Tar Sicilia, Catania, 6 agosto
2018, n. 1671
È nulla, per difetto assoluto di attribuzione, l’ordinanza
contingibile ed urgente adottata, per ragioni asseritamente
igienico-sanitarie, dal Sindaco ai sensi dell’art. 50, d.lgs. 18 agosto 2000,
n. 267, nella qualità di rappresentate della Comunità Locale e non di
Ufficiale di Governo, in tema di locazione e/o cessione a qualunque titolo di
immobili ad uso abitativo per accoglienza migranti, rifugiati e richiedenti
asilo (1).
(1) Ha ricordato il Tar che la ragione del provvedimento è costituita
dalla dichiarata inidoneità del territorio comunale urbano ed extraurbano ad
assicurare la necessaria accoglienza di migranti, rifugiati e richiedenti
asilo, a causa dell’asserita assenza di strutture idonee allo scopo. Di
conseguenza, la materia disciplinata con l’ordinanza sindacale non è tanto
quella igienico-sanitaria, quanto, soprattutto e principalmente, quella della
gestione dei migranti, rientrante nella sfera di competenza dello Stato e,
più precisamente, del Ministero dell’Interno, e non in quella dei Comuni (o
dei Sindaci).
L’art. 117, comma 2, Cost., infatti, riserva alla potestà legislativa
esclusiva dello Stato la competenza a disciplinare il diritto di asilo e la
condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione
Europea (lett. a) e, più in generale, tutti i vari aspetti connessi
all’immigrazione (lett. b).
Il Legislatore statale, quindi, nell’esercizio della predetta competenza
legislativa esclusiva, ha disciplinato il complesso fenomeno dell’accoglienza
dei cittadini provenienti da Paesi non appartenenti all’Unione Europea e
degli apolidi richiedenti protezione internazionale nel territorio nazionale,
comprese le frontiere e le relative zone di transito, nonché le acque
territoriali, e dei loro familiari inclusi nella domanda di protezione
internazionale, emanando il d.lgs. n. 142 del 2015, in attuazione delle
Direttive 2013/32/UE e 2013/33/UE, così demandando al Ministero dell’Interno
ed ai Prefetti la competenza e l’esercizio di importanti funzioni in materia.
Ai sensi dell’art. 9, d.lgs. n. 142 del 2015, infatti, spetta al Prefetto,
sentito il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero
dell’Interno, il potere di inviare il richiedente nelle strutture di cui al comma
1 (ossia nei centri governativi di prima accoglienza, istituiti con decreto
del Ministro dell’Interno, sentita la Conferenza unificata di cui all'art. 8, d.lgs.
28 agosto 1997, n. 281), per il tempo necessario, all’espletamento delle
operazioni di identificazione, ove non completate precedentemente, alla
verbalizzazione della domanda di protezione internazionale ed all’avvio della
procedura di esame della predetta domanda, nonché all’accertamento delle
condizioni di salute dell’istante.
Non può, dunque, il Sindaco, nella sua qualità di Autorità Locale,
intervenire con propri atti per regolamentare il fenomeno migratorio, sebbene
nell’ambito del proprio territorio comunale.
Partendo da tali presupposti il Tar ha dichiarato nulla l’impugnata
ordinanza:
a) perché la gestione e la dislocazione dei migranti, rifugiati
e richiedenti asilo sull’intero territorio nazionale è riservata alla
competenza esclusiva del Ministero dell’interno e del Prefetto;
b) perché la disciplina dell’iscrizione all’anagrafe dei richiedenti
protezione internazionale è à riservata alla competenza esclusiva dello
Stato;
c) perchè vietare la vendita o la concessione in locazione o in comodato
di immobili siti nel territorio comunale per assicurare ospitalità a
migranti, rifugiati e richiedenti asilo viola il principio di libertà
dell'iniziativa economica privata di cui all’art. 41, comma 1, Cost. e limita
la proprietà privata in spregio alla di riserva di legge contemplata
dall’art. 42, comma 2, Cost., disciplinando settori riservati alla competenza
legislativa esclusiva dello Stato in quanto afferenti all’ordinamento civile
ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. l), Cost.
Dal sito del Consiglio di Stato
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Pubblicato il 06/08/2018
N. 01671/2018 REG.PROV.COLL.
N. 01337/2017 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia
sezione staccata di Catania (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1337 del 2017, proposto
dal
Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro tempore,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, domiciliata ex lege in
Catania, via Vecchia Ognina, 149;
contro
Comune di X., in persona del Sindaco pro tempore,
rappresentato e difeso dall'avvocato Salvatore Brighina, con domicilio eletto
presso il suo studio in Catania, via Martino Cilestri 41;
Per la declaratoria di nullità o in subordine per l’annullamento
previa sospensione cautelare degli effetti
dell’ordinanza n.29 del 12 luglio 2017 inerente “norme
applicative a tutela della salute, delle prescrizioni urbanistiche e della
sicurezza pubblica e in materia di locazione e/o cessione a qualunque titolo di
immobili ad uso abitativo per accoglienza migranti, rifugiati e richiedenti
asilo”;
nonché del presupposto parere, non conosciuto, dell’Ufficio
Tecnico del Comune di X. prot. 219UTC dell’11.7.2017 ove si attesterebbe che in
tutta l’area urbana e nell’adiacente area extraurbana nessun immobile e/o
struttura sia in grado di soddisfare i bisogni e le esigenze di accoglienza
SPRAR (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati);
di ogni altro atto, anche non conosciuto, presupposto, connesso
o consequenziale;
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Comune di X.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 luglio 2018 il
dott. Maurizio Antonio Pasquale Francola e uditi per le parti i difensori come
specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con ordinanza sindacale n.29/2017 emessa ai sensi dell’art.50
D.Lgs. n.267/2000 il 12 luglio 2017, il Sindaco del Comune di X. (EN) – dopo
avere premesso che il Comune non aveva aderito al progetto SPRAR (sistema di
protezione per richiedenti asilo e rifugiati) per la dichiarata inidoneità del
territorio comunale ad accogliere migranti, rifugiati e richiedenti asilo,
anche se minori stranieri non accompagnati, in ragione sia dell’assenza di
strutture all’uopo idonee, secondo quanto accertato dall’Ufficio Tecnico
Comunale nel parere reso in data 11 luglio 2017, sia della necessità di
prevenire criticità connesse al possibile turbamento dell’equilibrio sociale
raggiunto dalla comunità locale – ha disposto, al fine di escludere il
possibile collocamento sul territorio di migranti, rifugiati e richiedenti
asilo:
“1) Il divieto di concedere, in tutto il territorio di X.
per le finalità di cui in premessa ed a qualunque altro titolo, in locazione
e/o comodato ad uso abitativo e/o in vendita, immobili privi dei requisiti
previsti dalla legge, ed in particolare privi di certificati di agibilità ed
abitabilità rilasciati dal Comune di X., oltre che di inesistenza delle
barriere architettoniche e requisiti igienico sanitari che possano costituire
danno per la salute e l'incolumità delle persone. Sul punto si specifica che i
menzionati certificati non potranno, in alcun modo, essere sostituiti da altri
documenti quali perizie asseverate, autocertificazioni, ecc.; 2) ai fini
dell’esecuzione dei necessari sopralluoghi di verifica all’interno delle unità
abitative e di altre tipologie, gli agenti e i funzionari comunali, previo
consenso degli occupanti, potranno accedere all’interno delle unità immobiliari
al fine di svolgere i necessari controlli in materia igienico-sanitaria e di
sicurezza; 3) ogni iscrizione anagrafica che implichi l'incremento del numero
degli occupanti dell’unità abitativa è subordinata al rispetto di quanto
disposto e disciplinato dall'art. 2 del D.M. 5 luglio 1975 citato in preambolo;
4) l’attività di verifica e di accertamento in ordine a quanto sopra stabilito
implica altresì l’inoltro agli organi competenti di apposite segnalazioni in
materia edilizia, sanitaria e fiscale al fine di adottare i conseguenti
provvedimenti tra i quali, se previsto, l’immediato sgombero degli immobili
nonché la segnalazione alle competenti Autorità per la verifica di
comportamenti penalmente rilevanti; 5) per le violazioni della presente ordinanza
sarà applicata, a norma dell'art. 7 bis, comma 1, del d.lgs. n. 267 del 2000,
la sanzione amministrativa pecuniaria di € 500,00 fatte salve le eventuali
violazioni di carattere penale e di violazioni di carattere
edilizio-urbanistico”.
