martedì 27 marzo 2018


Corte cost. 27 marzo 2018, n. 63 (ord.)

E’ manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2, 2, 4-bis, 12 e 14 della legge 27 dicembre 2001, n. 459 (Norme per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all’estero), sollevata, in riferimento agli artt. 1, secondo comma, e 48, primo, secondo e terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Venezia, con l’ordinanza 5 gennaio 2018, n. 11 [osserva la Consulta, dopo aver premesso le “oggettive criticità della normativa denunciata quanto al bilanciamento della effettività del diritto di voto dei cittadini residenti all’estero con gli imprescindibili requisiti di personalità, libertà e segretezza del voto stesso, con riferimento ai parametri di cui, rispettivamente, ai commi terzo e secondo dell’art. 48 della Costituzione”, che: 1) “il mero riferimento all’interesse all’«accertamento giudiziale […] della concreta volontà della legge», sulla pienezza del diritto di voto del residente all’estero, con riguardo alla (allora) futura consultazione referendaria, senza alcun’altra indicazione, nemmeno sintetica o per relationem (della situazione soggettiva e/o oggettiva che risulterebbe, nel caso concreto, potenzialmente impeditiva della segretezza del voto), «non può essere considerato motivazione sufficiente e non implausibile dell’esistenza dell’interesse ad agire, idonea, in quanto tale, a escludere un riesame ad opera di questa Corte dell’apprezzamento compiuto dal giudice a quo ai fini dell’ammissibilità dell’azione» (sentenza n. 110 del 2015)”; 2) “diversamente dalle ipotesi prese in esame dalle sentenze n. 1 del 2014 e n. 35 del 2017 (in tema di elezione del Parlamento nazionale, i cui risultati, in quanto esclusivamente rimessi al controllo delle Camere di appartenenza ex art. 66 Cost., sono sottratti a quello del giudice comune) ed analogamente, invece, a quella relativa alla elezione dei membri italiani del Parlamento europeo, di cui alla sentenza n. 110 del 2015 – l’incertezza sulla pienezza sul diritto di voto nella procedura referendaria, come nella specie prospettata, «non può essere considerata costituzionalmente insuperabile […] nel senso di non poter essere risolta, sul piano costituzionale, se non ammettendo un’azione del tipo di quella proposta nel giudizio a quo» (sentenza n. 110 del 2015)”, posto che “nella procedura in esame sono espressamente previste la reclamabilità delle operazioni di voto all’Ufficio centrale per la circoscrizione Estero – ex art. 23 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo) e art. 20, comma 3, del Decreto del Presidente della Repubblica 2 aprile 2003, n. 104 (Regolamento di attuazione della L. 27 dicembre 2001, n. 459, recante disciplina per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all’estero) – e la loro successiva sottoponibilità all’esame dell’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione, legittimato – esso – a sollevare incidente di costituzionalità (ordinanze n. 14 e n. 1 del 2009)”]





ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2, 2, 4-bis, 12 e 14 della legge 27 dicembre 2001, n. 459 (Norme per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all’estero), promosso dal Tribunale ordinario di Venezia nel procedimento vertente tra Pier Michele Cellini e la Presidenza del Consiglio dei ministri e altri, con ordinanza del 5 gennaio 2018, iscritta al n. 11 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visti l’atto di costituzione per Pier Michele Cellini, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 21 febbraio 2018 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli;
uditi l’avvocato Mario Bertolissi per Pier Michele Cellini e l’avvocato dello Stato Vincenzo Nunziata per il Presidente del Consiglio dei ministri.


