giovedì 30 agosto 2018



Circolare dell’ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro) 29 agosto 2018, n. 4, Chiarimenti in merito al requisito della “residenza” e alla possibilità per i cittadini dell’ Unione europea di rilasciare la dichiarazione di immediata disponibilità





A seguito di alcune richieste di parere, emerge l’esigenza di fornire chiarimenti in merito al requisito della “residenza” e alla possibilità per i cittadini dell’ Unione europea di rilasciare la dichiarazione di immediata disponibilità, ai sensi dell’articolo 19 del decreto legislativo n. 150/2015, e di accedere ai servizi e alle misure di politica attiva del lavoro. Acquisito il parere del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, si comunica quanto segue. 

Preliminarmente, si rappresenta che l’articolo 45 del TFUE disciplina e assicura la libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione europea, con l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro. 

La libera circolazione dei lavoratori è uno dei principi base dell’Unione europea, in virtù del quale i cittadini di ogni Stato membro hanno il diritto di cercare lavoro in un altro Stato membro, conformemente alla regolamentazione applicabile ai cittadini di quest'ultimo. In particolare, va riconosciuta la medesima assistenza che gli uffici di collocamento offrono ai cittadini dello Stato membro in questione, senza alcuna discriminazione fondata sulla nazionalità. 

Peraltro, laddove la persona abbia cessato un lavoro in uno Stato membro mantiene il diritto a rimanervi, per un periodo superiore a tre mesi, secondo le previsioni di cui alla direttiva 2004/38/CE (in particolare, articolo 7).  Una piena e concreta tutela di tutti i cittadini che si muovono all’interno dell’Unione per trovare lavoro, non può che tradursi, pertanto, nella messa a disposizione delle strutture e dei mezzi che lo Stato assicura ai propri cittadini, quale supporto per l’attivazione e la ricollocazione nel mercato del lavoro.

Posto quanto sopra, a livello di legislazione nazionale, il decreto legislativo n. 150/2015, all’articolo 1, comma 3, stabilisce il diritto di ogni individuo ad accedere ai servizi di collocamento gratuito, di cui all’articolo 29 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, mediante interventi e servizi volti a migliorare l’efficienza del mercato del lavoro, assicurando il sostegno nell’inserimento o nel reinserimento al lavoro. 

Alla luce di tale quadro regolatorio, europeo e nazionale, potranno rilasciare la dichiarazione di immediata disponibilità e ricevere i servizi e le misure di politica attiva del lavoro i cittadini dell’Unione europea che soggiornano sul territorio italiano, nel rispetto delle previsioni di cui all’art. 45 del TFUE e della direttiva 2004/38/CE. 

A tale riguardo, si specifica che il riferimento al requisito della “residenza”, di cui all’articolo 11, comma 1, lett. c), del decreto legislativo n. 150/2015, deve necessariamente essere letto in relazione al principio di libera circolazione dei lavoratori nell’Unione europea e dei principi sopra indicati, non potendo costituire, in alcun modo, un ostacolo all’effettiva tutela dei cittadini dell’ Unione europea e alla parità di trattamento degli stessi, ai fini di un concreto e reale supporto nella ricerca di un lavoro.

mercoledì 29 agosto 2018



Circolare (congiunta) del Ministero del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e dell’ANPAL(Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro) 27 agosto 2018, n. 10569, Circolare congiunta - cittadini non comunitari richiedenti e titolari di protezione internazionale. Chiarimenti e riferimenti normativi in merito all’accesso ai servizi e alle misure di politica attiva del lavoro erogati dai Centri per l’impiego.



 Premessa
Pervengono alla Direzione Generale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e all’ANPAL numerose richieste di chiarimenti sul tema dell’accesso ai servizi e alle misure di politica attiva del lavoro da parte dei cittadini non comunitari richiedenti e titolari di protezione internazionale e, in particolare, sul requisito della “residenza” a tal fine previsto dall’art. 11, comma 1, lett. c) del d.lgs. 150/2015.
Nel ribadire quanto già comunicato con nota ANPAL prot. 6202 del 23 maggio 2018 (allegato 1), con cui, acquisito il parere della Direzione Generale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, sono state già fornite indicazioni in merito, si ritiene opportuno effettuare una ricognizione della normativa vigente, al fine di fornire un quadro organico della materia.
Accesso dei cittadini non comunitari ai servizi e alle misure di politica attiva del lavoro
Cittadini non comunitari
Ai sensi del d.lgs. 286/1998 (T.U. Immigrazione), i cittadini stranieri non UE, regolarmente soggiornanti e titolari di un permesso di soggiorno che consente l’esercizio di un’attività lavorativa, godono di parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani e comunitari (articolo 2, comma 3 del T.U. Immigrazione). Tali diritti sono estesi anche ai cittadini stranieri in attesa del rilascio o del rinnovo del permesso di soggiorno (articolo 5, comma 9-bis del T.U. Immigrazione).
Pertanto, ai cittadini stranieri non UE, a parità di condizioni rispetto ai cittadini italiani, è richiesta la dimostrazione del requisito della residenza, ai sensi del sopra citato articolo 11, comma 1 del. d.lgs. 150/2015, ai fini dell’accesso ai servizi e alle misure di politica attiva del lavoro.
A tal proposito, l’iscrizione di un cittadino straniero regolarmente soggiornante nelle liste anagrafiche della popolazione di un determinato comune avviene ai sensi dell’articolo 6, comma 7 del T.U. Immigrazione e dell’articolo 2 della l. n. 1228/1954, c.d. “legge anagrafica”.
Si rammenta, inoltre, che i lavoratori stranieri, titolari di un permesso di soggiorno per lavoro subordinato, che hanno perso il lavoro, anche per dimissioni, possono dichiarare lo stato di disoccupazione (articolo 19 del d.lgs. 150/2015) e usufruire dei servizi dei Centri per l’impiego per il periodo di residua validità del permesso di soggiorno e comunque, salvo che si tratti di permesso di soggiorno per lavoro stagionale, per un periodo non inferiore a un anno ovvero per tutto il periodo di durata della prestazione di sostegno al reddito percepita dal lavoratore straniero, qualora superiore. Decorso questo termine, trovano applicazione i requisiti reddituali dell'articolo 29, comma 3 lett. b) del T.U. Immigrazione, per cui l'eventuale successivo rinnovo del permesso di soggiorno potrà richiedersi anche qualora il lavoratore straniero dimostri un reddito minimo annuo derivante da fonti lecite non inferiore all'importo annuo dell'assegno sociale, sulla base dei parametri indicati (articolo 22, comma 11 del T.U. Immigrazione e Circolari del Ministero dell'Interno del 9 luglio 2012 e del 3 ottobre 2016).
Accesso ai servizi e alle misure di politica attiva del lavoro da parte dei cittadini stranieri richiedenti e titolari di protezione internazionale
La previsione del requisito della residenza, di cui all’art. 11, comma 1, lett. c) del d.lgs. 150/2015, ha fatto sorgere problemi applicativi con riferimento all’ipotesi in cui la richiesta di accesso ai servizi e alle misure di politica attiva del lavoro viene formulata da un richiedente protezione internazionale, generalmente ospitato in un centro di accoglienza. Da più parti è stato evidenziato il paradosso per cui ai cittadini richiedenti protezione internazionale, seppur legittimati a svolgere attività lavorativa trascorsi sessanta giorni dalla presentazione della domanda di asilo (come previsto dall’art. 22, comma 1, del d.lgs. 142/2015), risultava preclusa l’iscrizione ai Centri per l’impiego a causa della mancata iscrizione anagrafica.
In merito, giova anzitutto rammentare che, ai sensi dell’articolo 5, comma 3, del d.lgs. 142/2015, per i richiedenti protezione internazionale ospitati nei centri o nelle strutture di accoglienza, ai quali è rilasciato il permesso di soggiorno ovvero la ricevuta di richiesta, il centro o la struttura rappresentano luogo di dimora abituale ai fini della iscrizione anagrafica.
Sul tema è intervenuta la comunicazione di ANPAL n. 6202 del 23 maggio 2018, con la quale è stato rilevato che, in considerazione del carattere di lex specialis che il d.lgs. 142/2015 assume con riferimento a questa specifica categoria di soggetti vulnerabili, “il requisito della residenza anagrafica per l’accesso ai servizi e alle misure di politica attiva del lavoro erogati dai Centri per l’impiego– previsto dall’articolo 11 del D.Lgs. 150/2015 – per i richiedenti/titolari protezione internazionale è soddisfatto dal luogo di dimora abituale”.
Tale interpretazione appare, del resto, coerente con la possibilità, riconosciuta ai richiedenti protezione internazionale dal citato art. 22 del d.lgs. 142/2015, di svolgere attività lavorativa decorsi sessanta giorni dalla presentazione della domanda di asilo (sul tema si richiama il parere della Direzione Generale per l’attività ispettiva del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, prot. n. 14751 del 26 luglio 2016, allegato 2). A fortiori, pertanto, dovrà essere consentito a tali soggetti l’accesso ai servizi e alle misure di politica attiva del lavoro erogati dai Centri per l’impiego, rispetto a cui il rilascio della dichiarazione immediata di disponibilità, di cui all’articolo 19 del d.lgs. 150/2015, è un passaggio utile, per i successivi momenti relativi alla profilazione qualitativa, sottoscrizione del patto di servizio personalizzato e attivazione della persona nella ricerca di un nuovo lavoro.
In linea con la disciplina speciale prevista per tale categoria vulnerabile, INPS ha comunicato, con il Messaggio n. 3151 del 28 luglio 2017 (allegato 3), di avere aggiornato il software Uniemens per accogliere i flussi individuali trasmessi con codice fiscale numerico provvisorio. Per effetto di tale modifica, i datori di lavori possono trasmettere le denunce individuali direttamente con il codice fiscale numerico provvisorio assegnato ai richiedenti protezione internazionale. L’innovazione mira a consentire a tale tipologia di cittadini stranieri di svolgere attività lavorativa e di accedere ad altre misure di politica attiva del lavoro, quali per esempio i tirocini formativi.
Si richiede di dare la più ampia diffusione alla presente circolare presso i Centri per l’impiego, al fine di garantire la parità di trattamento delle persone su tutto il territorio nazionale e l’accesso da parte dei cittadini stranieri, con particolare riferimento ai richiedenti/titolari di protezione internazionale, alle misure di politica attiva del lavoro, le quali costituiscono presupposto indefettibile di una efficace strategia di integrazione socio-lavorativa.
La presente circolare viene altresì pubblicata sui siti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali e dell’ANPAL.

PANOZZO,  Qualche osservazione in tema di autocertificabilità del percorso vaccinale, in
https://www.diritto.it/autocertificabilita-del-percorso-vaccinale/

venerdì 24 agosto 2018



Cass. 22 agosto 2018, n. 20952

La pena accessoria della perdita del diritto di voto del soggetto condannato con applicazione dell’interdizione dai pubblici uffici non si estingue con l’esito positivo dell’affidamento in prova ai servizi sociali [Sottolinea il S.C. che: a) la diversa impostazione seguita da Cass. pen. 52551/2014 – oltre a risultare isolata – “non può essere condivisa”; b) che è stato  “lo stesso legislatore (…art. 47, c. 12, ord. pen…ndA) a chiarire in modo espresso e definitivamente che l'esito positivo della prova estingue la sola pena detentiva e non, invece, quella pecuniaria — salvo non ricorra l'ipotesi di disagio economico pure contemplata dal citato articolo 47 — né quelle accessorie, riguardo alle quali neppure è prevista alcuna clausola di salvezza”]



FATTI DI CAUSA

1. — C.G., già condannato per il delitto di cui all'articolo 317 c.p., e perciò interdetto in perpetuo dai pubblici uffici, ai sensi dell'articolo 317 bis c.p., con conseguente cancellazione dalle liste elettorali, ha chiesto alla Commissione elettorale comunale di T., a seguito dell'esito positivo dell'affidamento in prova al servizio sociale, per effetto del quale il competente giudice di sorveglianza aveva pronunciato ordinanza dichiarativa dell'estinzione della pena detentiva e di ogni altro effetto penale, ai sensi dell'articolo 47, comma 12, della legge 26 luglio 1975, n. 354, la reiscrizione nelle medesime liste.