Con ricorso notificato via PEC il 26 luglio 2017 e a mezzo
posta il 31 luglio 2017 ai sensi dell’art.41 c.p.a., nonché telematicamente
depositato presso la segreteria del T.A.R. Sicilia, Sezione Staccata di
Catania, il 26 luglio 2017 ai sensi dell’art.45 c.p.a., unitamente all’istanza
di fissazione dell’udienza per la discussione del merito ai sensi e per gli
effetti degli artt.55 co.4 e 71 c.p.a., l’Avvocatura dello Stato, Distrettuale
di Catania, per conto del Ministero dell’Interno – Prefettura di Enna,
impugnava il suddetto provvedimento domandandone, in via preliminare,
l’accertamento e la declaratoria di inefficacia per nullità ed, in subordine,
l’annullamento, previa sospensione cautelare degli effetti, per i seguenti
motivi: 1) Nullità ex art. 21 septies della L. 241/90 per difetto
assoluto di attribuzione, violazione del riparto di competenze di cui all’art.
117, comma 2, Cost., violazione della L. 1228 del 1954 e del D.P.R. 223 del
1989, non potendo il Sindaco con l’ordinanza impugnata disciplinare questioni
afferenti a materie rientranti nell’esclusiva competenza legislativa ed
amministrativa dello Stato, come l’immigrazione e l’anagrafe; 2) nullità per
violazione dell’art.43 D.lgs. n.286/1998, poiché l’ordinanza sindacale sarebbe
contraddistinta da un contenuto decisorio di tipo discriminatorio fondato su
motivi razziali o etnici; 3) illegittimità per violazione degli artt.3, 10, 41
e 42 Cost., non disponendo il Sindaco del potere di incidere né sulla
condizione giuridica degli stranieri, né sull’iniziativa economica e la
proprietà privata al punto da vietare la vendita o la concessione in locazione
o in comodato ai migranti degli immobili siti nel territorio comunale; 4)
illegittimità per violazione dell’art.50 D.Lgs. n.267/2000, eccesso di potere
per carenza dei presupposti di legge e per difetto di motivazione, nonché per
sviamento di potere, poiché, da un lato, il pericolo di tipo igienico-sanitario
prospettato dal Sindaco del Comune di X. a giustificazione del proprio
intervento non era sussistente al tempo dell’emanazione dell’ordinanza
impugnata, stante la mancata destinazione ad opera delle Autorità Statali di
migranti da ospitare nel territorio comunale, e, dall’altro, poiché,
quand’anche l’intento in concreto perseguito fosse stato quello di garantire il
rispetto dell’ordine pubblico o della pubblica sicurezza, il Sindaco avrebbe
dovuto concordare con il Prefetto qualsivoglia intervento, in conformità a
quanto prescritto dall’art.54 D.Lgs. n.267/2000, non potendo agire
autonomamente, come, invece, avvenuto nella circostanza; 5) illegittimità per
violazione dell’art.50 D.Lgs. n.267/2000, eccesso di potere per carenza dei
presupposti per l’emanazione di ordinanze contingibili ed urgenti, in quanto:
a) il paventato pericolo per la sicurezza pubblica, l’incolumità pubblica e
l’igiene non era attuale, b) non era stata predeterminata la durata temporale
dell’ordinanza impugnata, come, invece, sarebbe stato necessario in ragione
della natura provvisoria caratterizzante siffatta tipologia di provvedimenti;
c) il Sindaco aveva regolamentato con riguardo al proprio territorio una
questione di carattere nazionale, come quella concernente il fenomeno
dell’immigrazione, così superando le proprie competenze; 6) illegittimità per
eccesso di potere per travisamento dei presupposti di fatto e di diritto,
sviamento dalla causa tipica dell’atto, violazione del principio di
proporzionalità e ragionevolezza, poiché il provvedimento impugnato era stato
emesso non per fronteggiare una situazione eccezionale, imprevedibile o
imprevista attuale, ma soltanto per prevenire eventuali riflessi negativi
derivanti dal futuro afflusso di migranti, senza neanche il preventivo
espletamento di un’approfondita istruttoria volta ad accertare l’impatto sul
territorio dell’arrivo di stranieri da ospitare, come, invece, sarebbe stato
necessario in ragione della peculiare natura del potere nell’occasione
esercitato; 7) illegittimità per eccesso di potere da errore di fatto per
travisamento della realtà nella parte in cui si afferma, tra i presupposti dell’impugnato
provvedimento, che “le accoglienze emergenziali in molti casi non sono state
concordate con i Sindaci”; 8) illegittimità per eccesso di potere da
illogicità manifesta nella parte in cui si afferma l’insussistenza di immobili
e o di strutture in grado di soddisfare i bisogni e le esigenze di accoglienza,
secondo quanto attestato dall’Ufficio Tecnico comunale, poiché, da un lato,
l’accertamento condotto era stato limitato soltanto ad uno o ad alcuni immobili
e, dall’altro, se fosse vero quanto accertato dall’Ufficio Tecnico, non vi
sarebbero nel Comune di X. edifici che possano essere dichiarati agibili o
abitabili; 9) illegittimità per violazione degli art. 46 e 47 del D.P.R. n.
445/2000 e dell’art.1 L. n. 241/1990 del D.Lgs. n. 222/2016 (art.3 comma 1
lett.j) e dell’art. 24 D.P.R. n. 380/2001, poiché l’obbligo di produzione di
certificati di agibilità ed abitabilità rilasciati dal Comune di X. nonché di “inesistenza
delle barriere architettoniche e di requisiti igienico-sanitari che possano
costituire danno per la salute e l’incolumità delle persone”, imposto quale
condizione non suscettibile di adempimento alternativo mediante la produzione
di perizie asseverate o autocertificazioni, costituirebbe un inutile e
discriminatorio aggravamento procedimentale scaturente da un’illegittima
disapplicazione sia del D.P.R. n.445/2000 (nella parte in cui impone alla
Pubblica Amministrazione di accettare in luogo dei certificati o della prova di
determinate situazioni di fatto, le autocertificazioni o le dichiarazioni di
atto notorio), sia del D.Lgs. 25 novembre 2016 n.222, che all’art.3 comma 1
lett. j) ha soppresso l’art.25 del D.P.R. 380/2001 e il procedimento di
rilascio del certificato di agibilità ivi previsto, modificando radicalmente la
disciplina dell’abitabilità e dell’agibilità di cui all’art.24 D.P.R.
n.380/2001.
Con memoria depositata il 17 settembre 2017 si costituiva in
giudizio il Comune di X. opponendosi all’accoglimento del ricorso in quanto,
anzitutto, in rito inammissibile per carenza assoluta di interesse a ricorrere
del Ministero dell’Interno (non essendo l’ordinanza impugnata lesiva di alcun
interesse nazionale, considerata al più la sua offensività soltanto per gli
interessi privati dei proprietari di immobili siti nel territorio comunale), e
comunque, in subordine da ritenersi nel merito infondato in fatto e in diritto.
L’ordinanza sindacale impugnata, infatti, sarebbe legittima poiché, non
consentendo l’utilizzo di immobili privi dei requisiti di agibilità e di
abitabilità, in conformità a quanto disposto dalla disciplina settoriale di
riferimento, tutelerebbe, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, proprio
gli interessi dei migranti da accogliere, prevenendo l’uso di locali privi dei
requisiti igienico-sanitari necessari a garantire la salute delle persone da
ospitare. Inoltre, l’ordinanza sindacale sarebbe conforme anche alla disciplina
contemplata dal T.U. sulla immigrazione poiché, secondo quanto previsto
dall’art.29 comma 3 lett. a) del D.lgs. 25 luglio 1998 n.286, “lo straniero
che richiede il ricongiungimento familiare deve dimostrare la disponibilità di
un alloggio, conforme ai requisiti igienico-sanitari, nonché di idoneità
abitativa, accertati dai competenti uffici comunali”.
Con ordinanza depositata il 25 settembre 2017, il T.A.R.
Sicilia, Sezione Staccata di Catania, accoglieva l’istanza cautelare proposta
dall’Avvocatura dello Stato nell’interesse del Ministero dell’Interno, fissando
l’udienza per la discussione del ricorso nel merito il 5 luglio 2018 e
compensando le spese processuali di fase.
All’udienza pubblica del 5 luglio 2018 le parti concludevano
come da verbale in atti ed il ricorso veniva trattenuto per la decisione.
DIRITTO
Il Collegio, preliminarmente, afferma la propria giurisdizione,
poiché il ricorso, avendo per oggetto un’ordinanza sindacale contingibile ed
urgente, rientra nella giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo di
cui all’art.133 co.1 lett. q) c.p.a.