Ritenuto che nel corso di un procedimento ex art. 702-bis del codice di procedura civile – promosso da un cittadino italiano residente all’estero, il quale, previa sospensione dei provvedimenti di avvio delle operazioni referendarie (indette per il successivo dicembre 2016), chiedeva, nel merito, dichiararsi che, «tramite il c.d. “voto per corrispondenza”, il [suo] diritto di voto […] non può essere stato esercitato (nel passato) e non potrà nemmeno essere esercitato (anche nell’immediato futuro) in modo libero e diretto, con pieno e completo rispetto delle garanzie di segretezza e personalità […]» e, a tal fine, chiedeva sollevarsi questione di legittimità costituzionale della vigente disciplina del voto all’estero – l’adito giudice monocratico del Tribunale ordinario di Venezia ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2, 2, 4-bis, 12 e 14 della legge 27 dicembre 2001, n. 459 (Norme per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all’estero), nella parte, appunto, in cui disciplinano le modalità di esercizio del voto per corrispondenza dei cittadini italiani residenti all’estero, per contrasto con gli artt. 1, secondo comma, e 48, primo, secondo e terzo comma, della Costituzione;
che, secondo il rimettente, la denunciata disciplina del voto per corrispondenza contrasterebbe con gli evocati parametri costituzionali, presentando «tali e tante ombre da far perfino dubitare che possa definirsi “voto”»;
che, in particolare, violato sarebbe il «principio di segretezza», poiché l’art. 12 della legge n. 459 del 2001 prevede che «i cittadini italiani residenti all’estero, dopo avere votato ubiquiter, utilizzando la scheda elettorale inviata loro dall’ufficio consolare a mezzo posta raccomandata “o con altro mezzo di analoga affidabilità”, la spediscano – parimenti per posta, ma senza necessario ricorso alla “raccomandata o altro mezzo di analoga affidabilità” – agli uffici consolari competenti per l’invio con valigia diplomatica all’Ufficio centrale per la circoscrizione Estero». Ciò che, appunto, «non assicur[erebbe] la segretezza, la personalità e la libertà del voto», sia nella fase della sua manifestazione che in quella successiva della sua comunicazione;
che si è costituito davanti a questa Corte il ricorrente nel giudizio principale, che, in adesione alla prospettazione del giudice a quo, ha evidenziato il pericolo (ed enumerato episodi e testimonianze portati alla luce dai mezzi di informazione) di «brogli», che le modalità di esercizio del voto per corrispondenza (hanno consentito e) consentirebbero. Ed ha sostenuto che, comunque, i requisiti (di personalità, libertà e segretezza) del diritto di voto, in quanto posti a presidio della stessa democrazia del Paese, non sarebbero bilanciabili con altri valori costituzionali;
che è altresì intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità della questione sollevata dal rimettente (per l’assoluta carenza di sua motivazione, sia sulle «ragioni che dimostrino il potenziale pregiudizio per il requisito della segretezza del voto» nel caso di specie, sia sulla sussistenza dell’interesse del ricorrente ad agire in via preventiva rispetto alla consultazione referendaria, «così sfuggendo all’attività probatoria che un reclamo ex post sulle operazioni di voto, all’Ufficio centrale per la circoscrizione Estero, avrebbe comportato»). E, in subordine, ha sostenuto, nel merito, che quella del voto per corrispondenza «è stata, in realtà, una scelta “obbligata” dato che il voto per procura è oggettivamente contrario al principio di personalità, mentre il voto in loco, mediante la predisposizione di sezioni elettorali sul territorio degli Stati ospitanti, avrebbe creato problemi irrisolvibili di organizzazione e, in molti casi, sarebbe stato vietato dagli Stati stessi per il rischio di veder lesa la propria sovranità», dal che la non fondatezza, comunque, delle censure formulate dal Tribunale a quo;
che, nel ribadire, con successiva memoria, le proprie conclusioni, l’Avvocatura dello Stato ha ulteriormente, tra l’altro, argomentato che la “deroga” alla segretezza del voto, senza la quale gli italiani all’estero non avrebbero potuto «scegliere se esercitare il diritto di voto in Italia o all’estero», opererebbe sullo stesso piano delle deroghe, resesi parimenti necessarie, per consentire ai cittadini affetti da gravi infermità il cosiddetto “voto assistito” e il “voto a domicilio”, ed ha ricordato ancora come il sistema prescelto dal legislatore del 2001 sia stato «adottato, in diversi periodi, anche da altri ordinamenti giuridici (tra l’altro, Francia, Svizzera, Germania, alcuni stati degli USA, Spagna)».
Considerato che la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2, 2, 4-bis, 12 e 14 della legge 27 dicembre 2001, n. 459 (Norme per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all’estero), sollevata dal Tribunale di Venezia – pur evidenziando oggettive criticità della normativa denunciata quanto al bilanciamento della «effettività» del diritto di voto dei cittadini residenti all’estero con gli imprescindibili requisiti di personalità, libertà e segretezza del voto stesso, con riferimento ai parametri di cui, rispettivamente, ai commi terzo e secondo dell’art. 48 della Costituzione – è, però, sotto un duplice profilo, manifestamente inammissibile;
che in primo luogo, infatti, il mero riferimento all’interesse all’«accertamento giudiziale […] della concreta volontà della legge», sulla pienezza del diritto di voto del residente all’estero, con riguardo alla (allora) futura consultazione referendaria, senza alcun’altra indicazione, nemmeno sintetica o per relationem (della situazione soggettiva e/o oggettiva che risulterebbe, nel caso concreto, potenzialmente impeditiva della segretezza del voto), «non può essere considerato motivazione sufficiente e non implausibile dell’esistenza dell’interesse ad agire, idonea, in quanto tale, a escludere un riesame ad opera di questa Corte dell’apprezzamento compiuto dal giudice a quo ai fini dell’ammissibilità dell’azione» (sentenza n. 110 del 2015);
che inoltre – diversamente dalle ipotesi prese in esame dalle sentenze n. 1 del 2014 e n. 35 del 2017 (in tema di elezione del Parlamento nazionale, i cui risultati, in quanto esclusivamente rimessi al controllo delle Camere di appartenenza ex art. 66 Cost., sono sottratti a quello del giudice comune) ed analogamente, invece, a quella relativa alla elezione dei membri italiani del Parlamento europeo, di cui alla sentenza n. 110 del 2015 – l’incertezza sulla pienezza sul diritto di voto nella procedura referendaria, come nella specie prospettata, «non può essere considerata costituzionalmente insuperabile […] nel senso di non poter essere risolta, sul piano costituzionale, se non ammettendo un’azione del tipo di quella proposta nel giudizio a quo» (sentenza n. 110 del 2015);
che, infatti, nella procedura in esame sono espressamente previste la reclamabilità delle operazioni di voto all’Ufficio centrale per la circoscrizione Estero – ex art. 23 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo) e art. 20, comma 3, del Decreto del Presidente della Repubblica 2 aprile 2003, n. 104 (Regolamento di attuazione della L. 27 dicembre 2001, n. 459, recante disciplina per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all’estero) – e la loro successiva sottoponibilità all’esame dell’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione, legittimato – esso – a sollevare incidente di costituzionalità (ordinanze n. 14 e n. 1 del 2009);
che, in ragione appunto di tali non superabili profili di inammissibilità, resta precluso, in limine, l’esame nel merito della questione sollevata.


