mercoledì 30 dicembre 2015





Immigrazione e autocertificazione: ulteriore rinvio (al 31 dicembre 2016)

Decreto Legge 30 dicembre 2015, n. 210 (G.U. 30 dicembre 2015, n. 302), Proroga di termini previsti da disposizioni legislative

Art. 4
Proroga  di  termini  in  materie   di   competenza   dei   Ministeri dell’interno e della difesa

OMISSIS

3.         All’articolo 17, comma 4-quater, del  decreto-legge  9  febbraio 2012, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2014, n. 35, le parole: “31 dicembre 2015” sono sostituite dalle  seguenti:
“31 dicembre 2016”.

OMISSIS

lunedì 28 dicembre 2015





Circolare dell’I.N.P.S. 28 dicembre 2015, n. 207, Estensione della compatibilità e cumulabilità dell’indennità di mobilità con la fruizione delle indennità per cariche pubbliche non elettive di organi esecutivi degli enti locali (comuni e province) e delle Regioni.



SOMMARIO:
Premessa
  1. Quadro normativo
  2. Compatibilità e cumulabilità delle cariche pubbliche non elettive negli organi esecutivi degli enti locali con l’indennità di mobilità 
  3. Istruzioni operative

Premessa

I gettoni di presenza, percepiti dai lavoratori per l’espletamento di cariche pubbliche elettive, nonché sindacali, sono compatibili e cumulabili con l’indennità di mobilità, come affermato dall’Istituto nel messaggio n. 16920 del 28 gennaio 1999, a seguito del parere del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Detta cumulabilità si attua nei limiti necessari a garantire la percezione di un reddito complessivo pari alla retribuzione percepita al momento del collocamento in mobilità, secondo il meccanismo previsto dall’art. 9, comma 9 della legge n. 223/1991, il cui funzionamento è dettagliato nella circolare INPS n. 229 del 21.11.1996.

L’Istituto, fino ad oggi, si è adeguato a tale orientamento adottando concrete misure applicative unicamente in relazione alle cariche pubbliche elettive.

Alla luce della successiva evoluzione normativa e del conseguente adeguamento degli Statuti di regioni, province e comuni, ed in virtù dei casi recentemente posti all’attenzione dell’Istituto, si rende necessaria l’estensione di tale disciplina anche alle cariche pubbliche non elettive negli organi esecutivi dei citati Enti.

1.Quadro normativo

In base alla normativa in vigore, infatti, è possibile il conferimento di funzioni pubbliche a soggetti che non sono stati eletti (c.d. assessori esterni) negli organi esecutivi degli enti locali (comuni e province) e delle regioni.

Nel dettaglio:
  1. per le regioni, l’ultimo comma dell’art. 122 Cost., come novellato dalla legge costituzionale n. 1/1999, stabilisce che il Presidente della Giunta regionale, salvo che lo statuto regionale disponga diversamente, è eletto a suffragio universale e che, una volta eletto, nomina e revoca i componenti della Giunta; conseguentemente, gli statuti regionali, nel dare attuazione all’indicata disposizione costituzionale, hanno previsto la possibilità di nominare assessori regionali “esterni”, individuati (diversamente che nel passato) al di fuori del novero dei consiglieri regionali;
  2. per le province e per i comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, l’art. 47 del decreto legislativo n. 267/2000, cosiddetto T.U.E.L., al comma 3, stabilisce che “ […] gli assessori sono nominati dal sindaco o dal presidente della provincia, anche al di fuori dei componenti del consiglio, fra i cittadini in possesso dei requisiti di candidabilità, eleggibilità e compatibilità alla carica di consigliere”;
  3. per i comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti, infine, l’art. 47 del T.U.E.L. dispone, al comma 4, che “[…] lo statuto può prevedere la nomina ad assessore di cittadini non facenti parte del consiglio ed in possesso dei requisiti dei requisiti di candidabilità, eleggibilità e compatibilità alla carica di consigliere”.
Inoltre, l’art. 82 del D.Lgs. n. 267 del 2000 prevede che sia corrisposta una indennità di funzione ai componenti degli organi esecutivi di comuni e province e l’art. 50 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (T.U.I.R.) stabilisce che la richiamata indennità di funzione è assimilata ai redditi da lavoro dipendente.


2.Compatibilità e cumulabilità delle cariche pubbliche non elettive negli organi esecutivi degli enti locali con l’indennità di mobilità.

Premesso quanto sopra, alla luce del mutato contesto legislativo, nonché al fine di una interpretazione del quadro normativo che garantisca la parità di trattamento e il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione, anche l’indennità spettante per l’espletamento delle  cariche politiche non elettive degli organi esecutivi degli enti locali (comuni e province) e delle regioni deve ritenersi compatibile e cumulabile con la percezione dell’indennità di mobilità, come definito nel messaggio INPS n. 16920 del 1999.
Tale possibilità di cumulo dell’indennità di mobilità opera sempre nei limiti e con le modalità del citato art. 9, comma 9 della legge n. 223 del 1991, le cui modalità applicative sono state fornite con la circolare INPS n. 229 del 1996, ovvero nei limiti necessari per garantire la percezione di un reddito complessivo pari alla retribuzione percepita al momento del collocamento in mobilità.
Si ricorda, inoltre, che rimane fermo il diritto all’accredito della contribuzione figurativa conseguente all’indennità di mobilità.
Le strutture territoriali avranno cura di garantire la corretta applicazione di quanto statuito nella presente circolare, applicandola anche alle situazioni di contenzioso amministrativo e giudiziario eventualmente pendenti.

3.Istruzioni operative

Una volta stabilita la compatibilità, in base ai criteri del precedente paragrafo 2, si rende necessario determinare la cumulabilità delle indennità di funzione dei destinatari della presente circolare con il pagamento dell’indennità di mobilità, secondo i limiti indicati dall’articolo 9, comma 9, della legge n. 223 del 1991.
Nello stabilire la quota di cumulabilità possono verificarsi le situazioni sotto delineate:
1. Totale incumulabilità con l’indennità di mobilità, che può intervenire o al momento della definizione della domanda o nel corso della percezione, per cui nulla deve essere pagato a titolo di indennità di mobilità, ma bisogna procedere esclusivamente all’accredito della contribuzione figurativa per il periodo.
L’operatività nei casi di questo tipo è la seguente:
  1. inserire una sospensione c.d. aperta pari all’inizio della carica non elettiva che, se preesistente al momento della domanda, sarà pari alla decorrenza della prestazione;
  2. tenere in apposita evidenza la domanda fino al termine del periodo della mobilità;
  3. al termine del periodo della mobilità inserire un recupero in conto mobilità -  pari a quanto sarebbe spettato a titolo di mobilità ordinaria durante il periodo di sospensione - e la decadenza;
  4. procedere con il pagamento, che sarà pari a zero per effetto del recupero, ma permetterà l’accredito della contribuzione figurativa.
2. Parziale cumulabilità con l’indennità di mobilità. In questi casi bisogna:
  1. calcolare la quota mensile di incumulabilità, avvalendosi delle istruzioni fornite al punto D della scheda operativa ed utilizzando il foglio di calcolo che dovrà essere coerentemente adeguato alla fattispecie in parola ( scheda operativa e foglio di calcolo sono entrambi allegati al messaggio n. 27237 del 4 dicembre 2008).
  2. inserire quale recupero in conto mobilità la quota di incumulabilità in precedenza quantificata. Trattandosi di operazioni che dovrebbero ripetersi ogni mese si suggerisce, in questi casi, di prevedere pagamenti semestrali o trimestrali, in base all’importo da pagare.
3. Totale cumulabilità con l’indennità di mobilità. In questi casi bisogna procedere come di consueto.
Per le situazioni relative ai lavoratori del settore aeroportuale, si precisa che la cumulabilità dovrà essere verificata tenendo conto della sola retribuzione teorica utilizzata per l’individuazione dei dati della retribuzione oraria e dell’orario contrattuale da inserire in dsweb.
Pertanto, nei casi di totale incumulabilità, dovendo comunque procedere al pagamento della quota integrativa dell’FTA, si consiglia di procedere con pagamenti semestrali o trimestrali tenendo conto delle istruzioni fornite al precedente punto 1) con la sola differenza che il recupero di cui alla lettera c) dovrà essere ridotto di € 2,50 per permettere alla procedura di emettere il pagamento. Dovendo predisporre più pagamenti la riduzione del recupero di € 2,50 dovrà rimanere costante, in quanto al termine del pagamento la stessa risulterà indebita e non recuperabile vista l’esiguità dell’importo.
Nei casi di parziale cumulabilità o di totale cumulabilità si ribadiscono le istruzioni fornite nei precedenti punti 2) e 3).