Va dichiarata, inoltre, la sussistenza delle condizioni
dell’azione proposta, poiché la gestione di migranti, rifugiati e richiedenti
asilo, come si dirà da qui a un momento, rientra nella competenza del Ministero
dell’Interno. Di conseguenza, spetta a quest’ultimo la legittimazione a
ricorrere avverso provvedimenti idonei ad incidere su questioni rientranti
nella sua esclusiva competenza, come nel caso di specie. Con riguardo, poi,
all’interesse ad agire, il Collegio osserva che il provvedimento impugnato
produce l’effetto di escludere o, comunque, di rendere più difficile la
collocazione di migranti sul territorio del Comune di X., così direttamente
limitando la potestà decisoria del Ministero dell’Interno e della Prefettura in
ordine alla gestione e dislocazione di migranti, rifugiati e richiedenti asilo
sull’intero territorio nazionale. E poiché l’accoglimento del ricorso
implicherebbe la rimozione di un provvedimento ostativo, in quanto appunto
costituente limite, al pieno esercizio di una potestà pubblica riservata nel
nostro ordinamento giuridico allo Stato, sussiste nella fattispecie l’interesse
del Ministero dell’Interno a ricorrere.
Pertanto, il ricorso è ammissibile e va esaminato nel merito.
Con il primo motivo si deduce la nullità del provvedimento
impugnato per difetto assoluto di competenza, non potendo il Sindaco
intervenire sulla gestione dei migranti e sull’anagrafe, in quanto materie
riservate dalla legge alla potestà normativa ed amministrativa esclusiva dello
Stato.
Il Collegio osserva che, nel nostro ordinamento giuridico, il
potere di emanare atti amministrativi soggiace al rispetto del principio di
legalità, da intendersi (secondo quanto chiarito dalla Corte Costituzionale
nella sentenza n.115/2011) in senso forte o sostanziale, dovendo,
infatti, la legge disciplinare l’esercizio del potere in tutti i suoi aspetti,
stabilendone, quindi, i presupposti, chiarendone la natura discrezionale o
vincolata, regolamentandone le modalità di esercizio, prevedendo la tipologia,
il nome ed il contenuto del provvedimento esplicativo del potere esercitato,
l’Autorità competente ad esercitarlo e gli effetti giuridici prodotti dal
provvedimento così emanato.
Sennonché, il principio di legalità se, da un lato, costituisce
un’indubbia garanzia per le libertà fondamentali e i diritti dei cittadini,
dall’altro, può costituire un limite all’agire della Pubblica Amministrazione
ogniqualvolta la risoluzione di una certa questione di interesse generale per
la comunità territoriale di riferimento imponga l’esercizio di poteri non
previsti dalla legge. L’inadeguatezza di un sistema rigidamente concepito al rispetto
del principio di legalità è, poi, tanto più avvertita quanto urgente sia
l’esigenza di un intervento dell’Autorità Amministrativa, considerati i tempi,
non brevi, necessari per l’approvazione di un’apposita legge istitutiva
dell’idoneo potere pubblicistico nella circostanza da esercitare.
Non potendo, dunque, a priori prevedere tutte le concrete
situazioni implicanti la necessità e l’urgenza di un tempestivo intervento
della Pubblica Amministrazione, il Legislatore ha ritenuto opportuno consentire
l’emanazione di provvedimenti innominati e atipici, dal contenuto di
volta in volta variabile a seconda delle circostanze, e contraddistinti da una
durata limitata nel tempo, in quanto forieri di effetti giuridici
necessariamente provvisori, onde assicurare la possibilità di tutelare
tempestivamente i preminenti interessi generali di rilevanza costituzionale dal
pericolo di una lesione imminente e grave.
Sono state, così, introdotte nel nostro ordinamento le c.d.
ordinanze contingibili ed urgenti, note anche come con il nome di ordinanze
extra ordinem poiché costituenti eccezione al principio di legalità inteso
in senso forte o sostanziale, prevedendo, infatti, la legge in questi casi
soltanto l’Autorità competente ad emanarle e gli interessi per la tutela dei
quali è giustificata la loro emanazione. Si pensi, ad esempio, agli artt. 50
co.4 e 54 co.4 del D.Lgs. n.267/2000 che, ispirandosi ad un principio di
legalità in senso formale o debole, riconoscono al Sindaco nella sua qualità,
rispettivamente, di Autorità Locale o di Ufficiale di Governo, soltanto per la
tutela degli specifici interessi pubblici ivi indicati, un potere di intervento
assai ampio, senza, però, precisarne contenuto e modalità di esercizio.
E proprio in ragione della loro funzione di istituto di “chiusura
del sistema”, le ordinanze contingibili ed urgenti – pur avendo natura
esclusivamente amministrativa, sia per la forma, sia per gli effetti, secondo
quanto affermato dalla Corte Costituzionale in diverse pronunce (Corte Cost.,
23 maggio 1961, n° 26; Corte Cost., 20 giugno 1956, n° 8) – possono
provvisoriamente derogare alla disciplina contemplata da norme di legge, ma non
anche ai principi generali dell’ordinamento giuridico, rinvenendo, infatti,
proprio in questi ultimi il loro principale limite (tra le tante pronunce,
T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 03 marzo 2017 n. 1245, T.A.R. Marche, Ancona,
sez. I, 13 novembre 2012 n. 730, T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. II, 10 aprile
2012 n. 354, Cons. St., sez. IV, 24 marzo 2006 n. 1537).
Presupposto, dunque, imprescindibile per il legittimo esercizio
del potere di emanare ordinanze contingibili ed urgenti è l’esistenza di una
norma di legge che autorizzi l’adozione di siffatti provvedimenti per la tutela
di predeterminati interessi generali costituenti, ad un tempo, ragione e limite
dell’intervento extra ordinem dell’Autorità competente, non potendo,
infatti, quest’ultima esercitare il potere in esame in settori diversi da
quelli espressamente previsti dalla c.d. legge di autorizzazione. E poiché la competenza
costituisce presupposto e parametro di legittimità delle ordinanze contingibili
ed urgenti è logico ritenere che tra i principi generali dell’ordinamento
giuridico, costituenti limite per l’esercizio del potere in esame, rientri, in
ragione della sua fondamentale importanza, anche la ripartizione delle
competenze in materia di potestà legislativa, regolamentare ed amministrativa
tra Stato, Regioni ed Enti Locali prevista dagli artt.117 e 118 Cost., non
potendo, infatti, un’Autorità Locale adottare provvedimenti extra ordinem
in settori di competenza Statale a meno che non esista una norma che a ciò
espressamente l’autorizzi in via del tutto eccezionale, come, ad esempio,
l’art. 54 del D.Lgs. n.267/2000.
Con riguardo al caso in esame, l’ordinanza contingibile ed
urgente impugnata dall’Avvocatura dello Stato è stata emessa dal Sindaco di X.,
da un lato, per salvaguardare la
Comunità locale dal grave pericolo ritenuto sussistente per
l’incolumità delle persone e, dall’altro, per l’esigenza preminente di tutela
della salute, delle prescrizioni urbanistiche e della sicurezza pubblica
avvertita a fronte della paventata possibilità di dover accogliere migranti,
rifugiati e richiedenti asilo. Rilevata, infatti, l’assenza nel territorio
comunale (urbano ed extraurbano) di immobili o strutture in grado di soddisfare
i bisogni e le esigenze di accoglienza dei migranti, secondo quanto attestato
dall’Ufficio Tecnico nel parere n. prot. 219UTC reso in data 11.07.2017, per
carenza dei requisiti di abitabilità e agibilità prescritti dalla normativa di
riferimento, il Sindaco del Comune di X., nella sua qualità di Autorità Locale
e nell’esercizio delle funzioni conferitegli dalla legge in materia
Igienico-Sanitaria e di Pubblica Sicurezza, ha: 1) vietato la concessione in
locazione e/o in comodato ad uso abitativo o la vendita di immobili privi dei
requisiti previsti dalla legge, ed in particolare privi di certificati di
agibilità ed abitabilità, per l’accoglienza dei migranti, statuendo
l’insostituibilità dei suddetti certificati con perizie asseverate,
autocertificazioni, ecc…; 2) disposto l’esecuzione dei necessari sopralluoghi
ad opera degli agenti e funzionari comunali per la verifica, previo consenso
degli occupanti, delle condizioni igienico-sanitarie e di sicurezza delle unità
immobiliari; 3) subordinato l’iscrizione anagrafica implicante un incremento
del numero degli occupanti dell’unità abitativa al rispetto di quanto disposto
dall’art.2 del D.M. 5 luglio 1975; 4) ordinato la segnalazione alle Autorità
competenti delle irregolarità rilevate in sede di verifica sugli immobili al
fine dell’adozione dei provvedimenti conseguenti, ivi incluso l’immediato
sgombero; 5) comminato la sanzione pecuniaria di € 500,00, ai sensi dell’art.7 bis
comma 1 del D.Lgs. n. 267/2000, per l’inosservanza dei suddetti precetti.