per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2, 2, 4-bis, 12 e 14 della legge 27 dicembre 2001, n. 459 (Norme per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all’estero), sollevata, in riferimento agli artt. 1, secondo comma, e 48, primo, secondo e terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Venezia, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Mario Rosario MORELLI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 27 marzo 2018.

giovedì 22 marzo 2018


Cass. 20 marzo 2018, n. 6963

L’adottato ha diritto, nei casi di cui all’art. 28, comma 5, della l. n. 184 del 1983, di conoscere le proprie origini, accedendo alle informazioni concernenti non solo l’identità dei genitori biologici, ma anche quella delle sorelle e dei fratelli biologici adulti, previo loro interpello mediante procedimento giurisdizionale idoneo ad assicurare la massima riservatezza ed il massimo rispetto della dignità, al fine di acquisirne il consenso all’accesso alle dette informazioni o di constatarne il diniego, da ritenersi impeditivo dell’esercizio del diritto”.

Dal sito
http://www.cortedicassazione.it/corte-di-cassazione/it/det_civile_prima_sezione.page;jsessionid=FEAA1F599F43419447FF4CF528CB690E.jvm1?contentId=SZC20959

domenica 11 marzo 2018



Parere del Cons. di Stato 2018


Ai sensi dell’art. 3, lett. d), della l. 1185/1967, ostano al rilascio del passaporto – ed all’apposizione dell’inibitoria all’espatrio sulla carta d’identità –  le (tre, nel caso deciso) ammende penali insolute, prive del nulla osta dell'autorità che deve curare l'esecuzione delle relative sentenze; né la misura è contraria alla libertà di circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’Unione, in quanto le ammende in parola concretano i “motivi di ordine pubblico” e “di pubblica sicurezza” che, secondo l'art. 27, comma 1, della Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 29 aprile 2004, n. 2004/38/CE, possono limitare la libertà de qua, risultando, altresì, nel caso deciso, rispettosa del principio di proporzionalità e adeguata al comportamento dell’interessato, come previsto dal comma 2° della citata disposizione




Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica avverso diniego di rilascio del passaporto e ordine di esibizione della  carta di identità per apposizione d'inibitoria all'espatrio.
LA SEZIONE
Vista la relazione con la quale il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto;
Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Giancarlo Luttazi.

