenti. L’appellante contesta il
contenuto delle scelte, operate con d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito con
modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 135 (Disposizioni urgenti per la
revisione della spesa pubblica, con invarianza dei servizi ai cittadini, nonché
misure di rafforzamento patrimoniale del settore bancario), con riferimento
ad una serie di misure restrittive, inerenti anche al trattamento del
personale, che sarebbero di impedimento per le attività istituzionali di
promozione della cultura e dell’educazione musicale, in aggiunta alla disposta
riduzione del finanziamento pubblico (che dovrebbe di per sé soddisfare le
esigenze di contenimento della spesa pubblica, poste a base della disciplina
contestata).
Tali argomentazioni appaiono inammissibili, in quanto volte,
appunto, a contestare nel merito scelte di politica economica dello Stato,
imposte peraltro a livello europeo nell’intento di ridurre il disavanzo dei
Paesi membri dell’Unione Europea.
Tutte le amministrazioni pubbliche inserite nell’apposito
elenco, predisposto in base alle regole in precedenza esaminate, sono chiamate
ad operare peculiari forme di restrizioni nelle spese, quand’anche fonte di
difficoltà sul piano gestionale: non può dunque riconoscersi alla fondazione
appellante una posizione speciale, tale da esonerarla da restrizioni che
investono ogni pur essenziale servizio pubblico, dalla scuola alla sanità, fino
ad ogni ulteriore settore considerato dalla normativa di riferimento.
Diverse e non fungibili, d’altra parte, sono le finalità del
finanziamento pubblico, rispetto a quelle della cosiddetta spending review:
le prime, indirizzate a sostenere strutture organizzative non autosufficienti
sul piano finanziario, per la rilevanza degli interessi pubblici perseguiti
(con “tagli” riconducibili, in via esclusiva, all’attuale momento di
crisi economica); le seconde, come ricordato, indirizzate a razionalizzare e
contenere le spese in base ad un disegno preordinato, con la minima possibile
penalizzazione per l’efficienza dei servizi e con modalità che – in quanto
disposte in via legislativa – non risultano censurabili, in sede di giudizio di
legittimità, sotto i profili propri dell’eccesso di potere.
Resta quindi da valutare soltanto l’eccezione di
incostituzionalità delle norme di riferimento (art. 1 della legge n. 196 del
2009, articoli 1, comma 7, 3, commi 1, 10 e 11-bis, 5, commi 2, 7 e 8 e
8 comma 3 della citata legge n. 135 del 2012), in rapporto agli articoli 3, 9,
33 e 97 della Costituzione.
Il Collegio ritiene che tale eccezione sia manifestamente
infondata.
L’appellante, infatti, riconduce i dubbi di costituzionalità
alle caratteristiche peculiari della fondazione e all’esigenza sia di non
trattare in modo uguale situazioni diverse, sia di non “incidere con
ripercussioni irreparabili sul funzionamento di enti di produzione che ricevono
contributi pubblici”, tenuto conto dell’importanza degli interessi
perseguiti, che imporrebbero apposito bilanciamento con le ragioni
esclusivamente finanziarie, ispiratrici delle norme in discussione.
Appare evidente, tuttavia, che l’elemento unificante tra i
soggetti, di cui è previsto l’inserimento negli elenchi ISTAT, è riconducibile
ai fondi pubblici di cui gli stessi sono destinatari e che ne giustificano
l’inclusione nel conto consolidato dello Stato; le misure finanziarie,
successivamente assunte, possono inoltre presentare aspetti controvertibili, in
rapporto ai quali, tuttavia, le scelte del legislatore possono muoversi con
ampi margini di discrezionalità, peraltro nell’ambito di obiettivi imposti a
livello comunitario, in presenza di situazioni di deficit eccessivo.
Apodittico e indimostrato, infine, appare il rappresentato
pregiudizio irreparabile per la cultura e il buon andamento
dell’Amministrazione, in rapporto ad una serie di specifiche misure che – come
quella del divieto di monetizzare le ferie non godute – possono presentare
aspetti opinabili, ma non appaiono tali da compromettere il perseguimento delle
finalità istituzionali dell’ente, né esulano dalle finalità di contenimento
generale della spesa, stimato necessario per fronteggiare la situazione
economica in atto, così come non evidenziano percepibili alterazioni dei
principi di proporzionalità e ragionevolezza, nell’ottica di austerità imposta
dal contingente andamento dei conti pubblici.
Per le ragioni esposte, in conclusione, il Collegio ritiene che
l’appello debba essere respinto; le spese giudiziali, da porre a carico della
parte soccombente, vengono liquidate nella misura di €. 3.000,00 (euro
tremila/00).
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta),
definitivamente pronunciando, respinge l’appello indicato in epigrafe; condanna
la Fondazione
appellante al pagamento delle spese giudiziali, nella misura di €. 3.000,00
(euro tremila/00).
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità
amministrativa.