Il Collegio osserva che il provvedimento in esame va
qualificato quale ordinanza contingibile ed urgente, adottata dal Sindaco nella
qualità di Rappresentate della Comunità Locale formalmente ai sensi dell’art.50
D.Lgs. n.267/2000, per ragioni (essenzialmente) igienico-sanitarie. Sebbene,
infatti, nella motivazione del provvedimento si richiamino anche esigenze di
tutela della pubblica sicurezza, lo scopo dell’ordinanza appare principalmente
quello di inibire l’ingresso nel territorio comunale di migranti, rifugiati e
richiedenti asilo in ragione della constata assenza di immobili in grado di
ospitarli per mancanza delle condizioni di agibilità ed abitabilità necessarie
ad assicurare il rispetto dei presupposti igienico-sanitari prescritti dalla
normativa di riferimento. Il Sindaco del Comune di X. ha, dunque, agito nella
sua qualità di Autorità Locale e non di Ufficiale di Governo, come dal medesimo
affermato tanto nella motivazione dell’impugnato provvedimento – nella parte in
cui egli ha rivendicato i poteri nell’occasione esercitati proprio quale
Rappresentante della Comunità Locale, tra l’altro, menzionando espressamente
soltanto l’art.50 e non anche l’art.54 del D.Lgs. n.267/2000 – quanto nella
memoria di costituzione in giudizio, laddove, a pagina 16, si chiarisce essere
stati esercitati nella circostanza poteri provvedimentali in materia di “esclusiva
competenza del comune”.
A riprova della correttezza di quanto sostenuto depone,
peraltro, anche il procedimento nell’occasione seguito per l’adozione dell’atto
impugnato, considerato che qualora il Sindaco avesse inteso agire ai sensi
dell’art.54 del D.Lgs. n.267/2000 avrebbe dovuto coinvolgere anche il Prefetto
nella decisione, preventivamente comunicandogli il provvedimento ai fini della
predisposizione degli strumenti necessari ad assicurarne l’attuazione. E poiché
non risulta dagli atti che vi sia stata alcuna preventiva interlocuzione con il
Prefetto, essendo stata, anzi, esclusa la circostanza dall’Avvocatura dello
Stato nel ricorso introduttivo del presente giudizio e non contestata dal
Comune, deve ritenersi che il Sindaco abbia inteso agire soltanto quale
Rappresentante della Comunità Locale.
Se, dunque, l’ordinanza in questione è stata formalmente
adottata dal Sindaco nella sua qualità di Autorità Locale, egli avrebbe potuto
agire extra ordinem esclusivamente per il soddisfacimento di esigenze
igienico-sanitarie della comunità territoriale di riferimento, in conformità a
quanto previsto dall’art.50 co.5 D.Lgs. n. 267/2000.
Sennonché, come già detto, il principale obiettivo perseguito
con l’adozione del provvedimento in questione era evitare l’ospitalità, anche
transitoria, di stranieri migranti, rifugiati e richiedenti asilo nel
territorio del Comune di X.. Come è agevole evincere dalla motivazione
dell’ordinanza sindacale, infatti, la ragione del provvedimento è costituita
dalla dichiarata inidoneità del territorio comunale urbano ed extraurbano ad
assicurare la necessaria accoglienza di migranti, rifugiati e richiedenti
asilo, a causa dell’asserita assenza di strutture idonee allo scopo. Di
conseguenza, la materia intercettata dall’ordinanza sindacale non è tanto
quella igienico-sanitaria, quanto, soprattutto e principalmente, quella della
gestione dei migranti, rientrante nella sfera di competenza dello Stato e, più
precisamente, del Ministero dell’Interno, e non in quella dei Comuni (o dei
Sindaci).
L’art.117 co.2 Cost., infatti, riserva alla potestà legislativa
esclusiva dello Stato la competenza a disciplinare il diritto di asilo e la
condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione Europea
(lett. a) e, più in generale, tutti i vari aspetti connessi all’immigrazione
(lett. b).
Il Legislatore Statale, quindi, nell’esercizio della predetta
competenza legislativa esclusiva, ha disciplinato il complesso fenomeno
dell’accoglienza dei cittadini provenienti da Paesi non appartenenti all’Unione
Europea e degli apolidi richiedenti protezione internazionale nel territorio
nazionale, comprese le frontiere e le relative zone di transito, nonché le
acque territoriali, e dei loro familiari inclusi nella domanda di protezione
internazionale, emanando il D.Lgs. n.142/2015, in attuazione delle Direttive
2013/32/UE e 2013/33/UE, così demandando al Ministero dell’Interno ed ai
Prefetti la competenza e l’esercizio di importanti funzioni in materia.
Ai sensi dell’art. 9 del D.Lgs. 142/2015, infatti, spetta al
Prefetto, sentito il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del
Ministero dell’Interno, il potere di inviare il richiedente nelle strutture di
cui al comma 1 (ossia nei centri governativi di prima accoglienza, istituiti
con decreto del Ministro dell’Interno, sentita la Conferenza unificata di
cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281), per il
tempo necessario, all’espletamento delle operazioni di identificazione, ove non
completate precedentemente, alla verbalizzazione della domanda di protezione
internazionale ed all’avvio della procedura di esame della predetta domanda,
nonché all’accertamento delle condizioni di salute dell’istante.
Non può, dunque, il Sindaco, nella sua qualità di Autorità
Locale, intervenire con propri atti per regolamentare il fenomeno migratorio,
sebbene nell’ambito del proprio territorio comunale.
Né, peraltro, può ritenersi giustificato l’intervento del
Sindaco di X. sul piano urbanistico-edilizio in virtù della paventata esigenza
di escludere la concessione in godimento di immobili privi dei certificati di
agibilità ed abitabilità, poiché, secondo quanto previsto dall’art. 11 del
D.lgs n. 142 del 2015, “Nel caso in cui è temporaneamente esaurita la
disponibilità di posti all'interno delle strutture di cui agli articoli 9 e 14,
a causa di arrivi consistenti e ravvicinati di richiedenti, l'accoglienza può
essere disposta dal prefetto, sentito il Dipartimento per le libertà civili e
l'immigrazione del Ministero dell'interno, in strutture temporanee,
appositamente allestite, previa valutazione delle condizioni di salute del
richiedente, anche al fine di accertare la sussistenza di esigenze particolari
di accoglienza. Le strutture di cui al comma 1 soddisfano le esigenze
essenziali di accoglienza nel rispetto dei principi di cui all'articolo 10,
comma 1, e sono individuate dalle prefetture-uffici territoriali del Governo,
sentito l'ente locale nel cui territorio è situata la struttura, secondo le
procedure di affidamento dei contratti pubblici. (...) L'accoglienza nelle
strutture di cui al comma 1 è limitata al tempo strettamente necessario al trasferimento
del richiedente nelle strutture di cui all'articolo 9 ovvero nelle strutture di
cui all'articolo 14”.
È riservata, dunque, alla competenza del Ministero dell’Interno
e della Prefettura territoriale l’individuazione delle strutture da adibire
all’accoglienza degli immigrati irregolari e la valutazione dell’idoneità delle
stesse a soddisfare le esigenze indicate all’art. 10 comma 1 del D.Lgs. n.142
del 2015, ed ossia, il rispetto della sfera privata (comprese le differenze di
genere), delle esigenze connesse all’età, della tutela della salute fisica e
mentale dei richiedenti, dell’unità dei nuclei familiari composti da coniugi e
da parenti entro il primo grado, dell’apprestamento delle misure necessarie per
le persone portatrici di particolari esigenze ai sensi dell'articolo 17, nonché
delle misure idonee a prevenire ogni forma di violenza ed a garantire la
sicurezza e la protezione dei richiedenti.
Di conseguenza, con l’ordinanza contingibile ed urgente
emanata, il Sindaco del Comune di X. ha introdotto una disciplina derogatoria
rispetto a quella nazionale in un settore, come quello dell’immigrazione,
riservato alla competenza legislativa, regolamentare ed amministrativa
esclusiva dello Stato.
Il provvedimento impugnato, pertanto, è nullo, ai sensi dell’art.