Respinta la domanda da tale Commissione con provvedimento fatto oggetto di ricorso alla Commissione elettorale circondariale di T., che non si è ritenuta competente, il C. ha proposto ricorso alla Corte d'appello di L., nei confronti della stessa Commissione circondariale, ai sensi dall'articolo 42 del decreto del Presidente della Repubblica 20 marzo 1967, n. 223.

 La Corte d'appello adita ha respinto il ricorso con ordinanza del OMISSIS, osservando, per quanto rileva:

-) che l'interdizione dai pubblici uffici non costituisce effetto tale da ledere il diritto del cittadino di partecipare alla vita pubblica senza giustificazione legittima e proporzionata, essendo collegata alla valutazione della gravità del fatto, nonché del tipo di illecito commesso, delle relative circostanze e della personalità del condannato, tanto più che non si tratta di un provvedimento definitivo, potendo essere rimosso attraverso la riabilitazione;

-) che l'estinzione della pena detentiva per effetto dell'esito positivo dell'affidamento in prova non fa venir meno l'interdizione dai pubblici uffici.


2. — Per la cassazione dell'ordinanza C.G.  ha proposto ricorso per due motivi.

La Commissione elettorale circondariale di T. ha resistito con controricorso e proposto a propria volta ricorso incidentale per un motivo.

Il Procuratore Generale ha concluso per l'accoglimento del ricorso principale e il rigetto del ricorso incidentale.


RAGIONI DELLA DECISIONE


1. — Il ricorso principale contiene due motivi.



1.1. — Il primo motivo denuncia violazione degli articoli 117 della Costituzione e 3, protocollo I, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

Secondo il ricorrente la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere che l'interdizione dai pubblici uffici non costituisca un effetto automatico, come tale privo di relazione di proporzionalità, della sanzione penale irrogata, giacché tale affermazione si porrebbe in contrasto con quella di segno opposto emergente dalla sentenza della Corte EDU del 18 gennaio 2011, Scoppola c. Italia.

1.2. — Il secondo motivo denuncia violazione dell'articolo 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354.

Sostiene il ricorrente che l'esito positivo dell'affidamento in prova comporterebbe, alla stregua della giurisprudenza di questa Corte, l'estinzione anche delle pene accessorie, ivi compresa l'interdizione dai pubblici uffici.


2. — Il ricorso principale va respinto.

2.1. — È infondato il primo motivo.

A seguito della pronuncia della citata sentenza della Corte EDU del 18 gennaio 2011, il Governo italiano ha chiesto ed ottenuto, ai sensi dell'articolo 43 della Convenzione EDU, il rinvio alla Grande Camera, che, con sentenza del 22 maggio 2011 (Scoppola c. Italia, 3, n. 126/05), ha viceversa stabilito che la perdita del diritto di voto decisa nei confronti di un condannato che riceve anche la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici è conforme alla Convenzione: ciò, in breve, perché la legislazione italiana lega il provvedimento alla gravità dei reati, sicché la misura non ha carattere generale ed automatico e non è applicata in modo indiscriminato.

La decisione adottata dalla Corte d'appello di L. è dunque in linea con la giurisprudenza della Corte EDU, oltre che con quella di questa Corte, che già da tempo ha avuto modo di affermare, nella medesima linea, quanto segue: «L'art. 2, lett. d), del d.P.R. 20 marzo 1967, n. 223 (testo unico sulla disciplina dell'elettorato attivo e sulla tenuta e revisione delle liste elettorali), secondo il quale non sono elettori, tra gli altri, i condannati a pena che importa la interdizione perpetua dai pubblici uffici, e gli artt. 28 e 29 c.p., in base ai quali la condanna all'ergastolo e alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni importano l'interdizione perpetua del condannato dai pubblici uffici, e quest'ultima priva il condannato del diritto di elettorato di eleggibilità in qualsiasi comizio elettorale e di ogni altro diritto politico, non sono difformi dal precetto dell'art. 3 del Protocollo addizionale alla Convenzione CEDU - che include il diritto di voto tra le libertà fondamentali - nella interpretazione della norma offerta dalla Corte di Strasburgo ..., che ha dichiarato il contrasto con la Convenzione della normativa della Gran Bretagna ... La normativa italiana, a differenza di quella britannica, non prevede, infatti, un siffatto automatismo, in quanto esclude da restrizioni o privazioni del diritto di voto tutti quei reati per i quali sia stata pronunciata una condanna alla reclusione per un tempo inferiore a tre anni, e, quindi, non solo le violazioni minori, ma anche quelle ipotesi in cui, pur essendo la pena edittale prevista in misura più elevata, il condannato venga considerato meritevole di attenuanti tali da determinare l'applicazione di una pena detentiva inferiore; ed inoltre, in caso di pena inferiore a cinque anni, la privazione del diritto di voto è solo temporanea, conseguendo alla interdizione dai pubblici uffici per un periodo di cinque anni. Ma, anche con riferimento alla interdizione perpetua dai pubblici uffici che consegue alla condanna ad almeno cinque anni o all'ergastolo, è da escludere il carattere generale e automatico della compressione del diritto di voto, dovendosi avere riguardo alla pena inflitta nel caso concreto, sulla base dei parametri di cui all'art. 133 c.p., e non alla fattispecie criminosa, e dovendosi comunque, anche a fronte della dichiarata definitività della interdizione dai pubblici uffici, tenere conto della possibilità di applicazione dell'istituto della riabilitazione, di cui all'art. 178 c.p. (Cass. 17 gennaio 2006, n. 788).


2.2. — È infondato il secondo motivo.

Questa Corte ha in passato stabilito — tra l'altro nei riguardi dello stesso C. — che la perdita dell'elettorato, prevista dall'articolo 2, primo comma, lett. e), del d.P.R. 20 marzo 1967, n. 223, costituisce non un «effetto penale» della condanna, ma una pena accessoria, in quanto particolare modo di essere della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici, di cui segue direttamente ed inscindibilmente la sorte, venendo meno, quindi, soltanto per effetto delle cause che estinguono la pena interdittiva, fra le quali non è compreso l'esito positivo dell'affidamento al servizio sociale che, ai sensi dell'articolo 47, comma 12, della legge 26 luglio 1975, n. 354, estingue soltanto la pena detentiva ed ogni altro effetto penale, ma non già le pene accessorie (Cass. 28 ottobre 2008, n. 25896, conforme alla giurisprudenza della Cassazione penale dell'epoca: v. Cass. pen. 4 marzo 1995, n. 88, nonché, sia pure come obiter, Cass. pen., Sez. Un., 27 settembre 1995, n. 27).

Successivamente, tuttavia, richiamando l'autorità di Cass. pen., Sez. Un., 27 ottobre 2011, n. 5859, secondo cui l'estinzione di ogni effetto penale determinata dall'esito positivo dell'affidamento in prova al servizio sociale comporta che delle relative condanne non possa tenersi conto agli effetti della recidiva, è stato viceversa affermato che l'esito positivo della prova determina l'automatica estinzione delle pene accessorie, posto che queste sono definite dall'art. 20 c.p. «effetti penali» della condanna e che l'articolo 47, comma 12, legge 26 luglio 1975 n. 354, collega all'esito favorevole della prova l'estinzione, oltre che della pena detentiva, anche di «ogni altro effetto penale» (Cass. pen. 29 settembre 2014, n. 52551).

Tale decisione non risulta aver avuto seguito, non rinvenendosi successive conformi, a quanto consta, neppure tra le non massimate, e non può essere condivisa.

Difatti, proprio la sentenza poc'anzi citata delle Sezioni Unite penali ha ricordato che l'articolo 47, comma 12, dell'ordinamento penitenziario, nella sua originaria formulazione, stabiliva che: «L'esito positivo del periodo di prova estingue la pena e ogni altro effetto penale», e che, nondimeno, la norma era stata in prevalenza intesa nel senso che l'effetto estintivo ivi previsto fosse riferibile alla sola pena detentiva: in seguito, sorta questione in ordine all'applicabilità della previsione alla pena nel suo complesso (v. Corte cost. n. 410 del 1994), è intervenuto il legislatore riformulando la norma nel testo attualmente vigente, secondo cui: «L'esito positivo del periodo di prova estingue la pena detentiva ed ogni altro effetto penale», e così confermando in via normativa la linea interpretativa della Corte di cassazione. È stato dunque lo stesso legislatore a chiarire in modo espresso e definitivamente che l'esito positivo della prova estingue la sola pena detentiva e non, invece, quella pecuniaria — salvo non ricorra l'ipotesi di disagio economico pure contemplata dal citato articolo 47 — né quelle accessorie, riguardo alle quali neppure è prevista alcuna clausola di salvezza.

Non rileva, dunque, che l'articolo 20 c.p. riconduca le pene accessorie agli effetti penali della condanna, giacché, nella speciale previsione dettata dall'articolo 47 dell'ordinamento penitenziario, l'effetto dell'esito positivo della prova si produce, quanto alla pena, soltanto nei riguardi di quella detentiva, incidendo per il resto sui soli altri effetti penali diversi dalle pene accessorie.



3. — Il ricorso incidentale contiene un solo motivo con cui viene denunciata violazione e/o falsa applicazione degli articoli 28, 29 e 32 del decreto del Presidente della Repubblica 20 marzo 1967, n. 223. Si afferma che, diversamente da quanto ritenuto dal giudice di merito, il provvedimento della Commissione elettorale circondariale di Taranto era pienamente legittimo, in quanto essa non aveva alcuna competenza a decidere sul reclamo presentato dal C.

4. — Il ricorso incidentale è inammissibile, giacché la controricorrente è risultata totalmente vincitrice nel giudizio a quo, sicché manca di interesse ad impugnare al solo scopo di ottenere una diversa motivazione del provvedimento impugnato.

5. — Le spese seguono la prevalente soccombenza del ricorrente principale. Trattandosi di procedimento esente dal contributo unificato, non trova applicazione l'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, introdotto dall'art. 1, comma diciassettesimo, della legge 24 dicembre 2012, n. 228.


P.Q.M.


rigetta il ricorso e dichiara inammissibile quello incidentale. Condanna il ricorrente principale al rimborso, in  favore della parte cointroricorrente, delle spese sostenute per questo giudizio di legittimità  OMISSIS




Circolare Ministero dell’Interno – Comm. Nazionale per il diritto di Asilo 8 agosto 2018, n. 6389, Notificazione degli atti e dei provvedimenti delle Commissioni Territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale e della Commissione Nazionale per il diritto di asilo, così come previsto dal d.l. n. 13/2017 convertito nella l. n. 46/2017.