PANOZZO, Interventi delle Corti superiori in tema di rilascio/rinnovo del permesso di soggiorno (anno 2013), in

giovedì 24 dicembre 2015





Diritto di accesso agli esami radiologici


Tar Sicilia, Palermo, 21 dicembre 2015, n. 3321

Ai fini dell’esercizio del diritto di accesso, gli esami radiologici rientrano nella nozione di documenti amministrativi, ex art. 22, c. 1, lett. d), l. 241/1990

Non osta al rilascio di copia degli esami radiologici,  la circostanza che la stessa sia già stata consegnata ad un congiunto dell’interessato,  atteso che, in base all’art. 4, c. 3, del D.M. (Ministero Sanità) 14 febbraio 1997, la documentazione deve poter essere disponibile e richiesta per successive esigenze mediche, per lunghi periodi, diversificati a seconda della tipologia di documentazione


FATTO e DIRITTO
A. – Con ricorso ritualmente notificato e depositato la sig.ra -OMISSIS- ha impugnato il silenzio formatosi sull’istanza, presentata dalla predetta, tendente ad ottenere il rilascio di copia delle lastre relative alle mammografie eseguite nelle date 04.06.2012 e 21.10.2014 presso l’Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo, Presidio Ospedaliero Civico di Partinico, nell’ambito di un programma di prevenzione promosso dalla stessa Azienda.
Poiché non è stato fornito riscontro alla predetta richiesta, l’odierna istante ha proposto ricorso per l’accesso, chiedendo l’esibizione degli esami diagnostici eseguiti, evidenziando come tale richiesta sia motivata dalla necessità di valutare l’evoluzione di una -OMISSIS- riscontratale; con vittoria di spese.
B. – Si è costituita in giudizio l’Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo (d’ora in poi solo “A.S.P.”) chiedendo il rigetto del ricorso, in quanto la documentazione relativa all’esame di ottobre 2014 è stata consegnata al fratello della ricorrente in data 12.12.2014; mentre la prima mammografia, catalogata in apposito archivio, è in corso di ricerca.
C. – Alla camera di consiglio del giorno 3 dicembre 2015 il Presidente del Collegio ha indicato al difensore di parte ricorrente la tardività delle note di udienza depositate il 27 novembre 2015, il cui contenuto è stato sinteticamente esposto dal predetto con particolare riferimento alle disposizioni contenute nel decreto del Ministero della Sanità 14.02.1997; quindi, il ricorso è stato posto in decisione.
D. – Il ricorso è fondato.
D.1. – Devono ritenersi senz’altro suscettibili di accesso anche gli esami radiologici ai quali il soggetto richiedente è stato sottoposto, tutte le volte in cui la visione e la estrazione di copia (nelle forme idonee) si renda necessaria per tutelare interessi meritevoli di tutela, quali, ad esempio, l’esigenza di intraprendere una iniziativa giudiziaria, o l’interesse a controllare l’evoluzione di una patologia.
D’altronde si tratta di documenti pienamente riconducibili alla nozione di “documenti amministrativi”, di cui all’art. 22, co. 1, lett. d), l. n. 241/1990, atteso che la norma ricomprende in tale ampia nozione “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”.
Nel caso in esame, sussiste il diritto della ricorrente di accedere agli esami radiologici eseguiti nelle date su indicate, in ragione del preminente interesse di rilievo costituzionale - e, pertanto, meritevole di ampia tutela - ad ottenere copia della documentazione sanitaria relativa alla stessa richiedente (non venendo in rilievo, quindi, neppure ragioni di tutela della privacy), al fine di controllare l’evoluzione di una -OMISSIS- riscontrata alla predetta.
Non osta al rilascio della documentazione richiesta la circostanza che, di fatto – e non è contestato dal difensore della ricorrente –, la documentazione relativa al secondo esame (21.10.2014) sia già stata rilasciata in copia al fratello della ricorrente, atteso che, in base all’art. 4, co. 3, del D.M. 14.02.1997 (Ministero Sanità), la documentazione deve poter essere disponibile e richiesta per successive esigenze mediche, per lunghi periodi, diversificati a seconda della tipologia di documentazione (periodo non inferiore a dieci anni per i documenti radiologici e di medicina nucleare; a tempo indeterminato, per i resoconti radiologici e di medicina nucleare: v. art. 3, cui rinvia l’art. 4 del citato D.M., avente ad oggetto Determinazione delle modalità affinché i documenti radiologici e di medicina nucleare e i resoconti esistenti siano resi tempestivamente disponibili per successive esigenze mediche, ai sensi dell’art. 111, comma 10, del D. L.gs. 17 marzo 1995, n. 230).
Il ricorso deve, pertanto, trovare accoglimento: ne consegue che la documentazione sanitaria richiesta dovrà essere fornita alla ricorrente entro trenta (30) giorni dalla comunicazione o, se anteriore, dalla notificazione della presente sentenza.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, ordina all’Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo di esibire e rilasciare copia degli accertamenti sanitari eseguiti dalla ricorrente e formalmente richiesti, nei termini indicati in motivazione.
Condanna l’Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in favore della ricorrente quantificandole in € 1.000,00 (euro mille/00), oltre oneri accessori come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

martedì 22 dicembre 2015





‘Centralità’ della volontà del defunto nella cremazione

Tar Lombardia ….dicembre 2015, n. …


Nel caso di decesso di una persona presso la propria abitazione non è necessario il “riconoscimento” da parte di un parente, ma solo l’accertamento della morte  da parte del medico curante e la successiva visita del medico necroscopo

Rispetto al procedimento che porta all’autorizzazione alla cremazione, è ‘centrale’ l’accertamento della volontà del defunto, che non è mai sostituita da quella dei congiunti: questi intervengono nel solo caso in cui non vi sia alcuna disposizione del primo, ma non esprimono un personale atto di volontà, ma si fanno in ogni caso portatori del desiderio del defunto in merito alla cremazione della propria salma, per ricostruire la volontà del quale si può fare ricorso anche a dichiarazioni testimoniali rese da familiari e conoscenti, dalle quali è possibili trarre univocamente e concordemente la volontà della persona deceduta


E’ legittima l’autorizzazione alla cremazione, richiesta dalla compagna del de cuius, separato dalla moglie, in presenza di una dichiarazione del defunto, con firma autenticata, in cui è espressa la volontà di affidarle – in caso di sopravvenuta incapacità di intendere e di volere – le decisioni relative allo stato di salute, al trattamento sanitario, al trattamento del corpo, ai funerali ed alla donazione degli organi