21 septies L. n. 241/1990, per difetto assoluto di attribuzione, in
quanto adottato da un’autorità, nella specie costituita dal Sindaco nella sua
dichiarata qualità di rappresentante della Comunità Locale e non di Ufficiale
di Governo, appartenente ad un plesso amministrativo (quello Comunale)
differente da quello Statale effettivamente competente, rientrando, infatti,
nella esclusiva competenza del Ministero dell’Interno e delle Prefetture il
potere di emanare provvedimenti in materia di accoglienza e gestione dei
migranti, rifugiati e richiedenti asilo.
Analoghe considerazioni valgono, inoltre, con riguardo alla
materia dell’anagrafe.
L’art.117 co.2 lett. i) Cost., infatti, riserva alla competenza
legislativa esclusiva dello Stato la disciplina della cittadinanza, dello stato
civile e delle anagrafi, e la
Legge n.1228 del 1954 (statuendo all’art.1 che l’anagrafe
della popolazione deve essere tenuta presso ogni Comune) demanda al Sindaco,
nella sua qualità di Ufficiale di Governo, soltanto il ruolo di Ufficiale
dell’anagrafe (art.3), con compiti limitati alla tenuta dell’anagrafe (art.4) e
non anche estesi alla possibilità di incidere sulla disciplina dell’anagrafe
stessa, individuando i requisiti occorrenti per l’iscrizione dell’interessato,
come, invece, accaduto nel caso di specie. Peraltro, ai sensi dell’art. 5 bis
D.Lgs. n.142/2015, l’iscrizione del richiedente protezione internazionale
ospitato nei centri di cui agli articoli 9, 11 e 14 nell’anagrafe della
popolazione residente ai sensi dell’articolo 5 del regolamento di cui al
decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, è obbligatoria,
ove il medesimo non risulti già ivi iscritto individualmente.
Di conseguenza, anche sotto questo profilo, va ravvisata la
nullità per difetto assoluto di attribuzione del provvedimento impugnato,
poiché il Sindaco, nella dichiarata qualità di organo del Comune, ha esercitato
funzioni di competenza esclusiva dell’apparato amministrativo dello Stato.
Ulteriore causa di nullità si rinviene anche nella dedotta
violazione degli artt.41 e 42 Cost., poiché l’impugnato provvedimento,
statuendo il divieto di alienazione o di concessione in locazione o in comodato
di immobili siti all’interno del territorio comunale per l’ospitalità di
migranti, viola il principio di libertà dell’iniziativa economica privata e
disciplina, limitandole, le facoltà di godimento della proprietà privata fuori
dai casi previsti dalla legge.
Sul punto occorre precisare che il divieto in esame, sebbene
formalmente preordinato ad inibire l’utilizzo a qualsivoglia titolo soltanto
delle strutture prive dei requisiti di legge per ospitare migranti e rifugiati,
nella pratica assume una portata assoluta, poiché la presenza di immobili a
siffatto scopo idonei è stata categoricamente esclusa nell’ambito del
territorio del Comune di X. dall’Ufficio Tecnico Comunale nella nota resa in
data 11 luglio 2017. Pertanto, il privato che intendesse alienare o concedere
in locazione o in comodato il proprio immobile per ospitare migranti e
rifugiati sarebbe inibito nelle sue iniziative, poiché non otterrebbe il
rilascio dei certificati di agibilità ed abitabilità all’uopo necessari
dall’Ufficio Tecnico Comunale, in ragione proprio delle motivazioni espresse
nel parere reso in data 11 luglio 2017. Né, peraltro, sarebbe possibile
l’elusione del divieto in esame mediante l’utilizzo di perizie asseverate o
autocertificazioni, poiché il ricorso alle stesse, come ad ogni altro documento
alternativo ai suddetti certificati di agibilità ed abitabilità, è stato espressamente
escluso al punto 1 dell’ordinanza sindacale impugnata.
Appare, dunque, evidente la portata dell’intervento del Sindaco
del Comune di X., considerato che l’agibilità e l’abitabilità costituiscono
caratteristiche essenziali dell’immobile urbano direttamente incidenti sulle
possibilità di circolazione del bene e sulle facoltà di godimento dello stesso
da parte del proprietario. Sebbene, infatti, la loro carenza non determini di
per sé l’invalidità del contratto di compravendita, di locazione o di comodato,
i certificati di abitabilità e di agibilità rilevano nei rapporti tra privati
sul piano delle obbligazioni contrattuali, integrando la loro consegna
l’oggetto di un’obbligazione specifica del venditore ai sensi dell’art.1477
c.c. nei confronti del compratore, in quanto attinenti ad un requisito
essenziale della cosa venduta incidente sulla possibilità di adibire
legittimamente la stessa all’uso contrattualmente pattuito. Ed invero, secondo
quanto affermato dalla Corte di Cassazione, «Il venditore-costruttore di un
bene immobile ha l'obbligo non solo di trasferire all'acquirente un fabbricato
conforme all'atto amministrativo d'assenso della costruzione e, dunque, idoneo
ad ottenere l'agibilità prevista, ma anche di consegnargli il relativo certificato,
curandone la richiesta e sostenendo le spese necessarie al rilascio.
L'inadempimento di quest'ultima obbligazione è ex se foriero di danno
emergente, perché costringe l'acquirente a provvedere in proprio ovvero a
ritenere l'immobile tal quale, cioè con un valore di scambio inferiore a quello
che esso diversamente avrebbe, a prescindere dalla circostanza che il bene sia
alienato o comunque destinato all'alienazione a terzi» (Cassazione civile,
sez. II, 11/10/2013, n. 23157); ed ancora: «In materia di vendita d'immobile
destinato ad abitazione integra l'ipotesi di consegna di aliud pro alio il
difetto assoluto della licenza di abitabilità ovvero l'insussistenza delle
condizioni necessarie per ottenerla in dipendenza della presenza di insanabili
violazioni della legge urbanistica. Il venditore di un immobile destinato ad
abitazione ha l'obbligo di consegnare all'acquirente il certificato di
abitabilità, senza il quale l'immobile stesso è incommerciabile; la violazione
di tale obbligo può legittimare sia la domanda di risoluzione del contratto,
sia quella di risarcimento del danno, sia l'eccezione di inadempimento; tale
violazione non è sanata dalla mera circostanza che il venditore, al momento
della stipula, abbia già presentato una domanda di condono per sanare
l'irregolarità amministrativa dell'immobile» (Cassazione civile, sez. II,
30/01/2017, n. 2294).
Il privato, dunque, che intendesse contravvenire al divieto di
cui al punto 1 dell’ordinanza sindacale impugnata, alienando o concedendo in
locazione o in comodato un proprio immobile per consentire l’ospitalità di
migranti, rifugiati e richiedenti asilo, si esporrebbe a tre possibili ordini
di responsabilità: la prima, di natura civile, ai sensi degli artt. 1218 e 1453
c.c., nei confronti dell’altro contraente per avere stipulato il contratto
senza i prescritti certificati di agibilità ed abitabilità (considerato che se
anche li richiedesse, l’Ufficio Tecnico Comunale non li rilascerebbe, in
conformità a quanto affermato nel parere reso in data 11 luglio 2017); la
seconda, di natura penale, ai sensi dell’art. 650 c.p., per inosservanza di un
ordine (almeno apparentemente) legalmente dato dall’Autorità per ragioni di
igiene; e la terza, di natura amministrativa, ai sensi dell’art.7 bis co.1
del D.Lgs. n.267/2000, nei confronti del Comune, per il pagamento della
sanzione pecuniaria di € 500,00 dovuta in quanto stabilita al punto 5
dell’ordinanza sindacale.
L’intervento del Sindaco del Comune di X., combinato con il
suddetto parere dell’Ufficio Tecnico Comunale, viola, quindi, tanto l’art. 41
Cost., poiché limita la libertà negoziale dei privati, quanto l’art. 42 co.2
Cost., poiché esclude rilevanti facoltà di godimento degli immobili urbani
riconosciute dalla legge. A tale ultimo proposito va, infatti, chiarito che, secondo
quanto stabilito dall’art. 42 co. 2 Cost., “la proprietà privata è
riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di
godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di
renderla accessibile a tutti”. La riserva di legge ivi contemplata,
pertanto, non consente l’introduzione tramite provvedimento amministrativo di
limiti alla proprietà privata mediante l’esclusione di talune delle facoltà di
godimento del bene riconosciute al proprietario, come avvenuto nella
fattispecie, non potendo un’ordinanza contingibile ed urgente limitare la
circolazione e le possibilità di utilizzo dei beni privati.