Come noto, il decreto legge 17 febbraio 2017, n. 13, convertito con modificazioni nella
legge 13 aprile 2017 n. 46, all'art. 6, comma 1, lettera a), ha stabilito che le notificazioni degli
atti e dei provvedimenti adottati nel procedimento per il riconoscimento della protezione
internazionale siano validamente effettuate presso il centro o la struttura in cui il richiedente è
accolto o trattenuto ai sensi dell'ari. 5, comma 2 d.lgs. n. 142/2015, ovvero presso l'ultimo
domicilio noto, a mezzo del servizio postale, qualora il richiedente non sia accolto o trattenuto
presso i suddetti centri o strutture.
In proposito, in aderenza al dettato normativo, con circolari in data 23 giugno, 27 luglio
e 31 luglio 2017, che si allegano in copia, questa Commissione Nazionale aveva fornito
istruzioni sia per l'attivazione della "PEC dedicata" da registrare nel sistema informatico
Vestanet, sia per il concreto espletamento del servizio.
L'operatività delle nuove procedure, prevista per il 17 agosto 2017, venne tuttavia
sospesa dal Gabinetto del Ministro per approfondimenti tecnici richiesti dai gestori dei Centri.
Dovendosi ora imprescindibilmente dare attuazione alle previsioni di legge, si
richiamano zn primis le indicazioni concernenti l'attivazione della casella di posta
elettronica certificata dedicata al servizio notificazioni, di cui alle citate circolari.
Al riguardo, si invitano i Presidenti della Commissione di Trieste e delle Sezioni di
Milano 2, Udine, Latina, Torino 2, Bologna, Napoli 1 e Napoli 2, a richiedere all'ufficio IV -
Innovazione Tecnologica per T Amministrazione Generale del Dipartimento per le Politiche
del Personale dell'Amministrazione Civile e per le Risorse Strumentali e Finanziarie l'urgente
attivazione della suddetta PEC, provvedendo alla successiva comunicazione del relativo
indirizzo, unitamente al nominativo del responsabile del servizio, all'ufficio VI - Sistema
Informatico del Dipartimento per le Libertà Civili e l'Immigrazione, entro il 31 agosto p.v. La
comunicazione dovrà essere inviata ai seguenti indirizzi: francesco . giunta(2),interno .it e
ufficiovi(5ìpecdlci.intemo.it
Sotto il profilo tecnico si segnala che la casella PEC dovrà rispettare il seguente
specifico dimensionamento:
• circa 2 GB di spazio
• circa 8 GB di spazio per l'archiviazione;
• massimo 20 MB per la gestione delle mail in ingresso e in uscita.
Per quanto riguarda, invece, l'attività di gestione, sarà cura del responsabile del servizio
procedere al monitoraggio quotidiano e all'archiviazione settimanale, con successiva
cancellazione dei messaggi, in modo da non superare la soglia di ricezione (2GB).
Quanto poi ai Presidenti delle restanti Commissioni e Sezioni, gli stessi sono
cortesemente invitati a verificare l'operatività della casella PEC dedicata, già attivata a seguito
delle citate circolari, provvedendo a confermare o eventualmente a modificare il nominativo
del responsabile del servizio all'ufficio VI - Sistema Informatico del Dipartimento per le
Libertà Civili e l'Immigrazione, ai seguenti indirizzi mail: francesco.giunta(5).interno.it. e
ufficiovi@pecdlci.interno.it
Si fa presente, inoltre, che questa Commissione Nazionale ha già interessato gli uffici
centrali competenti anche in ordine alla registrazione delle PEC dei Centri di Accoglienza e
delle strutture SPRAR. Per completezza informativa si rappresenta altresì di aver indicato al 30
settembre la data entro la quale le nuove procedure dovrebbero auspicatamene essere avviate.
Orbene, considerato che l'inserimento di "tutti gli indirizzi PEC" all'interno del
sistema Vestanet, è assolutamente necessario ad avviare il sistema di notificazione che, per
converso, non potrà essere pienamente operativo in caso di carenza anche solo di alcuni
indirizzi, si invitano, le SS.LL. a voler cortesemente verificare, anche per il tramite degli uffici
delle prefetture competenti all'accoglienza, lo stato di attivazione delle PEC dei Centri e delle
strutture di accoglienza che insistono sul territorio di rispettiva competenza.
Nel rappresentare il carattere di estrema delicatezza ed urgenza, sigpnfida nella
consueta collaborazione.

giovedì 9 agosto 2018


Tar Sicilia, Catania, 6 agosto 2018, n. 1671

È nulla, per difetto assoluto di attribuzione, l’ordinanza contingibile ed urgente adottata, per ragioni asseritamente igienico-sanitarie, dal Sindaco ai sensi dell’art. 50, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, nella qualità di rappresentate della Comunità Locale e non di Ufficiale di Governo, in tema di locazione e/o cessione a qualunque titolo di immobili ad uso abitativo per accoglienza migranti, rifugiati e richiedenti asilo (1).

(1) Ha ricordato il Tar che la ragione del provvedimento è costituita dalla dichiarata inidoneità del territorio comunale urbano ed extraurbano ad assicurare la necessaria accoglienza di migranti, rifugiati e richiedenti asilo, a causa dell’asserita assenza di strutture idonee allo scopo. Di conseguenza, la materia disciplinata con l’ordinanza sindacale non è tanto quella igienico-sanitaria, quanto, soprattutto e principalmente, quella della gestione dei migranti, rientrante nella sfera di competenza dello Stato e, più precisamente, del Ministero dell’Interno, e non in quella dei Comuni (o dei Sindaci).
L’art. 117, comma 2, Cost., infatti, riserva alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la competenza a disciplinare il diritto di asilo e la condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione Europea (lett. a) e, più in generale, tutti i vari aspetti connessi all’immigrazione (lett. b).
Il Legislatore statale, quindi, nell’esercizio della predetta competenza legislativa esclusiva, ha disciplinato il complesso fenomeno dell’accoglienza dei cittadini provenienti da Paesi non appartenenti all’Unione Europea e degli apolidi richiedenti protezione internazionale nel territorio nazionale, comprese le frontiere e le relative zone di transito, nonché le acque territoriali, e dei loro familiari inclusi nella domanda di protezione internazionale, emanando il d.lgs. n. 142 del 2015, in attuazione delle Direttive 2013/32/UE e 2013/33/UE, così demandando al Ministero dell’Interno ed ai Prefetti la competenza e l’esercizio di importanti funzioni in materia.
Ai sensi dell’art. 9, d.lgs. n. 142 del 2015, infatti, spetta al Prefetto, sentito il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno, il potere di inviare il richiedente nelle strutture di cui al comma 1 (ossia nei centri governativi di prima accoglienza, istituiti con decreto del Ministro dell’Interno, sentita la Conferenza unificata di cui all'art. 8, d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281), per il tempo necessario, all’espletamento delle operazioni di identificazione, ove non completate precedentemente, alla verbalizzazione della domanda di protezione internazionale ed all’avvio della procedura di esame della predetta domanda, nonché all’accertamento delle condizioni di salute dell’istante.
Non può, dunque, il Sindaco, nella sua qualità di Autorità Locale, intervenire con propri atti per regolamentare il fenomeno migratorio, sebbene nell’ambito del proprio territorio comunale.
Partendo da tali presupposti il Tar ha dichiarato nulla l’impugnata ordinanza:
a)  perché la gestione e la dislocazione dei migranti, rifugiati e richiedenti asilo sull’intero territorio nazionale è riservata alla competenza esclusiva del Ministero dell’interno e del Prefetto;
b) perché la disciplina dell’iscrizione all’anagrafe dei richiedenti protezione internazionale è à riservata alla competenza esclusiva dello Stato;
c) perchè vietare la vendita o la concessione in locazione o in comodato di immobili siti nel territorio comunale per assicurare ospitalità a migranti, rifugiati e richiedenti asilo viola il principio di libertà dell'iniziativa economica privata di cui all’art. 41, comma 1, Cost. e limita  la proprietà privata in spregio alla di riserva di legge contemplata dall’art. 42, comma 2, Cost., disciplinando settori riservati alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in quanto afferenti all’ordinamento civile ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. l), Cost.
Dal sito del Consiglio di Stato


Pubblicato il 06/08/2018
N. 01671/2018 REG.PROV.COLL.
N. 01337/2017 REG.RIC.
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia
sezione staccata di Catania (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1337 del 2017, proposto dal
Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, domiciliata ex lege in Catania, via Vecchia Ognina, 149;
contro
Comune di X., in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Salvatore Brighina, con domicilio eletto presso il suo studio in Catania, via Martino Cilestri 41;
Per la declaratoria di nullità o in subordine per l’annullamento
previa sospensione cautelare degli effetti
dell’ordinanza n.29 del 12 luglio 2017 inerente “norme applicative a tutela della salute, delle prescrizioni urbanistiche e della sicurezza pubblica e in materia di locazione e/o cessione a qualunque titolo di immobili ad uso abitativo per accoglienza migranti, rifugiati e richiedenti asilo”;
nonché del presupposto parere, non conosciuto, dell’Ufficio Tecnico del Comune di X. prot. 219UTC dell’11.7.2017 ove si attesterebbe che in tutta l’area urbana e nell’adiacente area extraurbana nessun immobile e/o struttura sia in grado di soddisfare i bisogni e le esigenze di accoglienza SPRAR (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati);
di ogni altro atto, anche non conosciuto, presupposto, connesso o consequenziale;