Oggetto di impugnazione con il ricorso in esame è l’autorizzazione alla cremazione della salma del sig. A.A., rilasciata dal Comune di B. su richiesta della compagna dello stesso, sig.ra P.A..
Tale provvedimento è stato impugnato dalla moglie del de cuius (dalla quale lo stesso era separato), che ne ha dedotto l’illegittimità sotto diversi profili, tra cui il principale è rappresentato dalla contestazione del fatto che quella della cremazione fosse realmente la volontà del sig. A.A..
Prima di analizzare tale questione si ritiene opportuno, però, esaminare, preliminarmente, le censure attinenti agli aspetti procedimentali, precisando come la ricorrente si sia limitata a contestare la tardività, rispetto ai dieci giorni assegnati, delle dichiarazioni depositate dalla compagna del de cuius al fine di dimostrarne la volontà, ma non anche la attendibilità di quanto affermato dai dichiaranti.
Ancora più a monte, però, parte ricorrente ha dedotto in ricorso la mancata, corretta, identificazione della salma, in assenza di riconoscimento da parte di uno dei familiari. La mancata, formale, identificazione della persona deceduta renderebbe, a maggior ragione, infondata la richiesta di cremazione.
La doglianza è priva di fondamento.
Nel caso di decesso di una persona presso la propria abitazione, infatti, non si rende necessario il “riconoscimento” da parte di un parente, ma solo l’accertamento della morte prima da parte del medico curante, il quale avrà cura anche di compilare il necessario modello Istat e la successiva visita del medico necroscopo incaricato dall’ASL tra le 15 e le 30 ore successive al decesso: entrambi gli adempimenti risultano essere stati regolarmente espletati, come da appositi certificati depositati in atti, rispetto a cui non risulta essere stata presentata denuncia di falso in atto pubblico.
Chiariti tali aspetti formali, si può passare all’esame della questione principale della controversia in esame, premettendo, in primo luogo, che centrale, rispetto al procedimento che porta all’autorizzazione alla cremazione, è l’accertamento della volontà del defunto, che non è mai sostituita da quella dei congiunti: questi intervengono nel solo caso in cui non vi sia alcuna disposizione del primo, ma “non esprimono un personale atto di volontà, ma si fanno in ogni caso portatori del desiderio del defunto in merito alla cremazione della propria salma”, per ricostruire la volontà del quale si può fare ricorso anche a “dichiarazioni testimoniali rese da familiari e conoscenti…dalle quali è possibili trarre univocamente e concordemente” la volontà della persona deceduta (così TAR Veneto, I, 21 giugno 2013, n. 884).
Invero, l’art. 3 della legge n. 130/2001, subordina l’autorizzazione alla cremazione alla dichiarazione di volontà resa in tal senso dal defunto quando era in vita (comma 1, lett. b) n. 1 e 2) o, in mancanza di tale dichiarazione di volontà, alla dichiarazione che questa era la volontà del de cuius, da parte del coniuge o, in difetto, del parente più prossimo e, in caso di concorrenza di più parenti dello stesso grado, della maggioranza assoluta di essi, manifestata all’ufficiale dello stato civile del Comune di decesso o di residenza (comma 1, lett. b), n. 3).
Nel caso di specie, il testamento pubblico e la successiva integrazione olografa che rappresentano le ultime volontà del sig. A.A. contengono esclusivamente disposizioni di carattere economico/patrimoniale e nulla dicono in relazione alla volontà dello stesso rispetto al trattamento da riservare al suo cadavere, in linea con il principio per cui essa non può rientrare nel contenuto tipico delle disposizioni testamentarie.
Nelle more del procedimento di autorizzazione, però, è stata prodotta una dichiarazione dello stesso sig. A.A., la cui sottoscrizione è stata autenticata da un notaio, nella quale il sig. A.A. ha espresso chiaramente la volontà di essere assistito dalla compagna, affidando alla stessa “in caso di sopravvenuta incapacità di intendere e di volere, le decisioni relative al suo stato di salute, al trattamento sanitario, al trattamento del corpo, ai funerali ed alla donazione degli organi”.
Come già anticipato da questo Collegio nell’ordinanza cautelare n. 2141/2015, resa alla precedente camera di consiglio del 25 novembre 2015,, l’inciso “in caso di sopravvenuta incapacità di intendere e di volere” non può avere altro significato che quello di demandare alla compagna tutte le decisioni che lo stesso non fosse stato in grado di assumere e, quindi, a maggior ragione quelle post-mortem, legate al “trattamento del suo corpo e ai funerali”. Da ciò risulta provata quella legittimazione “procedimentale”, a farsi interprete della volontà del de cuius, che parte ricorrente ha revocato in dubbio nella propria ultima memoria.
La conclusione circa la legittimità dell’equiparazione operata dal Comune tra richiesta di autorizzazione alla cremazione, presentata dalla sig. P.A. alla dichiarazione della volontà direttamente operata dal deceduto, peraltro, non appare affatto smentita dalla dichiarazione del fratello dello stesso (da ultimo prodotta in giudizio da parte ricorrente), la quale si limita a rappresentare che il fratello non avrebbe mai espresso a lui la volontà di essere cremato: ciò non può assumere alcun particolare significato, anche perché non è dato sapere quali fossero i rapporti tra i due fratelli.
Ribadito, dunque, che l’autorizzazione alla cremazione deve essere subordinata solo all’accertamento della volontà del deceduto di esservi sottoposto, le testimonianze - prodotte in atti dalla controinteressata e la cui attendibilità non è stata contestata dalla ricorrente - convergono tutte nel senso di confermare che la compagna del sig. A.A. ha manifestato correttamente quella che era la volontà dello stesso.
Ritenuta, dunque, provata la sussistenza dell’unico presupposto cui la legge subordina l’autorizzazione alla cremazione, si deve ora passare a esaminare l’opposizione alla cremazione motivata da parte ricorrente con la necessità che la salma rimanga disponibile, data la forte connotazione ereditaria che caratterizza la malattia che ha portato al decesso del sig. A.A., per l’effettuazione di eventuali analisi che dovessero ritenersi necessarie, un domani, nell’interesse dei figli dello stesso.
A tale proposito va ricordato che, in vista della camera di consiglio del 25 novembre 2015, la controinteressata aveva depositato una comunicazione della Divisione di Prevenzione e Genetica Oncologica dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano, dalla quale si evinceva che presso l’istituto esistono “aliquote residue del campione biologico utilizzato per il test genetico e conservativo del defunto, utilizzato a scopo di ricerca scientifica come da consenso manifestato dal paziente”. Conseguentemente, sosteneva la stessa controinteressata, non avrebbe potuto essere ravvisata alcuna utilità nella conservazione del corpo per scopi curativi e di ricerca a favore dei figli della ricorrente.
Nell’ordinanza n. 2141/2015, assunta all’esito di detta camera di consiglio, si è ravvisata la legittimità della pretesa della ricorrente di poter effettuare, sul corpo del proprio marito, i prelievi necessari ad espletare le analisi mediche individuate come opportune per una miglior prevenzione e eventuale cura, assegnando alla ricorrente un termine per provvedere a verificare se la disponibilità del campione di cui si è detto più sopra fosse idonea allo scopo di consentire le analisi ritenute opportune nell’interesse dei figli o, in caso contrario, ad ottenere le eventuali autorizzazioni e far effettuare i necessari prelievi sulla salma da personale medico qualificato, depositando una relazione in ordine alle attività poste in essere nel suddetto periodo e a ogni eventuale sopravvenienza entro il 15 dicembre 2015.
In vista dell’odierna camera di consiglio, parte ricorrente ha eccepito la mancanza della legittimazione processuale, oltre che di quella procedimentale di cui già si è più sopra detto, della convivente, trascurando di considerare che essa stessa l’ha evocata in giudizio, per cui l’eccezione è inammissibile.
Ciò preliminarmente chiarito, nella memoria della ricorrente si sostiene l’inidoneità del campione presente presso l’Istituto Europeo di Oncologia, in quanto, alla richiesta della stessa (sulla scorta dell’ordinanza di questo Tribunale), l’Istituto avrebbe chiarito che lo scopo della raccolta del campione non era quello della conservazione, ma di effettuare (oltre alle analisi sul paziente nel suo diretto interesse) ricerche scientifiche sulla particolare tipologia di tumore che ha determinato il decesso del sig. A.A.
In realtà, l’Istituto, che effettivamente ha indicato le finalità della conservazione nel senso suddetto, però:
- si è reso disponibile alla consegna del campione ancora presente presso i laboratori, per la sua conservazione in una biobanca ai fini di consentire gli accertamenti voluti dalla ricorrente;
- ha precisato che i campioni posseduti non sono utili per poter individuare nei figli del sig. A. l’eventuale identica mutazione genetica del padre, in quanto “il test deve essere effettuato su campioni biologici dei soggetti interessati (è necessario solo un campione biologico prelevato dai figli). Analoghe considerazioni di non utilità valgono in merito alla conservazione della salma del sig. A.A. per le medesime finalità”;
- ha, ovviamente, escluso di poter fornire risposta al quesito se il campione possa essere ritenuto idoneo “all’esecuzione di ogni e qualsiasi tipo e genere di analisi ritenuta opportuna nell’interesse dei figli, compresi studi su geni coadiuvanti o modificatori”, data l’assoluta genericità della domanda scientificamente incompatibile con una risposta positiva.
Alla camera di consiglio del 17 dicembre 2015, parte ricorrente ha prodotto copia del ricorso ex art. 700 c.p.c., con cui è stato chiesto che al Comune fosse ordinato di “tenere a disposizione la salma di A.A. presso le celle frigorifere del Cimitero V.” e che il medico legale fosse autorizzato “al prelievo di tessuti dalla salma del defunto” e, una volta effettuato il prelievo, a conservare DNA e tessuti.
A sostegno e giustificazione della propria richiesta, la sig.ra B. ha prodotto il solo parere del dott. C. del 12 novembre 2015, già depositato agli atti di questo giudizio. In tale parere, espresso, peraltro, da un medico chirurgo, con specializzazione in medicina legale e non in oncologia, dopo aver dato conto di una, già nota, alta incidenza della trasmissione familiare della patologia che ha condotto al decesso del sig. A.A., si afferma che “la verifica di una trasmissione famigliare della predisposizione genetica a determinate neoplasie (npl colon, npl endometro nei figli femmine) sarebbe possibile con una analisi genetica che trova opportuno il confronto tra il materiale genetico e quello dei figli.”. Tale asserzione risulta, però, superata dalla, già richiamata, risposta dell’Istituto Oncologico Europeo, che ha, come più sopra detto, chiarito (oltre alla disponibilità al deposito del campione posseduto) che, per effettuare la verifica voluta da parte ricorrente, il prelievo necessario è quello da effettuarsi sui figli e non sul padre deceduto.
Allo stato può, dunque, ritenersi sussistere un campione biologico del de cuius utile e disponibile a fini medico-scientifici nell’interesse dei figli dello stesso.
Un tanto accertato, si ritiene necessario ricordare che l’art. 15 del Protocollo addizionale alla Convenzione del Consiglio d’Europa sui diritti umani e la biomedicina relativo ai test genetici a fini sanitari (2008), prevede che: “Un test genetico a vantaggio dei altri membri della famiglia può essere eseguito su campioni biologici tratti dal corpo di una persona deceduta, o estratti, mentre la persona era in vita, da una persona ora defunta, solo se sussiste il consenso o l'autorizzazione richiesta dalla legge.”.
Parte ricorrente non ha esibito alcuna autorizzazione in tal senso da parte del sig. A.A., anche se può ragionevolmente ritenersi che quella concessa all’Istituto Europeo di Oncologia possa essere implicitamente estesa all’effettuazione di specifici test nell’interesse dei figli del deceduto, ancorchè limitatamente al campione già prelevato quando lo stesso era ancora in vita.
Rispetto all’effettuazione di ulteriori prelievi o test, parte ricorrente ha dimostrato di aver formulato un’istanza all’Autorità competente (al fine di disporre di quell’autorizzazione “richiesta dalla legge” ai sensi del sopra citato Protocollo), che deve ritenersi, oltre che non rispettosa dei chiari e perentori termini assegnati (dal momento che la richiesta al giudice ordinario poteva essere formulata quantomeno a decorrere dal 3 dicembre e non solo il 12 dicembre 2015), anche dilatoria e rasentante il limite del “ne bis in idem”, per tutto quanto già più sopra esplicitato e, in particolare, per il fatto di non essere supportata da alcuna, ulteriore, documentazione di carattere medico idonea a rappresentare la ragionevole previsione della necessità di effettuare, in futuro, test genetici sul DNA del de cuius.
In proposito, oltre a quanto previsto nel menzionato protocollo, va ricordato che l’orientamento ormai costante della giurisprudenza è nel senso di non riconosce alla volontà dei familiari del defunto la possibilità di disporre del cadavere per scopi diversi da quello della sua destinazione normale (Corte di Cassazione, sentenza n. 12549 del 19 luglio 2012 e precedenti ivi richiamati) e, dunque, dell’affermazione che non esiste un diritto assoluto dei familiari all’esumazione e all’effettuazione di test medici (al pari di quelli legali) sulla salma.
Ne deriva che non può trovare accoglimento la qui proposta opposizione alla cremazione, motivata con l’esigenza di effettuare test sulla salma che non risultano essere né autorizzati, né essere stati riconosciuti come necessari: anzi, l’insistenza sull’effettuazione di tali test parrebbe configgere anche con la tutela del cadavere accordata dall’ordinamento penale.
In conclusione, il Collegio ritiene che in questo giudizio sia stata provata, oltre ogni ragionevole dubbio, la volontà del de cuius di essere cremato e che non risulti sussistere alcuna causa legalmente provata, ostativa a ciò, per cui il ricorso deve essere respinto.
Le spese del giudizio possono trovare compensazione tra le parti in causa, atteso la particolarità della controversia dedotta e la natura prettamente interpretativa delle questioni ad essa sottese.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia … definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