Il Collegio osserva, poi, che la violazione degli artt. 41 e 42
Cost. rileva, inoltre, sul piano del mancato rispetto del riparto di competenza
di cui agli artt. 117 e 118 Cost., poiché il Sindaco del Comune di X.,
limitando la libertà negoziale dei privati ed introducendo limiti alla
circolazione ed alle facoltà di godimento della proprietà privata con
l’ordinanza impugnata, ha emanato una disciplina speciale propriamente di
diritto civile nel settore delle obbligazioni e dei diritti reali, così
violando la competenza legislativa esclusiva dello Stato prevista dall’art. 117
co. 2 lett. l) Cost.. Sulle questioni afferenti all’ordinamento civile,
infatti, soltanto il legislatore statale può intervenire, in ragione
dell’avvertita esigenza di assicurare la certezza dei traffici giuridici
mediante la previsione di una disciplina uniforme dei rapporti tra privati
applicabile su tutto il territorio nazionale, come comprovato anche dalle
molteplici sentenze con le quali la Corte Costituzionale
ha dichiarato l’illegittimità, per violazione dell’art.117 co.2 lett. l) Cost.,
di leggi regionali contemplanti discipline speciali di diritto privato (tra le
tante, Corte Costituzionale 10 novembre 2017 n. 234, Corte Costituzionale 13
luglio 2017 n. 175, Corte Costituzionale 11 luglio 2017 n. 160, Corte
Costituzionale 26 maggio 2017 n. 121, Corte Costituzionale 12 aprile 2017 n.
72). Costituisce, quindi, limite insuperabile per le ordinanze contingibili ed
urgenti, in quanto riconducibile nel novero dei principi generali
dell’ordinamento, il rispetto dell’intera disciplina nazionale dell’ordinamento
civile, non avendo il Sindaco il potere di regolamentare extra ordinem
questioni afferenti alla sfera giuridica dei rapporti tra privati in ragione
della competenza legislativa esclusiva riservata dall’art.117 co.2 lett. l)
Cost. allo Stato.
Pertanto, l’ordinanza impugnata è nulla per difetto assoluto di
attribuzione in quanto, statuendo limiti all’attività negoziale dei privati ed
al godimento della proprietà privata in contrasto con gli artt.41 co.1 e 42
co.2 Cost., introduce una disciplina propriamente di diritto privato, come
tale, rientrante nell’ambito dell’ordinamento civile e, quindi, di esclusiva
competenza dello Stato ai sensi dell’art.117 co.2 lett. l) Cost..
Infine, l’ordinanza impugnata va dichiarata nulla anche perché
integrante un atto discriminatorio, come sostenuto dall’Avvocatura dello Stato
con il secondo motivo di ricorso.
L’art. 43 del D.Lgs. n.286/1998 prevede che “costituisce
discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti
una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il
colore, l'ascendenza o l'origine nazionale o etnica, le convinzioni e le
pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di
compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di
parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico,
economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”,
precisando al comma 2 che: “In ogni caso compie un atto di discriminazione:
a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico
servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che
nell'esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un
cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o
di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità, lo
discriminino ingiustamente;
b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti
di fornire beni o servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa
della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza,
religione, etnia o nazionalità;
c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più
svantaggiose o si rifiuti di fornire l'accesso all'occupazione, all'alloggio,
all'istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo
straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua
condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione,
etnia o nazionalità”.
Poiché l’ordinanza impugnata è preordinata ad impedire o
rendere più difficile il collocamento di stranieri migranti, rifugiati e
richiedenti asilo sul territorio del Comune di X., si configurano nella specie
proprio le ipotesi di cui all’art. 43 co. 2 lett. a) e c) del D.Lgs.
n.286/1998, avendo il Sindaco, da un lato, nella sua qualità di pubblico
ufficiale e nell’esercizio delle sue funzioni compiuto un atto che
arbitrariamente discrimina stranieri proprio in ragione della loro condizione
di cittadini non italiani appartenenti ad una certa razza ed etnia e,
dall’altro, imposto, per i medesimi motivi discriminatori, condizioni più
svantaggiose e rifiutato l’accesso all’alloggio ai migranti, senza neppure
distinguere, in quest’ultima ipotesi, tra soggetti regolarmente soggiornanti o
meno.
Il divieto di non discriminazione, invero, afferisce alla sfera
giuridica privata dell’essere umano in quanto tale e, pertanto, costituisce un
principio generalmente riconosciuto sia nel nostro ordinamento, dall’art. 2
Cost. prima ancora che dall’art. 43 del D.Lgs. n.286/1998 (in quanto
direttamente incidente sullo sviluppo della personalità dell’individuo), sia a
livello internazionale, dagli artt.14 della C.E.D.U. ed 1 del Protocollo n.12
alla C.E.D.U., nonché a livello eurounitario dagli artt.1 e 21 della Carta dei
Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.
In tal senso si è pronunciata anche la Corte di Cassazione,
affermando che «Sono esclusi dall'ambito di applicazione dell'art. 16 delle
preleggi (secondo cui lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili
attribuiti al cittadino a condizione di reciprocità) in primo luogo i diritti
che la Costituzione
repubblicana e le carte internazionali attribuiscono a ogni individuo per la
sua stessa qualità di persona umana. I diritti inviolabili e le libertà
fondamentali - infatti - hanno il predicato della indivisibilità e spettano ai
singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in
quanto esseri umani. Deriva da quanto precede, pertanto, che proprio nella
prospettiva della universalità della persona umana chiunque - senza distinzione
tra cittadino e straniero, e senza distinzione tra straniero regolarmente
soggiornante nel territorio dello Stato e straniero privo di un titolo o di un
permesso di soggiorno - ne è titolare» (Cassazione civile, sez. II, 21/03/2013,
n. 7210).
Essendo gli atti discriminatori lesivi di diritti fondamentali
della personalità generalmente riconosciuti, le relative controversie sono di
regola devolute alla giurisdizione del Giudice Civile. Secondo quanto, infatti,
previsto dall’art. 44 co.1 del D.lgs. n. 286/1998, “Quando il comportamento
di un privato o della pubblica amministrazione produce una discriminazione per
motivi razziali, etnici, linguistici, nazionali, di provenienza geografica o
religiosi, è possibile ricorrere all'autorità giudiziaria ordinaria per
domandare la cessazione del comportamento pregiudizievole e la rimozione degli
effetti della discriminazione”. Sennonché, nel caso in esame, la condotta
discriminatoria è stata perpetrata dal Comune resistente con un provvedimento,
come già detto, rientrante nella giurisdizione esclusiva del Giudice
Amministrativo ai sensi dell’art. 133 co.1 lett. q) c.p.a. e, pertanto,
sindacabile in questa sede con efficacia di giudicato anche se lesivo di
diritti soggettivi. Inoltre, la giurisdizione del Giudice Ordinario va esclusa
nella fattispecie, anche perché l’art. 44 del D.Lgs. n. 286/1998 espressamente
la prevede soltanto con riguardo all’azione civile proposta dal soggetto
discriminato per la tutela della propria dignità personale violata, e non anche
qualora ad agire non sia lo straniero destinatario del provvedimento
discriminatorio ma il Ministero dell’Interno, come in questo caso, per
l’affermazione ed il rispetto della sua competenza esclusiva nella materia
della gestione di migranti, rifugiati e richiedenti asilo. L’azione proposta in
questa sede non rientra nella giurisdizione del Giudice Ordinario anche perché
differisce dall’azione civile di cui all’art. 44 del D.Lgs. n. 286/1998, sia
sul piano soggettivo, per la diversità dei soggetti legittimati ad agire, sia
sul piano oggettivo, poiché la causa petendi è da rinvenire nella tutela
delle competenze esclusive dello Stato di cui all’art.117 co.2 Cost. ed il petitum
si identifica soltanto nella domanda di accertamento e declaratoria della
nullità dell’ordinanza impugnata, e non anche nella richiesta di condanna della
Pubblica Amministrazione al risarcimento del danno patito e all’adozione di
misure in concreto preordinate ad assicurare il pieno ripristino della dignità
umana violata.
Pertanto, il motivo di ricorso in esame può essere pienamente
sindacato nel merito, in questa sede, rientrando nella giurisdizione esclusiva
del Giudice Amministrativo.
Il Collegio ritiene che i provvedimenti amministrativi aventi
natura discriminatoria perché adottati in contrasto con l’art. 43 del D.Lgs.
n.286/1998 sono da ritenersi nulli e non annullabili.