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Comune di X.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 luglio 2018 il dott. Maurizio Antonio Pasquale Francola e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
Con ordinanza sindacale n.29/2017 emessa ai sensi dell’art.50 D.Lgs. n.267/2000 il 12 luglio 2017, il Sindaco del Comune di X. (EN) – dopo avere premesso che il Comune non aveva aderito al progetto SPRAR (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) per la dichiarata inidoneità del territorio comunale ad accogliere migranti, rifugiati e richiedenti asilo, anche se minori stranieri non accompagnati, in ragione sia dell’assenza di strutture all’uopo idonee, secondo quanto accertato dall’Ufficio Tecnico Comunale nel parere reso in data 11 luglio 2017, sia della necessità di prevenire criticità connesse al possibile turbamento dell’equilibrio sociale raggiunto dalla comunità locale – ha disposto, al fine di escludere il possibile collocamento sul territorio di migranti, rifugiati e richiedenti asilo:
1) Il divieto di concedere, in tutto il territorio di X. per le finalità di cui in premessa ed a qualunque altro titolo, in locazione e/o comodato ad uso abitativo e/o in vendita, immobili privi dei requisiti previsti dalla legge, ed in particolare privi di certificati di agibilità ed abitabilità rilasciati dal Comune di X., oltre che di inesistenza delle barriere architettoniche e requisiti igienico sanitari che possano costituire danno per la salute e l'incolumità delle persone. Sul punto si specifica che i menzionati certificati non potranno, in alcun modo, essere sostituiti da altri documenti quali perizie asseverate, autocertificazioni, ecc.; 2) ai fini dell’esecuzione dei necessari sopralluoghi di verifica all’interno delle unità abitative e di altre tipologie, gli agenti e i funzionari comunali, previo consenso degli occupanti, potranno accedere all’interno delle unità immobiliari al fine di svolgere i necessari controlli in materia igienico-sanitaria e di sicurezza; 3) ogni iscrizione anagrafica che implichi l'incremento del numero degli occupanti dell’unità abitativa è subordinata al rispetto di quanto disposto e disciplinato dall'art. 2 del D.M. 5 luglio 1975 citato in preambolo; 4) l’attività di verifica e di accertamento in ordine a quanto sopra stabilito implica altresì l’inoltro agli organi competenti di apposite segnalazioni in materia edilizia, sanitaria e fiscale al fine di adottare i conseguenti provvedimenti tra i quali, se previsto, l’immediato sgombero degli immobili nonché la segnalazione alle competenti Autorità per la verifica di comportamenti penalmente rilevanti; 5) per le violazioni della presente ordinanza sarà applicata, a norma dell'art. 7 bis, comma 1, del d.lgs. n. 267 del 2000, la sanzione amministrativa pecuniaria di € 500,00 fatte salve le eventuali violazioni di carattere penale e di violazioni di carattere edilizio-urbanistico”.
Con ricorso notificato via PEC il 26 luglio 2017 e a mezzo posta il 31 luglio 2017 ai sensi dell’art.41 c.p.a., nonché telematicamente depositato presso la segreteria del T.A.R. Sicilia, Sezione Staccata di Catania, il 26 luglio 2017 ai sensi dell’art.45 c.p.a., unitamente all’istanza di fissazione dell’udienza per la discussione del merito ai sensi e per gli effetti degli artt.55 co.4 e 71 c.p.a., l’Avvocatura dello Stato, Distrettuale di Catania, per conto del Ministero dell’Interno – Prefettura di Enna, impugnava il suddetto provvedimento domandandone, in via preliminare, l’accertamento e la declaratoria di inefficacia per nullità ed, in subordine, l’annullamento, previa sospensione cautelare degli effetti, per i seguenti motivi: 1) Nullità ex art. 21 septies della L. 241/90 per difetto assoluto di attribuzione, violazione del riparto di competenze di cui all’art. 117, comma 2, Cost., violazione della L. 1228 del 1954 e del D.P.R. 223 del 1989, non potendo il Sindaco con l’ordinanza impugnata disciplinare questioni afferenti a materie rientranti nell’esclusiva competenza legislativa ed amministrativa dello Stato, come l’immigrazione e l’anagrafe; 2) nullità per violazione dell’art.43 D.lgs. n.286/1998, poiché l’ordinanza sindacale sarebbe contraddistinta da un contenuto decisorio di tipo discriminatorio fondato su motivi razziali o etnici; 3) illegittimità per violazione degli artt.3, 10, 41 e 42 Cost., non disponendo il Sindaco del potere di incidere né sulla condizione giuridica degli stranieri, né sull’iniziativa economica e la proprietà privata al punto da vietare la vendita o la concessione in locazione o in comodato ai migranti degli immobili siti nel territorio comunale; 4) illegittimità per violazione dell’art.50 D.Lgs. n.267/2000, eccesso di potere per carenza dei presupposti di legge e per difetto di motivazione, nonché per sviamento di potere, poiché, da un lato, il pericolo di tipo igienico-sanitario prospettato dal Sindaco del Comune di X. a giustificazione del proprio intervento non era sussistente al tempo dell’emanazione dell’ordinanza impugnata, stante la mancata destinazione ad opera delle Autorità Statali di migranti da ospitare nel territorio comunale, e, dall’altro, poiché, quand’anche l’intento in concreto perseguito fosse stato quello di garantire il rispetto dell’ordine pubblico o della pubblica sicurezza, il Sindaco avrebbe dovuto concordare con il Prefetto qualsivoglia intervento, in conformità a quanto prescritto dall’art.54 D.Lgs. n.267/2000, non potendo agire autonomamente, come, invece, avvenuto nella circostanza; 5) illegittimità per violazione dell’art.50 D.Lgs. n.267/2000, eccesso di potere per carenza dei presupposti per l’emanazione di ordinanze contingibili ed urgenti, in quanto: a) il paventato pericolo per la sicurezza pubblica, l’incolumità pubblica e l’igiene non era attuale, b) non era stata predeterminata la durata temporale dell’ordinanza impugnata, come, invece, sarebbe stato necessario in ragione della natura provvisoria caratterizzante siffatta tipologia di provvedimenti; c) il Sindaco aveva regolamentato con riguardo al proprio territorio una questione di carattere nazionale, come quella concernente il fenomeno dell’immigrazione, così superando le proprie competenze; 6) illegittimità per eccesso di potere per travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, sviamento dalla causa tipica dell’atto, violazione del principio di proporzionalità e ragionevolezza, poiché il provvedimento impugnato era stato emesso non per fronteggiare una situazione eccezionale, imprevedibile o imprevista attuale, ma soltanto per prevenire eventuali riflessi negativi derivanti dal futuro afflusso di migranti, senza neanche il preventivo espletamento di un’approfondita istruttoria volta ad accertare l’impatto sul territorio dell’arrivo di stranieri da ospitare, come, invece, sarebbe stato necessario in ragione della peculiare natura del potere nell’occasione esercitato; 7) illegittimità per eccesso di potere da errore di fatto per travisamento della realtà nella parte in cui si afferma, tra i presupposti dell’impugnato provvedimento, che “le accoglienze emergenziali in molti casi non sono state concordate con i Sindaci”; 8) illegittimità per eccesso di potere da illogicità manifesta nella parte in cui si afferma l’insussistenza di immobili e o di strutture in grado di soddisfare i bisogni e le esigenze di accoglienza, secondo quanto attestato dall’Ufficio Tecnico comunale, poiché, da un lato, l’accertamento condotto era stato limitato soltanto ad uno o ad alcuni immobili e, dall’altro, se fosse vero quanto accertato dall’Ufficio Tecnico, non vi sarebbero nel Comune di X. edifici che possano essere dichiarati agibili o abitabili; 9) illegittimità per violazione degli art. 46 e 47 del D.P.R. n. 445/2000 e dell’art.1 L. n. 241/1990 del D.Lgs. n. 222/2016 (art.3 comma 1 lett.j) e dell’art. 24 D.P.R. n. 380/2001, poiché l’obbligo di produzione di certificati di agibilità ed abitabilità rilasciati dal Comune di X. nonché di “inesistenza delle barriere architettoniche e di requisiti igienico-sanitari che possano costituire danno per la salute e l’incolumità delle persone”, imposto quale condizione non suscettibile di adempimento alternativo mediante la produzione di perizie asseverate o autocertificazioni, costituirebbe un inutile e discriminatorio aggravamento procedimentale scaturente da un’illegittima disapplicazione sia del D.P.R. n.445/2000 (nella parte in cui impone alla Pubblica Amministrazione di accettare in luogo dei certificati o della prova di determinate situazioni di fatto, le autocertificazioni o le dichiarazioni di atto notorio), sia del D.Lgs. 25 novembre 2016 n.222, che all’art.3 comma 1 lett. j) ha soppresso l’art.25 del D.P.R. 380/2001 e il procedimento di rilascio del certificato di agibilità ivi previsto, modificando radicalmente la disciplina dell’abitabilità e dell’agibilità di cui all’art.24 D.P.R. n.380/2001.
Con memoria depositata il 17 settembre 2017 si costituiva in giudizio il Comune di X. opponendosi all’accoglimento del ricorso in quanto, anzitutto, in rito inammissibile per carenza assoluta di interesse a ricorrere del Ministero dell’Interno (non essendo l’ordinanza impugnata lesiva di alcun interesse nazionale, considerata al più la sua offensività soltanto per gli interessi privati dei proprietari di immobili siti nel territorio comunale), e comunque, in subordine da ritenersi nel merito infondato in fatto e in diritto. L’ordinanza sindacale impugnata, infatti, sarebbe legittima poiché, non consentendo l’utilizzo di immobili privi dei requisiti di agibilità e di abitabilità, in conformità a quanto disposto dalla disciplina settoriale di riferimento, tutelerebbe, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, proprio gli interessi dei migranti da accogliere, prevenendo l’uso di locali privi dei requisiti igienico-sanitari necessari a garantire la salute delle persone da ospitare. Inoltre, l’ordinanza sindacale sarebbe conforme anche alla disciplina contemplata dal T.U. sulla immigrazione poiché, secondo quanto previsto dall’art.29 comma 3 lett. a) del D.lgs. 25 luglio 1998 n.286, “lo straniero che richiede il ricongiungimento familiare deve dimostrare la disponibilità di un alloggio, conforme ai requisiti igienico-sanitari, nonché di idoneità abitativa, accertati dai competenti uffici comunali”.
Con ordinanza depositata il 25 settembre 2017, il T.A.R. Sicilia, Sezione Staccata di Catania, accoglieva l’istanza cautelare proposta dall’Avvocatura dello Stato nell’interesse del Ministero dell’Interno, fissando l’udienza per la discussione del ricorso nel merito il 5 luglio 2018 e compensando le spese processuali di fase.
All’udienza pubblica del 5 luglio 2018 le parti concludevano come da verbale in atti ed il ricorso veniva trattenuto per la decisione.
DIRITTO
Il Collegio, preliminarmente, afferma la propria giurisdizione, poiché il ricorso, avendo per oggetto un’ordinanza sindacale contingibile ed urgente, rientra nella giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo di cui all’art.133 co.1 lett. q) c.p.a.
Va dichiarata, inoltre, la sussistenza delle condizioni dell’azione proposta, poiché la gestione di migranti, rifugiati e richiedenti asilo, come si dirà da qui a un momento, rientra nella competenza del Ministero dell’Interno. Di conseguenza, spetta a quest’ultimo la legittimazione a ricorrere avverso provvedimenti idonei ad incidere su questioni rientranti nella sua esclusiva competenza, come nel caso di specie. Con riguardo, poi, all’interesse ad agire, il Collegio osserva che il provvedimento impugnato produce l’effetto di escludere o, comunque, di rendere più difficile la collocazione di migranti sul territorio del Comune di X., così direttamente limitando la potestà decisoria del Ministero dell’Interno e della Prefettura in ordine alla gestione e dislocazione di migranti, rifugiati e richiedenti asilo sull’intero territorio nazionale. E poiché l’accoglimento del ricorso implicherebbe la rimozione di un provvedimento ostativo, in quanto appunto costituente limite, al pieno esercizio di una potestà pubblica riservata nel nostro ordinamento giuridico allo Stato, sussiste nella fattispecie l’interesse del Ministero dell’Interno a ricorrere.