lunedì 21 dicembre 2015





Corte di Giustizia UE 17 dicembre 2015, n. C-239/14

Rinvio pregiudiziale – Spazio di libertà, sicurezza e giustizia – Direttiva 2005/85/CE – Norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato – Articolo 39 – Diritto a un ricorso effettivo – Domande di asilo reiterate – Effetto non sospensivo del ricorso contro una decisione dell’autorità nazionale competente di non esaminare ulteriormente una domanda di asilo reiterata – Protezione sociale – Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – Articolo 19, paragrafo 2 – Articolo 47








L’articolo 39 della direttiva 2005/85/CE del Consiglio, del 1° dicembre 2005, recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato, letto alla luce degli articoli 19, paragrafo 2, e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dev’essere interpretato nel senso che non osta a una normativa nazionale che non conferisce un effetto sospensivo a un ricorso proposto contro una decisione, come quella di cui al procedimento principale, di non esaminare ulteriormente una domanda di asilo reiterata.








Dal sito http://curia.europa.eu



venerdì 18 dicembre 2015





Caratterizzazioni dell’organismo di diritto pubblico (la Fondazione Arena di Verona)


Cons. di Stato, VI, 10 dicembre 2015, n. 5617

L’elemento fondante dell’organismo di diritto pubblico è la rilevanza degli interessi generali perseguiti, in rapporto ai quali non può venire meno una funzione amministrativa di controllo, anche qualora la gestione sia produttiva di utili, posto che è propria dell’Amministrazione la cura concreta di interessi della collettività, che lo Stato ritiene corrispondenti a servizi da rendere ai cittadini e che pertanto, ove affidati a soggetti esterni all’Apparato amministrativo vero e proprio, debbono comunque rispondere a corretti parametri gestionali, anche sul piano dell’imparzialità e del buon andamento