Premesso:
con ricorso straordinario - recante richiesta di accesso al procedimento e di un congruo termine per replicare agli scritti dell’Amministrazione - notificato al Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale il 6 giugno 2017 il signor -OMISSIS-, pervenuto al ricorrente, come riferito nel ricorso, in data 6 febbraio 2017 e con cui quel Ministero ha respinto il ricorso gerarchico proposto dal signor -OMISSIS- avverso il provvedimento del Questore di Piacenza datato 1 settembre 2016 e notificato in data 1 novembre 2016, il quale ha respinto l'istanza del ricorrente di rilascio del passaporto e ha disposto l'esibizione della carta d’identità per l'apposizione dell'inibitoria all'espatrio.
Il provvedimento questorile, confermato dal rigetto del relativo ricorso gerarchico, è stato disposto perché a carico del ricorrente era emersa, tra l’altro, la condanna al pagamento di tre ammende per un importo rispettivamente di Euro 1760,00, 2400,00 e 2600,00 (le prime due stabilite con sentenza della Corte d'appello di Bologna del 4 marzo 2011, la terza con decreto penale del Tribunale di Piacenza del 13 aprile 2015) e non pagate, ed era stata dunque riscontrata la condizione ostativa di cui all’articolo 3, lettera d), della legge 21 novembre 1967, n. 1185 nonché, quanto alla citata annotazione sulla carta di identità, la necessità dei relativi adempimenti ai sensi del d.P.R. 6 agosto 1974, n. 649 (“Disciplina dell’uso della carta d’identità e degli altri documenti equipollenti al passaporto ai fini dell’espatrio”).
Il ricorso denuncia la violazione dell'art. 27 della Direttiva comunitaria 2004/38/CE per non esser stato interpretato in senso ad essa conforme il citato art. 3, lettera d), della legge n. 1185/1967; nonché una sostanziale lesione dei principi costituzionali di uguaglianza, parità di trattamento, libera circolazione.
Il Ministero riferente ha espresso l’avviso che l’Amministrazione abbia legittimamente operato.
La relazione e gli atti ad essa allegati sono stati trasmessi al ricorrente in data 20 ottobre 2017.
Considerato:
Il ricorrente non contesta che a suo carico risulta il mancato pagamento di tre diverse ammende, e che per il rilascio del passaporto non vi è stato il nulla osta dell'autorità che deve curare l'esecuzione delle relative sentenze; ma sostiene che la disposizione conseguentemente applicata nei suoi confronti [l’articolo 3, lettera d), della legge 21 novembre 1967, n. 1185] lo sia stata in base ad una interpretazione non conforme all'art. 27 della Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 29 aprile 2004, n. 2004/38/CE, relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri; e che una simile interpretazione violi anche i principi costituzionali di uguaglianza, parità di trattamento e libera circolazione.
Questi rilievi sono infondati.
Le ammende non pagate dal ricorrente concretano effettivamente la fattispecie di cui al citato articolo 3, lettera d), della legge n. 1185/1967 [“Non possono ottenere il passaporto: […] d) coloro che debbano espiare una pena restrittiva della libertà personale o soddisfare una multa o ammenda, salvo per questi ultimi il nulla osta dell'autorità che deve curare l'esecuzione della sentenza, sempreché la multa o l'ammenda non siano già state convertite in pena restrittiva della libertà personale, o la loro conversione non importi una pena superiore a mesi 1 di reclusione o 2 di arresto”].
Le tre ammende penali insolute – a fronte delle quali è mancato un nulla osta al rilascio del passaporto “dell'autorità che deve curare l'esecuzione della sentenza” – concretano i “motivi di ordine pubblico” e “di pubblica sicurezza” che, secondo l’invocato l'art. 27, comma 1, della Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 29 aprile 2004, n. 2004/38/CE, possono limitare la libertà di circolazione e di soggiorno di un cittadino dell'Unione europea; e, come previsto nel successivo comma 2, risultano rispettose del principio di proporzionalità e adeguate al comportamento personale che è emerso dalle condanne riportate dal ricorrente.
E altresì tali proporzionalità e adeguatezza escludono sia una interpretazione del citato articolo 3, lettera d), della legge n. 1185/1967 contraria ai pure invocati principi costituzionali di uguaglianza, parità di trattamento e di libera circolazione sia, con evidenza, un contrasto della stessa disposizione con quei principi costituzionali.
P.Q.M.
Esprime il parere che il ricorso debba essere respinto.
Manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare il ricorrente.