Pertanto, il ricorso è ammissibile e va esaminato nel merito.
Con il primo motivo si deduce la nullità del provvedimento impugnato per difetto assoluto di competenza, non potendo il Sindaco intervenire sulla gestione dei migranti e sull’anagrafe, in quanto materie riservate dalla legge alla potestà normativa ed amministrativa esclusiva dello Stato.
Il Collegio osserva che, nel nostro ordinamento giuridico, il potere di emanare atti amministrativi soggiace al rispetto del principio di legalità, da intendersi (secondo quanto chiarito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n.115/2011) in senso forte o sostanziale, dovendo, infatti, la legge disciplinare l’esercizio del potere in tutti i suoi aspetti, stabilendone, quindi, i presupposti, chiarendone la natura discrezionale o vincolata, regolamentandone le modalità di esercizio, prevedendo la tipologia, il nome ed il contenuto del provvedimento esplicativo del potere esercitato, l’Autorità competente ad esercitarlo e gli effetti giuridici prodotti dal provvedimento così emanato.
Sennonché, il principio di legalità se, da un lato, costituisce un’indubbia garanzia per le libertà fondamentali e i diritti dei cittadini, dall’altro, può costituire un limite all’agire della Pubblica Amministrazione ogniqualvolta la risoluzione di una certa questione di interesse generale per la comunità territoriale di riferimento imponga l’esercizio di poteri non previsti dalla legge. L’inadeguatezza di un sistema rigidamente concepito al rispetto del principio di legalità è, poi, tanto più avvertita quanto urgente sia l’esigenza di un intervento dell’Autorità Amministrativa, considerati i tempi, non brevi, necessari per l’approvazione di un’apposita legge istitutiva dell’idoneo potere pubblicistico nella circostanza da esercitare.
Non potendo, dunque, a priori prevedere tutte le concrete situazioni implicanti la necessità e l’urgenza di un tempestivo intervento della Pubblica Amministrazione, il Legislatore ha ritenuto opportuno consentire l’emanazione di provvedimenti innominati e atipici, dal contenuto di volta in volta variabile a seconda delle circostanze, e contraddistinti da una durata limitata nel tempo, in quanto forieri di effetti giuridici necessariamente provvisori, onde assicurare la possibilità di tutelare tempestivamente i preminenti interessi generali di rilevanza costituzionale dal pericolo di una lesione imminente e grave.
Sono state, così, introdotte nel nostro ordinamento le c.d. ordinanze contingibili ed urgenti, note anche come con il nome di ordinanze extra ordinem poiché costituenti eccezione al principio di legalità inteso in senso forte o sostanziale, prevedendo, infatti, la legge in questi casi soltanto l’Autorità competente ad emanarle e gli interessi per la tutela dei quali è giustificata la loro emanazione. Si pensi, ad esempio, agli artt. 50 co.4 e 54 co.4 del D.Lgs. n.267/2000 che, ispirandosi ad un principio di legalità in senso formale o debole, riconoscono al Sindaco nella sua qualità, rispettivamente, di Autorità Locale o di Ufficiale di Governo, soltanto per la tutela degli specifici interessi pubblici ivi indicati, un potere di intervento assai ampio, senza, però, precisarne contenuto e modalità di esercizio.
E proprio in ragione della loro funzione di istituto di “chiusura del sistema”, le ordinanze contingibili ed urgenti – pur avendo natura esclusivamente amministrativa, sia per la forma, sia per gli effetti, secondo quanto affermato dalla Corte Costituzionale in diverse pronunce (Corte Cost., 23 maggio 1961, n° 26; Corte Cost., 20 giugno 1956, n° 8) – possono provvisoriamente derogare alla disciplina contemplata da norme di legge, ma non anche ai principi generali dell’ordinamento giuridico, rinvenendo, infatti, proprio in questi ultimi il loro principale limite (tra le tante pronunce, T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 03 marzo 2017 n. 1245, T.A.R. Marche, Ancona, sez. I, 13 novembre 2012 n. 730, T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. II, 10 aprile 2012 n. 354, Cons. St., sez. IV, 24 marzo 2006 n. 1537).
Presupposto, dunque, imprescindibile per il legittimo esercizio del potere di emanare ordinanze contingibili ed urgenti è l’esistenza di una norma di legge che autorizzi l’adozione di siffatti provvedimenti per la tutela di predeterminati interessi generali costituenti, ad un tempo, ragione e limite dell’intervento extra ordinem dell’Autorità competente, non potendo, infatti, quest’ultima esercitare il potere in esame in settori diversi da quelli espressamente previsti dalla c.d. legge di autorizzazione. E poiché la competenza costituisce presupposto e parametro di legittimità delle ordinanze contingibili ed urgenti è logico ritenere che tra i principi generali dell’ordinamento giuridico, costituenti limite per l’esercizio del potere in esame, rientri, in ragione della sua fondamentale importanza, anche la ripartizione delle competenze in materia di potestà legislativa, regolamentare ed amministrativa tra Stato, Regioni ed Enti Locali prevista dagli artt.117 e 118 Cost., non potendo, infatti, un’Autorità Locale adottare provvedimenti extra ordinem in settori di competenza Statale a meno che non esista una norma che a ciò espressamente l’autorizzi in via del tutto eccezionale, come, ad esempio, l’art. 54 del D.Lgs. n.267/2000.
Con riguardo al caso in esame, l’ordinanza contingibile ed urgente impugnata dall’Avvocatura dello Stato è stata emessa dal Sindaco di X., da un lato, per salvaguardare la Comunità locale dal grave pericolo ritenuto sussistente per l’incolumità delle persone e, dall’altro, per l’esigenza preminente di tutela della salute, delle prescrizioni urbanistiche e della sicurezza pubblica avvertita a fronte della paventata possibilità di dover accogliere migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Rilevata, infatti, l’assenza nel territorio comunale (urbano ed extraurbano) di immobili o strutture in grado di soddisfare i bisogni e le esigenze di accoglienza dei migranti, secondo quanto attestato dall’Ufficio Tecnico nel parere n. prot. 219UTC reso in data 11.07.2017, per carenza dei requisiti di abitabilità e agibilità prescritti dalla normativa di riferimento, il Sindaco del Comune di X., nella sua qualità di Autorità Locale e nell’esercizio delle funzioni conferitegli dalla legge in materia Igienico-Sanitaria e di Pubblica Sicurezza, ha: 1) vietato la concessione in locazione e/o in comodato ad uso abitativo o la vendita di immobili privi dei requisiti previsti dalla legge, ed in particolare privi di certificati di agibilità ed abitabilità, per l’accoglienza dei migranti, statuendo l’insostituibilità dei suddetti certificati con perizie asseverate, autocertificazioni, ecc…; 2) disposto l’esecuzione dei necessari sopralluoghi ad opera degli agenti e funzionari comunali per la verifica, previo consenso degli occupanti, delle condizioni igienico-sanitarie e di sicurezza delle unità immobiliari; 3) subordinato l’iscrizione anagrafica implicante un incremento del numero degli occupanti dell’unità abitativa al rispetto di quanto disposto dall’art.2 del D.M. 5 luglio 1975; 4) ordinato la segnalazione alle Autorità competenti delle irregolarità rilevate in sede di verifica sugli immobili al fine dell’adozione dei provvedimenti conseguenti, ivi incluso l’immediato sgombero; 5) comminato la sanzione pecuniaria di € 500,00, ai sensi dell’art.7 bis comma 1 del D.Lgs. n. 267/2000, per l’inosservanza dei suddetti precetti.
Il Collegio osserva che il provvedimento in esame va qualificato quale ordinanza contingibile ed urgente, adottata dal Sindaco nella qualità di Rappresentate della Comunità Locale formalmente ai sensi dell’art.50 D.Lgs. n.267/2000, per ragioni (essenzialmente) igienico-sanitarie. Sebbene, infatti, nella motivazione del provvedimento si richiamino anche esigenze di tutela della pubblica sicurezza, lo scopo dell’ordinanza appare principalmente quello di inibire l’ingresso nel territorio comunale di migranti, rifugiati e richiedenti asilo in ragione della constata assenza di immobili in grado di ospitarli per mancanza delle condizioni di agibilità ed abitabilità necessarie ad assicurare il rispetto dei presupposti igienico-sanitari prescritti dalla normativa di riferimento. Il Sindaco del Comune di X. ha, dunque, agito nella sua qualità di Autorità Locale e non di Ufficiale di Governo, come dal medesimo affermato tanto nella motivazione dell’impugnato provvedimento – nella parte in cui egli ha rivendicato i poteri nell’occasione esercitati proprio quale Rappresentante della Comunità Locale, tra l’altro, menzionando espressamente soltanto l’art.50 e non anche l’art.54 del D.Lgs. n.267/2000 – quanto nella memoria di costituzione in giudizio, laddove, a pagina 16, si chiarisce essere stati esercitati nella circostanza poteri provvedimentali in materia di “esclusiva competenza del comune”.
A riprova della correttezza di quanto sostenuto depone, peraltro, anche il procedimento nell’occasione seguito per l’adozione dell’atto impugnato, considerato che qualora il Sindaco avesse inteso agire ai sensi dell’art.54 del D.Lgs. n.267/2000 avrebbe dovuto coinvolgere anche il Prefetto nella decisione, preventivamente comunicandogli il provvedimento ai fini della predisposizione degli strumenti necessari ad assicurarne l’attuazione. E poiché non risulta dagli atti che vi sia stata alcuna preventiva interlocuzione con il Prefetto, essendo stata, anzi, esclusa la circostanza dall’Avvocatura dello Stato nel ricorso introduttivo del presente giudizio e non contestata dal Comune, deve ritenersi che il Sindaco abbia inteso agire soltanto quale Rappresentante della Comunità Locale.
Se, dunque, l’ordinanza in questione è stata formalmente adottata dal Sindaco nella sua qualità di Autorità Locale, egli avrebbe potuto agire extra ordinem esclusivamente per il soddisfacimento di esigenze igienico-sanitarie della comunità territoriale di riferimento, in conformità a quanto previsto dall’art.50 co.5 D.Lgs. n. 267/2000.
Sennonché, come già detto, il principale obiettivo perseguito con l’adozione del provvedimento in questione era evitare l’ospitalità, anche transitoria, di stranieri migranti, rifugiati e richiedenti asilo nel territorio del Comune di X.. Come è agevole evincere dalla motivazione dell’ordinanza sindacale, infatti, la ragione del provvedimento è costituita dalla dichiarata inidoneità del territorio comunale urbano ed extraurbano ad assicurare la necessaria accoglienza di migranti, rifugiati e richiedenti asilo, a causa dell’asserita assenza di strutture idonee allo scopo. Di conseguenza, la materia intercettata dall’ordinanza sindacale non è tanto quella igienico-sanitaria, quanto, soprattutto e principalmente, quella della gestione dei migranti, rientrante nella sfera di competenza dello Stato e, più precisamente, del Ministero dell’Interno, e non in quella dei Comuni (o dei Sindaci).
L’art.117 co.2 Cost., infatti, riserva alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la competenza a disciplinare il diritto di asilo e la condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione Europea (lett. a) e, più in generale, tutti i vari aspetti connessi all’immigrazione (lett. b).
Il Legislatore Statale, quindi, nell’esercizio della predetta competenza legislativa esclusiva, ha disciplinato il complesso fenomeno dell’accoglienza dei cittadini provenienti da Paesi non appartenenti all’Unione Europea e degli apolidi richiedenti protezione internazionale nel territorio nazionale, comprese le frontiere e le relative zone di transito, nonché le acque territoriali, e dei loro familiari inclusi nella domanda di protezione internazionale, emanando il D.Lgs. n.142/2015, in attuazione delle Direttive 2013/32/UE e 2013/33/UE, così demandando al Ministero dell’Interno ed ai Prefetti la competenza e l’esercizio di importanti funzioni in materia.