A favore della tesi della nullità depone, anzitutto, la
disciplina contemplata proprio dal richiamato art.44 co.1 del D.Lgs. n.286/1998
nella parte in cui, affermando la giurisdizione del Giudice Ordinario, consente
al Giudice Civile di ordinare alla Pubblica Amministrazione convenuta
l’immediata la cessazione del comportamento discriminatorio, condannandola
anche alla rimozione degli effetti dell’atto impugnato. In questi casi,
infatti, come più precisamente chiarito dall’art.28 co.5 del D.Lgs. n.150/2011
(richiamato dall’art.44 co.2 del D.Lgs. n.286/1998), il Giudice Civile può “condannare
il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale e ordinare la
cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio
pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della Pubblica Amministrazione,
ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti. Al fine di impedire la
ripetizione della discriminazione, il giudice può ordinare di adottare, entro
il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle
discriminazioni accertate”.
L’espresso riferimento alla Pubblica Amministrazione in
entrambe le richiamate disposizioni normative induce l’interprete a ritenere la
condotta discriminatoria perpetrata da una Autorità Amministrativa con
l’emanazione di un provvedimento amministrativo rilevante sempre e soltanto sul
piano meramente fattuale, ossia quale comportamento illecito dell’autore che lo
ha posto in essere, a siffatto esito dovendosi pervenire proprio in ragione
dell’ampia tutela (non soltanto risarcitoria) esperibile dinanzi al Giudice
Civile. La possibilità, infatti, di chiedere ed ottenere in un giudizio civile
la condanna della Pubblica Amministrazione convenuta tanto alla cessazione
immediata della condotta discriminatoria perpetrata mediante l’emanazione (come
nella specie) di un atto ai sensi dell’art.43 co.2 lett. a) e c) del D.Lgs. n.
286/1998 quanto, soprattutto, ad un “facere” specifico preordinato a
riparare le conseguenze lesive della pregressa condotta illecita presuppone
l’assenza di qualsivoglia spendita di potere pubblicistico e la necessaria
considerazione degli atti posti in essere dalla P.A. quali comportamenti
meramente materiali e non amministrativi, ossia non riconducibili all’esercizio
di un alcun potere pubblico neanche in via mediata, poiché diversamente
opinando, la decisione del Giudice Civile sarebbe affetta da nullità per
difetto di giurisdizione in ragione del limite stabilito dall’art. 4 della L.
n. 2248/1865 all. E.
Poiché l’art. 44 co.1 del D.Lgs. n. 286/1998 è proprio una
norma sulla giurisdizione, il presupposto necessario per garantire ai soggetti
discriminati l’effettività degli strumenti di tutela previsti nella richiamata
disposizione e meglio articolati nell’art.28 del D.Lgs. n.150/2011 è la nullità
per carenza assoluta di potere del provvedimento amministrativo
discriminatorio, adottato ai sensi dell’art.43 co. 2 lett. a) e c) del D.Lgs.
n. 286/1998, e la necessaria considerazione dello stesso esclusivamente nella
sua realtà fattuale e non provvedimentale, ossia quale atto rappresentativo di
una condotta meramente materiale e non esplicativo dell’esercizio di alcun
potere pubblicistico di tipo autoritativo.
A sostegno di quanto affermato depone anche una interpretazione
sistematica e costituzionalmente orientata della disciplina in esame.
Secondo quanto, infatti, desumibile dalla congiunta lettura
degli artt. 44 del D.Lgs. n. 286/1998 e 28 del D.Lgs. n. 150/2011, gli atti
discriminatori, nella loro ampia eterogeneità ed atipicità, sono considerati
tutti allo stesso modo sul piano della tutela, senza distinzione di sorta a
seconda che la discriminazione sia perpetrata mediante un contratto o un
negozio o un atto amministrativo, essendo in tutte le ipotesi possibile
l’esperimento delle tutele previste dalla richiamata normativa. Di conseguenza,
sarebbe erroneo, in quanto contrario al tenore ed alla ratio della
disciplina in esame, sostenere l’annullabilità del provvedimento amministrativo
discriminatorio, con conseguente onere di tempestiva impugnazione dinanzi al
Giudice Amministrativo, per contrarietà alla norma imperativa di cui all’art.43
del D.Lgs. n. 286/1998 (e, dunque, per violazione di legge ai sensi dell’art.21
octies co.1 della L. n.241/1990) quando per la stessa ragione il
contratto od il negozio discriminatorio è, invece, nullo, ai sensi degli
artt.1418 co.1 c.c., tanto più considerato che né l’art. 44 del D.Lgs. n. 286/1998
né l’art. 28 del D.lgs. n.150/2011 riconoscono al Giudice Civile un potere di
annullamento degli atti amministrativi discriminatori. Né, peraltro, potrebbe
ritenersi sufficiente a garantire piena tutela ai diritti fondamentali dello
straniero discriminato l’eventuale disapplicazione del provvedimento
amministrativo discriminatorio da parte del Giudice Civile ai sensi dell’art.5
della L. n.2248/1865 all. E, poiché la condanna dell’Autorità Amministrativa
convenuta ad un “facere” specifico di tipo riparatorio presuppone, come
detto, l’assenza di qualsivoglia potere pubblicistico, in ragione del limite
alla giurisdizione del Giudice Ordinario stabilito dall’art.4 L. n.2248/1865
all. E.
I principi, dunque, di effettività della tutela giurisdizionale
e di simmetria delle tutele desumibili dagli artt. 3, 24 e 113 Cost. inducono
il Collegio ad una lettura sistematica e costituzionalmente orientata degli
artt. 43 e 44 D.Lgs. n. 286/1998 e 28 D.Lgs. n.150/2011 ed alla conseguente
considerazione del provvedimento amministrativo discriminatorio come nullo per
carenza assoluta di potere, dovendosi ritenere l’art. 43 del D.Lgs. n. 286/1998
una norma, non disciplinante ma, inibente l’esercizio del potere, implicando
l’esclusione ab origine dell’esercizio di qualsivoglia potestà
pubblicistica eventualmente evocata dalla P.A. per l’adozione di un atto di
tipo discriminatorio.
Elementi in tal senso indicativi si desumono anche dalle fonti
internazionali ed eurounitarie.
Come detto, il divieto di discriminazione costituisce un
principio generalmente riconosciuto anche a livello internazionale.
Ed invero, l’art.14 della C.E.D.U. stabilisce che “Il
godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione
deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle
fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni
politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale,
l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni
altra condizione”. Il medesimo principio è ribadito anche dall’art.1 del
Protocollo n.12 allegato alla C.E.D.U., secondo cui “1. Il godimento di ogni
diritto previsto dalla legge deve essere assicurato senza nessuna
discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore,
la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l’origine
nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la
nascita o ogni altra condizione. 2. Nessuno potrà essere oggetto di discriminazione
da parte di una qualsivoglia autorità pubblica per i motivi menzionati al
paragrafo 1”.
Anche la Carta
dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea afferma il divieto di
discriminazione, laddove, dopo avere chiarito all’art.1 che “la dignità umana
è inviolabile” e “deve essere rispettata e tutelata”, all’art.21
precisa essere “vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in
particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o
sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni
personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad
una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l'età o le
tendenze sessuali”.
Una disciplina più dettagliata si rinviene, poi, nella
Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione
razziale conclusa a New York il 21 dicembre 1965, laddove all’art.2 si afferma
che “1. Gli Stati contraenti condannano la discriminazione razziale e si
impegnano a continuare, con tutti i mezzi adeguati e senza indugio, una
politica tendente ad eliminare ogni forma di discriminazione razziale ed a
favorire l’intesa tra tutte le razze, e, a tale scopo:
a) ogni Stato contraente si impegna a non porre in opera
atti o pratiche di discriminazione razziale verso individui, gruppi di
individui od istituzioni ed a fare in modo che tutte le pubbliche attività e le
pubbliche istituzioni, nazionali e locali, si uniformino a tale obbligo”;
all’art.4 si prevede che “Gli Stati contraenti condannano ogni propaganda ed
ogni organizzazione che s’ispiri a concetti ed a teorie basate sulla
superiorità di una razza o di un gruppo di individui di un certo colore o di
una certa origine etnica, o che pretendano di giustificare o di incoraggiare
ogni forma di odio e di discriminazione razziale, e si impegnano ad adottare
immediatamente misure efficaci per eliminare ogni incitamento ad una tale
discriminazione od ogni atto discriminatorio, tenendo conto, a tale scopo, dei
principi formulati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dei
diritti chiaramente enunciati nell’articolo 5 della presente Convenzione, ed in
particolare: a) a dichiarare crimini punibili dalla legge, ogni diffusione di
idee basate sulla superiorità o sull’odio razziale, ogni incitamento alla
discriminazione razziale, nonché ogni atto di violenza, od incitamento a tali
atti diretti contro ogni razza o gruppo di individui di colore diverso o di
diversa origine etnica, come ogni aiuto apportato ad attività razzistiche,
compreso il loro finanziamento; b) a dichiarare illegali ed a vietare le
organizzazioni e le attività di propaganda organizzate ed ogni altro tipo di
attività di propaganda che incitino alla discriminazione razziale e che
l’incoraggino, nonché a dichiarare reato punibile dalla legge la partecipazione
a tali organizzazioni od a tali attività; c) a non permettere né alle pubbliche
autorità, né alle pubbliche istituzioni, nazionali o locali, l’incitamento o
l’incoraggiamento alla discriminazione razziale”; all’art.5 si stabilisce
che “In base agli obblighi fondamentali di cui all’articolo 2 della presente
Convenzione, gli Stati contraenti si impegnano a vietare e ad eliminare la
discriminazione razziale in tutte le sue forme ed a garantire a ciascuno il
diritto all’eguaglianza dinanzi alla legge senza distinzione di razza, colore
od origine nazionale o etnica, nel pieno godimento dei seguenti diritti”
[…] tra i quali quello all’alloggio; all’art.6 si afferma che “Gli Stati
contraenti garantiranno ad ogni individuo sottoposto alla propria giurisdizione
una protezione ed un mezzo di gravame effettivi davanti ai tribunali nazionali
ed agli altri organismi dello Stato competenti, per tutti gli atti di
discriminazione razziale che, contrariamente alla presente Convenzione, ne
violerebbero i diritti individuali e le libertà fondamentali nonché il diritto
di chiedere a tali tribunali soddisfazione o una giusta ed adeguata riparazione
per qualsiasi danno di cui potrebbe essere stata vittima a seguito di una tale
discriminazione”.