sabato 3 marzo 2018



Cons. di Stato, I, xxx 2018, n. xxx


Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dal signor V. e dalla “Onoranze funebri ...” contro il Comune di C. e nei confronti della “Organizzazione funeraria …” avverso Regolamento trasporti funebri.
LA SEZIONE
Vista la relazione con la quale il Ministero dell'interno ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto;
Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Giancarlo Luttazi.

Premesso:
Con ricorso straordinario notificato in data 8 giugno 2006 al Comune di C. e alla “Organizzazione funeraria …” il signor V. e la “Onoranze funebri di …” – che riferiscono di esercitare l'impresa per la gestione di un'agenzia pubblica di affari per disbrigo pratiche amministrative-onoranze funebri nel Comune di C. - hanno impugnato il Regolamento dei trasporti funebri di quel Comune (entrato in vigore, come riferisce il ricorso, il 9 febbraio 2006: allo stato non è reperibile in atti la relativa certificazione), nella parte in cui all'art. 8 prevede per l'iscrizione all'albo comunale dei trasporti funebri anche i seguenti requisiti minimi:
- possesso di autorimessa nel territorio del Comune di C. ed avente i requisiti di cui all'art. 21 del D., P, R. n. 285/90;
- possesso e/o disponibilità esclusiva (contratto leasing e/o noleggio per la durata di anni 3 (tre) della seguente dotazione di mezzi: a) n. 2 carri funebri aventi i requisiti minimi richiesti di impatto ambientale e norme per la sicurezza stradale; b) n. l carro funebre per bambini (fino a l0 anni) di colore chiaro; c) n. l autovettura omologata per il trasporto floreale: d) n. l furgone navetta omologato per trasporto persone per l 'accompagnamento dei congiunti della salma dal luogo in cui viene svolto il rito religioso sino al cimitero;
- una dotazione di personale sufficiente non inferiore a 6 (sei) necrofori di cui 2 (due) con la qualifica di autista […]”.
II ricorrenti lamentano che le nuove previsione regolamentari impediscono, in considerazione dei requisiti richiesti, la nascita di imprese di trasporto funebre di piccole dimensioni, eliminando la libera concorrenza cui si ispira la normativa vigente, che ha liberalizzato anche questo tipo di mercato; e denunciano “violazione di legge per falsa applicazione del d.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 - eccesso di potere per sviamento dalla causa tipica”.
Il Comune di C. ha prodotto una relazione, esprimendo l’avviso che il ricorso sia tardivo.
Il Ministero riferente, con relazione datata 12 luglio 2017, ha espresso l’avviso che il ricorso sia inammissibile per carenza di legittimazione ad agire, non avendo il provvedimento impugnato alcun effetto lesivo diretto nella sfera giuridica dei ricorrenti.
Considerato:
Il ricorso va respinto nel merito, e ciò consente di prescindere dalle eccezioni preliminari.
I contestati requisiti minimi previsti per l'iscrizione all'albo comunale dei trasporti funebri hanno l’evidente finalità di far sì che l’importante servizio venga espletato da imprese che possano garantirne il decoro e la conformità al palese interesse pubblico da soddisfare. I contestati livelli minimi di qualità del particolare servizio non risultano in palese contrasto con criteri di logica e adeguatezza, unici criteri ai quali commisurare l’opzione regolatoria dell’atto normativo impugnato.
P.Q.M.
Esprime il parere che il ricorso debba essere respinto.

venerdì 2 marzo 2018



Fotografare il voto (può) “costa (re)  caro”