OMISSIS
DIRITTO
Deve quindi essere prioritariamente affrontata, nel merito, la questione di legittimità dell’avvenuto inserimento, per l’anno 2012, della Fondazione Arena di Verona nell’elenco delle amministrazioni pubbliche.
Tale inserimento è contestato (censure nn. III.1, III.2 e III.3), per violazione o falsa applicazione dell’art. 1 della legge n. 196 del 2009, nonché del regolamento UE n. 2223/1996 – SEC 95 e per eccesso di potere sotto vari profili: profili diversi, ma strettamente correlati e, quindi, tali da meritare trattazione congiunta.
Per affrontare le problematiche sollevate, il Collegio ritiene necessarie alcune considerazioni, per quanto riguarda la natura giuridica dell’ente interessato, il rilievo di tale circostanza ai fini della normativa di riferimento e la corretta lettura delle norme regolamentari, in base alle quali debbono essere individuate le amministrazioni pubbliche, da inserire nel conto consolidato dello Stato..
Come già ricordato, in primo luogo, la Fondazione Arena di Verona ha personalità giuridica di ordine privatistico, a norma del decreto legislativo n. 367 del 1996; nondimeno, la stessa ha connotati tali da consentire di qualificare l’ente come organismo di diritto pubblico, nei termini recepiti dall’art. 3, comma 26, del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE).
I parametri di individuazione degli organismi di diritto pubblico enunciati nella norma citata sono:
a) finalizzazione istituzionale al soddisfacimento di specifiche “esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale e commerciale”;
b) possesso di personalità giuridica (anche di natura privata);
c) attività finanziata in percentuale maggioritaria “dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico”, o – in alternativa – “la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi, oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri, dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali, o da altri organismi di diritto pubblico” (sul carattere cumulativo di detti requisiti, salvo il carattere alternativo di quelli di cui al punto c, cfr. Cass. SS.UU. 7.4.2010, n. 8225).
La rispondenza della fondazione appellante (della quale sono soci fondatori lo Stato, la Regione Veneto e il Comune di Verona) ai parametri sopra indicati risulta innegabile in base a dati non controversi, quali il possesso di personalità giuridica – la cui natura privata non esclude il perseguimento di rilevanti interessi pubblici, connessi alla diffusione dell’arte musicale e quindi alla promozione della cultura, quale valore riconducibile all’art. 9, primo comma, della Costituzione – con ulteriore (e di primario rilievo sotto il profilo in esame) percezione di contributi pubblici , nonchè assoggettamento a controlli di assoluta pregnanza.
Questi controlli si concretizzano non solo, come sottolineato dalla stessa appellante, nella vigilanza, ex art. 19 d.lgs. n. 367 del 1996, del Ministero per i beni e le attività culturali (nei cui confronti sussiste obbligo di rendiconto) e nella possibilità di commissariamento, ex art. 21 del medesimo d.lgs. n. 367, ma anche nell’affidamento della presidenza al sindaco della città che è sede dell’ente (art. 11 d.lgs. cit.), nell’obbligatoria presenza, nel consiglio di amministrazione, di due rappresentanti dell’autorità di Governo competente (art. 12), nella nomina da parte del Ministro [allora] del tesoro – di concerto con la predetta autorità di Governo – del collegio dei revisori, composto da tre membri effettivi ed un supplente, la maggioranza dei quali designati dalle medesime autorità di Governo (art. 14) e nel controllo della gestione finanziaria da parte della Corte dei Conti (art. 15); in caso di insolvenza, infine, si prevede non il fallimento, ma la liquidazione coatta amministrativa degli enti così disciplinati (art. 20).
In tale contesto, giuridico e finanziario, non può essere posta in dubbio la sussistenza di un controllo pubblico, del tutto rispondente a quanto previsto dal citato art. 3, comma 26, del. d.lgs. n. 163 del 2006, a nulla rilevando al riguardo le argomentazioni dell’appellante, che sottolinea l’autonomia statutariamente prevista, a norma dell’art. 10 del più volte citato d.lgs. n. 367 del 1996, della fondazione di cui trattasi, per quanto riguarda l’attività di produzione artistica e le attività connesse, o strumentali.
Detta autonomia, infatti, attiene alla fase attiva dell’esercizio delle funzioni affidate alla Fondazione, ma non esclude il controllo, quale relazione interorganica nell’ambito della quale l’operato degli organi attivi può essere sindacato per valutare la relativa rispondenza alla legge, o alla convenienza amministrativa, o a regole tecniche di varia natura, potendo il controllo essere finalizzato ad assicurare non solo la legittimità, ma anche l’economicità o l’efficacia della gestione operativa.
A tale nozione di controllo – risultante dal testo normativo di riferimento (art. 3, comma 26, d.lgs. n. 163 del 2006) – si è attenuta la prevalente giurisprudenza, nel definire “organismi di diritto pubblico” figure soggettive anche molto diverse fra loro, come la Fondazione Ca’ d’Industria (Cons. Stato, VI, 3 giugno 2014, n. 2843); la Fondazione La Biennale di Venezia (Cons. Stato, VI, 8 maggio 2014, n. 2362), le Autorità Portuali (Cons. Stato, VI, 15 dicembre 2014, n. 6146), gli Aeroporti di Milano Linate e Malpensa (Cons. Stato, VI, 8 ottobre 2013, n. 4934) e gli Aeroporti di Roma (Cons. Stato, VI, 22 aprile 2014, n. 2026): questi ultimi solo attraverso la specificazione dei parametri identificativi degli organismi in questione, parametri che possono anche prescindere, come ampiamente dedotto, dal finanziamento pubblico ed associarsi a criteri imprenditoriali di gestione (cfr. in tal senso Cons. Stato,. VI, n. 6014 del 2012 cit.; II, 25 luglio 2008, parere n. 2361 e IV, 8 maggio 2013, ordinanza n. 2492, emessa ai sensi dell’art. 267 TFUE; sulla connotazione pubblicistica delle Fondazioni lirico-sinfoniche cfr. anche Corte cost., 21 aprile 2011, n. 153).
Appare evidente, dunque, come l’elemento fondante dell’organismo di diritto pubblico sia appunto quello, riconducibile alla rilevanza degli interessi generali perseguiti, in rapporto ai quali non può venire meno una funzione amministrativa di controllo, anche qualora la gestione fosse produttiva di utili (come dimostra il carattere espressamente disgiunto dei requisiti, di cui al precedente punto “c”): è propria dell’Amministrazione, infatti, la cura concreta di interessi della collettività, che lo Stato ritiene corrispondenti a servizi da rendere ai cittadini e che pertanto, ove affidati a soggetti esterni all’Apparato amministrativo vero e proprio, debbono comunque rispondere a corretti parametri gestionali, anche sul piano dell’imparzialità e del buon andamento .
Altrettanto evidente invece – ed essenziale per le finalità di contenimento della spesa pubblica, cui corrisponde la ratio della normativa in esame (che non può tollerare, essendo posta in relazione al sistema economico nazionale, eccezioni formalistiche) – è la rilevanza prioritaria del fattore di finanziamento pubblico per le amministrazioni, da inserire nell’elenco di cui al più volte citato art. 1 della legge n. 196 del 2009, in conformità ai criteri enunciati nel c.d. SEC 95.
Deve pertanto ammettersi che la mera qualificazione della fondazione in questione come organismo di diritto pubblico non sia sufficiente, perché la stessa risulti inserita nell’elenco delle “amministrazioni”, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1 della legge n. 196 del 2009.
Detta qualificazione, tuttavia, consente di aderire alla prospettazione dell’ISTAT, secondo cui la fondazione di cui trattasi deve essere ricondotta alla prima tipologia di unità istituzionali, comprese nel settore S13 del SEC 95 (par. 2.68), ovvero a quella degli “organismi pubblici che gestiscono e finanziano un insieme di attività, principalmente consistenti nel fornire alla collettività beni e servizi non destinabili alla vendita” (e non fra le “Istituzioni senza scopo di lucro dotate di personalità giuridica”, per le quale si richiede – in forma cumulativa e non alternativa – che sussistano controlli e finanziamenti, provenienti “in prevalenza” da amministrazioni pubbliche).
L’unico requisito, che appare quindi suscettibile di accertamento, per valutare il legittimo inserimento della Fondazione Arena di Verona fra le “amministrazioni pubbliche”, ai fini che qui rilevano, è dunque quello della produzione e offerta al pubblico, da parte della stessa, di beni e servizi “non destinabili alla vendita”.
Quest’ultima espressione, come chiarito dal regolamento SEC 95 e dal relativo Manuale esplicativo (rispettivamente, nei paragrafi 3.33 e 5.2) implica una ricognizione del carattere economicamente significativo, o meno, del prezzo di vendita, dovendo ritenersi “non destinabile alla vendita” un bene o un servizio, il cui prezzo influisce in maniera scarsa sia sulla domanda che sull’offerta: convenzionalmente, è stato scelto al riguardo – come riportato dal Manuale – il “criterio del 50%”, in base al quale deve essere accertato se i ricavi realizzati, in condizioni di mercato, coprano o meno una quota superiore alla metà dei costi di produzione (fermo restando che, per la rilevanza dell’interesse pubblico sotteso, l’attività viene comunque espletata, anche ove non sfruttabile economicamente in modo produttivo).
Nell’impugnativa vengono prodotti al riguardo conteggi, dai quali dovrebbe desumersi che “il rapporto tra ricavi e costi di produzione supera ampiamente il valore del 50%”. Quanto sopra, tuttavia, sulla base di criteri valutativi, che appaiono efficacemente contestati dall’ISTAT, per quanto riguarda l’inserimento, tra i ricavi, di quote di finanziamento pubblico, nonché per lo scorporo di parte dei costi, con particolare riguardo a quelli per il personale, peraltro senza tenere conto di peculiari eventi, che il medesimo Istituto rappresenta senza puntuale smentita (apporti patrimoniali straordinari intervenuti ed altri contributi in conto esercizio, dopo un periodo peraltro di gestione commissariale).
Appare rilevante, inoltre, che il SEC 95 (par. 3.33 b) imponga non un mero riscontro contabile, ma un vero e proprio giudizio prognostico, formulato nei seguenti termini: “Il criterio del 50% va applicato in un’ottica pluriennale, ossia solo se vale per diversi anni, oppure se vale per l’anno in corso e si attende che varrà per il prossimo futuro. Le fluttuazioni secondarie del volume delle vendite da un anno all’altro non richiedono una riclassificazione delle Unità Istituzionali….”: quanto sopra, all’evidente fine di riconoscere o meno all’ente – con relativa stabilità – carattere imprenditoriale in un sistema di mercato, ovvero più marcato perseguimento di interessi pubblici non economici, con mezzi prevalentemente a carico dello Stato.
In tale contesto fondatamente, ad avviso del Collegio, l’Istituto nazionale di statistica sottolinea la sussistenza di margini di discrezionalità tecnica richiedenti il “possesso di conoscenze specialistiche”, contestabili non con mere argomentazioni difensive o ricostruzioni soggettive dei fatti, ma solo per erronea rappresentazione della realtà, palese incongruenza o inosservanza di regole tecnico-scientifiche di inequivoca lettura (come riconosciuto da giurisprudenza ormai consolidata, per il sindacato giurisdizionale di legittimità su atti del tipo indicato).
Data la complessità dei parametri di riscontro, appare pertanto rafforzata la tesi della natura provvedimentale – e non di mero strumento contabile, come talvolta ritenuto dalla giurisprudenza (senza tuttavia che sussista, al riguardo, un orientamento consolidato) – dell’elenco di cui trattasi, da formare in base ad un apprezzamento sistematico, nonché ad una proiezione anche futura dei dati stessi e da cui discende una qualificazione, produttiva per gli enti interessati di effetti giuridici. Nel caso di specie, l’ISTAT ha ragionevolmente rappresentato il carattere tendenzialmente non remunerativo dell’attività tipica della Fondazione, nei termini richiesti dalla normativa vigente, tanto da poter esprimere – su scala pluriennale – un giudizio di sostanziale sottrazione della stessa a criteri imprenditoriali di mercato, nonostante l’indubbio valore, sul piano culturale, del servizio offerto alla collettività. Alla ragionevole impostazione di cui sopra – che sembra escludere vizi di accertamento e di istruttoria (contrariamente a quanto sostenuto, in particolare, nel terzo motivo di gravame, al punto n. 3) non si contrappongono da parte dell’appellante controdeduzioni tecniche idonee, nel senso in precedenza chiarito, a smentire le risultanze contabili illustrate dall’ISTAT.
In base alle considerazioni svolte, nessuna delle censure prospettate nell’impugnativa appare quindi meritevole di accoglimento: oltre alle argomentazioni, già puntualmente disattese nella presente decisione, l’appellante espone infatti tesi difensive che attengono a scelte di indirizzo politico, non sindacabili in tema di finanziamento pubblico e di revisione della spesa (c.d. “spending review”). Quest’ultima, come è noto, risulta finalizzata a migliorare efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa nell’impiego di risorse della collettività, attraverso una sistematica analisi e valutazione di obiettivi e risultati, tenuto conto delle strutture organizzative e delle procedure decisionali esistenti. L’appellante contesta il contenuto delle scelte, operate con d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 135 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica, con invarianza dei servizi ai cittadini, nonché misure di rafforzamento patrimoniale del settore bancario), con riferimento ad una serie di misure restrittive, inerenti anche al trattamento del personale, che sarebbero di impedimento per le attività istituzionali di promozione della cultura e dell’educazione musicale, in aggiunta alla disposta riduzione del finanziamento pubblico (che dovrebbe di per sé soddisfare le esigenze di contenimento della spesa pubblica, poste a base della disciplina contestata).
Tali argomentazioni appaiono inammissibili, in quanto volte, appunto, a contestare nel merito scelte di politica economica dello Stato, imposte peraltro a livello europeo nell’intento di ridurre il disavanzo dei Paesi membri dell’Unione Europea.
Tutte le amministrazioni pubbliche inserite nell’apposito elenco, predisposto in base alle regole in precedenza esaminate, sono chiamate ad operare peculiari forme di restrizioni nelle spese, quand’anche fonte di difficoltà sul piano gestionale: non può dunque riconoscersi alla fondazione appellante una posizione speciale, tale da esonerarla da restrizioni che investono ogni pur essenziale servizio pubblico, dalla scuola alla sanità, fino ad ogni ulteriore settore considerato dalla normativa di riferimento.
Diverse e non fungibili, d’altra parte, sono le finalità del finanziamento pubblico, rispetto a quelle della cosiddetta spending review: le prime, indirizzate a sostenere strutture organizzative non autosufficienti sul piano finanziario, per la rilevanza degli interessi pubblici perseguiti (con “tagli” riconducibili, in via esclusiva, all’attuale momento di crisi economica); le seconde, come ricordato, indirizzate a razionalizzare e contenere le spese in base ad un disegno preordinato, con la minima possibile penalizzazione per l’efficienza dei servizi e con modalità che – in quanto disposte in via legislativa – non risultano censurabili, in sede di giudizio di legittimità, sotto i profili propri dell’eccesso di potere.
Resta quindi da valutare soltanto l’eccezione di incostituzionalità delle norme di riferimento (art. 1 della legge n. 196 del 2009, articoli 1, comma 7, 3, commi 1, 10 e 11-bis, 5, commi 2, 7 e 8 e 8 comma 3 della citata legge n. 135 del 2012), in rapporto agli articoli 3, 9, 33 e 97 della Costituzione.
Il Collegio ritiene che tale eccezione sia manifestamente infondata.
L’appellante, infatti, riconduce i dubbi di costituzionalità alle caratteristiche peculiari della fondazione e all’esigenza sia di non trattare in modo uguale situazioni diverse, sia di non “incidere con ripercussioni irreparabili sul funzionamento di enti di produzione che ricevono contributi pubblici”, tenuto conto dell’importanza degli interessi perseguiti, che imporrebbero apposito bilanciamento con le ragioni esclusivamente finanziarie, ispiratrici delle norme in discussione.
Appare evidente, tuttavia, che l’elemento unificante tra i soggetti, di cui è previsto l’inserimento negli elenchi ISTAT, è riconducibile ai fondi pubblici di cui gli stessi sono destinatari e che ne giustificano l’inclusione nel conto consolidato dello Stato; le misure finanziarie, successivamente assunte, possono inoltre presentare aspetti controvertibili, in rapporto ai quali, tuttavia, le scelte del legislatore possono muoversi con ampi margini di discrezionalità, peraltro nell’ambito di obiettivi imposti a livello comunitario, in presenza di situazioni di deficit eccessivo.
Apodittico e indimostrato, infine, appare il rappresentato pregiudizio irreparabile per la cultura e il buon andamento dell’Amministrazione, in rapporto ad una serie di specifiche misure che – come quella del divieto di monetizzare le ferie non godute – possono presentare aspetti opinabili, ma non appaiono tali da compromettere il perseguimento delle finalità istituzionali dell’ente, né esulano dalle finalità di contenimento generale della spesa, stimato necessario per fronteggiare la situazione economica in atto, così come non evidenziano percepibili alterazioni dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, nell’ottica di austerità imposta dal contingente andamento dei conti pubblici.
Per le ragioni esposte, in conclusione, il Collegio ritiene che l’appello debba essere respinto; le spese giudiziali, da porre a carico della parte soccombente, vengono liquidate nella misura di €. 3.000,00 (euro tremila/00).
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando, respinge l’appello indicato in epigrafe; condanna la Fondazione appellante al pagamento delle spese giudiziali, nella misura di €. 3.000,00 (euro tremila/00).
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