Ai sensi dell’art. 9 del D.Lgs. 142/2015, infatti, spetta al Prefetto, sentito il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno, il potere di inviare il richiedente nelle strutture di cui al comma 1 (ossia nei centri governativi di prima accoglienza, istituiti con decreto del Ministro dell’Interno, sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281), per il tempo necessario, all’espletamento delle operazioni di identificazione, ove non completate precedentemente, alla verbalizzazione della domanda di protezione internazionale ed all’avvio della procedura di esame della predetta domanda, nonché all’accertamento delle condizioni di salute dell’istante.
Non può, dunque, il Sindaco, nella sua qualità di Autorità Locale, intervenire con propri atti per regolamentare il fenomeno migratorio, sebbene nell’ambito del proprio territorio comunale.
Né, peraltro, può ritenersi giustificato l’intervento del Sindaco di X. sul piano urbanistico-edilizio in virtù della paventata esigenza di escludere la concessione in godimento di immobili privi dei certificati di agibilità ed abitabilità, poiché, secondo quanto previsto dall’art. 11 del D.lgs n. 142 del 2015, “Nel caso in cui è temporaneamente esaurita la disponibilità di posti all'interno delle strutture di cui agli articoli 9 e 14, a causa di arrivi consistenti e ravvicinati di richiedenti, l'accoglienza può essere disposta dal prefetto, sentito il Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'interno, in strutture temporanee, appositamente allestite, previa valutazione delle condizioni di salute del richiedente, anche al fine di accertare la sussistenza di esigenze particolari di accoglienza. Le strutture di cui al comma 1 soddisfano le esigenze essenziali di accoglienza nel rispetto dei principi di cui all'articolo 10, comma 1, e sono individuate dalle prefetture-uffici territoriali del Governo, sentito l'ente locale nel cui territorio è situata la struttura, secondo le procedure di affidamento dei contratti pubblici. (...) L'accoglienza nelle strutture di cui al comma 1 è limitata al tempo strettamente necessario al trasferimento del richiedente nelle strutture di cui all'articolo 9 ovvero nelle strutture di cui all'articolo 14”.
È riservata, dunque, alla competenza del Ministero dell’Interno e della Prefettura territoriale l’individuazione delle strutture da adibire all’accoglienza degli immigrati irregolari e la valutazione dell’idoneità delle stesse a soddisfare le esigenze indicate all’art. 10 comma 1 del D.Lgs. n.142 del 2015, ed ossia, il rispetto della sfera privata (comprese le differenze di genere), delle esigenze connesse all’età, della tutela della salute fisica e mentale dei richiedenti, dell’unità dei nuclei familiari composti da coniugi e da parenti entro il primo grado, dell’apprestamento delle misure necessarie per le persone portatrici di particolari esigenze ai sensi dell'articolo 17, nonché delle misure idonee a prevenire ogni forma di violenza ed a garantire la sicurezza e la protezione dei richiedenti.
Di conseguenza, con l’ordinanza contingibile ed urgente emanata, il Sindaco del Comune di X. ha introdotto una disciplina derogatoria rispetto a quella nazionale in un settore, come quello dell’immigrazione, riservato alla competenza legislativa, regolamentare ed amministrativa esclusiva dello Stato.
Il provvedimento impugnato, pertanto, è nullo, ai sensi dell’art. 21 septies L. n. 241/1990, per difetto assoluto di attribuzione, in quanto adottato da un’autorità, nella specie costituita dal Sindaco nella sua dichiarata qualità di rappresentante della Comunità Locale e non di Ufficiale di Governo, appartenente ad un plesso amministrativo (quello Comunale) differente da quello Statale effettivamente competente, rientrando, infatti, nella esclusiva competenza del Ministero dell’Interno e delle Prefetture il potere di emanare provvedimenti in materia di accoglienza e gestione dei migranti, rifugiati e richiedenti asilo.
Analoghe considerazioni valgono, inoltre, con riguardo alla materia dell’anagrafe.
L’art.117 co.2 lett. i) Cost., infatti, riserva alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la disciplina della cittadinanza, dello stato civile e delle anagrafi, e la Legge n.1228 del 1954 (statuendo all’art.1 che l’anagrafe della popolazione deve essere tenuta presso ogni Comune) demanda al Sindaco, nella sua qualità di Ufficiale di Governo, soltanto il ruolo di Ufficiale dell’anagrafe (art.3), con compiti limitati alla tenuta dell’anagrafe (art.4) e non anche estesi alla possibilità di incidere sulla disciplina dell’anagrafe stessa, individuando i requisiti occorrenti per l’iscrizione dell’interessato, come, invece, accaduto nel caso di specie. Peraltro, ai sensi dell’art. 5 bis D.Lgs. n.142/2015, l’iscrizione del richiedente protezione internazionale ospitato nei centri di cui agli articoli 9, 11 e 14 nell’anagrafe della popolazione residente ai sensi dell’articolo 5 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, è obbligatoria, ove il medesimo non risulti già ivi iscritto individualmente.
Di conseguenza, anche sotto questo profilo, va ravvisata la nullità per difetto assoluto di attribuzione del provvedimento impugnato, poiché il Sindaco, nella dichiarata qualità di organo del Comune, ha esercitato funzioni di competenza esclusiva dell’apparato amministrativo dello Stato.
Ulteriore causa di nullità si rinviene anche nella dedotta violazione degli artt.41 e 42 Cost., poiché l’impugnato provvedimento, statuendo il divieto di alienazione o di concessione in locazione o in comodato di immobili siti all’interno del territorio comunale per l’ospitalità di migranti, viola il principio di libertà dell’iniziativa economica privata e disciplina, limitandole, le facoltà di godimento della proprietà privata fuori dai casi previsti dalla legge.
Sul punto occorre precisare che il divieto in esame, sebbene formalmente preordinato ad inibire l’utilizzo a qualsivoglia titolo soltanto delle strutture prive dei requisiti di legge per ospitare migranti e rifugiati, nella pratica assume una portata assoluta, poiché la presenza di immobili a siffatto scopo idonei è stata categoricamente esclusa nell’ambito del territorio del Comune di X. dall’Ufficio Tecnico Comunale nella nota resa in data 11 luglio 2017. Pertanto, il privato che intendesse alienare o concedere in locazione o in comodato il proprio immobile per ospitare migranti e rifugiati sarebbe inibito nelle sue iniziative, poiché non otterrebbe il rilascio dei certificati di agibilità ed abitabilità all’uopo necessari dall’Ufficio Tecnico Comunale, in ragione proprio delle motivazioni espresse nel parere reso in data 11 luglio 2017. Né, peraltro, sarebbe possibile l’elusione del divieto in esame mediante l’utilizzo di perizie asseverate o autocertificazioni, poiché il ricorso alle stesse, come ad ogni altro documento alternativo ai suddetti certificati di agibilità ed abitabilità, è stato espressamente escluso al punto 1 dell’ordinanza sindacale impugnata.
Appare, dunque, evidente la portata dell’intervento del Sindaco del Comune di X., considerato che l’agibilità e l’abitabilità costituiscono caratteristiche essenziali dell’immobile urbano direttamente incidenti sulle possibilità di circolazione del bene e sulle facoltà di godimento dello stesso da parte del proprietario. Sebbene, infatti, la loro carenza non determini di per sé l’invalidità del contratto di compravendita, di locazione o di comodato, i certificati di abitabilità e di agibilità rilevano nei rapporti tra privati sul piano delle obbligazioni contrattuali, integrando la loro consegna l’oggetto di un’obbligazione specifica del venditore ai sensi dell’art.1477 c.c. nei confronti del compratore, in quanto attinenti ad un requisito essenziale della cosa venduta incidente sulla possibilità di adibire legittimamente la stessa all’uso contrattualmente pattuito. Ed invero, secondo quanto affermato dalla Corte di Cassazione, «Il venditore-costruttore di un bene immobile ha l'obbligo non solo di trasferire all'acquirente un fabbricato conforme all'atto amministrativo d'assenso della costruzione e, dunque, idoneo ad ottenere l'agibilità prevista, ma anche di consegnargli il relativo certificato, curandone la richiesta e sostenendo le spese necessarie al rilascio. L'inadempimento di quest'ultima obbligazione è ex se foriero di danno emergente, perché costringe l'acquirente a provvedere in proprio ovvero a ritenere l'immobile tal quale, cioè con un valore di scambio inferiore a quello che esso diversamente avrebbe, a prescindere dalla circostanza che il bene sia alienato o comunque destinato all'alienazione a terzi» (Cassazione civile, sez. II, 11/10/2013, n. 23157); ed ancora: «In materia di vendita d'immobile destinato ad abitazione integra l'ipotesi di consegna di aliud pro alio il difetto assoluto della licenza di abitabilità ovvero l'insussistenza delle condizioni necessarie per ottenerla in dipendenza della presenza di insanabili violazioni della legge urbanistica. Il venditore di un immobile destinato ad abitazione ha l'obbligo di consegnare all'acquirente il certificato di abitabilità, senza il quale l'immobile stesso è incommerciabile; la violazione di tale obbligo può legittimare sia la domanda di risoluzione del contratto, sia quella di risarcimento del danno, sia l'eccezione di inadempimento; tale violazione non è sanata dalla mera circostanza che il venditore, al momento della stipula, abbia già presentato una domanda di condono per sanare l'irregolarità amministrativa dell'immobile» (Cassazione civile, sez. II, 30/01/2017, n. 2294).
Il privato, dunque, che intendesse contravvenire al divieto di cui al punto 1 dell’ordinanza sindacale impugnata, alienando o concedendo in locazione o in comodato un proprio immobile per consentire l’ospitalità di migranti, rifugiati e richiedenti asilo, si esporrebbe a tre possibili ordini di responsabilità: la prima, di natura civile, ai sensi degli artt. 1218 e 1453 c.c., nei confronti dell’altro contraente per avere stipulato il contratto senza i prescritti certificati di agibilità ed abitabilità (considerato che se anche li richiedesse, l’Ufficio Tecnico Comunale non li rilascerebbe, in conformità a quanto affermato nel parere reso in data 11 luglio 2017); la seconda, di natura penale, ai sensi dell’art. 650 c.p., per inosservanza di un ordine (almeno apparentemente) legalmente dato dall’Autorità per ragioni di igiene; e la terza, di natura amministrativa, ai sensi dell’art.7 bis co.1 del D.Lgs. n.267/2000, nei confronti del Comune, per il pagamento della sanzione pecuniaria di € 500,00 dovuta in quanto stabilita al punto 5 dell’ordinanza sindacale.
L’intervento del Sindaco del Comune di X., combinato con il suddetto parere dell’Ufficio Tecnico Comunale, viola, quindi, tanto l’art. 41 Cost., poiché limita la libertà negoziale dei privati, quanto l’art. 42 co.2 Cost., poiché esclude rilevanti facoltà di godimento degli immobili urbani riconosciute dalla legge. A tale ultimo proposito va, infatti, chiarito che, secondo quanto stabilito dall’art. 42 co. 2 Cost., “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. La riserva di legge ivi contemplata, pertanto, non consente l’introduzione tramite provvedimento amministrativo di limiti alla proprietà privata mediante l’esclusione di talune delle facoltà di godimento del bene riconosciute al proprietario, come avvenuto nella fattispecie, non potendo un’ordinanza contingibile ed urgente limitare la circolazione e le possibilità di utilizzo dei beni privati.