Cass. pen.  1 marzo 2018 (ud. 21 dicembre 2017)  n. 9400

L'interpretazione letterale dell’art. 1,  del d.l. 49/2008, convertito dalla l. 96/2008, non si presta ad equivoci, nel senso che la condotta costituente reato è esclusivamente quella descritta nel comma primo della norma stessa - l'introduzione nella cabina elettorale di strumenti atti a fotografare l'espressione del voto - a cui, difatti, fa esclusivo riferimento il comma quarto nel prevedere la sanzione penale in caso di sua inosservanza [secondo l’imputato il reato non si era consumato perché  “la condotta … avrebbe dovuto essere preceduta, secondo la lettera della norma, dall'invito del presidente del seggio a non introdurre nella cabina il mezzo di riproduzione visiva”; osserva il S.C. che “I commi secondo e terzo della norma in oggetto dettano solo le condotte di cui il presidente del seggio è onerato, la cui inosservanza peraltro è priva di conseguenze penali per il medesimo. Dal che si deduce come tali ulteriori condotte, ed in particolare l'invito del presidente all'elettore a depositare le apparecchiature di registrazione, previsto dal comma secondo, non costituiscono alcuna condizione di procedibilità o di punibilità della condotta descritta al primo comma”]


RITENUTO IN FATTO

1 - Con sentenza del 18 maggio 2017, la Corte di appello di Firenze confermava la sentenza del locale Tribunale nella parte in cui aveva ritenuto P. B. colpevole del reato previsto dall'art. 1 legge n. 96 del 2008, per avere introdotto, il 24 febbraio 2013, nella cabina elettorale il proprio telefono cellulare scattando una fotografia alla scheda elettorale che aveva appena compilato, solo convertendo la pena detentiva irrogatagli nella pena pecuniaria di euro 15.000 di ammenda.

L'imputato aveva ammesso di avere scattato la fotografia alla scheda elettorale in cui risultava già impresso il suo voto ma il suo difensore assumeva non essersi consumato il reato contestato poichè la condotta dell'imputato avrebbe dovuto essere preceduta, secondo la lettera della norma, dall'invito del presidente del seggio a non introdurre nella cabina il mezzo di riproduzione visiva.

La Corte territoriale aveva, invece, confermato la condanna del B. affermando che la norma punitiva non prevedeva affatto, come elemento costitutivo del reato contestato, il previo invito del presidente del seggio a non introdurre nella cabina elettorale strumenti atti a fotografare il voto espresso.

La Corte riteneva, infine, l'inapplicabilità del disposto dell'art. 131 bis cod. pen., in considerazione della gravità del fatto consumato, posto che, alla vietata introduzione nella cabina elettorale del mezzo di riproduzione, già di per sé condotta costituente reato, si era aggiunta anche la effettiva fotografia della scheda elettorale appena compilata.

2 - Propone ricorso l'imputato, a mezzo del suo difensore, articolando le proprie censure in tre motivi.

2 - 1 - Con il primo deduce la violazione di legge ed il vizio della motivazione in quanto, se è vero che il primo comma della norma citata prevede la punizione di chi porta all'interno della cabina degli strumenti atti a fotografare il voto, è altrettanto vero che i commi successivi dettano gli adempimenti che il presidente del seggio deve attuare per rendere concreto tale divieto, consistenti nell'invitare l'elettore a depositare le apparecchiature prima di entrare in cabina.

2 - 2 - Con il secondo motivo lamenta la violazione di legge in relazione alla mancata applicazione del disposto dell'art. 131 bis cod. pen.. Il comportamento era del tutto occasionale e l'omissione dell'invito da parte del presidente aveva certamente diminuito il coefficiente psicologico del fatto e, quindi, la sua gravità. Il precedente penale non era impeditivo.

2 - 3 - Con il terzo motivo deduce la violazione di legge in riferimento al calcolo della pena pecuniaria sostitutiva, non essendo possibile limitare il ragguaglio previsto dall'art. 459 comma 1 bis introdotto dalla legge 23 giugno 2017 n. 203 al solo caso delle pene pecuniarie irrogate con il decreto penale.


CONSIDERATO IN DIRITTO


Il ricorso è infondato e va pertanto rigettato.