giovedì 17 dicembre 2015





PANOZZO, Pubblico ufficiale, incaricato di pubblico servizio ed esercente un servizio di pubblica necessità (agli effetti penali): le posizioni della Cassazione (sezioni penali), in

http://www.diritto.it/docs/37650-pubblico-ufficiale-incaricato-di-pubblico-servizio-ed-esercente-un-servizio-di-pubblica-necessit-agli-effetti-penali-le-posizioni-della-cassazione-sezioni-penali

lunedì 7 dicembre 2015





Omologazione (non più richiesta) dei regolamenti comunali di polizia mortuaria

Circolare del Ministero della Salute luglio 2015, n. I.4.c.d.3,  Omologazione regolamenti comunali di polizia mortuaria da parte del Ministero Salute (prima Interno) ex art. 345 Regio Decreto 27 luglio 1934 n. 1265. Circolare

L’omologazione dei regolamenti locali di igiene e sanità e degli altri regolamenti comunali su materie sanitarie discende da quanto disposto dall’articolo 345 del Testo Unico delle leggi sanitarie Regio Decreto 27 luglio 1934 n. 1265 sotto riportato:

OMISSIS


L’articolo 344 del medesimo Regio Decreto prevede che i regolamenti locali di igiene contengan anche le disposizioni relative alla polizia mortuaria

OMISSIS


Si consideri che i regolamenti locali di igiene e sanità non sono più assoggettati, da tempo, ad alcuna omologazione da parte del Ministero della Salute.