Il Collegio osserva, poi, che la violazione degli artt. 41 e 42 Cost. rileva, inoltre, sul piano del mancato rispetto del riparto di competenza di cui agli artt. 117 e 118 Cost., poiché il Sindaco del Comune di X., limitando la libertà negoziale dei privati ed introducendo limiti alla circolazione ed alle facoltà di godimento della proprietà privata con l’ordinanza impugnata, ha emanato una disciplina speciale propriamente di diritto civile nel settore delle obbligazioni e dei diritti reali, così violando la competenza legislativa esclusiva dello Stato prevista dall’art. 117 co. 2 lett. l) Cost.. Sulle questioni afferenti all’ordinamento civile, infatti, soltanto il legislatore statale può intervenire, in ragione dell’avvertita esigenza di assicurare la certezza dei traffici giuridici mediante la previsione di una disciplina uniforme dei rapporti tra privati applicabile su tutto il territorio nazionale, come comprovato anche dalle molteplici sentenze con le quali la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità, per violazione dell’art.117 co.2 lett. l) Cost., di leggi regionali contemplanti discipline speciali di diritto privato (tra le tante, Corte Costituzionale 10 novembre 2017 n. 234, Corte Costituzionale 13 luglio 2017 n. 175, Corte Costituzionale 11 luglio 2017 n. 160, Corte Costituzionale 26 maggio 2017 n. 121, Corte Costituzionale 12 aprile 2017 n. 72). Costituisce, quindi, limite insuperabile per le ordinanze contingibili ed urgenti, in quanto riconducibile nel novero dei principi generali dell’ordinamento, il rispetto dell’intera disciplina nazionale dell’ordinamento civile, non avendo il Sindaco il potere di regolamentare extra ordinem questioni afferenti alla sfera giuridica dei rapporti tra privati in ragione della competenza legislativa esclusiva riservata dall’art.117 co.2 lett. l) Cost. allo Stato.
Pertanto, l’ordinanza impugnata è nulla per difetto assoluto di attribuzione in quanto, statuendo limiti all’attività negoziale dei privati ed al godimento della proprietà privata in contrasto con gli artt.41 co.1 e 42 co.2 Cost., introduce una disciplina propriamente di diritto privato, come tale, rientrante nell’ambito dell’ordinamento civile e, quindi, di esclusiva competenza dello Stato ai sensi dell’art.117 co.2 lett. l) Cost..
Infine, l’ordinanza impugnata va dichiarata nulla anche perché integrante un atto discriminatorio, come sostenuto dall’Avvocatura dello Stato con il secondo motivo di ricorso.
L’art. 43 del D.Lgs. n.286/1998 prevede che “costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”, precisando al comma 2 che: “In ogni caso compie un atto di discriminazione:
a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell'esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità, lo discriminino ingiustamente;
b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità;
c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l'accesso all'occupazione, all'alloggio, all'istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità”.
Poiché l’ordinanza impugnata è preordinata ad impedire o rendere più difficile il collocamento di stranieri migranti, rifugiati e richiedenti asilo sul territorio del Comune di X., si configurano nella specie proprio le ipotesi di cui all’art. 43 co. 2 lett. a) e c) del D.Lgs. n.286/1998, avendo il Sindaco, da un lato, nella sua qualità di pubblico ufficiale e nell’esercizio delle sue funzioni compiuto un atto che arbitrariamente discrimina stranieri proprio in ragione della loro condizione di cittadini non italiani appartenenti ad una certa razza ed etnia e, dall’altro, imposto, per i medesimi motivi discriminatori, condizioni più svantaggiose e rifiutato l’accesso all’alloggio ai migranti, senza neppure distinguere, in quest’ultima ipotesi, tra soggetti regolarmente soggiornanti o meno.
Il divieto di non discriminazione, invero, afferisce alla sfera giuridica privata dell’essere umano in quanto tale e, pertanto, costituisce un principio generalmente riconosciuto sia nel nostro ordinamento, dall’art. 2 Cost. prima ancora che dall’art. 43 del D.Lgs. n.286/1998 (in quanto direttamente incidente sullo sviluppo della personalità dell’individuo), sia a livello internazionale, dagli artt.14 della C.E.D.U. ed 1 del Protocollo n.12 alla C.E.D.U., nonché a livello eurounitario dagli artt.1 e 21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.
In tal senso si è pronunciata anche la Corte di Cassazione, affermando che «Sono esclusi dall'ambito di applicazione dell'art. 16 delle preleggi (secondo cui lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti al cittadino a condizione di reciprocità) in primo luogo i diritti che la Costituzione repubblicana e le carte internazionali attribuiscono a ogni individuo per la sua stessa qualità di persona umana. I diritti inviolabili e le libertà fondamentali - infatti - hanno il predicato della indivisibilità e spettano ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani. Deriva da quanto precede, pertanto, che proprio nella prospettiva della universalità della persona umana chiunque - senza distinzione tra cittadino e straniero, e senza distinzione tra straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato e straniero privo di un titolo o di un permesso di soggiorno - ne è titolare» (Cassazione civile, sez. II, 21/03/2013, n. 7210).
Essendo gli atti discriminatori lesivi di diritti fondamentali della personalità generalmente riconosciuti, le relative controversie sono di regola devolute alla giurisdizione del Giudice Civile. Secondo quanto, infatti, previsto dall’art. 44 co.1 del D.lgs. n. 286/1998, “Quando il comportamento di un privato o della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi razziali, etnici, linguistici, nazionali, di provenienza geografica o religiosi, è possibile ricorrere all'autorità giudiziaria ordinaria per domandare la cessazione del comportamento pregiudizievole e la rimozione degli effetti della discriminazione”. Sennonché, nel caso in esame, la condotta discriminatoria è stata perpetrata dal Comune resistente con un provvedimento, come già detto, rientrante nella giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo ai sensi dell’art. 133 co.1 lett. q) c.p.a. e, pertanto, sindacabile in questa sede con efficacia di giudicato anche se lesivo di diritti soggettivi. Inoltre, la giurisdizione del Giudice Ordinario va esclusa nella fattispecie, anche perché l’art. 44 del D.Lgs. n. 286/1998 espressamente la prevede soltanto con riguardo all’azione civile proposta dal soggetto discriminato per la tutela della propria dignità personale violata, e non anche qualora ad agire non sia lo straniero destinatario del provvedimento discriminatorio ma il Ministero dell’Interno, come in questo caso, per l’affermazione ed il rispetto della sua competenza esclusiva nella materia della gestione di migranti, rifugiati e richiedenti asilo. L’azione proposta in questa sede non rientra nella giurisdizione del Giudice Ordinario anche perché differisce dall’azione civile di cui all’art. 44 del D.Lgs. n. 286/1998, sia sul piano soggettivo, per la diversità dei soggetti legittimati ad agire, sia sul piano oggettivo, poiché la causa petendi è da rinvenire nella tutela delle competenze esclusive dello Stato di cui all’art.117 co.2 Cost. ed il petitum si identifica soltanto nella domanda di accertamento e declaratoria della nullità dell’ordinanza impugnata, e non anche nella richiesta di condanna della Pubblica Amministrazione al risarcimento del danno patito e all’adozione di misure in concreto preordinate ad assicurare il pieno ripristino della dignità umana violata.
Pertanto, il motivo di ricorso in esame può essere pienamente sindacato nel merito, in questa sede, rientrando nella giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo.
Il Collegio ritiene che i provvedimenti amministrativi aventi natura discriminatoria perché adottati in contrasto con l’art. 43 del D.Lgs. n.286/1998 sono da ritenersi nulli e non annullabili.
A favore della tesi della nullità depone, anzitutto, la disciplina contemplata proprio dal richiamato art.44 co.1 del D.Lgs. n.286/1998 nella parte in cui, affermando la giurisdizione del Giudice Ordinario, consente al Giudice Civile di ordinare alla Pubblica Amministrazione convenuta l’immediata la cessazione del comportamento discriminatorio, condannandola anche alla rimozione degli effetti dell’atto impugnato. In questi casi, infatti, come più precisamente chiarito dall’art.28 co.5 del D.Lgs. n.150/2011 (richiamato dall’art.44 co.2 del D.Lgs. n.286/1998), il Giudice Civile può “condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della Pubblica Amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti. Al fine di impedire la ripetizione della discriminazione, il giudice può ordinare di adottare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate”.
L’espresso riferimento alla Pubblica Amministrazione in entrambe le richiamate disposizioni normative induce l’interprete a ritenere la condotta discriminatoria perpetrata da una Autorità Amministrativa con l’emanazione di un provvedimento amministrativo rilevante sempre e soltanto sul piano meramente fattuale, ossia quale comportamento illecito dell’autore che lo ha posto in essere, a siffatto esito dovendosi pervenire proprio in ragione dell’ampia tutela (non soltanto risarcitoria) esperibile dinanzi al Giudice Civile. La possibilità, infatti, di chiedere ed ottenere in un giudizio civile la condanna della Pubblica Amministrazione convenuta tanto alla cessazione immediata della condotta discriminatoria perpetrata mediante l’emanazione (come nella specie) di un atto ai sensi dell’art.43 co.2 lett. a) e c) del D.Lgs. n. 286/1998 quanto, soprattutto, ad un “facere” specifico preordinato a riparare le conseguenze lesive della pregressa condotta illecita presuppone l’assenza di qualsivoglia spendita di potere pubblicistico e la necessaria considerazione degli atti posti in essere dalla P.A. quali comportamenti meramente materiali e non amministrativi, ossia non riconducibili all’esercizio di un alcun potere pubblico neanche in via mediata, poiché diversamente opinando, la decisione del Giudice Civile sarebbe affetta da nullità per difetto di giurisdizione in ragione del limite stabilito dall’art. 4 della L. n. 2248/1865 all. E.
Poiché l’art. 44 co.1 del D.Lgs. n. 286/1998 è proprio una norma sulla giurisdizione, il presupposto necessario per garantire ai soggetti discriminati l’effettività degli strumenti di tutela previsti nella richiamata disposizione e meglio articolati nell’art.28 del D.Lgs. n.150/2011 è la nullità per carenza assoluta di potere del provvedimento amministrativo discriminatorio, adottato ai sensi dell’art.43 co. 2 lett. a) e c) del D.Lgs. n. 286/1998, e la necessaria considerazione dello stesso esclusivamente nella sua realtà fattuale e non provvedimentale, ossia quale atto rappresentativo di una condotta meramente materiale e non esplicativo dell’esercizio di alcun potere pubblicistico di tipo autoritativo.
A sostegno di quanto affermato depone anche una interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della disciplina in esame.
Secondo quanto, infatti, desumibile dalla congiunta lettura degli artt. 44 del D.Lgs. n. 286/1998 e 28 del D.Lgs. n. 150/2011, gli atti discriminatori, nella loro ampia eterogeneità ed atipicità, sono considerati tutti allo stesso modo sul piano della tutela, senza distinzione di sorta a seconda che la discriminazione sia perpetrata mediante un contratto o un negozio o un atto amministrativo, essendo in tutte le ipotesi possibile l’esperimento delle tutele previste dalla richiamata normativa. Di conseguenza, sarebbe erroneo, in quanto contrario al tenore ed alla ratio della disciplina in esame, sostenere l’annullabilità del provvedimento amministrativo discriminatorio, con conseguente onere di tempestiva impugnazione dinanzi al Giudice Amministrativo, per contrarietà alla norma imperativa di cui all’art.43 del D.Lgs. n. 286/1998 (e, dunque, per violazione di legge ai sensi dell’art.21 octies co.1 della L. n.241/1990) quando per la stessa ragione il contratto od il negozio discriminatorio è, invece, nullo, ai sensi degli artt.1418 co.1 c.c., tanto più considerato che né l’art. 44 del D.Lgs. n. 286/1998 né l’art. 28 del D.lgs. n.150/2011 riconoscono al Giudice Civile un potere di annullamento degli atti amministrativi discriminatori. Né, peraltro, potrebbe ritenersi sufficiente a garantire piena tutela ai diritti fondamentali dello straniero discriminato l’eventuale disapplicazione del provvedimento amministrativo discriminatorio da parte del Giudice Civile ai sensi dell’art.5 della L. n.2248/1865 all. E, poiché la condanna dell’Autorità Amministrativa convenuta ad un “facere” specifico di tipo riparatorio presuppone, come detto, l’assenza di qualsivoglia potere pubblicistico, in ragione del limite alla giurisdizione del Giudice Ordinario stabilito dall’art.4 L. n.2248/1865 all. E.