1 - Il testo dell'art. 1 d.l. 1 aprile 2008 n. 49, conv. in legge 30 maggio 2008 n. 96 è il seguente:

" 1. Nelle consultazioni elettorali o referendarie è vietato introdurre all'interno delle cabine elettorali telefoni cellulari o altre apparecchiature in grado di fotografare o registrare immagini.
2. Il presidente dell'ufficio elettorale di sezione, all'atto della presentazione del documento di identificazione e della tessera elettorale da parte dell'elettore, invita l'elettore stesso a depositare le apparecchiature indicate al comma 1 di cui è al momento in possesso.
3. Le apparecchiature depositate dall'elettore, prese in consegna dal presidente dell'ufficio elettorale di sezione unitamente al documento di identificazione e alla tessera elettorale, sono restituite all'elettore dopo l'espressione del voto. Della presa in consegna e della restituzione viene fatta annotazione in apposito registro.
4. Chiunque contravviene al divieto di cui al comma 1 è punito con l'arresto da tre a sei mesi e con l'ammenda da 300 a 1000 euro.".

2 - L'interpretazione letterale di tale norma non si presta ad equivoci, nel senso che la condotta costituente reato è esclusivamente quella descritta nel comma primo della stessa - l'introduzione nella cabina elettorale di strumenti atti a fotografare l'espressione del voto - a cui, difatti, fa esclusivo riferimento il comma quarto nel prevedere la sanzione penale in caso di sua inosservanza.

I commi secondo e terzo della norma in oggetto dettano solo le condotte di cui il presidente del seggio è onerato, la cui inosservanza peraltro è priva di conseguenze penali per il medesimo. Dal che si deduce come tali ulteriori condotte, ed in particolare l'invito del presidente all'elettore a depositare le apparecchiature di registrazione, previsto dal comma secondo, non costituiscono alcuna condizione di procedibilità o di punibilità della condotta descritta al primo comma.

3 - Se ne deduce pertanto la correttezza della decisione impugnata sul punto, posto che, in fatto, era emerso che il ricorrente aveva, comunque, violato il divieto posto dalla norma penale, introducendo il proprio telefono cellulare nella cabina elettorale. Peraltro anche attuando il pericolo che il precetto intende scongiurare, fotografando la sua espressione di voto.

Così da giustificare, sul piano logico, la conclusione a cui erano pervenuti i giudici del merito sulla particolare gravità della condotta posta in essere dal B., al fine di negare la speciale formula di proscioglimento prevista dall'art. 131 bis cod. pen..

Sono, conclusivamente, infondati il primo ed il secondo motivo di ricorso.


4 - Non merita accoglimento neppure il terzo motivo di ricorso.

L'art. 1, comma 53, legge 23 giugno 2017 n. 103 ha, infatti, introdotto, nell'art. 459 cod. proc. pen. (in tema di procedimento per decreto penale), il comma 1 bis, che consente al giudice di determinare la misura della sanzione penale, sostitutiva della pena detentiva, non più nei termini generali stabiliti dall'art. 135 cod. pen. (euro 250 per ogni giorno di pena detentiva), ma in misura variabile (tenendo conto della condizione economica dell'imputato e del suo nucleo familiare) da un minino di euro 75 ad un massimo pari al triplo di tale somma, per ogni giorno di pena detentiva.

Il ricorrente assume che tale trattamento di maggior favore debba applicarsi, non al solo caso del procedimento per decreto/ ma a tutti i casi in cui la pena detentiva può essere trasformata in pena pecuniaria e, quindi, anche nel caso di specie, ove, ad esito del prescelto rito abbreviato, la sanzione detentiva è stata sostituita in quella pecuniaria ai sensi dell'art. 53 legge 24 novembre 1981 n. 689.

Tale pretesa è però priva di fondamento.

E' infatti evidente che il legislatore, nell'introdurre, con la legge n. 103/2017, nell'art. 459 cod. proc. pen. il comma 1 bis, ha inteso favorire la definizione contratta del processo penale, ad evidenti fini deflattivi, consentendo, nel solo caso del rito alternativo del decreto penale, il più semplificato fra quelli previsti dall'ordinamento, un'ulteriore contrazione della risposta sanzionatoria (laddove poi la pena può essere già diminuita in misura maggiore rispetto agli altri riti semplificati, della metà piuttosto che di un terzo come nel caso dell'applicazione concordata della pena e del giudizio abbreviato).

Si tratta pertanto di una disposizione di favore giustificata dal risparmio di attività processuali e che, per tale ragione, non può essere considerata, come vorrebbe il ricorrente, una norma di applicazione generale, se non ponendo in dubbio l'intero impianto premiale del codice di rito.

4 - Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.



P.Q.M.


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso, in Roma, il 21 dicembre 2017.