Premesso quanto sopra, sulla questione è stato appositamente interpellato l’Ufficio legislativo, che al riguardo con nota prot. 3213-P del 07/05/2015, ha concluso che la cosiddetta omologazione dei regolamenti comunali di Polizia mortuaria non è competenza dello scrivente Ministero, sia in presenza che in assenza di specifica legge regionale concernente la Polizia mortuaria.

Per quanto concerne il D.P.C.M. n. 24 del 21/01/2015, che ancora menziona il desueto procedimento amministrativo di cui all’oggetto, si rappresenta che il medesimo verrà aggiornato, come periodicamente previsto, sulla base del nuovo orientamento giuridico deciso dall’Ufficio legislativo di questo Dicastero.






Giurisdizione sui ricorsi contro i ‘tagli’ dei vitalizi ‘regionali’

Tar Veneto 4 dicembre 2015, n. 1289

E’ inammissibile, per difetto di giurisdizione, il ricorso – degli ex consigliere regionali – contro la delibera – del Consiglio regionale – che riduce l’importo lordo mensile del vitalizio (degli ex consiglieri e degli ex consiglieri titolari di altri assegni che vantano un reddito annuo ai fini IRPEF superiore ad euro 29.500,00) [ad avviso del Collegio – che ricorda il contrasto giurisprudenziale in materia – la giurisdizione è (non del giudice ordinario, bensì) della Corte dei Conti]