I principi, dunque, di effettività della tutela giurisdizionale e di simmetria delle tutele desumibili dagli artt. 3, 24 e 113 Cost. inducono il Collegio ad una lettura sistematica e costituzionalmente orientata degli artt. 43 e 44 D.Lgs. n. 286/1998 e 28 D.Lgs. n.150/2011 ed alla conseguente considerazione del provvedimento amministrativo discriminatorio come nullo per carenza assoluta di potere, dovendosi ritenere l’art. 43 del D.Lgs. n. 286/1998 una norma, non disciplinante ma, inibente l’esercizio del potere, implicando l’esclusione ab origine dell’esercizio di qualsivoglia potestà pubblicistica eventualmente evocata dalla P.A. per l’adozione di un atto di tipo discriminatorio.
Elementi in tal senso indicativi si desumono anche dalle fonti internazionali ed eurounitarie.
Come detto, il divieto di discriminazione costituisce un principio generalmente riconosciuto anche a livello internazionale.
Ed invero, l’art.14 della C.E.D.U. stabilisce che “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione”. Il medesimo principio è ribadito anche dall’art.1 del Protocollo n.12 allegato alla C.E.D.U., secondo cui “1. Il godimento di ogni diritto previsto dalla legge deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione. 2. Nessuno potrà essere oggetto di discriminazione da parte di una qualsivoglia autorità pubblica per i motivi menzionati al paragrafo 1”.
Anche la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea afferma il divieto di discriminazione, laddove, dopo avere chiarito all’art.1 che “la dignità umana è inviolabile” e “deve essere rispettata e tutelata”, all’art.21 precisa essere “vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali”.
Una disciplina più dettagliata si rinviene, poi, nella Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale conclusa a New York il 21 dicembre 1965, laddove all’art.2 si afferma che “1. Gli Stati contraenti condannano la discriminazione razziale e si impegnano a continuare, con tutti i mezzi adeguati e senza indugio, una politica tendente ad eliminare ogni forma di discriminazione razziale ed a favorire l’intesa tra tutte le razze, e, a tale scopo:
a) ogni Stato contraente si impegna a non porre in opera atti o pratiche di discriminazione razziale verso individui, gruppi di individui od istituzioni ed a fare in modo che tutte le pubbliche attività e le pubbliche istituzioni, nazionali e locali, si uniformino a tale obbligo”; all’art.4 si prevede che “Gli Stati contraenti condannano ogni propaganda ed ogni organizzazione che s’ispiri a concetti ed a teorie basate sulla superiorità di una razza o di un gruppo di individui di un certo colore o di una certa origine etnica, o che pretendano di giustificare o di incoraggiare ogni forma di odio e di discriminazione razziale, e si impegnano ad adottare immediatamente misure efficaci per eliminare ogni incitamento ad una tale discriminazione od ogni atto discriminatorio, tenendo conto, a tale scopo, dei principi formulati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dei diritti chiaramente enunciati nell’articolo 5 della presente Convenzione, ed in particolare: a) a dichiarare crimini punibili dalla legge, ogni diffusione di idee basate sulla superiorità o sull’odio razziale, ogni incitamento alla discriminazione razziale, nonché ogni atto di violenza, od incitamento a tali atti diretti contro ogni razza o gruppo di individui di colore diverso o di diversa origine etnica, come ogni aiuto apportato ad attività razzistiche, compreso il loro finanziamento; b) a dichiarare illegali ed a vietare le organizzazioni e le attività di propaganda organizzate ed ogni altro tipo di attività di propaganda che incitino alla discriminazione razziale e che l’incoraggino, nonché a dichiarare reato punibile dalla legge la partecipazione a tali organizzazioni od a tali attività; c) a non permettere né alle pubbliche autorità, né alle pubbliche istituzioni, nazionali o locali, l’incitamento o l’incoraggiamento alla discriminazione razziale”; all’art.5 si stabilisce che “In base agli obblighi fondamentali di cui all’articolo 2 della presente Convenzione, gli Stati contraenti si impegnano a vietare e ad eliminare la discriminazione razziale in tutte le sue forme ed a garantire a ciascuno il diritto all’eguaglianza dinanzi alla legge senza distinzione di razza, colore od origine nazionale o etnica, nel pieno godimento dei seguenti diritti” […] tra i quali quello all’alloggio; all’art.6 si afferma che “Gli Stati contraenti garantiranno ad ogni individuo sottoposto alla propria giurisdizione una protezione ed un mezzo di gravame effettivi davanti ai tribunali nazionali ed agli altri organismi dello Stato competenti, per tutti gli atti di discriminazione razziale che, contrariamente alla presente Convenzione, ne violerebbero i diritti individuali e le libertà fondamentali nonché il diritto di chiedere a tali tribunali soddisfazione o una giusta ed adeguata riparazione per qualsiasi danno di cui potrebbe essere stata vittima a seguito di una tale discriminazione”.
L’universalità del richiamato principio induce a ritenere la dignità umana un valore fondamentale ed assoluto, da tutelare nei confronti di chiunque intenda lederlo o lo abbia leso, ivi incluse le Pubbliche Autorità. L’adesione, infatti, ai richiamati trattati internazionali costituisce una condotta indicativa non soltanto della condivisione di un principio, ma, più che altro, della volontà di assicurare piena e completa tutela (civile e penale) alla dignità umana, escludendo, tra l’altro, qualsivoglia possibilità di atti discriminatori, prima di tutto, ad opera delle Autorità amministrative nazionali deputate all’esercizio dei molteplici pubblici poteri tramite i quali si esplica la sovranità degli Stati, essendo notorio che la discriminazione perpetrata da una Pubblica Autorità sia maggiormente offensiva, poiché percepita dal discriminato con maggiore lesività, rispetto a quella posta in essere da un privato, in conseguenza della logica percezione della sensazione di non essere accettati da un’intera comunità, come, ad esempio, avviene quando ad agire in senso discriminatorio sia un Ente Pubblico Territoriale, come nel caso in esame.
Costituendo principio generalmente riconosciuto dalla comunità internazionale e dall’Unione Europea la considerazione della dignità umana quale diritto fondamentale dell’essere umano e limite alla sovranità degli Stati, va osservato che la discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi, ecc…, poiché espone a responsabilità internazionale lo Stato che ne sia autore, va prevenuta nell’ambito dell’ordinamento interno, inibendo in nuce, anzitutto, qualsivoglia esercizio di potestà pubblicistiche per il soddisfacimento di finalità discriminatorie o, implicanti, anche se soltanto indirettamente, effetti discriminatori. Dovendosi, dunque, escludere a priori il possibile esercizio di poteri autoritativi per il compimento di atti discriminatori, la funzione dei richiamati trattati internazionali deve rinvenirsi nell’assunzione di responsabilità per gli Stati firmatari, come l’Italia, dell’obbligo di tutelare il rispetto della dignità umana anche da provvedimenti delle Pubbliche Amministrazioni mediante l’introduzione negli ordinamenti nazionali di norme, non tanto disciplinanti le modalità di esercizio del potere, bensì preclusive dell’esercizio stesso del potere ogniqualvolta ciò possa implicare l’adozione di un provvedimento discriminatorio.
L’art. 43 del D.lgs. n. 286/1998 va, dunque, concepito non come semplice parametro di legittimità dell’agire della Pubblica Amministrazione implicante in caso di inosservanza la mera annullabilità del provvedimento discriminatorio, ma come norma statuente un divieto assoluto, con effetto inibitorio, dell’esercizio di qualsivoglia potere pubblicistico che si traduca in un atto discriminatorio, essendo la sfera più intima dell’essere umano, nel suo complesso considerata e costituita dai valori e diritti fondamentali generalmente riconosciuti ad ogni persona, un ambito non suscettibile di ingerenze lesive da parte di nessuna Pubblica Autorità, sia per espressa scelta della nostra Carta Fondamentale, che all’art. 2 riconosce e garantisce i “diritti inviolabili dell’uomo”, sia per adesione ai richiamati trattati internazionali.
Il Legislatore nazionale, dunque, con l’art.43 del D.Lgs. n.286/1998 ha inteso assicurare, in conformità agli impegni internazionali assunti, la più ampia tutela possibile, incidendo, con riguardo ai provvedimenti amministrativi discriminatori, direttamente sulla norma attributiva del potere esercitato, rendendola transitoriamente inefficace in ragione della scelta ab origine dello Stato di non ledere con l’esercizio dei suoi poteri autoritativi la dignità umana, discriminando un essere umano rispetto ad un altro per nessun motivo.
Di conseguenza, l’art. 43 del D.Lgs. n.286/1998 assolve alla funzione di privare di efficacia, prima ancora che l’atto discriminatorio, la norma attributiva del potere esercitato nella circostanza, rendendo di riflesso privo di effetti il provvedimento emesso dall’Autorità Pubblica.
Con riguardo al caso in esame, il Collegio ritiene che la nullità dell’ordinanza sindacale impugnata discenda dalla inefficacia della norma attributiva del potere, ossia l’art.50 del D.Lgs. n.267/2000, in conseguenza della natura discriminatoria dell’atto adottato ai sensi dell’art.43 co.2 lett.a) e c) del D.Lgs. n.286/1998.
L’accoglimento dei primi tre motivi di ricorso implica l’assorbimento di tutti gli altri.
Considerato che l’ordinanza impugnata costituisce un atto di discriminazione per motivi razziali ed etnici e che potrebbe, quindi, essere fonte di responsabilità penale ai sensi dell’art.323 c.p., (potendo integrare il reato di abuso d’ufficio con l’aggravante della discriminazione razziale di cui all’art.604 ter c.p.) ovvero ai sensi dell’art. 3 co.1 lett. a) della legge 13 ottobre 1975 n.654 (come modificato dal D.L. 26 aprile 1993 n.122 convertito con modificazioni nella Legge 25 giugno 1993 n.205) di ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966, (secondo cui è punito con la pena della reclusione sino ad 1 anno e 6 mesi o con la multa sino ad € 6.000,00 colui il quale commetta atti di discriminazione per motivi razziali o etnici), va disposta la trasmissione di copia dei provvedimenti impugnati e della presente sentenza alla Procura della Repubblica presso il Tribunale Ordinario di Enna per gli adempimenti di sua competenza.
Le spese seguono la soccombenza ed, avuto riguardo all’attività difensiva espletata dalle parti, al valore indeterminabile della controversia ed allo scaglione di riferimento di cui all’art.5 co.6 del D.M. 55/2014 (da € 26.000,01 ad € 52.000,00) vanno liquidate in favore del Ministero dell’Interno ed a carico del Comune di X. nella misura di seguito indicata:
COMPENSI PROFESSIONALI
Fase di studio della controversia € 1.955,00
Fase introduttiva del giudizio € 1.350,00
Fase di trattazione € -
Fase decisionale € 3.305,00
Fase cautelare (compensate con l’ordinanza cautelare) € -
Totale compenso per fasi € 6.610,00
Rimborso forfettario 15,00% € 991,50
Somma finale € 7.601,50
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, dichiara nulla l’ordinanza sindacale impugnata.
Condanna il Comune di X., in persona del Sindaco pro tempore, alla rifusione delle spese processuali sostenute dal Ministero dell’Interno che liquida nella misura complessiva di € 7.601,50 a titolo di compensi, ivi incluso rimborso forfettario come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Manda alla segreteria per gli adempimenti di sua competenza e la trasmissione di copia degli atti impugnati e della presente sentenza alla Procura della Repubblica presso il Tribunale Ordinario di Enna.