L’universalità del richiamato principio induce a ritenere la
dignità umana un valore fondamentale ed assoluto, da tutelare nei confronti di
chiunque intenda lederlo o lo abbia leso, ivi incluse le Pubbliche Autorità.
L’adesione, infatti, ai richiamati trattati internazionali costituisce una
condotta indicativa non soltanto della condivisione di un principio, ma, più
che altro, della volontà di assicurare piena e completa tutela (civile e
penale) alla dignità umana, escludendo, tra l’altro, qualsivoglia possibilità
di atti discriminatori, prima di tutto, ad opera delle Autorità amministrative
nazionali deputate all’esercizio dei molteplici pubblici poteri tramite i quali
si esplica la sovranità degli Stati, essendo notorio che la discriminazione
perpetrata da una Pubblica Autorità sia maggiormente offensiva, poiché
percepita dal discriminato con maggiore lesività, rispetto a quella posta in
essere da un privato, in conseguenza della logica percezione della sensazione
di non essere accettati da un’intera comunità, come, ad esempio, avviene quando
ad agire in senso discriminatorio sia un Ente Pubblico Territoriale, come nel
caso in esame.
Costituendo principio generalmente riconosciuto dalla comunità
internazionale e dall’Unione Europea la considerazione della dignità umana
quale diritto fondamentale dell’essere umano e limite alla sovranità degli
Stati, va osservato che la discriminazione per motivi razziali, etnici,
religiosi, ecc…, poiché espone a responsabilità internazionale lo Stato che ne
sia autore, va prevenuta nell’ambito dell’ordinamento interno, inibendo in
nuce, anzitutto, qualsivoglia esercizio di potestà pubblicistiche per il
soddisfacimento di finalità discriminatorie o, implicanti, anche se soltanto
indirettamente, effetti discriminatori. Dovendosi, dunque, escludere a priori
il possibile esercizio di poteri autoritativi per il compimento di atti
discriminatori, la funzione dei richiamati trattati internazionali deve
rinvenirsi nell’assunzione di responsabilità per gli Stati firmatari, come
l’Italia, dell’obbligo di tutelare il rispetto della dignità umana anche da
provvedimenti delle Pubbliche Amministrazioni mediante l’introduzione negli
ordinamenti nazionali di norme, non tanto disciplinanti le modalità di
esercizio del potere, bensì preclusive dell’esercizio stesso del potere
ogniqualvolta ciò possa implicare l’adozione di un provvedimento
discriminatorio.
L’art. 43 del D.lgs. n. 286/1998 va, dunque, concepito non come
semplice parametro di legittimità dell’agire della Pubblica Amministrazione
implicante in caso di inosservanza la mera annullabilità del provvedimento
discriminatorio, ma come norma statuente un divieto assoluto, con effetto
inibitorio, dell’esercizio di qualsivoglia potere pubblicistico che si traduca
in un atto discriminatorio, essendo la sfera più intima dell’essere umano, nel
suo complesso considerata e costituita dai valori e diritti fondamentali
generalmente riconosciuti ad ogni persona, un ambito non suscettibile di
ingerenze lesive da parte di nessuna Pubblica Autorità, sia per espressa scelta
della nostra Carta Fondamentale, che all’art. 2 riconosce e garantisce i “diritti
inviolabili dell’uomo”, sia per adesione ai richiamati trattati
internazionali.
Il Legislatore nazionale, dunque, con l’art.43 del D.Lgs. n.286/1998
ha inteso assicurare, in conformità agli impegni internazionali assunti, la più
ampia tutela possibile, incidendo, con riguardo ai provvedimenti amministrativi
discriminatori, direttamente sulla norma attributiva del potere esercitato,
rendendola transitoriamente inefficace in ragione della scelta ab origine
dello Stato di non ledere con l’esercizio dei suoi poteri autoritativi la
dignità umana, discriminando un essere umano rispetto ad un altro per nessun
motivo.
Di conseguenza, l’art. 43 del D.Lgs. n.286/1998 assolve alla
funzione di privare di efficacia, prima ancora che l’atto discriminatorio, la
norma attributiva del potere esercitato nella circostanza, rendendo di riflesso
privo di effetti il provvedimento emesso dall’Autorità Pubblica.
Con riguardo al caso in esame, il Collegio ritiene che la
nullità dell’ordinanza sindacale impugnata discenda dalla inefficacia della
norma attributiva del potere, ossia l’art.50 del D.Lgs. n.267/2000, in
conseguenza della natura discriminatoria dell’atto adottato ai sensi
dell’art.43 co.2 lett.a) e c) del D.Lgs. n.286/1998.
L’accoglimento dei primi tre motivi di ricorso implica
l’assorbimento di tutti gli altri.
Considerato che l’ordinanza impugnata costituisce un atto di
discriminazione per motivi razziali ed etnici e che potrebbe, quindi, essere
fonte di responsabilità penale ai sensi dell’art.323 c.p., (potendo integrare
il reato di abuso d’ufficio con l’aggravante della discriminazione razziale di
cui all’art.604 ter c.p.) ovvero ai sensi dell’art. 3 co.1 lett. a)
della legge 13 ottobre 1975 n.654 (come modificato dal D.L. 26 aprile 1993
n.122 convertito con modificazioni nella Legge 25 giugno 1993 n.205) di
ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale sull’eliminazione di
tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7
marzo 1966, (secondo cui è punito con la pena della reclusione sino ad 1 anno e
6 mesi o con la multa sino ad € 6.000,00 colui il quale commetta atti di
discriminazione per motivi razziali o etnici), va disposta la trasmissione di
copia dei provvedimenti impugnati e della presente sentenza alla Procura della
Repubblica presso il Tribunale Ordinario di Enna per gli adempimenti di sua
competenza.
Le spese seguono la soccombenza ed, avuto riguardo all’attività
difensiva espletata dalle parti, al valore indeterminabile della controversia
ed allo scaglione di riferimento di cui all’art.5 co.6 del D.M. 55/2014 (da €
26.000,01 ad € 52.000,00) vanno liquidate in favore del Ministero dell’Interno
ed a carico del Comune di X. nella misura di seguito indicata:
COMPENSI PROFESSIONALI
Fase di studio della controversia € 1.955,00
Fase introduttiva del giudizio € 1.350,00
Fase di trattazione € -
Fase decisionale € 3.305,00
Fase cautelare (compensate con l’ordinanza cautelare) € -
Totale compenso per fasi € 6.610,00
Rimborso forfettario 15,00% € 991,50
Somma finale € 7.601,50
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, sezione staccata
di Catania (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in
epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, dichiara nulla l’ordinanza
sindacale impugnata.
Condanna il Comune di X., in persona del Sindaco pro tempore,
alla rifusione delle spese processuali sostenute dal Ministero dell’Interno che
liquida nella misura complessiva di € 7.601,50 a titolo di compensi, ivi
incluso rimborso forfettario come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità
amministrativa.
Manda alla segreteria per gli adempimenti di sua competenza e
la trasmissione di copia degli atti impugnati e della presente sentenza alla
Procura della Repubblica presso il Tribunale Ordinario di Enna.