FATTO e DIRITTO
I ricorrenti, tutti ex consiglieri della Regione Veneto o anche ex consiglieri della Regione ed ex parlamentari della Repubblica Italiana e/o ex deputati europei, e titolari, da diverso tempo, di un assegno vitalizio mensile, espongono che, con deliberazione n. 6 del 27.1.2015, la Regione Veneto, in attuazione della legge regionale n. 43 del 23.12.2014, ha disposto la riduzione -a partire dalla mensilità di gennaio 2015 – dell’importo lordo mensile del vitalizio degli ex consiglieri e degli ex consiglieri titolari di altri assegni che vantano un reddito annuo ai fini IRPEF superiore ad euro 29.500,00.
I ricorrenti precisano che la detta deliberazione, che ha approvato e fatto pedissequamente propri i criteri di riduzione stabiliti dalla legge regionale n. 43/2014, ha una diretta e significativa incidenza negativa nei loro confronti, in quanto rientrando tutti nella fascia reddituale indicata, hanno subito e continueranno a subire una significativa decurtazione del trattamento economico loro riconosciuto e spettante.
Richiamati gli artt. 1 e 2 della legge regionale n. 43 del 2014, della quale la deliberazione impugnata costituisce atto di applicazione, i ricorrenti denunciano i seguenti vizi: “-I- 1. Illegittimità derivata per illegittimità costituzionale e comunitaria degli artt. 1, 2 e 3 della legge regionale n. 43 del 23.12.2014 per violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione; 2. Illegittimità della delibera regionale n. 6 del 27.1.2015 per mancanza di motivazione (art. 3 L. 241/1990), violazione di legge (artt. 3, 97 Cost.) e eccesso di potere; -II- 1. Illegittimità derivata per illegittimità costituzionale e comunitaria degli artt. 1, 2 e 3 della legge regionale n. 43 del 23.12.2014 per violazione degli artt. 2, 3, 97 e 117 primo comma della Costituzione; irragionevolezza e arbitrarietà; violazione del principio di certezza dei rapporti e di stabilità del quadro normativo; violazione del principio del legittimo affidamento;2. Illegittimità della delibera regionale n. 6 del 27.1.2015 per violazione di legge (artt. 2, 3, 97 e 117 Costituzione nonché art. 6 Carte dei diritti dell’uomo e relativo protocollo); violazione del D.L. 10.10.2012, n. 174 convertito con L. 7.12.2012 n. 231, del D.L. n. 138/2011; eccesso di potere; omessa motivazione; -III- 1. Illegittimità derivata per illegittimità costituzionale e comunitaria degli artt. 1, 2 e 3 della legge regionale n. 43 del 23.12.2014 per violazione dell’art. 117 della Costituzione e per violazione dell’art. 38 della Costituzione e per violazione del D.L. 10.10.2012 n. 174, convertito con L. 7.12.2012, n. 213. 2. Illegittimità della delibera regionale n. 6 del 27.1.2015 per violazione di norme di legge (art. 117 e 38 della Costituzione, nonché del D.L. 10.10.2012, n.174, convertito con L. 7.12.2012, n. 213;eccesso di potere e mancanza di motivazione; -IV- 1. Illegittimità derivata per illegittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 3 della legge regionale n. 43 del 23.12.2014 per contrasto con gli artt. 53, 3 e 97 della Costituzione; 2.Illegittimità della delibera regionale n. 6 del 27.1.2015 per violazione di norme di legge (artt. 53, 3 e 97 della Costituzione);eccesso di potere e mancanza di motivazione.”.
I ricorrenti concludono chiedendo, previa disapplicazione o rimessione alla Corte Costituzionale delle questioni di legittimità costituzionale e comunitaria degli artt. 1, 2 e 3 della legge regionale n. 43 del 23.12.2014 con sospensione del presente giudizio, l’annullamento della deliberazione n. 6 del 2015, con condanna alla restituzione delle somme indebitamente trattenute.
Resiste in giudizio la Regione Veneto, la quale eccepisce, in via preliminare, il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo; nel merito chiede il rigetto del ricorso per infondatezza.
Interviene ad opponendum J.S., il quale eccepisce preliminarmente, il difetto di giurisdizione dell’intestato Tribunale e nel merito chiede il rigetto del ricorso in quanto infondato.
Dopo lo scambio tra le parti di ulteriori memorie difensive e di replica, il ricorso è passato in decisione alla Pubblica Udienza del 7 ottobre 2015.
E’ necessario scrutinare preliminarmente l’eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dall’Amministrazione regionale e dall’intervenuto.
L’eccezione di inammissibilità per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo è fondata.
La vicenda per cui è causa attiene all’impugnazione della deliberazione n. 6/2015 con la quale la Regione Veneto ha assunto disposizioni per l’attuazione della legge regionale n. 43/2014. In particolare, l’art. 1 della citata legge regionale - rubricato “Intervento temporaneo sull’assegno vitalizio” – prevede che “1. A decorrere dal mese successivo all'entrata in vigore della presente legge e fino al 31 dicembre 2017 e comunque una tantum, gli importi lordi mensili degli assegni vitalizi sono temporaneamente ridotti secondo le modalità previste al comma 2.
2. La riduzione di cui al comma 1 viene applicata con criteri di progressività sugli assegni vitalizi dei soggetti con un reddito complessivo annuo ai fini IRPEF superiore a euro 29.500,00, secondo quanto stabilito dalla tabella A, allegata alla presente legge”; il successivo art. 2 –rubricato “Ambito di applicazione della riduzione” - dispone che “1.A far data dall'effettiva percezione dell'assegno vitalizio, la riduzione prevista dall'articolo 1 è applicata anche ai soggetti che, alla data di entrata in vigore della presente legge, non hanno ancora conseguito i requisiti di età previsti per l'erogazione dell'assegno vitalizio ed ai soggetti che, nonostante il possesso dei requisiti richiesti, non hanno ancora percepito l'assegno vitalizio.
2. L'articolo 1 si applica anche alla erogazione in favore dei titolari dell'assegno di reversibilità.”.
Con l’impugnata deliberazione n. 6, la Regione, senza esercitare alcuna attività di tipo discrezionale, si è limitata ad indicare le modalità di verifica di sussistenza di redditi superiori ad euro 29.5000,00, quelle relative alla individuazione di redditi ed aliquote rilevanti ai sensi della legge medesima e le modalità di acquisizione degli elenchi dei percettori di assegni vitalizi.
Ebbene, è pacifico in giurisprudenza che la giurisdizione su controversie quali quella oggetto del presente giudizio esuli dalla giurisdizione del giudice amministrativo, non rientrando in alcuna delle ipotesi di giurisdizione generale di legittimità ovvero esclusiva di questo giudice, sussistendo, invece, dubbi in ordine alla individuazione del giudice competente, se cioè il giudice munito di giurisdizione sia il giudice ordinario ovvero quello contabile.
Secondo un orientamento maggioritario (TAR Piemonte, sez. II, 16 aprile 2015, n. 612; TRGA Trento, 18 dicembre 2014, n. 477; Corte Conti, sez. riun. 30 novembre 2005, n. 5; Corte Conti Abruzzo, 29 settembre 2014, n. 93; Corte Conti Valle d’Aosta, 22 maggio 2014, n. 10; Corte Conti Abruzzo, 12 ottobre 2012, n. 372) la giurisdizione spetta alla Corte dei Conti, in quanto la materia del contendere riveste “carattere previdenziale” e, secondo l’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione, che fornisce una nozione lata di “previdenza”, qualsiasi forma di accantonamento di una parte di retribuzione ai fini di sostentamento successivo realizza, seppure per il tramite della retribuzione correlata a prestazioni lavorative, la funzione previdenziale di cui all’art. 38 Cost., in cui rientra non solo la classica contribuzione previdenziale obbligatoria, ma qualsiasi forma di accantonamento preventivo, per le esigenze di vita postume alla cessazione del rapporto di “lavoro”, sia esso dipendente, professionale o onorario. Ne consegue l’applicabilità del principio secondo cui la Corte dei Conti è titolare di giurisdizione sulla generalità del contenzioso concernente le c.d. pensioni pubbliche, intendendo per tali i trattamenti di natura previdenziale erogati direttamente dallo Stato o dalle Regioni, in via immediata o tramite enti legati ad essi da una relazione di stretta strumentalità.
Più nello specifico, è stato osservato che il contenzioso previdenziale è suddiviso tra la Corte dei Conti ed il giudice ordinario ratione materiae, nel senso che alla prima sono rimessi i trattamenti pensionistici a totale o parziale carico dello Stato, o di enti di analogo livello, ovvero di enti in relazione di strumentalità con essi, mentre al secondo la generalità dei trattamenti previdenziali a carico di qualunque altro ente pubblico o privato: “La giurisdizione pensionistica della Corte dei conti, sorta nello -e con lo- sviluppo stesso del sistema pensionistico c.d. pubblico, è affermata in via generale dall'art. 62 del R.D. 12 luglio 1934 n. 1214 con testuale riferimento alla materia pensionistica "a carico totale o parziale dello Stato" (ratione materiae) e non al soggetto attivo o passivo del rapporto dedotto (ratione subiecti) (……).Successive disposizioni di legge hanno poi allargato i confini di essa, aggiungendo una serie di casi particolari, che ne hanno definito i confini rispetto alla concorrente giurisdizione previdenziale del giudice ordinario. Ne è derivata una ripartizione di giurisdizione basata sulla circostanza della diretta afferenza del trattamento previdenziale sia pure parzialmente allo Stato o, in quanto ad esso assimilate, alle regioni ovvero ad un altro ente pubblico o privato.
Le Regioni (……..) rappresentano enti territoriali dotati, alla pari dello Stato, di potestà di legislazione formale, espressione diretta della sovranità statuale, da cui derivano altresì conseguentemente le guarentigie dei relativi corpi legislativi, anche nell'attività di autorganizzazione, e le prerogative degli altri suoi organi, nonché la spiccata autonomia di cui godono nell'esercizio della stessa funzione amministrativa. Da qui la palese assimilazione allo Stato, nei limiti stabiliti dalla legislazione costituzionale, e la possibilità per le Regioni (…..) di prevedere trattamenti previdenziali a carattere "pubblico" gravanti sul proprio bilancio (……).
Nel settore del contenzioso pensionistico, così come in altri della vita sociale ed amministrativa, è quindi intervenuta un'azione a livello normativo e giurisprudenziale tesa a ricondurre le varie ipotesi ai due fondamentali ambiti di giurisdizione (contabile ed ordinaria), in un'apprezzabile logica di aggregazione per materia, che tenga conto della qualificazione acquisita, in una quasi centenaria opera, dalla Corte dei conti, ormai divenuta -con la Costituzione repubblicana - una giurisdizione, non speciale, ma generale e specializzata nelle materie ad essa rimesse dalla Costituzione, direttamente o tramite la mediazione della legge.” (Corte Conti cit. sez. riun. n. 5/2005).
Secondo altro, più recente, orientamento la giurisdizione spetterebbe, invece, al giudice ordinario, atteso che nessuna norma vigente attribuisce testualmente natura pensionistica all’assegno vitalizio, né in materia previdenziale vige un principio di “assimilazione” del trattamento in questione a quello pensionistico solo per la presenza di talune affinità funzionali o strutturali tra i trattamenti riconosciuti da lex specialis a funzionari onorari e pensioni erogate da lex generalis a pubblici dipendenti. Pertanto, “La assenza di norma attributiva di natura pensionistica, la diversa natura dei percettori (funzionari onorari o pubblici dipendenti) e la diversità di natura, finalità (indennità di carica, non retributiva, goduta in relazione all’esercizio di un mandato pubblico) e di regime che distingue gli assegni vitalizi dalle pensioni ordinarie (si pensi solo al basilare distinguo afferente le condizioni estremamente più favorevoli per la maturazione e la misura del beneficio del vitalizio rispetto alla pensione) non consente, dunque, già per tale assorbente argomento testuale e sistematico, di radicare la giurisdizione in capo a questa Corte” (Corte Conti Lombardia, 24 giugno 2015, n. 117).
Ebbene, per quanto la questione presenti aspetti indubbiamente problematici e di non facile ed immediata soluzione, il Collegio ritiene, per il caso di cui si discute, di aderire alla tesi che predica la giurisdizione del giudice contabile.
Invero, la controversia oggetto del presente giudizio presuppone esclusivamente la lesione di diritti di natura previdenziale, tali essendo trattati dal legislatore.
Considerato che per la corretta qualificazione del rapporto, è necessario verificare le effettive modalità di svolgimento del rapporto medesimo e i termini in cui esso è stato configurato dal legislatore, non pare possano sorgere fondati dubbi sul fatto che i vitalizi di cui si discute presentino carattere previdenziale, per come essi risultano strutturati e disciplinati dalla legge regionale, che prevede requisiti minimi di contribuzione ed anagrafici per il conseguimento del diritto in questione. Deve, inoltre, rilevarsi che è incontestato che l’assegno vitalizio di cui si discute gravi sul bilancio regionale.
D’altra parte, è stato, in effetti, evidenziato, sia dalle S.U. della Cassazione in numerose pronunce, sia dalla stessa Corte dei Conti, con l’avvallo anche della Corte Costituzionale, che anche in tale settore si è inteso applicare la logica dei cc.dd. “blocchi di materia“, secondo cui l’attribuzione di una competenza comporta necessariamente la sua estensione orizzontale e verticale all’intera casistica connessa, in modo da evitare frammentazioni ed incertezze circa il giudice cui ricorrere, che sarebbero lesive del principio costituzionale di piena ed effettiva tutela giurisdizionale.
In conclusione, per le esposte ragioni, esclusa la giurisdizione del giudice amministrativo, il Collegio ritiene che questa spetti alla Corte dei Conti.
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione.
Peraltro, alla declaratoria del difetto di giurisdizione del giudice amministrativo e all’affermazione di quella del giudice contabile, consegue la conservazione degli effettivi processuali e sostanziali della domanda ove il processo sia tempestivamente riassunto dinanzi al Giudice territorialmente competente, nel termine di tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza, ai sensi dell’art. 11, comma II° del D. Lgs. 2 luglio 2010 n. 104, che regola la fattispecie sulla scorta dell’orientamento espresso da Corte Cost. n. 77/2007 e Cass. Sez. Un. n. 4109/2007 e poi recepito dal previgente art. 59 della legge n. 69/2009.
Stante la natura processuale della decisione e la, comunque, complessità della questione, anche in considerazione del contrasto giurisprudenziale in ordine alla individuazione del giudice munito di giurisdizione, il Collegio ritiene che sussistano quelle gravi ragioni che consentono di integralmente compensare le spese di causa tra tutte le parti costituite in giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Prima)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile per difetto di giurisdizione.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.